La plebe, parte III - 06

vecchio parroco, del maestro e del protettore della sua infanzia.
— Lei!.... Lei qui, Don Venanzio: esclamò Maurilio con tanta commozione
che appena poteva parlare. Oh! la è proprio il mio buon genio che la
manda.
— Sì: disse il parroco: è la Provvidenza che ti vuol bene, e mi concede
sempre la grazia di poterti soccorrere. Gli è un presentimento che mi ha
spinto a venire a Torino; e qui ho trovato subito chi ha potuto farmiti
restituire. Sono venuto a prenderti: tu sei libero, ed usciremo insieme
da questo brutto luogo.
Un brivido di acuto piacere corse tutte le fibre del giovane.
— Libero: esclamò egli sentendosi quasi allargare i polmoni.
Non potè aggiungere altra parola; ma levò lo sguardo al cielo con
espressione di commossa riconoscenza. Egli era persuaso che lo spirito
benigno, il quale vegliava sul suo destino, era quello da cui era stato
ispirato a Don Venanzio il presentimento da lui accennato, era stato
suggerito il mezzo di venirlo a salvare.
Don Venanzio, abbracciato, baciato e ribaciato Maurilio, ne prese il
capo colle due mani e lo stette guardando con amorosa attenzione e con
viva sollecitudine. Dall'ultima volta che quei due s'eran visti, nella
faccia espressiva del giovane erano ancora, e non di poco, accresciutesi
le traccie della sofferenza e del malessere che a quel corpo indebolito
cagionavano l'incessante travaglio dell'anima, la soverchia tensione
dello spirito e il continuo lavorìo del pensiero. Più terreo il color
delle guancie, più affondate le occhiaie, più sporgenti i zigomi nel
macilento viso, più spiccate le rughe precoci alle tempia ed agli angoli
della bocca, più curvo il petto ed abbandonato il portamento.
Il buon parroco, intenerito, lo baciò ancora una volta su quella vasta
fronte incoronata dai nerissimi ispidi capelli come da una scura
aureola, ed illuminata nel suo pallore dalla luce del pensiero.
— Mio povero Maurilio, disse Don Venanzio con accento di sì dolce
affetto che più non avrebbe potuto la voce d'una madre. Tu hai sofferto
ancora, tu soffri?
Il giovane rispose con un mesto sorriso.
Ma ad impedire ogni effusione suonò in quel momento la voce aspra e
burbera del signor Commissario.
— Le vostre confidenze ve le farete poi in più acconcio luogo di qua.
_Per ora_, giovinotto, voi siete libero, e ringraziate la clemenza di S.
M. che invece di mandarvi a vedere il sole a scacchi a Fenestrelle, vi
fa la grazia di lasciarvi andar a dormire nel vostro letto. Ma frattanto
questo piccolo incidente vi serva d'avviso! Fate senno, dissensato che
siete! Ficcatevi un po' di sugo in quel cervellino di passero che vuol
menare a bere le oche; e invece di pensare a cambiare le cose del mondo
e riformare il Governo, pensate ad essere buon suddito, buon cattolico e
riformare a voi la testa sconclusionata. Vedete i bei capi che
pretendono dettar la legge a chi comanda e far camminare il mondo a loro
capriccio! È nell'ospedale dei pazzerelli dove meritereste d'essere
rinchiusi, poverini di teste bruciate... D'ora innanzi badate a voi! Non
crediate di poterla fare impunemente in barba alle autorità ed alle
leggi. Noi teniamo gli occhi su di voi e vediamo tutto, quasi quasi i
vostri pensieri eziandio. Se questa volta l'avete scappolata tanto a
buon mercato, un'altra non sarà più così. E sappiate, impertinenti e
stupidi animali di rivoluzionari, che S. M. il Re di Sardegna ha
abbastanza carceri e carabinieri, e se occorre palle e schioppi da
mettere alla ragione quanti ne sieno di voi e dei vostri pari... Ora
andatevene con Dio, e pregate il vostro santo protettore che non
m'abbiate più a comparire davanti.
