La plebe, parte III - 04

intelligenze irrequiete, mosse ordinariamente da una ambizione che non è
neppur condannevole, si possono agevolmente acquistare alla buona causa
mercè qualche benignità e favore; e primo favore oggidì per codestoro è
un generoso perdono.
Carlo Alberto guardava innanzi a sè coll'occhio appannato, e pareva
immerso in una profonda meditazione.
— I momenti sono molto gravi: diss'egli poi lentamente, con parola quasi
mozzicata e voce contenuta; i tempi sembrano preparare chi sa che
difficoltà e pericoli. Nelle ombre, sotto lo strato apparentemente
tranquillo della società, si agitano passioni parecchie, diverse, ed
alcune feroci. L'empia opera contro l'altare ed il trono si va
propagando sordamente coll'arte delle congiure e coll'audacia delle
ispirazioni diaboliche. Tutte le relazioni che ricevo da ogni parte si
accordano a certificare il pericolo. Il nuovo Pontefice solo colla sua
clemenza non par egli aver data ansa ai più audaci propositi dei
liberali italiani? Di Francia giungono spaventose notizie di
cospirazioni, di tendenze sovvertitrici peggiori di quelle del tempo del
terrore, cui troppo si teme che la monarchia parlamentare sia debole per
contenere e reprimere. In tali epoche di crisi conviene egli esser
clementi?...
S'interruppe e tacque un istante, immobile nel suo atteggio, come
impietrito, senza volgere pure uno sguardo al suo interlocutore.
— Una modificazione degli ordini esistenti? Riprese egli poi, quasi
parlando a se stesso. Quella benedetta gioventù non dubita di nulla.
Quale modificazione? Non sono dunque mai soddisfatti questi indiscreti
di novatori! Dacchè Dio mi chiamò al trono fu un continuo introdurre di
tutte le migliorie possibili in ogni ramo della pubblica azienda. Ma
essi vogliono l'impossibile!... Marchese, Ella mi disse che in quello
scritto c'era dell'ingegno e c'erano molte idee.
— Sì, Maestà.
— Non è dunque un tempo sciupato il gettarvi sopra gli occhi?... Voglio
vederlo.
Baldissero s'inchinò in segno di ubbidiente assentimento.
— Esser clemente! continuò il Re con una specie di sospiro: è pure
codesto il mio più caro desiderio.... Avrei voluto esserlo sempre.
Una nube sembrò passare sulla sua fronte; e la luce del suo sguardo
parve offuscarsi maggiormente. Forse pensava alle fatali fucilazioni
d'Alessandria.
— Ma un re, soggiunse con alquanto più di vivacità, può essere clemente
per tutte le temerità che minacciano la sua persona soltanto, ma quando
è il trono che si vuole assalire, quando è la dignità della corona che è
offesa, quando in noi è ferita quella sacra istituzione che
rappresentiamo: la monarchia; allora è dovere — ah! crudele dovere — in
un re l'essere inesorabile.
— Sire: disse il marchese, poichè il Re si fu taciuto; come ho già avuto
l'onore di accennare, io continuo a credere che in questo caso...
Carlo Alberto lo interruppe facendo un cenno colla mano che tolse da
sostenere il mento e che con lenta mossa ripose, richiusa a pugno, sul
piano della tavola.
— Io non parlo di questo caso. Parlo in generale.
Vi fu di nuovo una pausa di pochi minuti secondi.
— Sa Ella, marchese, ripigliò a dire il Re schiudendo le pallide labbra
ad un pallido sorriso; sa Ella che poc'anzi il conte Della ***
propugnava qui la causa precisamente contraria a quella da Lei
sostenuta? Egli vuole la severità.
— A V. M. l'apprezzare quale delle due cause sia più degna di Lei.
Carlo Alberto estinse ad un tratto quel lieve sorriso che gli aleggiava
sulle labbra, chinò il capo e si tacque.
— Il conte Della ***, continuò il marchese, ha egli prove maggiori di
quelle ch'io conosca della colpevolezza pericolosa di que' giovani?
— Ha delle presunzioni... che hanno un certo valore... Una prova però
sarebbe quella che sotto nome finto e sotto le spoglie d'un artista di
canto avesse strettissime attinenze con quei giovani un tal emigrato
romano, ribelle alla Santa Sede, audacissimo rivoluzionario.
