La notte del Commendatore - 18
avventura creduto di restar orfano a breve scadenza, tanto da
impegnarmi cogli usurai tutto quello che i vostri vecchi hanno
accumulato colle loro fatiche?
--No, vi assicuro... credo che fra tutto... quindici, o venti... sì,
debbono essere ventimila..
--In un anno? Ma bene, per Dio! Tirate innanzi così. Alla mia morte,
che spero non sarà lontana....
--Padre mio!
--Non m'interrompete! Alla mia morte non vi resterà più altro che
darvi alla strada, come un volgare assassino. È la sorte che vi
aspetta; una caduta ne chiama un'altra. Nemico della vostra famiglia
fin d'ora, lo diverrete della società; dissipatore della vostra
sostanza, diverrete ladro dell'altrui.
--Padre mio! padre mio!--gridò forsennato Ariberti.--Uccidetemi, ve
l'ho detto, uccidetemi, ma per quanto avete di più sacro, per la mia
santa madre, non mi parlate così!
--Vostra madre! La ricordate in buon punto. Vostra madre è in letto da
due giorni, e per voi, pel dolore, e per la vergogna delle vostre
azioni da galera.--
Ariberti non s'inalberò, non udì nemmeno la frase esorbitante che la
collera strappava alle labbra di suo padre. L'immagine della sua buona
genitrice inferma per cagion sua gli aveva messo in corpo la febbre e
lo faceva dare in urla così disperate, che perfino il signor Amedeo ne
ebbe pietà.
--Andate a Dogliani;--gli disse allora,---vostra madre vi aspetta. Qui
intanto non avete a fare più nulla, ch'io mi sappia.
--Oh no, purtroppo;--rispose il giovane--ma voi, padre mio?
--Non vi date oggi più pensiero di me che non abbiate fatto in
quest'anno di scapestrataggine;--rispose il signor Amedeo, tornando
alla sua parte di burbero.--Io, poi, ci ho il mio resto di
contentezze a Torino. Non mi avete voi nominato il vostro banchiere,
il vostro maggiordomo, il vostro elemosiniere? Andate, e fatemi la
grazia di non voltarvi più indietro.--
Il giovine si avvide che non c'era più verso di cavar altro dalla
giusta severità di suo padre, ed uscì colla mente in iscompiglio.
Soltanto per istrada e molto lontano da casa si ricordò che non aveva
danari in tasca per fare il viaggio. Ma, se ne fosse pur ricordato
qualche minuto prima, o nelle scale, o in casa, avrebbe egli forse
avuto il coraggio di chiederne a suo padre?
In quelle distrette, il caso o una segreta ispirazione del cuore, lo
condusse difilato in piazza San Carlo, e proprio alla svolta della via
di Santa Teresa. Lasciamo star dunque il caso e l'ispirazione, e
diciamo i suoi santi protettori. I quali, dopo aver fatto tanto,
compirono l'opera, spingendolo oltre, fino all'uscio di quella casa in
cui abitava Filippo Bertone.
Dice un proverbio che gli amici si conoscono alla prova. Aggiungerò
coll'esempio di Ariberti che al momento della prova s'indovinano. Egli
non era mica andato a cercare i cavalieri di Malta, i suoi compagni di
scioperatezza, coi quali aveva passato ancora la sera antecedente, per
far la vigilia del suo esame infelice. Andava in quella vece da
Filippo Bertone, dal suo fortunato rivale, in cui la sera antecedente
egli vedeva ancora un nemico.
Filippo gli aperse le braccia e se lo strinse al petto con tenerezza
fraterna. Voleva sorridergli; ma lo vide così stralunato, che il
sorriso gli si gelò sulle labbra.
--Mio Dio!--esclamò egli impallidendo.--Che ti è accaduto, Ariberto?
--Rovinato, Filippo, rovinato!--rispose il giovane mentre si lasciava
cadere come corpo morto su di una scranna.--Rimandato all'esame;
rimandato, capisci? Mio padre è qui. Egli sa tutto, le mie pazzie, le
mie colpe. Ne ho molte... ne ho troppe... ed anche con te, Filippo...
--Oh, non parlar di me, te ne prego. Vedi, ti ho sempre aspettato.
L'avevo qui nel cuore: egli è buono e tornerà. Sarei venuto io per il
primo, se non avessi temuto di farti dispiacere; sarei corso, se ti
avessi saputo infelice.
