La plebe, parte III - 09

necessità. Ridevo crudelmente di me meco stesso, mangiavo con amaro
dispetto, quasi con disprezzo di me quel tozzo di pan nero; mi dicevo,
imprecandomi, che meglio la esistenza del villano che suda sull'aratro,
che dico? meglio quella del galeotto che trascina la sua palla infame;
ma non pensavo pure a cambiar di cammino, non pensavo a pentirmi; era
mia sorte, era mio dovere continuare, o soccombere come un animale che
crepa alla fatica, o riuscire.
«Don Venanzio, bisogna aver compassione di questa mia pazzia — se vuole
così chiamarla. Essa è parte essenziale della mia natura: io sono venuto
al mondo con essa; e per isradicarla da me avrebbe bisognato ben altra
forza, ben altra indole che la mia non sia. Non se ne ricorda? Fin da
bambino siffatti istinti si svegliarono nel mio essere e stupirono e
spaventarono la sua prudente antiveggenza. Di molto ha Ella fatto per
combatterli e vincerli; e nulla potè a ciò riuscire. Io credo che nel
mondo conviene prendere gli uomini come sono, colle facoltà, le
disposizioni, e quasi direi le attribuzioni che ha loro dato la natura.
Da questa varietà di caratteri si genera lo infinito viluppo delle
vicende del dramma umano di cui noi non possiamo vedere, nè indovinare,
nè anco in alcun modo immaginare lo scioglimento e la ragione. A Lei,
Don Venanzio, per parlare il suo linguaggio, dirò come, poichè la
Provvidenza manda nel mondo questi varii tipi di individualità
differenti, conviene pure che ciascuno abbia una sua parte necessaria
nel concerto universale, e che dunque soffocare queste speciali
tendenze, ridurre questi particolari caratteri alla norma comune,
imbrancandoli nel gregge delle pecore che camminano per una via
soltanto, è forse mancare eziandio alla suprema volontà e togliere un
elemento al concorso dei molti su cui la sapienza regolatrice ha fatto
assegnamento.»
Tentennò il capo Don Venanzio, poco persuaso dalla buona fede di
Gian-Luigi in questa teoria delle cause finali.
— La Provvidenza, diss'egli gravemente, ma senza il pedantesco accento
del predicatore, ci accorda varii istinti ed attitudini diverse, perchè
diversamente possiamo concorrere alla grande e sublime unità dello scopo
comune: ma questo scopo è il bene: ed hanno ad essere domati ed altrove
rivolti quegli stimoli e quelle tendenze che ci piegano al male. Per
questi la risultanza ultima non può essere stimata affatto buona se gli
effetti più prossimi ed immediati cominciano per essere cattivi.
Gian-Luigi proruppe con impeto:
— Ah! ci sono certi affetti e passioni che misurarli alla piccola norma
comune è errore.
Si raffrenò tosto: riprese la sua calma primitiva e la serenità
sorridente.
— Ma io non son venuto qui per discutere: continuò egli. Ho già ammesso
fin da principio che ho potuto aver torto. Però quello cui tengo a
stabilire si è che il mio torto non fu così grave come Lei, Don
Venanzio, e tu stesso, Maurilio, hanno creduto. Mi sarebbe stato
possibile con quel modicissimo peculio che mi fu dato dagli eredi del
mio protettore avviarmi per una vita rassegnatamente oscura e per ogni
verso modesta: ed allora avrei potuto subito soccorrere d'un po' di pane
la mia vecchia nutrice. Io volli invece tentare di metter la mano su più
splendida sorte, tutto avventurare per tutto acquistare. Quando fossi
riuscito non era più un misero soccorso soltanto, ma era la ricchezza
ch'io avrei recata alla vecchiaia di quella donna che mi tenne luogo di
madre. Come già dissi, ho lottato, ho sofferto, fui sul punto di cadere
nella disperazione più volte. La perseveranza, la tenacità e il coraggio
mi giovarono pur finalmente. Non sono ancora arrivato dove e come
voglio: ma sono sulla strada, inoltrato forse più che della metà. Fra
poco tempo — forse dei giorni soltanto — sarò alla meta. E frattanto da
quella ricchezza che tanto tempo ostentai, senza possedere, incomincio
ad avere favori e larghezze... Sono venuto qui a trovar Maurilio,
perch'egli — e' m'era dolce la cosa passasse per le sue mani — facesse
avere a Lei, Don Venanzio, questo migliaio di lire per la povera e buona
Margherita. Ma la fortuna mi volle essere benigna di tanto da farmi
trovar qui Lei medesimo, nostro buon padre, e son lieto di poterla
pregare di viva voce di voler accettare quest'incarico di sovvenire con
questa somma la mia nutrice.