— Ma la cosa mi pare quasi affatto esclusa. Il conte San-Luca ha
affermato a suo zio Barranchi che questo tale è precisamente quel che si
spaccia e non altro.
— Venne ad affermarlo anche il duca di Lucca.
Le labbra del Re tornarono a stirarsi in quel cotale fugace e leggiero
sorriso.
— Ma egli è una testa così sventata!
Quel sorriso scomparve, come quell'altra volta, di botto.
— Fra quei giovani, soggiunse con una serietà quasi cupa, ve ne son due
che commisero reati precisi e non lievi. L'uno ier sera al ballo
dell'Accademia, noi presenti, oltraggiò un impiegato di Corte, il
figliuolo d'un alto dignitario dello Stato; l'altro, questa mattina, si
ribellò agli agenti della forza pubblica.
— Sire: disse con fermo accento il marchese: il primo fu aspramente
provocato, e se in lui si vuol proseguire la colpa, conviene che anche
il suo provocatore sia soggetto al medesimo trattamento.
— Ma questo a cui Ella allude, è suo figlio, marchese.
— Sì, Maestà.
— Va bene: disse allora il Re ponendo lentamente la sua mano sulla
destra del marchese. Sarà perdonato a tuttidue..... Ma e quell'altro che
fece resistenza alla forza pubblica?
— Quegli agenti non erano in montura; la colpa di quel giovane
sconsigliato mi sembra abbia da giudicarsi perciò molto minore.
Carlo Alberto si alzò e il marchese fu sollecito a levarsi ancor esso.
— Il conte Della *** andrà in collera: disse il Re facendo ancora una
volta quel suo sorriso; ma io do ragione alla causa della clemenza
propugnata così bene.
— La causa della clemenza, disse il marchese, non ha bisogno d'essere
propugnata da nessuno innanzi alla Maestà Vostra. Le parla abbastanza
l'anima sua.
Carlo Alberto non rispose.
— Ah! diss'egli poi, una condizione marchese.
— Comandi, Maestà.
— Quel giovane avvocato ebbe una contesa con persona che molto presso a
Lei appartiene. Desidero (e pesò su questa parola) che siffatta contesa
si ritenga come assolutamente terminata e non abbia conseguenza di
sorta.
— Sire; ogni menomo suo desiderio è un ordine a cui i Baldissero saranno
sempre lieti di obbedire.
— Sta bene: disse il Re con inesprimibile grazia d'accento e di
guardatura.
Poi chinò lievemente la testa in una specie di saluto.
— Attendo quel manoscritto, marchese: soggiunse come per ultime parole
di commiato.
Ma Baldissero pur facendo un profondo inchino, non accennò partire.
— Supplico ancora un istante d'udienza da V. M. È un'altra grazia che ho
da domandarle.
— Quale? Interrogò Carlo Alberto atteggiandosi a quella mossa
naturalmente dignitosa, che dava tanta imponenza alla sua persona.
— Il cavaliere d'Azeglio chiede di essere ricevuto da V. M.
— Ah! Massimo? domandò il Re con qualche maggiore interesse di quello
che mostrasse ordinariamente.
— Sì Maestà.
Carlo Alberto, come sempre, indugiò alquanto a dare la risposta. Il suo
sguardo incerto pareva andar vagando traverso i cristalli tersissimi
della finestra sulla sottoposta Piazza Reale, in cui erano soltanto i
lavoratori che spazzavano la neve, e più in là nella vasta Piazza
Castello dove rarissimi e frettolosi i passeggieri sotto al lento
fioccare della neve che continuava.
— Può dire al cav. D'Azeglio, disse poi, come per determinazione
subitamente presa, che lo riceverò domani mattina alle sei.
Era quella l'ora solita in cui Carlo Alberto usava dare le udienze
confidenziali.
Il marchese ripetè il suo profondo inchino e partissi. Mezz'ora dopo un
bigliettino recato dal lacchè del marchese all'albergo Trombetta
avvisava Massimo d'Azeglio dell'ottenutogli favore.
In pari tempo un altro domestico si affrettava verso l'officina Benda
con un'altra letterina scritta dalla contessina Virginia a Maria la
sorella di Francesco.
Il marchese, appena rientrato nel suo palazzo, erasi recato egli stesso
nelle stanze della nipote, dove stava ancora il buon Don Venanzio, il
quale aveva per la nobile fanciulla, più che simpatia, stima,
ammirazione ed affetto grandissimi.