Maurilio ascoltò l'intemerata a capo chino e senza dare il menomo segno
di quello che sentisse dentro sè; ma il buon Don Venanzio non nascose
nella sua aperta e schietta fisionomia, tutto l'effetto di paura che in
lui produssero le parole del Commissario.
— Andiamo, andiamo, diss'egli sollecito, prendendo il braccio del
giovane, appena il signor Tofi ebbe finito. E il signor Commissario non
dubiti che non daremo mai più ragione di malcontento all'autorità.
Maurilio però non si mosse, non ostante che Don Venanzio, a cui pareva
mill'anni d'esser fuori da quel luogo, facesse a trarlo verso la porta.
— Signore, disse Maurilio al Commissario, quando venni arrestato, mi si
sequestrarono delle carte.... un manoscritto....
— Ebbene? lo interruppe bruscamente il signor Tofi con un tale sguardo
che avrebbe agghiacciata la parola anche sulle labbra d'un ardimentoso.
— Vorrei pregarla, balbettò Maurilio, se si potesse di dar l'ordine che
mi fosse restituito....
— Un corno! gridò il Commissario. Quello scartafaccio è nelle mani di S.
E. il Governatore che ne farà quel che vorrà.....
Il giovane accennò volere aggiungere ancora una parola; ma Tofi con più
ruvidezza ancora:
— Adesso ho altro da fare che ascoltare le vostre sciocchezze. Non
seccatemi dell'altro e partite, se non volete ch'io vi faccia ricondurre
in qualcuno de' miei salotti qui sotto nei fossi del castello.
Maurilio non aprì più bocca, e Don Venanzio, che fece saluti rispettosi
e vivaci per tuttedue, lo trascinò fuori sollecitamente. Nell'anticamera
il parroco riprese la sua mazza e il suo cane che gli fece mille feste;
e quando ebbe oltrepassata la sentinella che passeggiava dinanzi al
portone, Don Venanzio mandò un gran sospirone di sollievo, strinse al
suo petto il braccio di Maurilio su cui s'appoggiava affettuosamente e
disse:
— Uhff! fa piacere l'essere fuori di lì, e faccio voti che per nessuna
ragione, nè tu ned io non abbiamo da tornarci mai più.
Il povero prete doveva tornarci pur troppo per una dolorosissima
cagione, onde assai aveva da soffrire la sua bella, onesta ed amorevol
anima!
Camminato un poco in silenzio, Maurilio ad un tratto si fermò e scosse
la testa, come uomo a cui una vicenda è troppo grave a sopportare.
— Lasciare nelle loro mani quello scritto! esclamò egli; ma colà dentro
vi è tutta la mia anima, vi sono tutte le evoluzioni del mio pensiero;
vi è quella parte della vita intima del nostro _io_, in cui non deve
penetrar mai, è un sacrilegio che penetri occhio umano — e stento a
credere perfino che penetri l'occhio di Dio... Ah! questa è la peggiore
delle tirannie, questa è un'empia offesa alla libertà ed alla dignità
della persona umana... E se mi presentassi al Governatore a
richiamarmene, se invocassi colla forza del mio diritto la restituzione
di ciò che è più mio di qualunque altra cosa possa appartenermi mai, di
quello che è parte, si può dire, di me stesso, qual accoglienza mi si
farebbe? qual risposta degnerebbero farmi?..... Quella di questo villano
di Commissario: la minaccia di un carcere.
Don Venanzio, tutto spaventato, lo stringeva pel braccio, guardava
intorno con occhio pieno di sgomento, e tirandolo per fargli riprendere
l'andare, dicevagli sottovoce con accento di amorevole rimprovero:
— Vuoi tacere?... Ve' se si ha da parlare in questa guisa!... E ad alta
voce ancora, in una piazza!... Per fortuna che con questo tempo c'è poca
gente... Ma certe cose, Gesù buono, non bisogna nè anche pensarle.