Trasse di tasca un rotolo di napoleoni d'oro incartocciato, e lo porse
al sacerdote, il quale lo prese con qualche esitazione.
— Mille lire, disse Don Venanzio, tenendo il rotolo fra le sue dita con
un certo riguardo; è una ricchezza per quella povera donna: ma le
riuscirebbe assai più gradito il dono, se tu stesso, Gian-Luigi, venissi
a recarglielo, se tu stesso, come buon figliuolo fa per la madre,
provvedessi ad acquistarle con siffatta somma ciò di cui ella abbisogna.
— Ha ragione, rispose Gian-Luigi, e codesto farei molto volentieri, glie
l'assicuro, se lo potessi, ma pur troppo gravissime, pressanti e
numerose occupazioni mi tolgono dal potermi recare per alcun tempo al
villaggio..... Ma le accerti alla buona Margherita, la prego, che appena
mi sia fattibile — il che vuol dire fra una settimana o due al più — io
mi recherò costà a vederla, a vedere quei cari luoghi pieni di tante
memorie.....
Si volse a Maurilio che era sempre stato muto fino allora, immobile, col
suo sguardo penetrativo fisso sulle avvenenti sembianze del suo compagno
d'infanzia.
— Ci andremo insieme, Maurilio, non è vero? Mi sarà più caro ancora il
far teco questo primo pellegrinaggio di ritorno alla nostra piccola
Mecca.
Maurilio fece un segno d'assentimento, ma non disserrò le labbra.
— Sta bene, disse allora il buon parroco, il quale, mezzo persuaso già
dalle parole di quell'ingannatore, cominciava a trovarne minori i torti,
ed aveva ripreso verso di lui l'accento affettuoso e cordiale di paterna
tenerezza. Tu mi parli delle tue occupazioni che sono gravissime e
numerose; ma quali son esse?
Il giovane non mostrò il menomo imbarazzo, e rispose con una specie di
allegra leggerezza, facendo ballare colla mano inguantata i gingilli che
pendevano dalla sua catenella d'orologio:
— Quali? Sono di vario genere... Prima di tutto, Don Venanzio, saluti
pure in me un luminare della scienza medica, un dottore che ha saputo
diventare, come si suol dire, alla moda.
— Medico! Come? Tu fai il medico?
— Sì signore. Non per tutti, non esclusivamente. Scelgo i miei clienti e
le occasioni....
— Ma io ho sempre creduto che tu non avessi manco finito il corso di
medicina.
