La notte del Commendatore - 20

tedio invincibile della vita parlamentare, come già di tante altre
bellissime cose.
Tedio, moralità di tutte le favole umane!


CAPITOLO XVIII.
Nel quale si narra di un ballo a Corte e di quello che ne seguì.

Quando il tedio s'impadronisce di noi, il miglior rimedio è quello di
portarcelo insieme a viaggiare, e quanto più lontano si può, colla
speranza che svapori per istrada, o un doganiere ce lo sequestri al
confine. E dico colla speranza, perchè veramente il miglior rimedio
non è sempre il più sicuro, e in molti casi non giova. Il più sicuro,
che poi a sua volta non può dirsi il migliore, è quello d'innamorarsi.
È infatti opinione dei più reputati filosofi, che di tutte le cose di
questo mondo, usando ed abusando, può l'uomo a lungo andare noiarsi;
della donna mai.
Anch'io, senza esser filosofo, quando avrò passato i settanta, o giù
di lì, vi darò il frutto delle mie osservazioni in proposito. Ma già,
lo prevedo, quand'anche la triste vecchiaia abbia a guastarmi il
palato, ci sarà sempre qualche nepote birichina, che mi farà vedere
l'ultima delle opere di Domineddio, sotto un aspetto nuovo e caro; mi
scompiglierà la parrucca, mi metterà gli occhiali sul naso alla
rovescia, mi porterà dei fiori e dei baci per l'ultimo mio compleanno,
e mi farà ripetere per la centomillesima volta: ottima cosa è la
donna!
La verità è questa, che quando non viviamo più per le nostre passioni,
viviamo per quelle degli altri. Si soffia sulla cenere, e ci si trova
ancora qualche po' di cinigia. _Agnosco veteris vestigia flammae._ Il
figlio, l'amante, il marito d'una volta, è diventato il babbo, il
nonno, lo zio. Si è sempre gli antenati di qualcheduno; posteri
passati, come diceva Arlecchino.
Ora, se permettete, do un'occhiata all'onorevole Ariberti, che non
vorrei avesse a farmene qualcuna delle sue. Non già ammazzarsi a
cagione dell'umor nero, che diamine! Il nostro eroe non era un
inglese, e la malattia gli girava per un altro verso. Anzi, vi dirò
che in quel tedio profondo incominciava a muoversi qualche cosa
d'insolito e di mal noto, come l'embrione del pulcino nel tuorlo
d'uovo, sui primi giorni di covatura. L'immagine non è bella; ma
ringraziatemi, poteva essere peggiore. Ariberti era in un periodo
strano, d'incertezza, di malavoglia e di curiosità ad un tempo;
sentiva che a quel modo non la poteva durare; avrebbe voluto esserne
fuori, ma non riusciva ad intendere come ne sarebbe venuto a capo.
Se fosse stato di primavera, il nostro Ariberti avrebbe strappato un
congedo e sarebbe andato a veder sbocciare le pratelline sui colli
delle sue Langhe; unico spettacolo che potesse consolare il suo
spirito infermo e riconciliarlo col mondo. Ma era d'inverno, e non
seppe far altro che mettere la sua noia in abito nero e cravatta
bianca, per portarla ad un ballo di Corte.
Ci andava per la prima volta. Deputato d'opposizione e poco amante
delle cerimonie, aveva sempre sentito per simili feste una ripugnanza,
di cui non si era fermato mai ad indagar le ragioni. C'entrava forse
in quel sentimento un pochino di salvatichezza naturale; e questa, che
vuol sempre trovar le sue scuse, gli bisbigliava nel tempo passato di
non imitar la farfalla, di non aliar troppo intorno al lume.
Eppure, eccolo là, anche lui, al ballo di Corte! _Quantum mutatus ab
illo!_ Come diverso da quell'Ariberti ritroso a cui tutte quelle umane
vanità mettevano i brividi addosso! Ed anche allora, notate, anche
allora gli parevano vanità; senonchè, gli pareva anche più vano il dar
loro l'importanza di un caso di coscienza.