— Caro Don Venanzio, aveva egli detto al vecchio parroco, fra poche ore
Ella potrà abbracciare il suo raccomandato. Virginia, puoi mandar detto
alla tua compagna di collegio che di quest'oggi stesso le sarà
restituito suo fratello. Il Re volle tutto perdonare.
— E Dio benedica il Re! esclamò il sacerdote con voce commossa.
— Una buona novella non giunge mai troppo presto: disse madamigella
Virginia alla quale il piacere provato dall'annunzio datole dallo zio
aveva lievemente arrossato le guancie e fatto brillare lo sguardo;
chiedo adunque licenza di scriver subito la lieta notizia a madamigella
Benda.
— Hai ragione: disse paternamente sorridendo il marchese. Lasciamola
fare, Don Venanzio; e s'Ella desidera veder presto il suo protetto, io
la indirizzerò al _Comandante_ perchè le contenti questo suo desiderio.
Chi sa che l'ordine di rimettere in libertà quel giovane non sia già
venuto, ed Ella non possa condurselo seco fuori del Palazzo Madama!
— Come quell'altra volta, esclamò Don Venanzio, in cui Ella pure mi fece
ottenergli la libertà, e sono stato io a recargliene la novella.
— Uno di questi giorni, soggiunse il marchese; il più presto possibile,
anche domani, mi farà un piacere, Don Venanzio, se mi condurrà quel
giovane.... Ho gran desiderio di parlargli; e forse il colloquio che
avremo non sarà inutile per lui.
— A quell'ora che sarà più comoda a V. E. io glie lo presenterò
sicuramente.
Quando il buon parroco si fu avviato verso il Palazzo Madama con una
commendatizia del marchese pel _Comandante_, quando il lacchè fu spedito
all'albergo Trombetta colla lettera per Massimo d'Azeglio, Baldissero
s'informò se suo figlio era in casa, e udito di sì, ordinò gli si
dicesse che il padre lo aspettava nel suo salotto da studio.
— Ettore, disse il marchese al figliuolo appena fu entrato nel
gabinetto, S. M. ha benignamente acconsentito che l'avvocato Benda e i
suoi compagni fossero messi in libertà.
Il contino s'inchinò in modo che voleva significare esser egli di ciò
pienamente soddisfatto.
— Vi ho detto poc'anzi che vostro debito sarebbe quello di andar voi da
quel giovane che avete oltraggiato a tendergli primo la mano, e voi mi
avete risposto che ciò non fareste mai e che l'unico obbligo cui vi
credete di avere secondo le leggi d'onore, si è quello di rimettervi
nuovamente a sua disposizione per uno scontro.
— Persisto in questa mia opinione, e vi persisterò sempre: disse
alquanto seccamente il figliuolo.
— I Baldissero, Ettore, sono avvezzi ad ubbidire ciecamente ai cenni del
loro Re: e codesto io ricordava testè a Carlo Alberto, il quale mi
diceva essere suo volere che la vostra contesa con quel cotale non
avesse più conseguenze di sorta.
Ettore fece una mossa piena di superbia.
— Ma i Baldissero, io mi penso, non obbedirono mai a nessuno in cosa che
ritenessero lesiva dell'onor loro.
— I nostri antenati, maestri in fatto di giusta suscettività d'onore,
non iscambiarono mai per essa un puntiglio di ripicco... Del resto,
s'affrettò a soggiungere, voi siete oramai in età da avere la libertà
delle vostre decisioni e tutta la risponsabilità delle medesime. Io non
vi do che consigli. Ho creduto potere anche a nome vostro rispondere a
Sua Maestà con una formola di piena devozione. Fate voi poi a vostro
talento, contraddite pur anco alla parola di vostro padre; ma se
commetterete il fallo di trasgredire l'ordine del Re, ch'io stesso vi
trasmetto, mi recherò ai piedi di S. M. a supplicare io medesimo che si
degni farvi rinchiudere per parecchi mesi a Fenestrelle.
Il contino accennò voler parlare, ma si contenne; aspettò un momento in
silenzio, in apparenza indifferente e poi domandò:
— Posso ritirarmi?
Il padre gli fece colla mano un cenno di licenza. Ettore salutò ed uscì.