Vieni, vieni, andiamo a casa tua che abbiamo un milione di cose da
dirci... Quanto al tuo manoscritto, credo di potertene dare le novelle,
che l'ho visto io co' miei occhi non è più di un'ora.
— Davvero! esclamò Maurilio stupito non poco. Non è dunque più in mano
del Governatore?
— No.
— E dov'è? chiese sollecito il giovane. E come fu dato a Lei di vederlo?
— L'ho visto fra le mani di quel medesimo personaggio a cui tu hai già
dovuta quell'altra volta la tua liberazione, ed a cui tu la devi anche
adesso.
In Maurilio queste parole produssero una subita emozione, cui Don
Venanzio, se l'avesse osservata, avrebbe dovuto trovare strana ed
inesplicabile.
— O chi? domandò egli con impeto, tremante la voce.
— Il marchese di Baldissero.
Maurilio mandò un'esclamazione dall'imo petto, d'una meraviglia che
quasi pareva dolore.
— Il marchese!.... Lui?.... O fatalità! Il mio destino mi vuole dunque
affatto perduto?
— No, no, calmati: s'affrettò a dire il parroco vedendo tanta commozione
e tanta ansietà nel giovane. Il marchese bene trovò ardite le idee
espresse in quello scritto, ma notò in esso tali traccie d'ingegno, che
anzi desiderò vederti e parlar teco. Io gli promisi che nel giorno
stesso di domani t'avrei condotto al suo cospetto.
Queste parole, invece che rassicurare, parvero turbare vieppiù il povero
Maurilio.
— Io!.... Presentarmi a lui.... dopo ch'egli avrà letto?.... oh no, oh
no mai!
E si coprì colle due mani la faccia.
— Ma che cos'è? domandò il prete meravigliato di quella tanta
commozione, cui, per le ragioni ch'egli conosceva soltanto, trovava
eccessiva. C'è alcuna cosa in quel tuo scritto che ti debba far
vergognare a comparire innanzi ad un onest'uomo?
Maurilio strinse forte il braccio di Don Venanzio, che s'appoggiava sul
suo.
— Vergognare, no, perchè non c'è colpa nè viltà qualsiasi; ma temere
sì... Innanzi alla superbia aristocratica di quel blasonato, la mia può
parere un'audacia insolente...
— Ma spiegati!... Che cos'è in fin dei conti?
— Spiegarmi?... Non posso... È un segreto della mia anima, effuso entro
quelle pagine in versi bollenti che eruppero come una lava; è un atto di
quella mia vita interiore che dev'essere, che voglio chiusa ad ogni
sguardo indiscreto... Nessuno ha da conoscere quel segreto e meno di
tutti il marchese.
Don Venanzio rimaneva perplesso senza comprendere come alcuna qualunque
attinenza, come indicavano le parole del suo giovane amico, potesse
esistere fra il marchese e Maurilio che non si conoscevano il meno del
mondo.
Il giovane, sempre agitato, continuava come parlando a se stesso:
— Può egli comprendere?... Avrà egli compreso sotto le mie parole la
verità?... Chi non la comprenderebbe?... A qual altra persona possono
convenire quei detti?... Più volte ne ho scritto il nome... È un nome
che portano ben altri eziandio... Ma pure...
Il buon prete trovò una valida ragione, per lui sicurissima, da
tranquillare Maurilio.
— Se io capisco bene, diss'egli, si tratta dunque di una cosa tua
particolare, intima, segreta.
Il giovane fece un cenno affermativo.
— Ebbene, io metterei pegno qualunque cosa che il marchese non ne ha
letto pure una parola. Conosco la delicatezza di quell'animo. Tutto ciò
che gli sarà sembrato attenersi ai particolari della vita privata, egli
lo avrà accuratamente tralasciato.
