La plebe, parte III - 14

Il vecchio parroco ripetè il movimento che aveva fatto poco prima.
— Io non sono che un povero prete di campagna che ho studiato poco ed ho
vissuto in una stretta cerchia di attinenze e d'idee. Può essere dunque
facilissimo ch'io sbagli; ma mi pare che in tutto codesto non ci sia
nulla di eterodosso.
— Per disgrazia, soggiunse il marchese, rivolgendosi di nuovo a
Maurilio, il fatto, checchè Ella possa dire, sta lì a dar torto alle sue
allegazioni. Scendiamo dalle generali per venire un po' più accosto alla
realtà. Si tratta della società ch'ella dice e ch'io le accordo essere
infelice, turbata, male in assetto; or bene guardiamo il passato: noi
vediamo come prima che le empietà rivoluzionarie venissero a scuoterla
dalle sue fondamenta e trarla fuori della sua base normale, prima che le
passioni malvagie del materialismo e della irreligione venissero a
sovvertire gli ordini stabiliti, e che avevano loro ragione di essere
nella natura delle cose, nella tradizione e nel diritto storico; noi
vediamo che la società posava più tranquilla, più sicura e quindi più
felice. Ora noi vediamo sì un movimento, un funesto movimento di
progresso; ma verso il peggio. Ogni giorno più noi sentiamo la società
minacciata, scavato il terreno sotto le più sante istituzioni, sciolto
d'un freno il popolo di cui si travia la mente e si eccitano i mali
istinti col pretesto d'istruirlo. E la società non sarà salva e sicura
finchè quelle triste passioni non si schiantino dalle masse, finchè quel
soffio distruttore di libero esame e d'anarchia non sia compiutamente
estinto. Sì, noi dobbiamo oggidì riformare la società, ma non andando
verso un'ipotetica forma dell'avvenire che effettui le audacie delle
sovvertitrici ambizioni plebee, sibbene tornando indietro al naturale,
logico, storico stato sociale che le rivoluzioni di Francia hanno
sciaguratamente distrutto.
— Ah signor marchese, disse allora Maurilio con un calore che tutta
aveva superata la sua primitiva timidezza e toltogli l'impaccioso
riserbo: io bene affermo che la società moderna ha molti mali ed è
minacciata da molti pericoli, ma contesto che i rimedi a siffatti
pericoli sieno da cercarsi nel regresso al passato, e che i mali
presenti sieno maggiori di quelli della società dei secoli scorsi. Per
quanto poco e insufficiente ancora, pur tuttavia un miglioramento s'è
fatto; non c'è che da paragonare la plebe moderna agli schiavi
dell'antichità, ai servi del medio evo, per vedere quanto acquisto abbia
fatto anco nelle basse classi la personalità umana in punto a condizione
economica ed in punto a dignità individuale.
— Miglioramenti fittizi ed anzi fatali: interruppe il marchese. La
condizione economica?... Ebben sì; voglio anche ammettere che la
ricchezza pubblica siasi accresciuta, e che la plebe possa quindi averne
maggior parte coll'aumento de' suoi salari; ma che cos'è ciò, a che
approda, quando pel funesto spirito moderno i suoi bisogni ed i
desiderii sono accresciuti molto più a dismisura e non trovano quindi nè
anco la centesima parte di quella soddisfazione a cui anelano? La
dignità individuale? Ma dove e come restava questa lesa in quel rispetto
alla gerarchia sociale ch'è un riconoscimento delle superiorità
stabilite dal Creatore medesimo per mezzo della natura e del diritto
ereditario? Oggidì si chiama col nome di tal dignità lo spirito
d'insubordinazione che tutto minaccia sovvertire, che tutti spinge fuori
dei limiti di quella condizione in cui li ha posti la Provvidenza. Ma
come, in fede mia, può uno spirito imparziale, paragonando questa nostra
alla società dei secoli scorsi non riconoscere la superiorità di
quest'ultima? Allora gli ordini erano fissati con precisione dalla
nascita: ciascuno quindi stava a suo posto, senz'ambizione di uscirne e
senza paura di scaderne: la comunità non era tormentata dagli sforzi
disperati di costoro per ispingersi su, di quegli altri per mantenersi
nei ranghi superiori. Oggidì tutto questo non è più fermo come prima.