— Bella libertà di determinazione che mi si lascia... colla minaccia di
Fenestrelle: borbottava egli fra sè con rabbia repressa. E dovrò vedermi
innanzi quel borghesuccio e tacere! _Sacrebleu_!..... Il soggiorno di
Fenestrelle certo non mi sorride, ma se quel cotale ha la disgrazia di
venirmi a stuzzicare, _ma foi_!...
Ho detto che madamigella Virginia s'era affrettata a mandare un
domestico a casa di Benda con una sua letterina a Maria. Sperava la
nobile fanciulla di essere la prima a partecipare la felice novella a
quell'angosciata famiglia; e invece la era già stata prevenuta.
Il lieto annunzio era recato alla famiglia di Francesco dal dottor
Quercia che col trotto serrato del suo bel cavallo attaccato al leggero
ed elegante legnetto era passato innanzi al domestico che camminava a
piedi.
E come mai Quercia aveva egli saputo così presto questa buona novella?


CAPITOLO IV.

Il principe protettore di Zoe la _Leggera_, il quale dimenticava sui
sofà dell'elegante di lei _boudoir_ il suo gran collare dell'Ordine,
appena ricevuto il biglietto della cortigiana che lo chiamava, s'era
affrettato ad accorrere; e inteso di che si trattasse, riprendendo il
suo gingillo di decorazione, aveva promesso di ottenere quanto la donna
gli domandava, e sopratutto di farla pagare a quell'impertinentissimo
esploratore che aveva l'audacia di far la guardia intorno alla casa
della Zoe. Abbiamo già visto dal colloquio del marchese di Baldissero
col Re, come il Principe avesse parlato a Carlo Alberto, e dobbiamo
soggiungere che con tutta la sua autorità e con ogni insistenza aveva
raccomandato le due cose al conte Barranchi capo della Polizia.
Finito appena il colloquio col marchese di Baldissero, il Re aveva
mandato detto al Principe, che trovavasi ancora a palazzo, come volesse
soddisfare alle raccomandazioni da esso fattegli poco prima, e come
sulla fede di lui volesse ritenere per innocenti i giovani arrestati, e
restituirli alla libertà. — Il Principe, senza il menomo ritardo, ne
aveva mandato l'annunzio per un valletto alla Zoe, in casa la quale era
appunto tornato per saper le novelle Gian-Luigi, che grandissima
importanza, come sapete, metteva in codesto affare.
Quercia aveva avuta la subita ispirazione di recare egli stesso la
felice novella alla famiglia Benda. A dispetto di tutte le gravissime
cose ch'e' stava agitando, delle tante e ponderose preoccupazioni che ne
tenevan la mente, in lui era sempre tuttavia presente e non si smentiva
mai il libertino seduttore, quell'appassionata smania di turbare nuovi
cuori, di possedere nuove beltà, cui vieppiù solletica la pura
innocenza, quell'empia curiosità sensuale mai saziata, onde la poesia e
la tradizione hanno formato il tipo di Don Giovanni. L'ingenuo candore,
la grazia ancora quasi infantile, la non regolare ma piacevole, ma
freschissima leggiadria della sorella di Francesco, avevano piaciuto,
come dice il poeta, agli occhi suoi, e nella sua anima corrotta
suscitato un desìo, cui lo sciagurato era avvezzo a volere in ogni modo
soddisfatto. Gli suonavano ancora all'orecchio dolcissime le parole con
cui la giovinetta, tutto commossa, gli aveva promesso una eterna
gratitudine, s'egli riuscisse a salvare il suo diletto fratello; aveva
impresso nell'animo il mite sguardo supplichevole, onde quelle parole
erano state accompagnate; voleva sentirsi rivolgere con quella voce
soave la ricompensa d'un ringraziamento, con quegli occhi tanto
espressivi, il premio d'uno sguardo benigno.
E così fu. Coll'annunzio del prossimo ritorno di Francesco nelle pareti
famigliari, Quercia venne accolto da tutta quella desolata famiglia così
festevolmente ed amorevolmente che nulla più. La madre pianse di gioia e
lo benedisse; Giacomo colle sue maniere brusche e decise lo abbracciò
profferendo tutto se stesso e l'aver suo in servizio di quel messaggere
di lieta ventura; Maria gli strinse la mano, disse poche parole
accompagnate da un caro rossore, ma espresse tante cose, e più ancora di
quello che la si pensasse, col suo sguardo amorevole, brillante, umido
di lagrime.