D'altra parte, in che operava egli diverso da tutti i suoi colleghi? E
non era egli poi nella condizione più libera tra tutte, cioè quella
del deputato senza vincoli, o, se meglio vi garba, del partigiano in
congedo illimitato?
Queste ragioni, dopo tutto, valgono poco o nulla a fronte di
quell'altra che muoveva Ariberti, il desiderio, la malacìa dell'ignoto
e del nuovo. A fatti psicologici, ragioni psicologiche. Una voce
interna gli diceva di andare; una forza arcana lo sospingeva. E a cui
paressero sottigliezze, indegne d'un animale ragionevole, risponderemo
coi fatti. Non è egli vero che dallo andare più da una parte che da
un'altra dipende il più delle volte la nostra giornata, e che una
giornata può chiamare l'altra? È opera del caso, si dirà. Or bene, il
caso tirava Ariberti laggiù. Il nuovo Saulo andava a caso, ma a caso
pensato, sulla strada di Damasco.
Seguitiamo adunque la noia, in abito nero e in cravatta bianca,
dell'onorevole Ariberti. Colà dove egli è andato, ne troveremo altre
in buon dato, che, sommate insieme, potrebbero dare un bel peso. Ma
queste, faremo di cansarle, quantunque in una festa ufficiale si corra
il pericolo di farci a gomitate.
Anche il nostro eroe la pensava come noi, perchè si strofinò poco ai
crocchi parlamentari, ai gran cordoni, ai gran collari, ecc., ecc.
Amava meglio osservare il bel sesso, con cui da gran tempo viveva,
dirò così, in rottura diplomatica, e notò con piacere, misto ad una
certa malinconia, che la nuova generazione delle figlie d'Eva, anche a
Torino sosteneva degnamente la fama di bellezza e di grazia austera,
che è inseparabile dal nome della donna italiana. Io metto pegno che
l'onorevole Ariberti, abbacinato da tutto quello splendore di sete e
di trine, da tutto quello scintillìo di diamanti, da tutta quella
perlagione di carni, s'augurò per un istante di esser Paride e d'avere
un pomo tra mani. Ma ohimè! se le dee moderne apparivano così poco
vestite come le antiche, per contro i pastori moderni non avevano alla
mano que' mezzi semplici e sicuri di acquistarsi la loro benevolenza,
che aveva avuti l'antico pastore di Frigia.
Ariberti aveva riconosciuto tra quelle gentildonne che gli passavano
davanti, al braccio dei cavalieri, qualcuna delle sue e nostre
conoscenze antiche; come ad esempio la baronessa Vergnani, che aveva
ancora il _pied d'Andalouse_, ma non più la _taille de guêpe_, che
faceva andare in visibilio il conte Candioli; e la marchesa di San
Ginesio, sempre bella, a malgrado degli anni, sempre ammirabile pel
suo aspetto di Giunone. Il nostro amico notò con piacere che poteva
guardarla senza desiderio, come senza rancore, segno che non era più
innamorato, nè impermalito con lei. E questo s'intenderà di leggieri
per Ariberti, che non era un cattivo ragazzo e non seguiva l'uso di
tanti suoi simili e nostri, i quali sono sempre ammalati d'egoismo e
di livore, e non possono perdonare ad una donna il grave torto che
ella ha avuto, amando un altro in cambio di loro.
È vero che anche lui, vedendosi lasciato da banda, l'aveva odiata un
pochino; ma perchè il suo animo era generoso, quell'odio era
svaporato, senza lasciarvi traccia di sè. E la marchesa di San Ginesio
gli tornava simpatica, come doveva esserlo per ogni cuore ben fatto. E
più simpatico ancora gli era Filippo Bertone, quel buon Filippo che
aveva con tanta amorevolezza, chetati gli sdegni di suo padre, quel
nobile Filippo che con tanta cura fraterna lo aveva stimolato, aiutato
a rimettersi sulla buona strada.