— Finito e strafinito: esclamò Gian-Luigi dicendo questa bugia con più
sicurezza che altri avrebbe avuta affermando una verità. Sono il medico
prediletto delle signore che hanno i vapori e dei ricchi personaggi
d'importanza che digeriscono male. Non accetto paga, ma mi forzano a
prendere dei regali che valgono più del doppio.... Non c'è mezzo
migliore per farsi pagar caro che il non voler nulla. Ad un povero
medico che sia un pozzo di scienza, ma che si presenti infangate le
scarpe, il cappello frusto e gli abiti che mostrano la corda, non si
aprono le soglie eleganti dei palazzi dei ricchi; ed è molto se lo si
stima degno di curare i servitori: lo si paga e lo si tratta come un
operaio qualunque. Al signor dottore che ha carrozza e veste come un
milionario si spalancano i penetrali del tempio di Pluto. Io sono
creduto in società un ricco che presta il soccorso della sua scienza a
qualche amico per favore; poichè non ho bisogno, si crederebbe
offendermi non regalandomi il doppio di quel che mi viene. Ma questa è
la parte minore dei miei proventi. Faccio delle operazioni bancarie col
re della nostra Borsa, il cavalier Bancone, a cui ho dato qualche
consiglio per domare la sua gotta. Per riconoscenza egli mi fa da filo
d'Arianna nel labirinto dei giuochi di Borsa. Ho cominciato per
trafficare di capitali che non avevo: adesso faccio fruttare e
rimpolparsi i guadagni avvenuti.
Don Venanzio aveva di nuovo nella sua fisionomia da galantuomo
un'espressione di scontentezza:
— Io non me no intendo bene, diss'egli, ma questo non mi pare un lavoro
serio.
— Seriissimo: rispose Gian-Luigi: perchè è quello che frutta di più.
— E onesto? soggiunse il prete.
— Certo! Il signor Bancone e i pari suoi sono gli uomini più stimati del
mondo.
Don Venanzio si curvò nelle spalle.
— Sarà, conchiuse, ma io preferirei vederti medico nel nostro villaggio,
guadagnar poco e far molto bene a quella povera gente.
Gian-Luigi interruppe vivamente con una strana intonazione nella voce:
— Oh di far bene alla povera gente io mi occupo di molto, e non solo
alla povera gente del villaggio dove fui allevato, ma a tutta quella
delle nostre contrade, e non negli angusti limiti soltanto che sono
concessi ad un povero medico di campagna, ma in quelli fra cui spazia
l'azione di un governo.
Don Venanzio guardava il giovane con tanto di occhi.
— Ella non mi comprende, soggiunse Gian-Luigi sorridendo, nè mi può
comprendere, nè io mi posso per ora spiegare di meglio. È un segreto
lavoro per cui sono venuto a cercare la collaborazione di Maurilio, e
per cui quindi gli chiedo un colloquio sull'istante da solo a solo.
Il vecchio sacerdote guardò bene in volto l'uno e l'altro dei due
giovani coi suoi occhi limpidi e sereni, e poi disse con quell'accento
di paterna bontà che gli era naturale:
— Non capisco che cosa possa essere e non voglio capirlo... Possiate voi
veramente essere così bene ispirati e così addotti sopra una buona via
da ottenere alcun bene ai miseri che soffrono; ma permettete al vostro
vecchio pastore di ricordarvi un consiglio di cui mi pare pur troppo
abbiate bisogno ambedue; quello che nulla si fa di bene se non si
procede col santo timor di Dio... Ora vi lascio soli, ed io con quel tuo
amico, Maurilio, se gli è di comodo, andremo a trovar quella vecchia di
cui ci hai dato l'indirizzo.
Maurilio ringraziò vivamente il parroco che così volesse far subito;
Selva, che non aveva in quel punto occupazione nessuna, acconsenti
sollecito di accompagnare Don Venanzio, e mentre i due trovatelli
avevano il colloquio che vedremo nel capitolo seguente, Giovanni ed il
parroco si recavano in casa la _Gattona_.


CAPITOLO VIII.