Tosto dopo sopraggiunse il domestico di Virginia col biglietto di lei;
ma l'effetto da Gian-Luigi voluto e meditato era già tutto ottenuto.
Questo fatal giovane fu ammirevole di grazia, di cortesia, di
aggradevolezza. Alla giovane immaginativa di Maria apparve di molto
superiore per ogni verso a quanti altri giovani ella avesse ancora visto
mai. La sua bellezza, il suo brioso ingegno, le grazie de' suoi modi,
della sua voce, de' suoi animati discorsi, non potevano a meno che fare
una viva impressione nel cuore di una ragazza di molta sensibilità,
giunta a quella fase appunto della vita in cui, come i fiori nella
primavera, sboccia nell'animo il bisogno di amore. Voleva piacere e
piacque. Padre e madre ne furono incantati; ne rimase rapita la ragazza.
Ad un punto egli seppe insinuare destramente come avvenissero nelle
relazioni sociali certi fatti che di presente stringevano in amichevole
attinenza due individui, due famiglie, che prima od appena si
conoscevano o niente affatto. Di questo genere parevagli essere
l'avvenimento che quel dì l'aveva posto a contatto con quella casa. Di
Francesco prima d'allora era stato appena se conoscente; affermava
adesso parergli d'essere amico da tempo; coi parenti di esso non aveva
avuto mai la menoma relazione: gli era con vera commozione d'affetto che
ora si rallegrava d'aver potuto giovare in alcun modo a sollevarne il
dolore, di partecipare alla gioia ch'essi provavano, come aveva
partecipato al cordoglio di prima.
Il padre di Francesco ne prese occasione per esclamare che da quel
momento essi avrebbero ritenuto il loro generoso protettore, il zelante
loro amico poco meno che se fosse della famiglia; e lo scellerato,
interrompendo vivamente ed accompagnando le parole d'uno sguardo che
fece arrossare la giovinetta, uscì a dire:
— E così imploro che sia veramente; e volesse la mia buona fortuna che
io potessi davvero appartenere a questa egregia famiglia, che stimo ed
amo sopra ogni altra mai.
Erano accorte parole codeste che, indirettamente e senza comprometterlo
il meno del mondo, lo ponevano frattanto appetto a quelle brave e leali
persone come aspirante ad imparentarsi con loro, come pretendente alla
mano di Maria. Ciò aveva due effetti, ed era ciò appunto a cui
intendeva: gli dava tosto una maggior libertà verso tutti, e
specialmente con Maria, una domestichezza di cui egli faceva conto di
approfittarsi; inoltre atteggiandosi subito innanzi alla fantasia della
pura e virtuosa giovanetta come aspirante di cui sapessero e cui
aggradissero i genitori, sperava di meglio, era sicuro di entrare senza
contrasto nell'animo di lei.
Quando partì da quella casa il perfido Gian-Luigi recava seco la
simpatia più accesa del padre e della madre di Maria, e di questa povera
giovinetta la mente ed il cuore.
Il Re frattanto aveva mandato a chiamare il conte Barranchi. L'altezzosa
arroganza di costui divenne l'umile piacenteria d'un cortigiano innanzi
all'ombra di severo malcontento che copriva la fronte sovrana, come una
nube la cima dell'Olimpo.
Carlo Alberto, per quelle sue informazioni particolari che ho detto,
aveva saputo colle altre cose anche il modo barbaro ed indegno con cui
era stato trattato dagli agenti di Polizia nell'essere arrestato il
signor Giovanni Selva. Codesto gli aveva dispiaciuto moltissimo, tra
perchè alla sua natura in fondo mite e generosa ripugnava la incivile
prepotenza di quei mezzi in atti di cui per l'assolutismo del regime
sino a lui saliva la risponsabilità; tra perchè già era egli finalmente
un po' più inclinato, nel suo sino allora incerto oscillare, verso la
parte della popolarità e del liberalismo monarchico.
— Signor conte, aveva incominciato il Re, appena il Comandante della
Polizia ebbe fatto un arco della sua schiena di generale: duolmi che
l'evento d'oggi abbia da mostrare così tanto fallace la mia speranza che
le ho manifestato ieri: cioè non avessi ad udir più richiami di sorta
per eccessi della sua Polizia.