--Lo sono, Filippo mio, lo sono, e più che tu forse non credi. Ho
perduto l'affetto di quell'uomo onesto e leale che è mio padre; la mia
santa mamma è inferma dal rammarico che io le ho cagionato; insomma,
io sono un disgraziato, e mi fo orrore, capisci? mi fo orrore!
Qui, d'una in altra parola, Ariberti scese a raccontar ogni cosa a
Filippo; della sua vita sregolata, degli amori, dei debiti, degli
esami falliti, e via discorrendo.
--Povero amico, fatti animo---gli disse Bertone. Un padre come il
tuo ama sempre il suo sangue, qualunque cosa egli faccia; fuori,
s'intende, il bruttarsi con azioni malvagie od infami. Tu ti sei
indebitato fino agli occhi e non hai studiato come dovevi. È male,
lo capisco, ma non è fortunatamente un delitto di lesa famiglia,
come lo sarebbe stato per me. Non ti disperare, Ariberto; parlerò
io a tuo padre. Tu frattanto va subito a Dogliani per consolare la
tua povera mamma. Chi sa che il vederti non le ridoni la salute,
meglio di tutte le ordinazioni del medico! So ancor poco di
medicina,--soggiunse Filippo sorridendo,--ma già abbastanza per
conoscere il pregio delle medicine morali. Va dunque, e subito. Se
ti occorre danaro, eccone.
--Che fai?--balbettò Ariberti confuso.--Tu ti privi per me...
--Non temere; ne ho più del bisogno. Son ricco, sai? Guadagno un
dugento lire al mese e fo ancora qualche sparagno.
--E come?--chiese Ariberti, meravigliato più dei guadagni che non dei
risparmi del suo amico Filippo.
--Ho già parecchie lezioni,---rispose questi candidamente,--ed anche
qualche ripetizione di anatomia. Che vuoi? Insegno quel che non
so;--aggiunse Filippo, accompagnando le parole con uno dei suoi
malinconici sorrisi;--ma studio la mattina e insegno più tardi quello
che ho imparato io medesimo un'ora prima. In tal guisa non inganno
nessuno. Mi stanco un pochino, è vero; ma tu lo sai, sono un montanaro
e ci ho uno stomaco di ferro.
--Mio buon Filippo! Tu meriti davvero di essere amato;--esclamò
Ariberti, gittandogli le braccia al collo.
E il pensiero gli correva in quel mentre, ma senza gelosia, alla bella
marchesa di San Ginesio. Quella severa Giunone amava il suo Filippo;
su questo non ci cascava dubbio. Ma questa, per chi conosceva lui e
lei, doveva essere la cosa più naturale del mondo. Ariberti si sarebbe
meravigliato fortemente, avrebbe creduto meno alla virtù e
all'influenza della virtù, se la cosa fosse andata altrimenti.
--Grazie di questo e dell'altro;--ripigliò Ariberti, dopo aver ceduto
a quell'impulso di affetto e di ammirazione.--Tu dunque parlerai a mio
padre? otterrai il suo perdono per me?
--Sì, non dubitare, parlerò per te, gli spiegherò.... Veramente, non
so che cosa potrò spiegargli, io che vivo fuori di questi viluppi...
Ma infine gli dirò il buon cuore che hai, ed egli mi crederà. È tuo
padre, l'ho detto, e non potrà vederla diversamente. Quanto a me, io
spero che l'amicizia mi renderà facondo come Ortensio, caldo come
Demostene.
E Filippo Bertone mantenne la promessa. Vide il signor Amedeo quel
medesimo giorno, ma non entrò in argomento, perchè il babbo di
Ariberti era troppo adirato col figlio. Scambio di affrontarlo, col
pericolo di farsi mandare a tutti i diavoli, lo circuì bel bello, gli
si fece compagno nelle sue gite per Torino, mettendo fuori ora una
parolina, ora un'altra, e aspettando pazientemente le occasioni più
favorevoli. E siccome il signor Amedeo tra carezze e minacce, era
riuscito ad ottenere da quel briccone di Arun el Rascid un grosso
taglio sul preteso suo credito, e con dodicimila lire date lì per lì
riusciva ad estinguere tutti i debiti del suo signor figlio, il nostro
Bertone giunse ad averlo più maneggevole, e la perorazione fece un
effetto che Demostene ed Ortensio redivivi non si sarebbero ripromessi
di certo, se si fossero trovati nei panni di Filippo Bertone.