Filippo Bertone era in pochi anni grandemente cresciuto nella stima
dell'universale, e si era fatto un nome glorioso, restando l'uomo più
modesto del mondo. Onori, grandezze, e simili altre piccolezze, non lo
avevano tentato; la sua unica ambizione era quella di non essere nulla
in questa «fiera di vanità» che è l'umano consorzio. Cionondimeno, e
proprio a suo marcio dispetto, aveva dovuto accettare una cattedra
all'Università. Era la cattedra lasciata vacante dalla morte del suo
vecchio benefattore. Molti ambivano quel posto, ma nessuno ne parve
più degno di lui, che non lo ambiva affatto e che neppure aveva
pensato di poterlo occupare. Il voto della scolaresca, il consenso
unanime dei professori, additavano il Bertone; e il nostro Filippo
dovette inchinarsi e accettare l'ufficio. Nessuno ci trovò a ridire,
neppure i concorrenti, che avevano dovuto appendere la voglia
all'arpione.
A trentacinque anni, Filippo Bertone era già salutato il primo fra i
seguaci d'Ippocrate che vantasse la capitale. E quantunque le sue
predilezioni fossero tutte per la storia naturale, in cui aveva fatto
felicissime indagini, scrivendo un libro che rimarrà meritamente
celebre, pure, tanta era la fiducia de' suoi concittadini, così
numerosa la sua clientela, tale il concorso dei poveri, che egli non
aveva avuto il coraggio di abbandonare la pratica per la teorica, e si
era pazientemente rassegnato a studiar meno pei posteri, faticando di
più pei presenti.
Al tempo in cui lo rivediamo, il nostro famoso professore appariva
ancor giovane, e più assai del suo coetaneo Ariberti, che già
incominciava a dissimulare cogli artifizi della moda i danni
irreparabili del tempo. La bontà del precetto latino «_mens sana in
corpore sano_» traspariva da quella sua aperta figura, improntata di
maschia bellezza. Semplice di modi, non umile, indossava l'abito nero,
e stava a Corte con quella serena dignità con cui aveva indossato, in
altri tempi, il suo famoso soprabito color di tabacco e abitata la sua
modesta soffitta.
A proposito della soffitta, ecco un particolare da non doversi passare
sotto silenzio. Filippo Bertone aveva il suo quartierino nella
medesima casa che sapete; era sceso di due piani, ma aveva serbato
fede al suo nido, e quella soffitta non l'aveva ceduta a nessuno, e
andava a chiudersi lassù quando voleva e poteva attendere a' suoi
studi prediletti. Quella piccionaia sotto i tegoli era stata la sua
prima dimora; colà aveva albergato i suoi libri, i suoi fiori, le sue
speranze, i suoi sogni; di là aveva veduta la donna che doveva essere
tanta parte e la più cara della sua vita, la prima e l'unica che
doveva far palpitare il suo cuore. Filippo Bertone, per dirla con una
frase abusata, ma adatta, aveva un'anima d'angiolo; nè affetti
volgari, nè altre debolezze, che ogni uomo perdona, o vuol farsi
perdonare, avevano mai profanato il suo culto per quella sembianza di
divinità che egli si era foggiata sulla terra. E la soave marchesa di
San Ginesio, nobilissima figura e saldo carattere di un tempo così
vano e corrotto come il nostro, era ben degna di un amore così
esclusivo, di una fedeltà così antica.
Ora, dovunque fosse la marchesa di San Ginesio, si poteva star certi
di trovare Filippo. La qual cosa va intesa con discrezione, di teatri,
balli, conversazioni, ed altri simiglianti ritrovi della civil
compagnia; chè non vorrei lo aveste in conto d'un paggio del medio
Evo, o di un moderno _King Charles_.