Barranchi drizzò un momentino la spina dorsale e tentò sollevare uno
sguardo all'altezza della faccia smorta del suo sovrano: ma vide che da
quelle labbra non aveva finito di scendere a lui la manna amara delle
parole di rimbrotto, e tornò a piegarsi sollecito in un arco più curvo
di prima.
— Per Torino oggi non si parla d'altro che dei maltrattamenti fatti
subire a quel giovane avvocato Selva, ed è una indignazione universale.
Così facendo non si fa rispettare il potere, gli si acquista odio. Dopo
le ammonizioni che avevo già avuta la spiacevole occasione di farle
altra volta a questo proposito, dopo le parole che le ho detto ieri sera
stessa, non credevo di aver più da farle un simil rimprovero.
Il conte, che non aveva già per natura e nelle circostanze ordinarie la
parola molto facile, a quest'intimata, se la sentì mancare affatto come
se la lingua gli si fosse annodata.
— Maestà, balbettò egli. Sire... Maestà. Creda... Sire...
Carlo Alberto ebbe pietà di tanta confusione; rispianò alquanto la sua
fronte corrugata e soggiunse con accento di voce mitigato:
— Capisco che simili eccessi sono da imputarsi agli agenti subalterni:
ma Ella, caro conte, deve inculcare ben bene ai suoi subordinati che si
guardino oramai dal cadere in tali errori che non voglio assolutamente
si rinnovino più.
Il nuovo tono del discorso e la parola _caro_ che suonò al suo orecchio
come una melodia fecero del generale dei Carabinieri reali quello che di
Dante (se questo paragone è lecito) le parole di Virgilio, quando lo
rianimi a imprendere il cammino per la valle dolorosa:
«Come i fioretti dal notturno gelo
Chinati e chiusi, poi che il sol li imbianca,
Si drizzan tutti aperti in loro stelo;»
così si ridrizzò la persona impettita del generale e si rasserenò la sua
faccia raumiliata. Sulla sua anima risplendeva di nuovo a riscaldarla un
raggio della grazia sovrana, il sole di quelle piante parassite da stufa
di Corte.
— Sì, Maestà, gli è il fatto degli agenti subalterni: potè egli dire
allora con abbastanza di scioltezza nella loquela: e procurerò che
codesto non abbia da succeder più.
Carlo Alberto fece il suo pallido lieve sorriso e chinò leggermente il
capo in segno d'approvazione.
Questo più vivace raggio di sole abbacinò il povero conte; e non gli
lasciò più discernere la vera strada: credette d'avere una idea felice e
diede tosto in un inciampone.
— Quantunque, aggiunse egli, tutto superbo della sua ispirazione, delle
ciarle di quattro arfasatti di borghesi che si danno le arie di
costituire l'opinione pubblica, non si ha poi da prendersi la menoma
cura. V. M. non avrebbe che da desiderarlo, ed io prendo l'impegno di
far tacere tutti quanti e di far disdire chi ha parlato, in men di
mezz'ora.
Il Re tornò a corrugare la fronte; e il Comandante della Polizia rivide
con ispavento tutto nuvolo il suo orizzonte.
— Vedo che non ho la fortuna di farmi capire da Lei: disse colla sua
voce lenta e cascante Carlo Alberto; o ch'Ella non ha desiderio e
volontà di capirmi.
Non capire il suo Re! Non desiderare e non volere capirlo! Un servitore
come quello! C'era da mandarlo alla disperazione per una simile accusa.
Barranchi nel suo dolore trovò l'ardire e l'eloquenza delle più vivaci
proteste. Il Re lo lasciò parlare guardando traverso la finestra, con
occhio sbadato, la neve che continuava sempre a fioccare. Quando il
conte ebbe esaurito il suo sacco non troppo voluminoso di frasi, di
giuramenti e d'interiezioni, Carlo Alberto continuò in quel suo
atteggiamento in cui pareva pensare a tutt'altro, e lasciò il generale
sotto il grave peso del più impaccioso silenzio. Il cortigiano
poliziotto sudava freddo. Lo sguardo plumbeo del Re si sviò finalmente
dalla piazza reale deserta e si posò sull'uomo dal petto ingemmato di
decorazioni, che gli stava dinanzi.
— Converrà, signor conte, disse il Re, non toccando più l'argomento di
prima, che Ella dia gli ordini opportuni perchè i giovani arrestati
sieno rimessi in libertà.