Maurilio parve acchetarsi; e lungo tutto il cammino che loro restava da
percorrere per giungere alla casa dov'egli abitava, rimase taciturno,
col capo chino e gli occhi dimessi.
Quando Maurilio e Don Venanzio giunsero alla porta n. 7 di via ***,
dalla loggia della portinaia uscì fuori con impeto sora Ghita medesima
scortata come da uno stato maggiore dalla comare Marta, dalla comare
Polonia e da non so quali altre comari del quartiere.
L'evento straordinario dell'arresto dei giovani in casa del pittore
aveva radunato colà l'esercito attivo e la riserva delle lingue
femminili di pian terreno in tutta quella strada e formava l'argomento
delle più vivaci chiaccole di quelle brave sfaccendate; quando ecco uno
degli eroi dell'avventura tornare tranquillamente a casa per distrurre
tutte le supposizioni di ogni sorta che quelle argute donne si erano già
industriate di fare. E il ritorno non era meno strano dell'andata;
condotto via da poliziotti, accompagnato da un agente della pubblica
sicurezza, se ne tornava come se di nulla fosse stato, a braccio con un
vecchio prete. C'era di che mettere in uzzolo altro che la curiosità di
un drappello di vecchie comari! Fu perciò che sora Ghita, visto appena,
nel campo di visione che apriva ai suoi occhietti sempre in sull'avviso
il finestruolo della loggia, spuntare la faccia pallida di Maurilio e le
chiome bianche di Don Venanzio, per un subito impulso si cacciò fuori,
armata d'interrogazioni, e dietrole tutta la valorosa schiera delle
comari.
— Ah! Ella qui, sor Maurilio! esclamò essa, levando le mani secche e
rugose all'altezza della sua cuffia madornale in un atto di meraviglia
che voleva esser piena di allegrezza e di consolazione. Oh che piacere!
Hanno adunque riconosciuto che la era una gran porcheria lo arrestare
della brava gente come lei? E l'hanno mandata sciolta, non è vero? Me ne
rallegro tanto. E l'avvocato Selva? È egli vero che fu arrestato ancor
egli? S'è detto così, lo si dice ancora per tutto il quartiere... Un
altro bravo giovane quello lì che non ha il suo compagno. (E si volgeva
alle comari, mentre col suo corpo seguitava a chiudere il passo a
Maurilio ed al prete). Grazioso e gentile e ben educato che gli è un
vero piacere. Non passa mai davanti al mio camerino senza salutarmi, e
qualche volta viene a discorrerla meco e ci ha sempre un fascio di
novellette e di piacevolezze che incanta ad udirlo. (E qui parlava di
nuovo a Maurilio). Spero bene che avranno lasciato andare anche lui; o
se non ancora, lo lascieranno andare quanto prima. E quell'altro, che è
un signore quello là che ha dei milioni, l'avvocato Benda, il padrone di
quella bestia del mi' uomo, non è una frottola che sia stato arrestato
anche lui? Ma che smania è codesta di voler mandare in gattabuia tutta
la gente ammodo! Io mi credo che abbia dato la volta a quei signori
della Polizia... Io già rispetto l'Autorità, i comandamenti di Dio,
della Chiesa e del signor Vicario, ma non mi posso tenere dal dire che
queste le sono vere porcherie. Finiranno per mandare in galera l'onesta
gente e lasciar stare tranquilli i birbanti che ce n'è una tal quantità
oramai in questa nostra città che se vi rintoppate in uno sconosciuto,
non siete sicuri di non aver dato del naso in un ladro; e lo provano i
frequenti delitti che succedono tutti i giorni, che dicono che la è
tutta una combriccola, che sono centinaia e più, che si chiamano la
_cocca_, di ogni razza di Dio, birboni che non temono nè Cristo, nè
l'Anticristo, nè gli angeli, nè il demonio, che al tempo della mia
gioventù mai e poi mai si sono udite di simili cose...