Sì, veramente, Ariberto si era diportato da matto. Ma era giovine,
faceva i primi passi nel mondo, e i primi passi son sempre difficili.
Lo sapeva Filippo Bertone, che veramente non era cascato, ma soltanto
perchè stretto dal bisogno, senza la croce d'un quattrino e l'ombra
d'una speranza negli aiuti della famiglia. Filippo si buttava giù, si
calunniava, ma lo faceva a buon fine. Per contro si esaltava, si
nobilitava a dipingere il cuore dell'amico, a dimostrare come fosse
amaramente pentito de' suoi trascorsi, quanto avesse pianto tra le sue
braccia, come egli avesse durato gran fatica a chetarlo, quali
promesse e giuramenti avesse religiosamente accolto da lui. Insomma,
tanto disse e fece il bravo Filippo, che il signor Amedeo si lasciò
intenerire e quando tornò a Dogliani, fra la moglie trepidante e il
figlio confuso, gli vennero meno le forze a star grosso.
E qui bisognerà dire che Ariberto non mentì alle promesse che Filippo
aveva fatte in suo nome. Fu quello l'ultimo dolore che egli cagionasse
ai suoi parenti. La lezione era stata dura e gli aveva lasciato una
traccia profonda nell'anima.
Ogni suo pensiero, ogni studio, ogni cura, fu in lui di riacquistare
il tempo perduto. Alla seconda prova d'esame era armato di tutto punto
e non fu il caso di voltargli le sue risposte in burletta, bensì di
dargli i pieni voti e la lode. Riconquistato in tal forma il suo
onore, non volle rimanere a Torino; se ne andò a Pisa, a far vita
nuova; e là, non so dirvi come annaspasse, fatto sta che, senza
guardar l'Ussero con occhio torvo, senza disdegnare la baraonda «tanto
gioconda» del Giusti, guadagnò un anno di corso, e in otto mesi
prendeva il berretto, l'anello e tutte l'altre insegne di Bartolo e di
Cujacio.
CAPITOLO XVII.
"Poëta nascitur, orator fit".
Si era innamorato dello studio, come già di tante altre cose. E tra
tutte le nobili discipline (notate, lettori umanissimi, come anche lo
scrittore si metta sul grave e adoperi parole convenienti al soggetto)
tra tutte le nobili discipline, io dico, il nostro eroe preferiva le
più ostiche, come a dire l'economia politica, il diritto
amministrativo, la procedura civile. Chi l'avesse mai detto, qualche
anno prima all'autore delle _Frondi sparse_, si sarebbe fatto ridere
sul muso. Ma già, lo ha scritto un autore di vaglia: «mutano i saggi»,
ed io potrei aggiungere, coll'esempio di Ariberti, anche coloro che
non lo sono.
Quando egli si addottorò in leggi, che fu due anni dopo la sua
partenza da Torino, gli aveva preso la mania del grave, come
aveva avuto prima la manìa dello scapestrato. Per altro, non era
tutto capriccio in lui, o amore di novità. Gli stavano sempre
davanti le tristi scene in cui si era chiusa la sua vita di
buontempone, e lo umor suo ne risentiva le angoscie. Dottor
Fausto in sessantaquattresimo, Ariberti non volle e non ebbe più
una ora di svago. Aggiungo, che provava una certa voluttà tutta
sua particolare a stillarsi il cervello in quel modo, tra un
codice e un repertorio di giurisprudenza, tra una allegazione e
una causa ingarbugliata, di quelle che ai curiali paiono
solamente «complesse» e piene di bei «rapporti giuridici».
Esagerazione di propositi, comune a tutti i nuovi convertiti! Pel
nostro neofito si aggiunse la morte della madre, vittima della rottura
di un aneurisma, secondo che sentenziarono i medici, ma che alla sua
pietà filiale doveva parere colpita di ben altro male, e accrescergli
in cuore i rimorsi. La santa donna si era spenta benedicendo a suo
figlio, e facendo voti perchè si conservasse così assegnato e studioso
come si dimostrava da due anni. E questo aiutò a renderlo più triste,
più chiuso, più intento al lavoro, che non fosse dapprima, e per
conseguenza più dimentico delle allegrezze mondane, dei sollazzi e
delle espansioni della sua medesima età.