Diffatti, poco lunge dal salone da ballo, Ariberti si incontrò
coll'amico Filippo, e fu una ventura per ambedue, che si vedevano
tanto di rado.
--Eccoci qui,--disse ridendo Ariberti,--come due cavalieri del
_Gobelins_, spiccati da un arazzo, ma per far sempre tappezzeria. Tu
non balli; io neppure...
--Eh, quanto a me, si capisce;--interruppe Filippo;--la gravità di
Galeno ne soffrirebbe; ma tu...
--E dove lasci quella di Temi?--domandò Ariberti.--Un legislatore in
ballo, che ti pare?
---Legislatore sì, ma uomo politico, e gli uomini politici ballano.
Vedi i ministri; sono in quadriglia anche loro.
--Sì, ballano sopra un vulcano!--ripigliò Ariberti, adoperando per
celia una frase del dizionario giornalistico.--Quanto a me, da un
pezzo io vivo lontano dal mondo e dalle sue pompe, e non ho più
entratura colle dame. A proposito, ne ho visto una, poc'anzi; sempre
bella tra tutte le belle, sempre Giunone all'aspetto e al portamento.
--Ah, capisco;--disse Filippo, che sulle prime non aveva inteso a chi
volesse alludere Ariberti.
--Vieni, ti presento a lei.
--No, grazie.
--Perchè?
--_Domine, non sum dignus_.
--Eh via; non siamo mica più i ragazzi di una volta.
--Pur troppo, e per una buona ragione;--notò Ariberti, con accento tra
malinconico e burlesco.
--Ma io ci ho di peggio; sono un profano mortale, e voi... siete
angioli.--
Queste ultime parole erano state susurrate all'orecchio di Filippo; il
quale si fece rosso in volto come una fragola al sole di primavera.
--Gentile amico!--rispose egli poscia, stringendo affettuosamente il
braccio di Ariberti.--Se ti sentisse uno dei ministri caduti, non gli
sembreresti più quello.
--Perchè, di grazia?
--Perchè tu, mio bell'oratore, non li hai certamente avvezzati a così
dolci parole.
--Non le meritavano;--disse Ariberti.--Io, del resto, fo la mia corte
ad un ministro vincitore, e gli rendo giustizia.
Filippo intese pel suo verso la gentile allusione, ma credette
opportuno di lasciarla cadere.
--Vieni,--diss'egli,--giacchè non balliamo, daremo un giro per le
sale, ed io ti farò da cicerone. Una metà della dame sono clienti del
tuo umilissimo servo.
--E le conservi sane, a quel che pare.
--Ma sì, ma sì; sono un medico che lascia operare la gioventù e la
salute. Il mio segreto è tutto qui.
--Sentimi;--disse Ariberti;--tu dovresti avere nel numero delle tue
clienti quella che più mi premerebbe di conoscere.
--Ah, ah! Una fiamma amorosa? Antica, o moderna?
--Nè l'una cosa, nè l'altra. Una figura che mi piace, ecco tutto.
--Per ora;--conchiuse Filippo;--e va benissimo; vediamo dunque dov'è,
e, se sarà una mia cliente, ti dirò anche il suo nome. Ma bada, tu
dovrai farne buon uso.
--Che intendi tu per buon uso? Saprò che nome porta una bella signora
che mi ha colpito, come si ama sapere il titolo di una bella
incisione, ammirata avanti lettera; non ti sembra abbastanza
platonico?
--Quand'è così, non ho niente a ridire. Avresti tu cangiato il vizio,
per avventura?
--E, potrebbe darsi; una cosa è certa, che sto cangiando il pelo.
Depongo nel sacrario della tua amicizia,--e, per dir questo, Ariberti
abbassò la voce di due toni,--che ho già trovato nella mia povera
chioma diciotto fila d'argento.
--Le hai contate?
--E strappate. Non vo' argento, io; sono incorruttibile.
--Ma, e quando i bianchi saranno in maggioranza?