Maurilio, esaurita affatto ogni sua provvista di pazienza, fece un
tentativo infelice per isgusciare tra la portinaia ed il muro: ma sora
Ghita non era donna da lasciarsi vincere nè per sorpresa, nè per altro;
fu lesta a chiudere compiutamente il passaggio mettendosi davanti al
giovane, e continuò lo scroscio della sua parlantina.
— E dunque, Lei sa s'egli è vero che l'_avvocatino_, come lo chiamano
laggiù alla fabbrica, sia stato arrestato? E perchè poi? Si dice che
c'entra la prepotenza d'un gran signore col quale ieri sera ebbe un
battibecco alla festa da ballo..... Ma guardiamo un po' se questa è
ragione per arrestarlo.... ed anche i suoi amici!.... Io era così
impaziente, così fuori della grazia di Dio, per codesto, che volevo
correre con questo tempaccio fin colaggiù alla fabbrica ad udire un po'
che cos'era stato, a rischio anche d'avere un rabbuffo con quello
scontroso di mio marito, il più insopportabile uomo di questo mondo.....
e d'ogni mondo possibile.....
Maurilio stava per offendere la brava portinaia, mandandola con ira ai
centomila diavoli, ma Don Venanzio intromise colla sua solita dolcezza,
col suo sorriso tutto bontà, la sua mite parola.
— Noi non sappiamo nulla di preciso, mia cara signora Ghita; ma certo
v'è ogni ragione di credere che, come per Maurilio, così anche per gli
altri, l'autorità avrà riconosciuto il suo errore e si affretterà a
ripararlo. Errare è una cosa che succede a tutti, anche a chi comanda,
perchè da nessuno si può pretendere che sia infallibile, ma quando lo
sbaglio si corregge, allora non c'è più nulla da dire.
E con quel suo simpatico e benigno sorriso, spinse gentilmente da una
parte la portinaia, e per l'apertura che rimase, s'affrettarono egli e
Maurilio a guizzare.
Un quarto d'ora non era trascorso, ed ecco presentarsi alla vista delle
comari, sempre ancora intente a chiaccherare, l'allegra figura di
Giovanni Selva. E' se ne veniva col suo abituale piglio di buon umore,
canterellando un'aria di teatro, un sigaro acceso in bocca, come uomo
che se ne torna da una passeggiatina dopo un buon asciolvere. Come già
intorno a Maurilio, la portinaia colle sue compagne assaltarono al
passaggio il secondo venuto.
Selva, rimasto solo nel carcere, e non osando mai più sperare una sì
pronta liberazione, non era senza inquietudine di ciò che in quel
momento accadesse al compagno da cui lo avevano separato, di ciò che
avesse poi da toccare a lui medesimo. Per fortuna la sua ansiosa
aspettazione non fu di lunga durata. Come già erano venuti a prender
Maurilio, così accadde di lui, e nella medesima guisa fu egli condotto
innanzi alla faccia fieramente burbera del signor Commissario.
Il modo con cui questi accolse il giovane era tale da far agghiacciare
il sangue nelle vene a qualunque che non avesse la calma, la risoluzione
e la coraggiosa noncuranza di Giovanni. A costui l'intimata da farsi
doveva essere ben più aspra e terribile e romoreggiante di severissime
minaccie, perchè egli aveva osato ammaccare de' suoi pugni ribelli le
brutte faccie dei poliziotti rappresentanti della legittima autorità.