Appena rimasti soli Gian-Luigi e Maurilio, il primo s'accostò vivamente
al secondo e incominciò con vivacissimo accento:
— Maurilio, io ti leggo nell'animo. Il tuo freddo silenzio mi parla più
chiaro d'ogni parola. Tu diffidi di me; mi sospetti e sei presso a
disistimarmi... Tu mi hai visto ieri sera colle vesti del povero nei
ritrovi del povero; poi collo sfoggio del ricco nel convegno elegante
dei gaudenti del mondo, e ti domandi: che cosa son io, che faccio? in
qual razza di Proteo si è tramutato il tuo compagno d'infanzia? Ebbene,
gli è verissimo: sono un mistero, e lo sono per tutti così bene che
pochi o nessuno sospettano pure in me, sotto la maschera dell'uomo gaio
e leggiero di società, sotto le spoglie del damerino e dell'epicureo,
l'individualità d'un proposito e la stoffa d'una volontà. Vengo a
svelarti questo mistero... non per platonico trasporto d'amicizia, ma
perchè — te l'ho detto ieri sera — perchè la mia risolutezza e l'audacia
de' miei disegni hanno bisogno del tuo cervello.
Fece una pausa; Maurilio, sempre silenzioso, sostenendo colla sinistra
delle sue grosse mani la fronte vasta e protuberante, abbassò la destra
verso il compagno con atto che voleva significare:
— Parla.
Gian-Luigi trasse un profondo sospiro come uomo che ha il petto gonfio
da qualche non lieve emozione, e coll'accento spiccato e misurato di chi
studia le sue parole od anzi meglio dice parole studiate e preparate,
continuò:
— Con te non occorre usare il linguaggio che bisogna parlare a quel buon
Don Venanzio. Questo sant'uomo ha sempre vissuto in un guscio, e la sua
esperienza e la scienza delle cose del mondo non eccedono la
ristrettissima cerchia di un'anima che non ha mai avuto passioni, d'un
cervello che non ha mai avuto idee al di là di quelle permesse dal
catechismo. Tu soffri delle ingiustizie della sorte assodate
nell'assetto sociale, egli in ogni fatto benedice il volere di Dio: tu
hai capito e capisci la necessità della riforma, anzi della rivoluzione
nell'ordinamento attuale dell'agglomerazione umana: egli non sente e non
apprezza che la impotente e miserabile virtù della rassegnazione. Se io
venissi a dire a quel buon vecchio: la necessità di cambiare
quest'organamento che soffoca i tre quarti delle intelligenze umane, che
costringe alla miseria i tre quarti degli uomini, si è fatta sentire su
me più che su altri; ha pesato con mano più cruda su di me, quasi
appunto per suscitare nella mia personalità appassionata uno stromento
della rivoluzione della plebe, per crearmi tribuno e vindice del
proletariato, per farmi sorgere apostolo e guerriero dell'emancipazione
delle classi povere, ed io ho accettato il carico e mi sono sobbarcato
all'impresa, Don Venanzio mi griderebbe spaventato il _vade retro
Satanas..._
Maurilio l'interruppe e disse con voce lenta, fiacca, quasi svogliata:
— Ed è codesto che sei venuto dire a me?
Gian-Luigi guardò ratto intorno a sè, come per assicurarsi ancora che
nessuno potesse udire: poi si curvò verso il compagno e rispose con
forza:
— Gli è questo.
Maurilio scosse leggermente la testa.
— Una molto superba parte ti sei assunto: disse egli col tono medesimo
di prima. Come ti sei sentito tu consacrare cosiffatto campione? Qual
cosa o chi ti assicura in tanta impresa? Come Giovanna d'Arco, chiamata
per salvar la Francia, hai tu sentito le voci del Cielo chiamarti per
redimer le plebi?...
Gian-Luigi interruppe con impazienza:
— È ella un'ironia codesta?... Cotale risposta non mi sarei aspettata da
un compagno d'infanzia come sei tu e da un'intelligenza qual'è la tua...
Ebben sì; le ho sentite le voci del Cielo. Le ho sentite nella mia
anima, nelle torture che io ho provato, e son quelle che provasti anche
tu, nelle miserie di tanta parte del genere umano, nella crudele
ingiustizia del mondo che rigetta dalle sue gioie il povero ed il
debole, che per lasciarmi penetrar di straforo nell'oasi de' suoi
godimenti mi ha obbligato ad infingermi e mentire. Noi empiamente
condannano i costumi e le leggi: queste fondamento a quelli: bisogna
rovesciare le une e gli altri.