Gli ambiziosi del basso dànno l'assalto continuo ai posti delle classi
che predominano: è una lotta ardente e continua per arrivare; nulla è
più certo e sicuro, la tranquillità è bandita dall'animo di tutti.
Mentre il giusto privilegio della nascita dato da Dio scade sempre più,
che cosa vediamo noi sostituirglisi? Lo ingiusto prepotere della
ricchezza data dall'industria, dall'avidità, e molte volte eziandio
dalla frode dell'uomo. E il denaro, che così va innanzi a tutto, non è
nobile, nè intelligente, nè pietoso alle pene altrui; è il trionfo del
più materiale egoismo.
«E codesto succede in tutta la compage del corpo sociale: dall'alto al
basso una lotta miserabile per soprammontarsi l'un l'altro. Per giungere
al loro scopo alcuni prendono i tragitti più vergognosi, le sconcie
protezioni, l'intrigo, l'adulazione; altro che la dignità individuale!
«Ella mi parla di progresso e di miglioramento? Le ho già detto anche
circa il miglioramento delle condizioni materiali, come esso non fosse a
gran pezza bastevole alle nuove cresciute esigenze, e perciò riesca
relativamente a fare ancora maggiori le sofferenze di chi più volendo si
accorge di essere destituito di maggior quantità di beni. Ma poi: che
cosa serve un lieve miglioramento materiale, quando si ha pur troppo una
degradazione così evidente e dolorosa nell'ordine della moralità e
dell'intelligenza? Sì signore: quella caccia al successo ed al denaro
smussa la delicatezza del sentimento e smaga la virtù. Cieco è chi non
vede il livello morale essersi dolorosamente abbassato ed abbassarsi. Ed
anche la parte intellettiva dell'umanità ne scade. È generale il lamento
della decadenza delle arti e delle lettere nel mondo moderno. E qual n'è
la precipua ragione? Quelle piante delicate hanno bisogno d'un ambiente
propizio che le accolga e nutrichi e difenda: una classe superiore e
privilegiata — diciamo la parola — un'aristocrazia soltanto può
somministrar loro quest'atmosfera propizia.....
S'interruppe da sè medesimo per riprender tosto con accento ancora più
grave e di maggior convinzione:
— L'aristocrazia!.... È contro di lei che lo spirito moderno,
raccogliendo ed ereditando gli odii e i sospetti del monarcato che tanto
l'ha combattuta, volge i suoi più vivi assalti. Sconsigliati che non
vedono l'aristocrazia essere un portato di diritto naturale,
illustrazione, grandezza, e nel medesimo tempo guarentigia della
società. Chi crede che l'elevarsi dell'aristocrazia debba attribuirsi
alla prepotenza di taluni che si sono imposti altrui senza ragione e
diritto, ignora la storia e disconosce la natura umana. L'aristocrazia è
il risultamento necessario d'un fatto provvidenziale. L'umanità si
divide per la natura medesima delle cose in deboli ed in forti — sia
riguardo al vigor fisico che riguardo all'intelligenza, alla volontà, al
coraggio, ad ogni dote dello spirito e del cuore; questa differenza fra
individuo e individuo, questa supremazia di alcuni, posta dalla natura
medesima, può dirsi effettivamente di diritto divino. Ciò posto (e
nessuno lo può negare) ad aggiustare la società senza la fondazione
d'un'aristocrazia non occorrono che due sistemi: o sottomettere tutti e
forti e deboli, senza differenza di gradi, ad un potere unico e sovrano
il quale imperi assolutamente su tutti; oppure decretare contro la
natura delle cose un'uguaglianza assoluta fra tutti quegli elementi
discordi e dar al maggior numero di essi la sovranità e il potere —
dispotismo sempre o d'un solo o della moltitudine. L'antica società,
contro cui insorse e vinse pur troppo la rivoluzione di Francia, aveva
invece risolta la questione in modo più acconcio e più umano, riunendo i
forti e i deboli coi legami reciproci e morali della protezione e della
fedeltà. Il forte, per mantenere e proteggere il suo grado contro il
dispotismo d'un solo, aveva avuto bisogno di raccogliere intorno a sè i
deboli e li compensava del loro appoggio mercè la sua protezione; il
debole aveva avuto mestieri del forte per essere difeso contro la
violenza e gli pagava codesta difesa colla sua fedeltà. Ecco la società
feudale così poco intesa e così calunniata!