Poi, non c'è cosa che invecchi un uomo anzi tempo, come la pratica
forense. Alla mattina, anche prima di asciolvere, e sto per dire di
essersi levato il sonno dagli occhi, ci sono le conclusioni da finire
pel causidico, i punti controversi da chiarire, la «concione» da
meditare per l'udienza vicina. Il tribunale vi ruba le due o tre ore,
spesso colla noia di attendere che sia chiamata la vostra causa.
Tornate a casa, seguito dalle benedizioni o dai moccoli del cliente, e
vi assediano da capo i procuratori con altre conclusioni da preparare,
clienti che non pagano e vi chiedono un consulto, società, istituti,
che vi domandano un congresso, o vi appioppano la cura di mettere le
loro trappolerie in riga col codice.
E in queste occupazioni vi capita addosso l'ora del pranzo, o desinare
che sia. Avvertito dal servitore, ordinate che si dia in tavola, e
frattanto andate a caccia di articoli per un'altra mezz'ora. Così
avviene che, quando finalmente potete sedervi a tavola per mangiare un
boccone in furia, la minestra è rifredda, l'intingolo non ha più
gusto, il pasticcio sente il bruciato, e l'appetito non vi tien più
compagnia. E la sera, poi? La sera bisogna tornar nello studio; il
teatro, i salotti, i geniali ritrovi sono proibiti come le pistole
corte; è l'ora dei clienti; l'avvocato ha da aspettare i clienti,
anche quando c'è da scommettere cento contro uno che i clienti non si
lasceranno vedere.
Imperocchè l'avvocato è nel suo studio quello che un ragno nella sua
buca. Il povero insetto solitario se ne sta in attesa per giorni e per
settimane, regge l'anima coi denti, invocando una mosca, disposto a
contentarsi d'un moscherino purchessia. E per giorni che passino, per
settimane che si seguano e si rassomiglino, il povero solitario non
può muoversi dal suo bugigattolo. Se per caso un moscerino avesse a
passare da quelle parti e non trovasse l'avvocato! Scusate, volevo
dire il ragno; ma già, poichè ho detto l'avvocato, lo lascio stare;
mettete voi il cliente in luogo del moscerino, e tutti pari!
La vita materiale dell'avvocatino Ariberti, fra il tribunale e lo
studio, condannato per anni ed anni a non avere che moscerini,
clientucoli al civile e ladruncoli al criminale, s'intenderà
facilmente; nè io farò fatica di descriverla, nè voi, lettori
umanissimi, farete quella di starla a leggere. Vorrei parlarvi in
quella vece della sua vita intellettuale; vorrei dirvi del suo cuore,
che diavolo facesse in quella galera. Ma già, mente e cuore, se non
erano atrofizzati, sonnecchiavano, come si sonnecchia in diligenza, o
in ferrovia, tra un paese che si è lasciato e un altro a cui non si è
ancora arrivati.
Diffatti, Ariberto Ariberti, era proprio in quella età che un uomo
incomincia a sentir le sue forze e vuole giungere con esse a qualcosa,
a scalzare una montagna, o a cavare un ragno da un buco. Si è invasi
da una febbre di operare, sollecitati da un desiderio di andare, non
importa dove, rosi da una maledetta ambizione che si cruccia da sè,
per mancanza di un fine stabilito, e mentre vi fa anelare ad una
carica di ministro, o ad altra di quelle altezze intorno alle quali
c'è il vuoto, vi fa durare una fatica da cani per afferrare un seggio
di consigliere comunale, una croce di cavaliere, una presidenza di
comizio agrario, od altra simile tra le umane grandezze, in cui
s'assottiglia l'ingegno, e per cui soventi si perdono i sonni, pur di
far crepare d'invidia un centinaio di sciocchi della vostra medesima
forza.
A quei lumi di luna, l'amore, il povero amore, non è più, o non è
ancora tornato, il gran negozio della vita. Imperocchè, non vanno
neppure contati i ripeschi da dozzina, i capricci, le effimere
ebbrezze che gli uomini seri ammettono a guisa di svago dalle cure più
gravi, o di abitudine senza conseguenza, e che meritano il nome di
amore come la stretta di mano e il darsi del tu meritano il nome di
amicizia, in questo commercio quotidiano di graziose menzogne, che è
la nostra vita cittadina.