— Rovesciare! rovesciare!..... Tu ne parli con molta agevolezza!
L'edifizio non è così corroso alle fondamenta che un urto basti a
sconquassarlo. Posa sopra una larga base cui, non foss'altro,
l'abitudine ha contribuito a formare.
— Questa base siamo noi, i poverelli, i derelitti, i miserabili. Gli è
sulle nostre spalle opprimendoci ch'esso regge. E se noi ci levassimo?
— Come farlo?
— Ecco quello ch'io ho studiato e preparato; e che ti dirò se tu vuoi
essermi compagno all'impresa.
— Rovesciare!... Ammettiamo pur anco che tu ci riesca... E poi? Avrai
accumulato intorno a te un caos di rovine. Come potrai far sorgere
l'edifizio novello? E saprai tu costrurlo? Ci vuole la potenza dei
secoli. Un equilibrio dopo un più o men lungo scombuiamento riuscirà
certo a stabilirsi; ma chi può assicurare che in questo nuovo equilibrio
l'umanità starà meglio di prima? E non sarà pagato troppo caro questo
ancor meno felice stato novello dalla terribilità della crisi avvenuta?
— Tutte queste cose, credi tu che io non le abbia pensate?.... Forse a
ricostrurre quel nuovo edifizio la tua intelligenza può essermi utile:
ecco perchè io son venuto. Sento in me quanto esser debba il coraggio
che affronta una simile risponsabilità, e questo coraggio io lo possedo.
Ho lavorato finora nell'ombre, ma la mia opera è spinta oramai tanto
innanzi che dal mio cenno dipende lo scoppio. Ancorchè tu mi manchi,
questo cenno lo darò. Dal medesimo travaglio anche sanguinoso del
conflitto, sorgerà la legge della civiltà avvenire. La società ora si
viene corrompendo sempre più nel marasmo: come la natura, ha bisogno di
quando in quando che alcuno sconvolgimento la desti e la fecondi per
creazioni novelle. La rivoluzione è il percoter della selce: ne
sprizzerà una scintilla....
— E intanto si cammina verso l'ignoto. Non è vero che la natura proceda
per iscosse violente e che il cataclisma sia l'elemento necessario
d'ogni progresso nella creazione. Più attentamente esaminata la storia
della natura è un lento e graduato svolgersi coll'opera del tempo. Così
è dello incivilirsi del genere umano e del perfezionarsi delle forme
sociali. Codesto procede in seguito all'azione di certe leggi morali,
che forse un dì si scopriranno e definiranno, come furono scoperte e
definite le leggi fisiche. Un uomo non può sostituire al giuoco di
queste leggi il suo privato giudizio e la propria audacia. Finora non vi
fu che un solo Messia sulla terra, e tu non puoi aver l'idea di dover
essere il secondo. È l'opera di molti uomini, di molte generazioni che
deve far ciò che tu sogni di ottenere ad un tratto. Per redimere la
classe più infelice della società attuale, la plebe, non basta riporla
materialmente in alto mandando in frantumi le attuali forme
dell'ordinamento sociale; conviene che questa povera gente in prima
venga rendendosi degna di stare là dove si vuole farla pervenire. Metti
in mezzo alle ricchezze sociali le brutalità della plebe ineducata, e
che cosa ne avverrà?....
— Ma quando a guidare questa plebe ci sieno intelligenze superiori — le
nostre, per esempio?...
Gian-Luigi prese a Maurilio una mano e glie la strinse forte.
— Maurilio! soggiunse. Noi possiamo avere in pugno quella forza
meravigliosa — dirigerla a nostro talento.