«La natura aveva cementato quell'ordinamento, l'interesse comune lo
assicurava, dalle classi superiori discendevano la beneficenza e la
giustizia, da quelle inferiori salivano la devozione e la gratitudine.
Un legame d'affetto comune aggiuntosi alla abitudine colle continuate
attinenze addolciva i rapporti; sotto l'apparenza della disuguaglianza
si aveva in realtà un'uguaglianza di cuore, quella che sola è possibile
fra gli uomini, meglio che non quella ingiusta, arida ed assurda che
vuole stabilire la legge. Epperò vedevansi allora i subalterni amare i
loro superiori, rispettare il potere e l'autorità, i giovani tacere
innanzi ai vecchi, i figliuoli obbedire ai genitori e nessuno tentar
d'usurpare il posto altrui. Le famiglie formavano delle unità vive ed
immortali in cui durava la tradizione, e gl'individui imparavano i
pubblici doveri alla scuola dei doveri domestici; e su tutto questo la
religione, venerata, accettata da tutti, spargeva la sua luce divina e
la grazia delle sue consolazioni supreme[9].
[9] V. JANET, _Philosophie du bonheur_, chap. IX.
Il marchese si tacque e col suo contegno mostrò che attendeva da
Maurilio una risposta, cui avrebbe ascoltata volentieri: e il giovane
non la fece aspettare.
— Quella medesima religione, diss'egli, fu quella che più efficacemente
valse a rovinare l'assetto aristocratico della società, appena fu essa
meglio compresa dalle masse. Nulla vi ha di più democratico al mondo che
la religione cristiana. Proclamando l'uguaglianza giuridica degli
uomini, la legge moderna non ha fatto che applicare ai rapporti terreni
quel precetto che Cristo predicò della uguaglianza delle anime innanzi
al Padre Celeste; è un germe posto dal Cristianesimo nell'umanità con
tanti altri della civiltà presente che fruttò da ultimo col trionfo
della rivoluzione.
«Esaminata da lontano colle linee e coi colori che la sua parola, signor
marchese, le ha saputo dare, certo l'antica società si presenta sotto
uno specioso aspetto di ordine e di forza, di regolarità e di agevolezza
nel suo funzionare: ma converrebbe esaminarla più da vicino, penetrare
con occhio critico in essa per vederne i malanni, i disagi, gl'intimi
dolori. Quando essa cadde, tutti — perfino i privilegiati — concorsero a
darle la spinta, perchè tutti sentivano il malessere dalla medesima
prodotto. Le rovine forse furono troppe e troppo rapidamente accumulate,
e il sangue che fatalmente venne ad inaffiarle fece rinascere una pietà
che parve simpatia e rimpianto delle cose perdute, ma ogni spirito acuto
dovette accorgersi che tutto ciò ch'era caduto, da lungo tempo era
corroso alle fondamenta e non poteva più reggere. Il consolidamento
della razza umana in ordini ed in caste immutabili in tanto può reggere
in quanto che sia di comune accordo da tutti accettato; dal momento che
la disuguaglianza è considerata come un'ingiustizia, essa diventa
intollerabile ad ogni cuor generoso.
«Nè la disuguaglianza naturale fra gli uomini legittima lo stabilimento
d'una disuguaglianza sociale tra le famiglie. Hannovi sì i forti e i
deboli anche nell'ordine dell'intelligenza e dell'anima; ma non è mai
che questi così ben si dividano che ad una schiatta appartengano sempre
i meglio dotati ad un'altra i meno. Nella famiglia la natura dà la
tutela dei deboli, i bambini e le donne, ai più forti, i genitori ed i
mariti; ma nella società non si vede in nessun modo una protezione
istituita di questi su quelli dalla natura medesima delle cose: ogni
supremazia proviene o dalle circostanze che hanno date all'uno delle
forze superiori, o dal libero arbitrio del protettore e del protetto. La
tutela dei deboli non deve dunque appartenere a questi od a quelli
elevati in casta privilegiata, sibbene alla società intiera, val quanto
dire alla legge. L'antico regime aveva dunque gran torto fissando
arbitrariamente la forza in certe famiglie e la debolezza in altre,
invece di lasciare che liberamente la forza e la debolezza si
manifestassero là dove esistevano. Certo nel fatto i nobili erano allora
i più forti — lo sono ancora appo noi oggidì per favore della monarchia
— ma in ciò appunto sta l'ingiustizia, perchè, come si prova che questa
supremazia la meritino realmente quando è l'azzardo della nascita che
loro l'accorda?