Era pur vero che que' malcreati di scherani colla prepotenza codarda del
numero e dell'impunità assicurata se n'erano vendicati coi
maltrattamenti che sappiamo; ma tuttavia il solenne principio che il
suddito deve lasciarsi battere e dir grazie, porgere le spalle al
bastone e baciar la mano che lo regge, principio su cui, secondo il
signor Tofi, deve fondarsi ogni ben regolata società, codesto principio,
dico, era stato gravemente offeso da que' tali scopozzoni somministrati
da Giovanni, e bisognava guarentire da ogni ulteriore contusione la
santità del principio e il naso degli sgherri. Un tiranno da dramma di
arena in giorno di festa, che ha dietro la quinta il carnefice già bello
e pronto coi calzoni rossi e la barbaccia finta al mento per comparire
al primo olà muggito in voce di basso profondo, non accoglie più
ferocemente il primo amoroso cui sta per mandare al patibolo, di quello
che fece il Commissario verso il nostro Giovanni. La voce reboante del
signor Tofi, dall'alto del suo cravattino duro tuonò come un temporale
dalla montagna. Il colpevole che gli stava dinanzi era degno della
galera e peggio; a tanto misfatto l'orrore dei buoni si doveva e la mano
vindice del carnefice; del 33 avevano ricevuto un'oncia di piombo nella
testa pervicace dei birboni di ribelli che appetto a Selva erano
agnellini di candore governativo e d'ubbidienza e rispetto all'augusto
legittimo Sovrano[5]. Ma del feroce discorso quanto più inaspettata,
tanto gradita fu la conclusione all'orecchio del giovane: ed era che per
intanto gli si dava il largo. Giovanni aveva ascoltato tranquillo le
invettive e le minaccie del Commissario, come un modesto ascolta i
complimenti che gli si fanno, senza chinar punto gli occhi innanzi alle
fiere pupille che lucicchiavano sotto la gran tesa del cappellone che il
signor Tofi teneva insolentemente piantato in testa; all'annunzio finale
della sua libertà restituitagli, il giovane ebbe la forza di continuare
nella medesima apparente impassibilità, ma il cuore gli si mise a
saltellare allegramente nel petto, e confessò egli stesso di poi che il
giuoco dei polmoni nel rifiatare gli divenne di subito più libero e più
facile.
[5] Oggi codeste maniere dei graziosi Commissarii di polizia
d'un tempo sembreranno favole ed esagerazioni; ma io faccio
appello alla memoria di chi ebbe il disavantaggio d'esser
giovane prima del 1848, e ognuno di essi son persuaso dirà che
io sto ancora al di qua del vero.
Ma le prove di Giovanni non erano ancora finite. Il signor Tofi ebbe la
felicissima idea di volergli far giurare, prima di dargli il volo,
ch'egli d'or innanzi sarebbe un esemplare di suddito veneratore del
trono e dell'altare, rispettoso d'ogni agente del Governo dal primo
ministro al cane dell'usciere, dal cappello gallonato del generale alla
cassa dell'ultimo tamburo dell'esercito, dalla toga rossa del senatore
alle manette dello sgherro.
Giovanni si dimenticò d'essere un avvocato per ricordarsi soltanto che
era un uomo schietto a cui ripugnava un falso giuramento anche imposto
dalla prepotenza. Non cercò sotterfugi, non ricorse a restrizioni
mentali, non addusse sofismi; guardò ben bene in faccia il Commissario e
disse francamente ch'egli apparteneva alla setta dei Quaccheri i quali
di giuramenti non ne facevano mai nè anco per salvarsi dalla morte.
Il signor Tofi aveva il più stretto dovere di salire in una collera
ufficiale, e non ci mancò. Pensò un momento seco stesso se non aveva da
rimandare nel carcere questo sedicente quacchero a maturare una più
conveniente risoluzione; ma poi non ardì farlo ricordando le parole del
conte Barranchi e l'ordine di liberazione venuto direttamente dal Re. Si
contentò di fare scrosciar nuove minaccie sul capo del pervicace: che
già l'autorità aveva l'occhio aperto su lui e sui suoi pari, e guardasse
bene che al primo piccolo motivo di sospetto avesse dato, l'artiglio
della polizia l'avrebbe preso di nuovo e per non lasciarlo più così di
piano.