— Illusione! Rompi le dighe dell'Oceano, e poi cerca di regolare le onde
irrompenti. Senti, Gian-Luigi!... La mia idea è che i tuoi tentativi,
qualunque essi sieno, cadranno nel nulla.
Gian-Luigi fece un movimento.
— E così mi auguro che avvenga: soggiunse vivamente Maurilio.
— Così non avverrà, disse fieramente Gian-Luigi. Soccomberò forse, ma in
un mucchio di rovine.
— Soccomberai senza pure le rovine. Tu hai nemiche tutte le potenze del
mondo, il denaro, i governi, la religione. E che vuoi tu fare da questo
piccolo angolo di terra contro tutta la moderna civiltà europea? So che
tu hai cercato alleanza nelle congiure politiche, come la rivoluzione
politica ha cercato un sostegno nella questione sociale.....
— Ah! tu lo sai? domandò con meraviglia Gian-Luigi.
— Sì, e giudico che soccomberete tutti...
— No, per Dio! Qui non sarà tutta concentrata la lotta. Il segnale della
grande rivoluzione scoppierà nelle nostre mura, ma si ripercoterà nelle
città principali, e là specialmente dove la cresciuta industria del
secolo ha creato più grandi agglomerazioni di proletari e in questi
maggior coscienza dei loro diritti. Abbiamo relazioni colla Francia, col
Belgio, coll'Inghilterra, colla Germania stessa, e dappertutto la
rivoluzione politica si cambierà, appena sorta, in quella sociale... Io
sono uno dei capi nelle cui mani vengono a serrarsi i fili di tutta
questa rete, a me lo stringerli o l'allentarli: ho bisogno di un ingegno
capace che m'aiuti nell'opera, ed ho pensato a te. Vuoi tu esser quello?
Maurilio scosse il capo in segno negativo.
— A noi due l'impero in questa società che ci ha disprezzati: soggiunse
Quercia con voce bassa quasi affannosa.
— Ah! tu mi tenti come Satanasso tentò Cristo: disse sorridendo
Maurilio. Ma tutto è inutile. Non istimo vantaggiosa all'umanità
l'impresa: non la credo possibile, e condanno assolutamente i mezzi che
tu hai pensato di poter scegliere.
Un lieve rossore corse alle guancie di Gian-Luigi.
— Che vuoi tu dire? interrogò egli lampeggiando dagli occhi.
E Maurilio, con calma, e quasi afflitto:
— Ieri sera alla taverna di Pelone ho scoperto qual fosse l'individuo
che porta il nomignolo di _medichino_ famoso nella cronaca dei
delitti....
Gian-Luigi questa volta impallidì; ma in mezzo la sua fronte si disegnò
quella tal ruga che conosciamo. Sorse di scatto, e disse con impeto e
con accento di comando:
— Taci! Non più una parola!
Passeggiò in lungo e in largo per la camera alcuni istanti: poi si
piantò di nuovo innanzi a Maurilio:
— Ebben sì, son io quello.... Vuoi tu perdermi? Vammi a denunziare al
commissario Tofi, e n'avrai buon premio.
— Gian-Luigi! esclamò con rampogna Maurilio.
— Dovresti farlo! Avresti così tolto di mezzo un accanito ed implacabile
nemico di quella società che tu hai preso a difendere così bene.
Si serrò colle due mani la sua bella fronte da statua greca.
— Tu credi ai miei delitti? ripigliò dopo una piccola pausa, con voce
soffocata. Oh Maurilio! Chi ci avesse detto che ci saremmo trovati in
questa guisa dopo tanto tempo che non ci siam più visti, quando eravamo
tuttidue bambini al villaggio!... Tu l'hai conosciuto fin d'allora,
ch'io non poteva passare in mezzo al mondo ed estinguermi come una
bollicina di schiuma nel mare. Non fosse che la fama d'Erostrato,
qualche rumore si ha da fare intorno al mio essere... Un giorno converrà
che tu sappia quali circostanze mi hanno trascinato là dov'io sono:
allora forse mi compatirai... Se nella mia opera vinco, tutto il mio
passato sarà come distrutto, assorbito nell'apoteosi della gloria; se
soccombo non vi sarà imprecazione e disprezzo che basteranno ad
infamarmi..... Sono un Catilina; se Catilina avesse trionfato, Cicerone
sarebbe stato un calunniatore, e Sallustio avrebbe fatto il panegirico
del ristauratore della repubblica romana.