— Maurilio! esclamò con tono d'ammonimento Don Venanzio, timoroso che il
suo protetto offendesse il nobile suo ascoltatore.
Ma il marchese con un benigno sorriso e con un cenno rassicurante della
mano disse amichevolmente:
— Lo lasci dire, caro Don Venanzio; e poi voltosi a Maurilio soggiunse:
continui con tutta libertà, la prego.
— Nella natura vi sono delle distinzioni fra gli uomini, così continuò
Maurilio; nella società conviene che vi sieno fra essi dei gradi e delle
condizioni diverse: ma come fissare il grado e la condizione che deve
spettare ad un uomo prima ancora ch'egli nasca? Il diritto ereditario,
che è giustissimo quanto alla proprietà economica acquistata dal lavoro
individuale coll'intento specialmente di trasmetterla ai figli od alle
persone che ci son care, diventa d'una assurda ingiustizia quando lo si
vuole applicare a quei vantaggi cui soltanto il merito personale deve
acquistare, che alle virtù di chi li possiede, non a quelle de' suoi
maggiori si devono concedere. Certo non si potrà mai eliminare
l'influsso delle circostanze esteriori in mezzo a cui ciascuno sviluppa
la propria individualità, e di queste circostanze n'è una capitalissima
l'azzardo della nascita in queste piuttosto che in quelle condizioni; ma
appunto perchè questa ragion della sorte accorda già a taluno sopra i
suoi simili un sì considerevol vantaggio, non è necessario, è anzi
contro la verità e la natura lo aggiungere a questa prima fatalità
un'altra fatalità legale: ed anzi deve la società, per essere giusta,
veder di riparare alla disuguaglianza delle condizioni esteriori,
aprendo a tutti sempre meglio e facilitando le strade di elevarsi, di
pervenire, di perfezionarsi coll'educazione e colla dottrina. Tra il
figliuolo del ministro e quello dell'operaio, tutte le probabilità di
star sempre innanzi sono già pel primo; perchè stabilire ancora per
legge, che il secondo, foss'anche un genio, deve continuare nelle misere
e limitate condizioni paterne?
«Sono codeste le ragioni per cui quell'assetto sociale delle caste ha
eccitato odii cotanti, fu assalito con sì acceso accanimento e la sua
caduta nell'uragano che finì il secolo scorso fu salutata dai popoli con
universale applauso in tutto il mondo. La protezione data di diritto ai
forti verso i deboli, di cui Ella dice, signor marchese, era degenerata
in oppressione — e non poteva essere altrimenti, ned io intendo farne
accusa alla classe privilegiata, codesto era nella natura umana; — colui
al quale è data un'autorità speciale, duratura, inamovibile per
difendervi, troppo facilmente è tratto ad abusarne; l'ineguaglianza
stabilita dalla nascita, ammessa come di diritto naturale, ispira quasi
inevitabilmente nei privilegiati un disprezzo per coloro che si trovano
nei più bassi gradi della scala, e dalla diversità della classe fra gli
uomini troppo agevole è il passo a conchiudere per la diversità della
natura; troppo è difficile in chi non vi è uguale e che per decreto
d'una provvidenza umana che si vuol far passare per destino della
Provvidenza divina è condannato a non esservi uguale mai; troppo è
difficile vedere un nostro simile. La fraternità umana Cristo l'aveva
proclamata, ma restava una lettera morta nell'ordinamento sociale sotto
l'impero del feudalismo; la rivoluzione dell'ottantanove l'ha introdotta
nell'ordine dei fatti.