Trista cosa, non è egli vero? E diffatti io ve ne parlo di volo, e
solamente perchè non posso a dirittura passarmene, essendo che questa
è la storia del mio eroe, ed io, fermandomi con una certa compiacenza
ai punti principali, debbo pure accennare il rimanente, e colmar
gl'intervalli. Del resto, il mio eroe non è veramente un eroe; è
semplicemente un uomo, con tutte le sue debolezze. E se gli pare che
sia una bella cosa esser fatto consigliere comunale o provinciale, che
ci ho da far io? Gli è parso dapprincipio che ciò dovesse aiutarlo
nella sua professione d'avvocato, e può anche darsi che avesse
ragione; ma badate, io non metterei una mano sul fuoco per
guarentirvelo, e non farei due passi sopra un mattone (vedete quanto
sarebbe lieve il fastidio!) per andare a sincerarmi del fatto.
Comunque sia, eccolo con un monte di faccende sulle spalle. È
consigliere di tutto un po' ed ha mano e voce in una dozzina di
commissioni, l'una più utile dell'altra al buon andamento della cosa
pubblica, il cui intento, chi nol sapesse, è di andare alla peggio.
L'avvocato consigliere è proprio nella sua beva, e, non c'è che dire,
trova tempo a far tutto, a pensare, a ricordarsi di tutto. S'intende
che non ne ha per leggere un bel libro, e meno ancora per dettarne de'
suoi. Dio buono, e come avrebbe a fare, con tanta roba alle mani? Già
da un pezzo non scrive che conclusioni, allegazioni, relazioni,
esposizioni, ed altre consimili negazioni d'ogni arte e di ogni
bellezza. È un uomo serio, che ci s'ha a dire? Certo, non l'ho fatto
io quel che è; e poichè siamo sull'argomento, e perchè non abbiate a
darmene carico più tardi, vi giuro fin d'ora, e per tutto quello che
io mi ho di più sacro, incominciando dai vostri occhi che mi leggono,
vi giuro, io dico, che non gli ho dato il mio voto quando uscì eletto
deputato al Parlamento da uno di quei collegi delle sue Langhe, tanto
care al mio cuore.
Eppure, non posso e non voglio negare che i suoi elettori mandassero
alla Camera un fior di galantuomo. Debbo anche aggiungere, per debito
d'imparzialità (non giornalistica, intendiamoci che è imparzialità a
denti stretti), come il candidato non brigasse poi troppo per farsi
eleggere. Il caso lo aveva aiutato in tutti i modi, prima colla morte
del titolare, poi colla pronta convocazione del collegio, da ultimo
con la mancanza di competitori temibili. Era giovane, e qualche
giornale torinese disse ridendo di lui, come di Pier Carlo Boggio,
ch'egli era il deputato trentenne. Ma lo avere trenta anni non era
mica una disgrazia. Intanto, gli aveva giovato molto il non essere
troppo in vista a Torino, dove le invidie e i rancori non avrebbero
tralasciato di perseguitarlo, incarnati nei Ferrero, nei Vigna, nei
Balestra, nei Candioli, e via discorrendo. E più ancora gli era
tornato utile lo aver vinto una causa di qualche rilievo per un suo
conterraneo, intendente e _factotum_ di un Creso delle Langhe, i cui
fittaiuoli ed aderenti votavano con una disciplina esemplare.
In tal guisa favorito dalla fortuna, il nostro Ariberti potè credere,
per un giorno almeno, che tutto fosse oro di coppella a questo mondo,
poichè nessuno, durante il periodo elettorale, gli aveva dato del
venduto, o del ladro. Un diario della capitale, che propugnava una
delle solite candidature universali, non potendogli ancora dir altro,
perchè non lo conosceva e non ci aveva ai fianchi un Ferrero, si
contentò di dargli dell'asino. Ma Ariberti si era tastato le spalle,
e, non avendo sentito il basto, si era contentato di sorridere. Se non
ci hanno altri moccoli, aveva detto tra sè, possono andarsene a letto
al buio.
Salutiamo dunque il signor deputato, e rallegriamoci col signor
Amedeo, il quale da tanti anni vedeva il suo figliuolo arare diritto e
finalmente raccogliere i frutti di quello che aveva seminato.