In quel momento entrarono solleciti Don Venanzio e Giovanni Selva che
tornavano dopo aver parlato colla _Gattona_. Tutti due avevano nelle
sembianze una certa emozione.
— Maurilio: disse il sacerdote con voce concitata; abbiamo da parlarti.
— Li lascio in libertà: soggiunse Gian-Luigi. Addio Maurilio! Quando ci
rivedremo molte cose, forse, saranno cambiate..... E forse allora mi
conoscerai meglio.
Non gli tese la mano, nè Maurilio porse la sua; salutò con molto affetto
il vecchio parroco.
— E posso annunziare la tua visita alla buona Margherita? domandò
quest'ultimo.
— Sì, rispose allegramente Gian-Luigi, appena finito il carnevale.
Ed uscì col medesimo sorriso col quale era entrato.
— Andiamo da quella povera Ester, si disse scendendo le scale; a
quest'ora Jacob non ci sarà, e quando sopraggiunga me ne farò dare i
denari.


CAPITOLO IX.

Torniamo nel sucido cortiluccio del ghetto in cui si apre la porta
ferrata del misero stambugio di Jacob Arom il rigattiere ebreo.
Molte ore sono passate dacchè abbiam visto il vecchio avaro prendere
colla figliuola il suo pasto frugalissimo apparecchiato dalla modesta
scienza culinare della vecchia Debora. Lo donne sono sole di nuovo nella
stanzaccia a pian terreno; e l'ombra della sera, prima ancora del solito
per la nebulosità della giornata, incomincia ad invadere quel luogo
tristissimo, fatto più tristo da quell'ora crepuscolare. Come prima,
come sempre da varii giorni, le donne parlano di quel tremendo avvenire
che la sventurata maternità sopraggiunta minaccia alla povera Ester.
Aspettano con ansia che Gian-Luigi, fattone avvertito, compaia a
rassicurarle, venga a dir loro che ha bello e trovato il modo di salvare
la povera figliuola dall'ira, che sarà implacabile, del padre.
In realtà Debora ha maggior dose di speranza di quel che non abbia la
povera Ester. Questa, nei meno ardenti trasporti degli ultimi convegni
avuti insieme, nella lunga di lui assenza, ha sentito nell'amante
sminuita quella passione che gli aveva fatto superare ogni ostacolo,
vincere ogni circostanza per potere arrivare sino a lei. Ora — e
l'istinto di donna meravigliosamente lo avverte — ogni amore che scema è
amore che parte; quando non si ama più all'eccesso si è avviati a non
amar più abbastanza; dietro la calma del primitivo ardore, sta la
indifferenza e la sazietà. Ester aveva immensamente sofferto anche prima
che la terribile verità del suo stato le fosse rivelata; di poi la sua
pena era diventata doppia, e soffriva passando a vicenda da
un'esaltazione d'animo ad un abbattimento rassegnato, ma di disperazione
sempre.
Debora adunque la confortava alla speranza con ogni miglior argomento
che sapesse trovare; e la infelice fanciulla scuotendo la sua stupenda
testa degna del pennello di Tiziano esclamava con cupa risolutezza che
era tale da far paura:
— No, Debora, vedrai ch'egli non verrà nemmanco. Il perfido! E' mi ha
dimenticata del tutto... Chi lo avrebbe creduto?... Ah mio padre ha
ragione. Tutti i cristiani sono mancatori di fede... Sai tu che cosa
solo mi resta? Morire.