«Qual è insomma il bisogno dell'umanità nel suo organamento sociale?
quale il dovere di questa società verso l'individuo cui nel suo ambito
abbraccia e comprende? Il bisogno di svolgersi il più liberamente e il
maggiormente possibile in tutte le sue facoltà: il dovere di proteggere
e favorire il meglio che si possa questo sviluppo dell'attività
individuale che dà la somma del progresso complessivo e solidario del
genere umano. La società feudale, la società divisa per caste, e
cristallizzata nei quadri fittizi di condizioni prestabilite, immutabili
per l'individuo, non soddisfaceva a questo dovere, impediva si
soddisfacesse a questo bisogno. La rivoluzione francese venne a
proclamare l'idea del nuovo regime che tosto o tardi dovrà mettersi in
atto dapertutto; ed eccone la formola: il maggiore possibile sviluppo
della libertà individuale sotto tutte le sue forme, sotto l'impero della
protezione sociale. Ogni uomo, quando è giunto nel pieno possesso della
sua individualità, nel pieno sviluppo cioè delle sue facoltà fisiche ed
intellettive, deve proteggersi da sè, lavorare di suo capo, pensare ciò
che gli par vero, credere quanto la coscienza gli comanda, godere de'
suoi beni secondo suo volere, in una parola non rispondere di sè che a
sè stesso, fuori dei casi in cui osasse violare col fatto suo i diritti
d'altrui; allora vi dev'essere la legge che interviene per farlo
rientrare nei limiti concessi alla sua attività.
«Ma questa forma di società non è ancora effettuata, e mentre alcuni si
sforzano di mettere insieme i rottami dell'antica e farli tener su come
un edifizio solido, tuttavia la nuova società si viene lentamente e fra
i contrasti costituendo; per dirla con una formola germanica _viene
diventando_. Noi quindi siamo in un'epoca di transizione ed abbiamo
tutti i mali, tutti i danni di quello che cade e di quello che spunta:
ci troviamo in mezzo agli angoli di due ossature senza polpa, perchè
dall'una questa si è già staccata, all'altra non è venuta ancora.
«Da questo stato di rivoluzione continuata nascono certi spostamenti e
certi dolori inevitabili e fatali. Tutti gli antichi interessi che si
vedono minacciati e lesi lottano con ogni forza e soffrono nel
soccombere graduato a cui sottostanno a dispetto di tutto. Le influenze
non si spostano senza danni materiali e morali: le abitudini nuove
urtano le antiche e fan nascere molti conflitti più o meno dolorosi. I
poveri medesimi, i derelitti non travedono ancora che oscuramente la
terra promessa verso cui camminano, e da cui ostili interessi collegati
li vorrebbero tener lungi. Cominciano ad avere la coscienza del loro
diritto, presentono la possibilità di arrivare a soddisfarlo, e si
arrabbiano e soffrono di vedersi ciò impedito. Questa situazione è
gravida di mille pericoli cui tutti debbono applicarsi a scongiurare e
più di tutti quelli della classe superiore che ci hanno maggior obbligo
e maggior interesse.
«Io sono nemico della violenza: la abborrisco nella tirannia, la pavento
nella rivoluzione. La violenza è una forza cieca che distrugge anche
quello la cui distruzione può nuocere, e nulla edifica nè lascia
edificare; ma pure alcune volte pur troppo, e quasi sempre per colpa e
cecità degli uomini, essa è fatta necessaria, quando al cammino fatale
del progresso si sono accumulati ostacoli tali cui null'altro più vale
ad abbattere. Vorrei che questa cruda necessità non si verificasse:
vorrei che, come lente e graduate si fanno nella natura le modificazioni
geologiche, si facessero così a poco a poco, per via di naturale
passaggio, gli ammiglioramenti sociali. Miglior mezzo da ciò credo
quello che le classi superiori si facciano zelanti collaboratrici del
destino, del disegno provvidenziale, nell'affrettare il _divenire_ del
futuro.
«E qui coloro che si credono i forti dovrebbero appunto esercitare, ma
con altre forme, con altri intendimenti, quel patronato cui si allega
posseder essi di diritto verso gl'infimi. Ho detto che l'uomo ha da
avere esclusivamente la protezione di sè egli stesso, sotto quella
generale della legge; ma questo non esclude il patronato doveroso della
beneficenza o della carità. Finora i derelitti non hanno potuto giungere
a quel massimo sviluppo possibile della loro individualità che deve
farli capaci di provvedere in tutto e per tutto da sè: fino a che i
grandi effetti che si devono aspettare dai nuovi fecondi principii non
si sieno ottenuti coll'applicazione giusta e coscienziosa dei principii
medesimi, bisognerà che i meno felici, i meno istrutti, e quindi, pur
troppo, la maggior parte del popolo, sieno sostenuti, guidati, aiutati
dal patronato dei felici, dei primi arrivati: da quello dei ricchi e
degl'intelligenti, nobiltà o borghesia che si chiamino; ma ciò senza che
menomamente ne sieno lesi i diritti e la libertà nè degli uni nè degli
altri, ciò non per costrizione legislativa, ma per libera scelta di
quelli che lo devono fare.»