Il signor Amedeo in quella faccenda non ci vedeva troppo giusto;
bisogna confessarlo a suo marcio dispetto. Ma i babbi son tutti
tagliati ad una guisa; amano di vedere i loro figliuoli che tirano al
sodo; e, quando ciò sia, non la guardano poi tanto nel sottile; anzi,
voi li fareste maravigliare non poco, se vi metteste alla prova di
persuader loro che ci possono essere altre fantasie, altre passioni,
più pericolose delle scappatelle di gioventù, degli amori, dei debiti,
e via dicendo; se faceste trapelare al loro miope affetto quali
sopraccapi, ambizioni, e struggimenti, lavorino sotto l'intonaco di
una vita assegnata, e che razza di granchi vivano e si moltiplichino,
nelle acque in apparenza più chete.
Ma siamo giusti, i poveri babbi hanno proprio a sapere e prevedere
ogni cosa? Lasciamo, vivaddio, che si consolino di vedere i loro
figliuoli arar diritto e non mettiamo pulci negli orecchi a nessuno.
Ora, il nostro Ariberti arava diritto, non c'è che dire. Avvocato di
qualche grido, consigliere, cavaliere, deputato, era un uomo oramai
che andava innanzi da sè e non gli bisognava l'aiuto delle falde. Il
signor Amedeo poteva dunque intuonare il _Nunc dimittis_ e chiuder gli
occhi in pace, senza timore che il suo Ariberto gli sgarrasse
quind'innanzi una spanna. Suo figlio, a farla breve, era un uomo sodo,
e andava per la maggiore.
Ahimè, povera vita! Noi ne spendiamo mezza a sospirare il futuro, e
l'altra mezza a rimpiangere il passato. La nostra gravità è tutta qui,
come in estratto, e non se ne cava neppur tanto da farcene un brodo
per l'ultimo giorno di malattia, quando si legge la moralità della
favola.
Per altro, non corriamo così a fiaccacollo colle deduzioni. I primi
tempi di quella vita nuova di Ariberti non furono, o non gli parvero
brutti. Le consuetudini parlamentari gli schiudevano come un altro
orizzonte agli occhi dello spirito. Il viavai, l'affaccendarsi di
tanti colleghi, il meccanismo dei partiti, le amicizie facili, le
speranze comuni, gli davano una sembianza di allegra operosità, che
doveva a tutta prima lusingarlo, tanto più quando gli veniva alla
mente che tutti quei manipoli d'intelligenze, erano il meglio dello
Stato, fior di roba, cervelli sopraffini. L'onorevole Ariberti non li
aveva ancora esaminati per bene, non aveva ancora rivolto a sè stesso
il «_quot libras in duce summo?_» di quella lingua tabana che fu pe'
tempi suoi Giovenale. E poi, e poi, che serve tacerlo? Egli ci aveva
nel cuore un sentimento grave e poetico ad un tempo, che gli scaldava
tutte le fibre e lo faceva guardare con fiducia, davanti a sè: giovare
alla patria, meritare la gratitudine de' suoi concittadini, ottenere
un buon punto nella lotteria della storia.
Illusioni che avevano a svanire assai presto! Appunto allora che
l'onorevole Ariberti poteva giovare col senno e colla parola alla
patria, appunto allora incominciarono a pungerlo gli strali della
critica, che non si fermavano soltanto all'epidermide. Avvocato,
poteva ancora essere tollerato; il numero dei rivali era ristretto; e
poi, Dio buono, si trattava di rivali; laddove, nel campo della
politica, non erano soli i rivali a fargli il viso dell'armi, ma si
addensavano intorno a lui gl'invidiosi, gli odiatori di professione, i
cani ringhiosi per natura, e a farla breve, tutto il banno e
l'eribanno dei cattivi, degl'impotenti, dei malsani, degli spostati,
degli sciocchi, e chi più ne ha ne metta. Tutti erano contro di lui,
tutti prendevano a sfrombolarlo da lungi, quale colla matita del
caricaturista, quale coi periodi asmatici d'una lettera politica,
quale coi perfidi accenni di una notizia recentissima; che in queste e
in altre forme, che troppo mi condurrebbe in lungo il descrivere, le
serpi potevano schizzare il loro veleno, o la bava.