La vecchia alzava le mani secche e rugose verso il cielo, sclamando
spaventata:
— Che cosa dite?... Vi dà di volta il cervello Ester?... Come siete
sempre eccessiva, voi!... Vi dico che il signor Quercia verrà, e troverà
modo di levarvi di qui; ed io vi seguirò, perchè già non voglio mica
rimanere allo sdegno di vostro padre che cascherebbe tutto su di me, e
che non sarà una giuggiola, no; e tutto sarà aggiustato.
Ester lasciò cadere abbandonatamente sopra le ginocchia la bella destra
con cui si sosteneva il viso, e reclinò sul petto il capo.
— Mio padre! diss'ella a mezza voce, ma con espressione di molto
cordoglio nell'accento. Abbandonarlo!... E sarà per sempre di certo...
Non lo vedrò mai più, mai più in questa vita!... E nell'altra?... Ahi
c'è forse un'altra vita?... Ancorchè ci sia, mai più, mai più egli non
mi perdonerà, vivesse gli anni dell'Eterno... La sua maledizione, quella
maledizione onde mi minacciava poc'anzi mi perseguirà traverso i secoli
con odio implacato... Ed egli ora mi ama pure!... Quasi al pari de' suoi
tesori... Ed io devo dargliene tanto dolore!... Che farà egli, quando
solo, senza più affetto nessuno, fuggito dalla figliuola?
Debora la interruppe.
— Eh! non vi crucciate di codesto.... Che cosa farà? È facile
indovinarlo. Si consolerà col suo denaro che in fin fine è ciò che ama
di più, è anzi la sola cosa che ama.
Un picchio discreto risuonò all'uscio del cortile; le due donne
sussultarono e si guardarono in faccia commosse.
— Se fosse lui! mormorò Ester diventata pallida, poi tosto arrossita.
— Gli è lui di certo: disse la fante levandosi più affrettatamente che
poteva: ne riconosco il modo di battere, ve l'ho detto io che sarebbe
venuto.
Si accostò all'uscio, e traverso i battenti gridò colla sua voce fiacca
e balzellante da vecchia:
— Chi è là?
— Apri, Debora, son io: rispose la voce sonora di Gian-Luigi.
Ester fu dritta di balzo con un grido: e poichè le mani tremanti di
Debora non erano abbastanza sollecite ad aprir la serratura e tirare i
chiavistelli, accorse la giovane all'uscio ed in un attimo ebbe essa
medesima spalancato il battente innanzi al suo amante che entrava
avviluppato nell'ampio mantello scuro, il cappello rabbattuto sugli
occhi.
La penombra che regnava in quell'ambiente, non lasciava scorgere alla
giovane l'espressione della faccia di Gian-Luigi; e fu ventura per lei,
chè l'aspetto d'impaziente contrarietà ch'egli aveva entrando sarebbe
stato per la misera un nuovo dolore, una piena conferma dei timori che
istintivamente provava l'anima sua. Ma pur tuttavia, qual differenza di
maniere fra il presente contegno dell'amante e quello ch'egli aveva un
tempo ne' suoi incontri colla fanciulla! Era egli allora che tosto,
ratto, impetuosamente l'afferrava con amorosa violenza, la stringeva con
braccia appassionatamente desiose, le copriva di caldi baci il leggiadro
viso arrossito, le diceva un mondo di soavi parole amorose; ora
Gian-Luigi entrò senza manco un saluto; fu essa che, lasciando a Debora
il richiudere accuratamente la porta, gettò al collo di lui le sue
braccia e tutta abbandonandosi al suo petto, disse con voce tremante
d'emozione ed amore:
— Sei tu!... Sei pur tu alla fine!... Oh quanto tempo che non ci siam
visti!... Cattivo!... Perchè rimaner tanti giorni?... Li ho contati: e'
mi parevano ciascuno un'eternità... Che cosa hai tu fatto in questo