Don Venanzio che aveva ascoltato con molta attenzione le parole di
Maurilio e dava segni evidenti di provarne viva impressione ed interesse
grandissimo, a questo punto saltò fuori con vivacità giovanile:
— Ma questa non è che l'applicazione d'una massima del Vangelo: «Fate
agli altri ciò che vorreste fosse fatto a voi medesimo.» Chi figurandosi
povero e derelitto non vorrebbe avere dal potente un aiuto a migliorare
le sue condizioni?
— Vi sono certi aiuti, riprese Maurilio, che umiliano chi li riceve e
non ottengono lo scopo. L'elemosina è di questi. Eccellente per
rimediare a un danno temporaneo, ad una circostanza particolare,
immediata, non conferisce per nulla al miglioramento nè particolare nè
generale. La beneficenza che s'invoca, e ch'io intendo, dev'esser
compresa in un più largo ed efficace significato.....
Fu interrotto da un grattare all'uscio che era il solito cenno del
domestico per domandar licenza di entrare.
Il marchese, che aveva prestato e prestava la più raccolta attenzione a
quei discorsi, sorretta la fronte dalla palma della mano, il gomito
appoggiato al bracciuolo del seggiolone; il marchese sollevò il capo e
disse verso la porta:
— Entrate.
Il servo venne ad annunziargli che il sig. Benda chiedeva d'essere
ricevuto.
— Venga, disse vivamente il marchese, poi volgendosi a Maurilio,
soggiunse con un graziosissimo accento e con un benigno sorriso: questo
discorso, se non le dispiace, lo riprenderemo altra volta; e per averne
migliori e più facili occasioni voglio farle una proposta. Ho bisogno
d'un segretario: vorrebb'ella assumere tale ufficio? Cento lire al mese,
l'alloggio, la tavola, abbastanza di libertà per poter continuare nei
suoi studii: ecco le mie condizioni.
Maurilio che, al pari di Don Venanzio, s'era alzato, fu assalito da un
tremito di emozione, e non seppe rispondere altrimenti che con un
inchino; ma rispose per lui Don Venanzio, che proruppe vivacemente:
— Le sono accettate.... Accetto io e rispondo per lui; e spero che la
non ne sarà malcontento, signor marchese.
Questi fece un cenno di accondiscendenza e soggiunse:
— L'aspetto dunque fino da domani, se non v'è nulla da parte sua che lo
impedisca.
Fu ancora Don Venanzio che rispose sollecito:
— Non c'è nulla, assolutamente nulla, e domani verrò io stesso a menarlo
qui prima di partirmene per la mia parrocchia.
Maurilio, confuso, commosso, quasi sbalordito fu condotto fuori dal
vecchio parroco, senza che egli sapesse bene se sognava o vegliava,
tanto l'idea di entrare in quella casa, di venir ad abitare lì sotto il
medesimo tetto con _lei_ lo aveva conturbato. Nell'uscire s'incontrarono
col padre di Francesco, che entrava.
Giacomo Benda si precipitò con impeto nel salotto del marchese.
— Eccellenza, esclamò egli, la mi perdoni, se vengo una seconda volta di
quest'oggi a disturbarla, ma non potevo assolutamente fare a meno.
Bisogna ad ogni patto che io venga a ringraziarla per impulso del mio
cuore, per quello ancora più della mia povera moglie, a cui Ella ha
fatto restituire il figliuolo.
Baldissero, alzatosi da sedere, aveva fatto alcuni passi incontro
all'industriale e colla sua squisita cortesia, rispondeva:
— Sono lieto d'aver potuto contribuire a toglier di pena una buona
madre, e Lei, signor Benda, ma non mi si devono ringraziamenti di sorta,
perchè non ho fatto altro più di ciò che credetti dover mio. Se Ella per
codesto avvenimento ha alcuna gratitudine da nutrire verso qualcheduno,
la rivolga a S. M. che ha tutto il merito della clemenza....