Così, guerreggiato da varie parti, il nostro povero eroe capì
finalmente la esistenza di certe alleanze sotterranee, che a prima
giunta, e ragionando onestamente, parrebbero impossibili, e che molti
galantuomini s'impuntano tuttavia a negare.
Ahimè, bisogna esserci dentro, colle mani e coi piedi nella maledetta
politica, per aversi a convincere che lo strano è il naturale,
l'assurdo il necessario, l'improbabile il vero.
S'intende e va da sè che su quel palcoscenico, anzi tra le quinte, i
tenori, i baritoni, le prime donne, gli facevano i più leggiadri
sorrisi del mondo. Il suo primo discorso, o, come direbbesi in gergo
teatrale, la sua aria d'uscita, ebbe applausi e complimenti d'ogni
parte. Ma appunto da quell'ora incominciarono gli assalti della bieca
combriccola, che mentisce il nome e la dignità di opinione pubblica, e
che ha l'arte di parer tale a tutti, per la semplicissima ragione che
tutti, un brutto giorno o una cattiva ora della loro vita, vanno a
deporvi la quintessenza del loro umor nero, delle loro bizze
subitanee, dei loro meditati rancori.
Ariberti militava nelle file d'opposizione, ma non voleva meritarsi la
nomèa di oppositore sistematico. Non voleva trovar male ogni cosa.
Pensava inoltre alla sua patria e si formava un giusto concetto delle
sue necessità. Donde le frequenti occasioni di scontentar Tizio e
Caio, perchè mirava anzi tutto a contentare la sua propria coscienza.
Ora ognuno che non abbia di questi giudici importuni nel foro interno
dell'anima, non crede o, a dirla più giusta non vuole ammettere che
altri ce n'abbia e li ascolti. Immaginate dunque se gli Aristofani da
dozzina non gli rivedevano il pelo! Qualche volta, vedendosi così
frainteso dai popoli, dava in certe furie, che fortunatamente per la
sua fama, restavano chiuse a forza nel petto, e si tradivano solamente
in bizze e malinconie pe' suoi familiari, o in versamenti di bile pel
medico. Avrebbe pianto volentieri, se non avesse reputato più
conveniente di serbare quelle perle dell'anima (l'Achillini può
andarsi a riporre) per farne un monile, e metterlo, insieme col suo
cuor, ai piedi di una donna.
Ah, ah! esclameranno i lettori; ecco la donna che torna in scena.
Amici lettori, voi lo sapete meglio di me, senza un raggio di sole il
giorno è uggioso; ma senza un sorriso di donna è noioso a dirittura. E
tuttavia, vedete, ancora per un tratto dobbiamo far senza di questo
delizioso ingrediente. La donna nuova, la donna che doveva far battere
il cuore di Ariberti uomo, come tante altre avevano fatto battere il
cuore di Ariberti giovane, era ancora in nube, a mezz'aria. Il nostro
eroe la sognava, non avendo anche avuto il tempo di andarla a cercare.
Chi sa? forse quella donna gli passava daccanto, bella e composta
negli atti come una madonna del Sanzio, mentre egli se n'andava
frettoloso alla Camera meditando uno squarcio d'eloquenza intorno ad
una quistione di tariffe doganali: o la vedeva trascorrere in calesse
alla volta dei Giardini pubblici, mentre egli usciva da sollecitare
una pratica in qualche ministero. Di certo essa gli appariva, divisa
in cento forme, l'una più incantevole dell'altra, nei giri vorticosi
d'un ballo di Corte. Se egli avesse potuto essere per un giorno per
un'ora almeno, uno di que' spensierati aiutanti che sgallettavano
intorno alle dame, come le avrebbe osservate tutte, studiate tutte
_intus et in cute_, per riuscire a trovar quella che gli destinavano i
Numi! E n'aveva spesso certi bagliori, e certi giramenti di capo, che
non vo' dirvene altro, per non ficcarmi in un ginepreto, donde non
uscirei forse più con onore. Per altro, si faceva forza; svoltava
l'angolo della strada, usciva dal ballo, entrava nel palazzo
Carignano, e le pericolose immagini svanivano tosto, lasciando
l'onorevole Ariberti a tu per tu col suo genio parlamentare, che è, in
mancanza di meglio, il genio tutelare dei deputati.