--Mi darò alla pittura, Filippo mio; studierò l'arte del Tintoretto.--
Così chiacchieravano, allegri come due passeri su di un pergolato
d'uva matura, mentre andavano di sala in sala, alla ricerca della
bella sconosciuta, che premeva tanto ad Ariberti.
--Ah, eccola!--esclamò egli, stringendo il braccio all'amico.--Vedila,
là in fondo, seduta su quel sofà. È quella che parla col cavaliere di
Cocconato, il gran cacciatore del re.
--Quella? Ariberto mio, mi duole di avertelo a confessare; non è una
mia cliente.
--Vedi che disdetta! Appunto quella che m'importava conoscere.
--Mio Dio, se vai proprio a cercarle col campanello! Ora io potrei
cavarmela da principe, dicendoti che ella si chiama Venere, e
lasciando a te la cura di rintracciare se sia la Capitolina, quella
dei Medici, o quell'altra di Milo.
--Insomma, non sai chi ella sia.
--Ti ho detto che non è mia cliente. Ma se tu mi prometti la sua prima
infreddatura, il suo primo mal di nervi...
--Filippo mio, tu te la godi come uno scolaro in vacanze.
--Sicuro; ti ho stretta la mano e sono di buon umore; anzi, torno
ragazzo. Anche il grave Cicerone amava tornarlo di tanto in tanto, e
lo scrisse appunto nel suo libro _De Senectute_, te ne rammenti? «_Ut
aliquando repuerascam_». Almeno, mi pare che dica così. Ma lasciamo le
ciance, e contentiamo l'amico. Quella signora leggiù, se non
m'inganno, è una marchesa di Rocca Vignale, cioè Marchesa vedova di
Rocca Vignale. Non so veramente come nasca; cioè, mi spiego, la
scienza mi insegna come tutti nasciamo, e come sarà nata anche lei;
intendo parlare di genealogia e di araldica. È nobile di nascita? È
italiana? _Haud mihi compertum est;_ non saprei dirtelo.
--Eh, per non essere il suo medico, ne sai già quanto basta.
--Girando s'impara;--disse Filippo.--Del resto, non sono io che so
molto; sei tu che ti contenti di poco. Ma questo è buon segno; non sei
innamorato. Se tu lo fosti, vorresti già sapere da me il suo nome di
battesimo, il nome di pratica in casa sua, le primavere che canta... A
proposito di primavere, so anche questa. La marchesa di Rocca Vignale
è rimasta vedova a venticinque anni, ed ora ne ha trenta suonati.
--Non parrebbe, a vederla!
--Ed hai ragione; ella ne dimostra tre o quattro di meno, e
probabilmente ne avrà tre o quattro di più del numero che ti ho detto.
--È bella assai!--esclamò Ariberti, che tirava a suo modo la
somma.--Andiamo via; se no, le casco ai piedi.--
Questo era detto burlescamente, si capisce; ma anche parlando per
celia, l'onorevole Ariberti accusava i primi sintomi di una malattia
acuta. Per fortuna, le malattie di questa sorte, quando nascono, non
fanno dolore, che anzi le s'annunziano con una insolita pienezza di
vita, volto sereno, occhio ilare, piede leggiero, e una nidata di
grilli nel capo.
Il nostro eroe non doveva essere malcontento della sua gita al ballo
di Corte. Per giunta alla derrata, ebbe parole amorevoli del padrone
di casa (il re, se vi piace), che s'intrattenne a lungo con lui, a
discorrere sui partiti e sulla necessità di dar sesto al bilancio. Fu
un colloquio che fece tremare sul loro trono di cartone i ministri,
uno dei quali guardò due volte l'orologio e contò che la grazia reale
era durata sette minuti e qualche secondo. Nè fu minore l'attenzione
di una ventina di damerini, e cortigiani di primo pelo, che,
bazzicando poco o punto alla Camera e non conoscendone molto gli
oratori, si domandavano curiosamente l'un l'altro, chi fosse quel
giovanotto, che aveva tanta entratura col re.