Barranchi s'inchinò. Era questo uno degli ordini che eseguiva meno
volontieri: l'ordine contrario invece la trovava sempre disposto ad
obbedire con entusiasmo; ma tuttavia s'inchinò profondissimamente.
— Però prima di rilasciarli, quei malintenzionati avranno da ricevere
un'ammonizione..... una piuttosto severa ammonizione..... perchè
imparino a non dilettarsi di pericolose letture sovversive, a non
isparlare di quel potere che la Provvidenza ha voluto si raccogliesse
nelle Nostre mani ed a non tentare di sfatarlo. Quanto all'avv. Benda
soprattutto gli si farà sentire tutta la sua colpa nel contegno tenuto
ieri sera, e inoltre gli si dovrà imporre la promessa che egli non avrà
l'audacia più di provocare in alcun modo il conte di Baldissero.
L'inchino del generale oltrepassò il superlativo della profondità.
Congedato dal Re, Barranchi corse a casa sua e mandò a chiamare con
premurosi ordini il Comandante della cittadella dove era ritenuto
Francesco Benda, e il commissario Tofi.
Al primo diede le istruzioni perchè il prigioniero fosse mandato sciolto
col voluto accompagnamento di ammonizione e d'intimazione; al
commissario Tofi, che ricevette il secondo e che ritenne in più lungo
colloquio, fece una sfuriata maledetta che era il minore sfogo cui il
bravo generale si potesse concedere pel dolore e il crudelissimo
disappunto di avere incontrato il malcontento del suo Re.
Ah! com'era fiero, ah! come stava diritto impettito, ah! come appariva
imponente nella sua divisa e colle sue decorazioni che specchieggiavano
sul suo largo petto il bravo generale! Ora egli era che stava
rampognatore con un subalterno in condizione di colpevole; ciò che aveva
preso di su egli rendeva di sotto con aumento di dose, generoso come
egli era in questa razza di affari. Tofi, la faccia ispida più del
solito, il mento quadrato appoggiato fermamente al suo duro cravattone,
le sopracciglia aggrottate e lo sguardo chino a terra per deferenza al
suo superiore, immobile e dritto come un soldato in servizio, aveva un
contegno assai meno raumiliato e confuso di quello che avesse poco tempo
innanzi, il superbo, prepotente conte Barranchi, in cospetto del Re.
— Ecchè? gridava il generale andando su e giù del suo gabinetto con
passo che suonava secco sul pavimento e faceva quasi tremar le pareti
come un peso che cadesse ad ogni volta per terra, ecchè? gli è così che
mi obbedite, così che si rispettano i miei ordini? Che cosa vi ho detto
questa stessa mattina, quando siete venuto a disturbarmi in sì
indiscreta maniera?
— Signor conte: disse con rispetto ma senza la menoma confusione il
Commissario: questa mattina io sono venuto appunto a pregarla di darmi
le norme opportune di agire, e non ho fatto cosa che non fosse secondo
le sue istruzioni.
— Le mie istruzioni un corno: proruppe sbuffando il nobile Capo della
Polizia. Vi ho detto che lasciavo a voi la risponsabilità di tutto, vi
ho detto che guai a voi se mi buscavo un rabbuffo da S. M. E me lo sono
buscato, e che rabbuffo!... Non sapete mai far altro che compromettere i
vostri superiori voi!
— Signor conte: riprese il Commissario impassibile, se volesse
specificarmi in che cosa propriamente ho meritato queste sue severe
parole...
— In che cosa? Ah in che cosa?.... E me lo domandate? Chi è quello
sciagurato figliuolo d'un asino che ha fatto la perquisizione in casa
Benda ed arrestato quel cotal Selva?
— Gli è l'agente Barnaba.
— E va bene.... Lo sapevo ch'era lui!.... Gli è sempre lui che ne fa
delle belle.... Già è il vostro protetto.... Voi lo portate sempre in
palma di mano.
— È un agente, disse coraggiosamente Tofi, di cui in verità non posso
che lodare l'intelligenza e lo zelo.
— Bell'intelligenza! bel zelo! gridava sempre più furibondo il generale,
che si ricordava allora i lagni fattigli poc'anzi di quel medesimo dal
duca di Lucca e la raccomandazione di levarglielo dai piedi. In alto si
è indignati del modo con cui si è proceduto all'arresto di quel Selva
che il diavolo si portasse anche lui; in alto si vuole che si vada coi