Selva salutò rispettosamente, uscendo, i cannoni che allora stavano
appostati sotto l'atrio del Palazzo Madama, e confessò che quando si
trovò fuori del portone al fioccar della neve che veniva giù fitta
fitta, gli parve che quella giornata fosse più bella che una giornata di
sole, e fu con un gusto tutto nuovo che accese il suo sigaro da un soldo
in presenza dell'imponente facciata del castello in cui aveva sede
l'orco della Polizia.
— Cara sora Ghita: disse Giovanni Selva alla portinaia rinfiancata dalla
frotta fedele delle sue comari; sì, eccomi restituito alla libertà, agli
amici, alla poesia ed a Lei. Come mi hanno arrestato? Colle manaccie di
certi _arcieri_, più sporche della coscienza di un ladro. Perchè? Perchè
quei furbi della Polizia, che leggono i pensieri nel cervello di una
mosca, si sono immaginato che io ed i miei amici volessimo portar via le
statue che stanno sul Palazzo Madama. Visto che le non ci entravano in
tasca, hanno capito che eravamo innocenti e ci hanno mandati con Dio,
senza darci manco da colazione. Tenga a mente questa esposizione di
fatto, e la tramandi pure ai posteri, se la può, chè la storia ne
trasmette loro difficilmente di più esatte e fedeli.
Ciò detto, abbracciando scherzosamente la vecchia portinaia, la tirò da
parte per aprirsi il varco, e distribuito a manca ed a sinistra alcuni
di quei suoi schietti ed allegri sorrisi, corse lesto verso le scale,
cui salì a due scalini per volta, seguitando a canterellare allegramente
la sua arietta.
Le cose dette da Selva non appagarono così compiutamente la curiosità
delle donne che non avessero più materia di chiacchere e d'induzioni da
mantenere vivo il colloquio per un'altra buona mezz'ora.
Ed ecco, a capo di questo tempo, presentarsi agli occhi della portinaia
una persona la cui presenza era fatta apposta per interessare vivamente
la vecchia ciarlona curiosa: il falso operaio della sera innanzi,
l'interrogatore astuto ed insinuante, quello sconosciuto cui monna Ghita
aveva trovato rassomigliare al _fumista_ di via Santa Teresa, in una
parola l'agente di Polizia, Barnaba.
Costui abbiamo visto, uscito dal Palazzo Madama, dopo il colloquio col
Commissario, indirizzare i suoi passi verso l'osteria di mastro Pelone.
Ciò che colà vi facesse e dicesse questo personaggio è giovevole che
sappiamo per comprendere alcuni degli avvenimenti che avremo da narrare.


CAPITOLO VI.

Quando Barnaba entrò nell'osteria non vi erano punto avventori; Andrea,
Marcaccio e Graffigna n'erano usciti già da un'ora; Pelone stava
accoccolato a suo modo dietro il banco in fondo alla bottega; Maddalena,
ritta innanzi ad uno specchietto sporco che era appiccato ad un luogo
della parete presso la botola da cui si scendeva nelle stanze
sotterranee, stava guardandosi con compiacenza ed aggiustandosi un
nastro nelle chiome; Meo, mezzo inginocchiato, mezzo seduto presso il
braciere, di cui sommuoveva di quando in quando le braci con una paletta
di ferro, Meo colla sua aria d'imbecille stava mirando la Maddalena come
un gatto mira una polpetta che gli suscita una maledetta voglia, ma cui
la paura della cuoca presente gl'impedisce di ghermire.
Il bravo mastro Pelone, le ginocchia levate fino a mezzo il curvo petto,
le mani sulle ginocchia e il mento sulle mani, gli occhi chiusi e il
naso madornale volto a terra, immobile e senza pur mandare uno sbruffo
di quella sua tosse cavernosa, avreste detto che dormiva. Il fior di
galantuomo invece stava pensando ai casi suoi.