Si seppe allora, dopo aver preso lingua dai pratici, che era il
deputato Ariberti, quel desso che con un discorso aveva fatto cascare
il gabinetto anteriore, e non dal sonno, pur troppo, come avrebbero
certamente preferito i vecchi ministri. E pochi minuti dopo,
trattandosi d'una notizia di quella importanza, il colloquio
dell'onorevole Ariberti col re era stato strombazzato per tutte le
sale; figuratevi che n'erano state perfino informate le dame che di
queste cose per solito non si dànno pensiero, e fanno bene, a mio
credere.
Questo epifonema dell'umile narratore non mira ad offendere una
bellissima gentildonna, che si trovava per l'appunto al ballo di
Corte, e a cui premeva molto di conoscere da vicino il nostro
onorevole. Forse la politica c'entrava pochino in quella sua curiosità
femminile, e molto invece la vanità. Comunque fosse, io non ho da
vederci nulla; debbo dire soltanto, per la necessità del racconto, che
quando uno dei suoi cavalieri, servo divoto di tutte le dame, diede a
lei la notizia dell'importante colloquio, ella, che pur conosceva
Ariberti, per averlo veduto ed udito più volte alla Camera dalla
tribuna diplomatica (una bella signora ci ha sempre ai suoi ordini un
plenipotenziario purchessia), dimandò con aria di candore al suo
elegante galoppino:
--Lo conoscete voi, questo terribile rovesciatore di ministeri?
--Se lo conosco! Siamo anzi amicissimi.
--Ah, bene! Dovreste presentarmelo.
--Io, marchesa?
--Sì, voi; se è vostro amico, anzi amicissimo, come dite...
--Certo; ma qui, su due piedi...
--Stiamo a vedere che vorreste presentarmelo su quattro! Da bravo,
cavaliere; fateci questo servizio e contate sulla nostra gratitudine.
--Vi preme molto, marchesa?--domandò il povero cavaliere, che non
conosceva Ariberti, e non sapeva che pesci pigliare.--Quand'è così...
--Quand'è così, non mi presentate nulla. Si può far senza del vostro
amicissimo e vivere.--
Il cavaliere capì che aveva scontentato la marchesa, e che la sua
vantata intrinsichezza coll'Ariberti non era tenuta in conto
d'evangelio. Perciò, fatte alcune parole senza costrutto, e solamente
per pigliar tempo, andò a cercare il modo di accomodare il pasticcio e
di contentare la dama.
Ariberti non era lontano. Il cavalier servente, dopo essergli girato
intorno parecchie volte, aspettando di trovar uno che lo presentasse,
o un'idea che lo avvicinasse al suo uomo, finì con una alzata
d'ingegno, della quale in ogni altra occasione non si sarebbe creduto
capace; si accostò all'onorevole Ariberti ed appiccicò audacemente il
discorso.
--Bella festa, commendatore, non è vero?
--Sì, bella;--rispose Ariberti;--bella,--ripetè dopo una breve pausa e
riprendendo argutamente il suo vicino,--quantunque io non ci abbia il
grado a cui le piace elevarmi.
--Come?--disse l'altro, cadendo dalle nuvole.--Scusi, sa? Veramente,
credevo... Già, non si sa mai... E infine, se non è commendatore Lei,
chi ha da esserlo?
Ariberti era uomo, e l'incenso non gli dispiaceva, anche a costo di
sentirsi rompere l'incensiere sul naso.
--Con chi ho l'onore di parlare?--dimandò egli allora, atteggiando le
labbra ad uno dei suoi più dolci sorrisi.
--Il cavaliere Carletti di Montalero; non si ricorda? Ho avuto il bene
d'intrattenermi con Lei nell'atrio del palazzo Carignano, insieme col
mio amico...--
E qui il bravo cavaliere sciorinò un nome illustre, senz'altro. Già,
le bugie sono come le ciliegie, e tutto sta nel cominciare.