— Oh sì, oh sì: interruppe con vivacità Giacomo. Non ha bisogno di
dirmelo, la creda! Io sono sempre stato un suddito fedele e devoto di S.
M., e me ne vanto; ma d'ora innanzi poi!... Cospetto! Non sarà a Giacomo
Benda che si potrà parlar male del governo del Re.
Il marchese sorrise di quello zelo.
— Va benissimo, diss'egli: ma quanto a noi, signor Benda, io non ho
ancora compito tutte le promesse che le feci questa mattina. Le ho detto
che a suo figlio, il mio ed io stesso avremmo data una onorevole
riparazione, esclusa quella assurda del duello.
— Ah, sì signore.... sì Eccellenza.... escludiamo questa brutta cosa.
— Che direbbe Ella se al signor avvocato Benda, in presenza di tutto
quanto vi ha di più nobile e di più scelto nella società Torinese, io
marchese di Baldissero e mio figlio il conte Ettore andassimo a porger
la mano come ad uomo che non solo si stima e si apprezza, ma si ritiene
e si vuole per amico? Non le parrebbe questa una sufficiente
riparazione?
— Signor sì! signor sì! Esclamò l'industriale commosso. E le ripeto ciò
che le dissi questa mattina, signor marchese, Eccellenza..... che la sia
benedetta!...
Il marchese con un cenno della mano pose freno a quell'entusiasmo di
riconoscenza.
— Or bene: soggiuns'egli: ciò avverrà questa sera medesima, alla festa
da ballo data dalla baronessa X. So che suo figlio è in relazione con
quella casa: gli dica che non manchi, e colà, senza che abbia bisogno di
farsi presentare a me che di persona non lo conosco ancora, sarò io che
cercherò di lui.
Giacomo tornò a confondersi nelle proteste della sua riconoscenza e
della maggior soddisfazione. Quando poi fu tornato a casa ed ebbe
narrato al figliuolo ciò che era intravvenuto fra lui e il marchese,
Francesco non fu lento nè svogliato ad assicurare che a quel ballo non
sarebbe mancato: più del pensiero della onorevolissima riparazione
promessagli, lo spingeva l'idea che colà avrebbe di nuovo veduto
Virginia, potuto avvicinarla, parlarle, bearsi del suono della sua voce,
di alcuni almeno de' sguardi suoi.
Il marchese a sua volta aveva ordinato a suo figlio, e con quel tono a
cui bisognava assolutamente obbedire, che gli toccava recarsi a quella
festa e in compagnia di suo padre andare a rivolgere la parola e porger
la mano per primi a Francesco Benda. Ettore dopo resistito un poco,
aveva dovuto cedere al comando paterno, ma colla bile in cuore e col
celato proposito di ripagarsi poi alla prima occasione su quel
borghesuccio medesimo del sacrificio, secondo lui, enorme, che doveva
fare per allora il suo orgoglio.
La baronessa X era quella compagna di collegio ed amica di Virginia, la
quale aveva a costei primamente fatto conoscere di persona Francesco: e
verso le dieci della sera di quel giorno in cui abbiamo già visto
compirsi tanti avvenimenti, nelle sale eleganti di quella giovine
signora si trovavano radunati in mezzo ad una sceltissima accorrenza di
invitati, il marchese e la marchesa di Baldissero, il loro figliuolo
Ettore, la loro nipote Virginia e il borghese Francesco Benda.
Ma prima di introdurci in questo profumato e sfarzoso ambiente della
ricchezza, dobbiamo recarci nella lurida taverna di Pelone e penetrare
nel segreto stanzone del _Cafarnao_, dove ha luogo un grande ed
importante convegno di tutti i capi della _cocca_.


CAPITOLO XII.

In quella scellerata associazione che chiamavasi la _cocca_, erano tre
gradi: cominciando dall'alto della gerarchia veniva primo un sinedrio
ristretto di pochi caporioni che formava il Consiglio de' ministri del
capo supremo, al quale era bensì concessa una grande autorità, non però
senza temperamento di preventivo esame e di sindacato susseguente ai
suoi atti principali: questo sinedrio radunavasi in _Cafarnao_; eravi
poi una più numerosa assemblea che componevasi dei capi delle singole
squadre ed a questa, a cui erano taciuti gli alti avvisi o i segreti