Penetriamo sotto quel cranio color d'avorio ingiallito, coperto da quel
berretto sporco, e vediamo che razza di pensieri sobbollano nelle
ripiegature di quel cervello.
— La mia condizione non è delle più facili. Sono fra l'incudine e il
martello, tenendo per questo e per quello, e corro rischio d'essere
picchiato frammezzo a loro. Ho paura di non poter continuare a lungo in
questo giuoco di barcamenarmi fra tuttedue; converrà che una volta o
l'altra mi getti addirittura e compiutamente, da una parte; ma da qual
parte? Eh! la _cocca_ ha pure una gran forza. Ho visto io che ha
resistito a tutte le persecuzioni ed a tutte le arti della Polizia; e vi
è quel diavolo d'un _medichino_ che ha un talento ed un valore da
doverne far caso..... Certo se mancasse lui!.... Ma farlo cadere non è
mica impresa tanto facile..... E poi ci avrei io il mio interesse? Anche
tolto lui di mezzo, la _cocca_ esisterebbe; e vi sono certi individui
colà dentro che vendicherebbero ad ogni modo ogni danno recato alla
Società ed al suo capo..... La _cocca_ inoltre mi frutta bene... D'altra
parte la Polizia è cosa ancor essa con cui si deve fare i conti; e poi
l'è roba di Governo; ed io sono pel Governo..... Quel Barnaba è un furbo
che mi pare abbia subodorato qualche zinzino del vero..... Se la cosa
venisse scoperta da altri, e ch'io rimanessi compromesso?.... Sarebbe
pur meglio che io allora mi facessi merito presso il Governo, e per
virtù di questo merito, salvassi la pancia e le robe!.... Il _medichino_
vuol conoscere di persona Barnaba: s'e' lo conosce, Barnaba è bello e
spacciato; Barnaba da lungo tempo viene manovrando per conoscere la
realtà dell'esistenza ed anzi le sembianze del _medichino_: e s'e' lo
vede mai, Quercia è fritto..... Io posso contentar l'uno o l'altro; e da
me dipende la catastrofe..... Che cosa ho da fare?.... Se soddisfacessi
i desiderii di tutt'e due? Lascierei così che facesse vincere, dei due,
quello che vuole la Provvidenza.....
Appunto in quella entrava Barnaba, il quale, non ostante la forza
ch'egli possedeva su se medesimo e l'abitudine che aveva di
padroneggiarsi, era tuttavia sconvolto nelle sembianze pel profondo e
vivissimo scotimento che aveva avuto nel suo colloquio col Commissario.
Nel venire in quel luogo egli aveva un disegno non ancora ben definito,
ma fissato nelle generali, del quale era precipuo elemento il potere
trovarsi un momento da solo con quell'imbecille di Meo, su cui aveva
fatto alcun fondamento, abile com'egli era a sapersi giovare
degl'interessi e delle passioni degli uomini come d'altrettanti
stromenti.
Appena entrato, vide che per quel momento la cosa gli era impossibile.
La presenza di Pelone e di Maddalena era un ostacolo insuperabile. Non
mostrò il menomo disappunto, ed avanzandosi verso il bettoliere gli
disse con accento di premura e di conturbamento che niuno, per quanto
acuto osservatore, avrebbe potuto dire se sincero e reale:
— Ho bisogno di parlarvi, e subito.
Pelone si alzò lento lento a modo suo, guardando intorno coi suoi occhi
semispenti dal fondo delle occhiaie infossate.
A Barnaba era nato in mente di botto un subito e nuovo disegno.
— Parlarmi! pensava l'oste: lo conduco dunque di là. Bell'occasione pel
_medichino_ di vedere, come desidera, codestui... Se lo mandassi ad
avvertire?... Ah sarebbe un tradire la promessa che ho fatto e la