--Ah sì,--disse Ariberti, che non si ricordava affatto.--Ora mi
sovviene... Scusi sa! Si ha occasione di parlare con tante egregie
persone, che in capo al giorno, uno non si raccapezza più, per quanti
sforzi faccia. È male, lo capisco, ma infine, non tutti hanno la
memoria di Napoleone il Grande.
--Scusi, cavaliere;--ripigliò il Carletti, che non era un grullo
e voleva con qualche arguzia temperare la difficoltà del
colloquio;--crede lei che Napoleone ci avesse proprio quella
memoria portentosa? Si racconta in casa mia che uno ci si
sbattezzò di buona voglia, per non dar torto al grand'uomo, che
lo aveva chiamato con un nome non suo. Del resto, si capisce; le
cure di Stato son fatte per confondere la testa meglio ordinata.
Ed anche il Parlamento ne vuole la sua parte, specialmente quando
si fa il deputato come Lei.--
Ariberti s'inchinò, ringraziando; ma dentro di sè, incominciava a
sentire un pochino di noia, parendogli che il suo interlocutore
appartenesse alla classe dei gasteropodi, ordine dei ciclobranchi,
famiglia degli univalvi, lepade in greco, e in italiano patella.
--Veda di non logorarsi troppo;--continuò intanto il buon cavaliere
Carletti di Montalero,--gli uomini come Lei sono preziosi; se lo lasci
dire, preziosi. Un po' di svago ci vuole. E dica, di grazia, non
balla?
--Nossignore;--rispose Ariberti, che era già ad un pelo di mandarlo a
tutti i diavoli.
--Come? Con tante dame gentili? C'è qui raccolto il fiore della
bellezza e della grazia di tutto il Piemonte.
--Non dico di no; ma conosco poca gente...
--Se io potessi mettermi agli ordini suoi...
--Oh, grazie infinite, ma io...
--Se mi permette,--interruppe il cavaliere, mettendo, come suol dirsi,
le mani avanti,--incominciamo fin d'ora. Io la presento a qualcuna
delle nostre eleganti. Non sono un uomo politico, e pur troppo il mio
poco ingegno non mi dà di aspirare a diventarlo; mi contento adunque
di passar la mia vita il meno male che si può, e sacrifico
modestamente alle Grazie.
--Le faccio i miei complimenti;--disse Ariberti, che non sapeva se
avesse a fare con un impertinente, o con uno sciocco.--Si tenga
lontano dalla politica, e non abbandoni le dame; il meglio della vita
è qui.
--Gliel'ho detto;--incalzò il cavaliere di buona volontà;--son tutto a
sua disposizione. Mi terrei veramente onorato di presentarla...
--Grazie!--gli rispose Ariberti, scuotendo la testa in atto di
rifiuto.--Io sono un orso, e gli orsi ballano male.
--Ah, ah! questa è arguta davvero!--esclamò il cavaliere,
accompagnando la sua osservazione con tutte le smorfie più adatte,
secondo lui, a disarmare la diffidenza del suo interlocutore.--Ma non
sempre le cose più argute son vere.--
E cominciava a sudar freddo, il povero cavaliere Carletti di
Montalero; e malediceva in cuor suo la smania di darsi per amico di
tutti i valentuomini, che l'aveva messo in quel brutto impiccio.
--Dunque, dicevamo,--proseguì infilzando parole alla
disperata,--bisogna esordire. Io la presento subito alla più elegante
e alla più bella di tutte. Vede, onorevole amico; è un sacrifizio che
faccio... Ma intendiamoci, lo faccio volentieri; ho tanta stima e
riverenza per Lei!--
Ariberti aveva già perduta la pazienza, e una frase poco parlamentare
stava già per venirgli alle labbra. Ma quell'accenno del cavaliere
alle qualità della dama, lo trattenne in buon punto. Il cuore, quel
benedetto viscere, che entrava per tanta parte in tutte le cose sue,
gli aveva dato un sobbalzo nella classica chiostra del petto.
--La più bella!--esclamò egli, sorridendo.--Diamine! Non foss'altro
che per conoscere il suo riverito parere in materia di bellezza, io
ardirei chiedere il nome della signora.
--A patto di presentazione?--dimandò il cavaliere, cogliendo la palla
al balzo.
Ariberti stette in forse un istante. Ma un'idea gli era passata pel
capo; che si trattasse di una scommessa, d'un punto da vincere, o
altro di somigliante. La ruvidezza in questo caso gli avrebbe fatto un
cattivo servizio; la urbanità sola lo avrebbe salvato. Inoltre, il
cavaliere Carletti non aveva l'aria di un burlone; e in fin dei conti,
ci sarebbe stato sempre tempo a punirlo. Così pensando, l'onorevole
Ariberti si commise allegramente all'ignoto.
--A patto di presentazione;--rispose.
--Benissimo;--gridò il cavaliere Carletti;--ed io son certo che Ella
non si pentirà di averlo accettato. La più elegante e la più bella non
pare anche a Lei che sia la marchesa... di Rocca Vignale?--
Apritevi, spalancatevi, o porte del cielo empireo, e scendano gli
angioli a cori, colle cetre, i timpani, e tutti gli altri istrumenti
di paradiso, per fare un degno accompagnamento all'inno che si
sprigionò dal cuore di Ariberti in quell'ora. Tutti i falchi della
bella imagine di Giosuè Carducci, levati al volo in un punto, non
basterebbero a dare un'idea lontana di quella gloria di pensieri, di
giaculatorie, d'interiezioni alate, che gli balzarono fuori del
cervello, all'udire quel nome.
In gran confusione, per altro; che il colpo era stato troppo
repentino, e una mente anche più ordinata della sua non avrebbe
resistito. Come? Da un'ora egli almanaccava per sapere il nome di
quella diplomatica in Parlamento «quasi raggio di stella in ciel
turbato». Saputo quel nome per grazia, profumata del caso, che gli
aveva mandato tra' piedi Filippo Bertone, gli mancava ancora
l'essenziale, cioè l'occasione e il modo di avvicinarsi a quella
donna. E la fortuna veniva a lui, sotto le spoglie del cavaliere
Carletti di Montalero; ed egli, lo sconoscente, l'ingrato, lo stolido,
era stato lì lì per mandarla a tutti i diavoli!
Al pensare che avrebbe potuto commettere uno sproposito di quella
sorte, fremette dal capo alle piante. E se i capelli non gli si
rizzarono sul capo, credete pure che fu per rispetto al luogo in cui
era, e per la mancanza d'un parrucchiere lì pronto a ravviarli.
La prima cosa che egli fece, dopo inarcate le ciglia e represso il
moto involontario della sua molla interiore, fu di accostarsi al
cavaliere Carletti e d'infilzargli dimesticamente il braccio sotto
l'ascella. Ma subito si avvide che correva un po' troppo e che la foga
lo avrebbe tradito; perciò si trattenne a mezza strada, e cercò di
condire quell'impeto di allegrezza niente affatto diplomatica, con
qualche frase argutamente festevole.
--Orbene,--diss'egli,--quantunque io non conosca la dama, eccomi
pronto a pagare la scommessa. Son proprio curioso di vedere se Ella è
di buon gusto.--
Frattanto lavorava a tirare il braccio indietro. Ma quell'altro aveva
già piegato il gomito, e l'onorevole Ariberti si trovò preso come un
lupo alla tagliuola. Immaginate la gloria del cavaliere Carletti di
Montalero, che indi a poco si sarebbe presentato alla marchesa di
Rocca Vignale, colla sua preda sotto il braccio.
Povero cavaliere! Egli non era mica uno sciocco; anzi alle sue ore