La durò un pezzo così, adattandosi colla torpida virtù della
consuetudine alla sua vita di uomo politico, e affondandosi lentamente
in quel pantano di mezze ambizioni, di mezze aspirazioni, di mezza
indipendenza. Dico di mezza indipendenza, perchè col suo carattere e
con quel suo gener di vita, egli non poteva che essere schiavo di
mille circostanze, dubbi, riguardi, convenienze sociali, ragioni
d'opportunità e via discorrendo. Pur troppo, il mondo, il mondo è
quello che vuol essere, e a mutarlo ci vorrebbe altra barba che quella
d'un uomo. Mai, come allora che fu in alto, tra coloro che più sanno e
possono, il nostro, Ariberti si avvide che questo mondo non si è
padroni di nulla, nemmeno di sè medesimi, che è tutto dire!
E tutto ciò senza mettere in conto gli elettori, questi padroni
incontentabili, pei quali il deputato è uno schiavo negro, a cui si
domanda il massimo lavoro, ma a cui per compenso non si risparmiano le
frustate. Gli elettori di Ariberti non erano da annoverarsi tra i
peggiori della specie, ma anche così com'erano, gli riuscivano
impegnarmi cogli usurai tutto quello che i vostri vecchi hanno
accumulato colle loro fatiche?
--No, vi assicuro... credo che fra tutto... quindici, o venti... sì,
debbono essere ventimila..
--In un anno? Ma bene, per Dio! Tirate innanzi così. Alla mia morte,
che spero non sarà lontana....
--Padre mio!
--Non m'interrompete! Alla mia morte non vi resterà più altro che
darvi alla strada, come un volgare assassino. È la sorte che vi
aspetta; una caduta ne chiama un'altra. Nemico della vostra famiglia
fin d'ora, lo diverrete della società; dissipatore della vostra
sostanza, diverrete ladro dell'altrui.
--Padre mio! padre mio!--gridò forsennato Ariberti.--Uccidetemi, ve
l'ho detto, uccidetemi, ma per quanto avete di più sacro, per la mia
santa madre, non mi parlate così!
--Vostra madre! La ricordate in buon punto. Vostra madre è in letto da
due giorni, e per voi, pel dolore, e per la vergogna delle vostre
azioni da galera.--
Ariberti non s'inalberò, non udì nemmeno la frase esorbitante che la
collera strappava alle labbra di suo padre. L'immagine della sua buona
genitrice inferma per cagion sua gli aveva messo in corpo la febbre e
lo faceva dare in urla così disperate, che perfino il signor Amedeo ne
ebbe pietà.
--Andate a Dogliani;--gli disse allora,---vostra madre vi aspetta. Qui
intanto non avete a fare più nulla, ch'io mi sappia.
--Oh no, purtroppo;--rispose il giovane--ma voi, padre mio?
--Non vi date oggi più pensiero di me che non abbiate fatto in
quest'anno di scapestrataggine;--rispose il signor Amedeo, tornando
alla sua parte di burbero.--Io, poi, ci ho il mio resto di
contentezze a Torino. Non mi avete voi nominato il vostro banchiere,
il vostro maggiordomo, il vostro elemosiniere? Andate, e fatemi la
grazia di non voltarvi più indietro.--
Il giovine si avvide che non c'era più verso di cavar altro dalla
giusta severità di suo padre, ed uscì colla mente in iscompiglio.
Soltanto per istrada e molto lontano da casa si ricordò che non aveva
danari in tasca per fare il viaggio. Ma, se ne fosse pur ricordato
qualche minuto prima, o nelle scale, o in casa, avrebbe egli forse
avuto il coraggio di chiederne a suo padre?
In quelle distrette, il caso o una segreta ispirazione del cuore, lo
condusse difilato in piazza San Carlo, e proprio alla svolta della via
di Santa Teresa. Lasciamo star dunque il caso e l'ispirazione, e
diciamo i suoi santi protettori. I quali, dopo aver fatto tanto,
compirono l'opera, spingendolo oltre, fino all'uscio di quella casa in
cui abitava Filippo Bertone.
Dice un proverbio che gli amici si conoscono alla prova. Aggiungerò
coll'esempio di Ariberti che al momento della prova s'indovinano. Egli
non era mica andato a cercare i cavalieri di Malta, i suoi compagni di
scioperatezza, coi quali aveva passato ancora la sera antecedente, per
far la vigilia del suo esame infelice. Andava in quella vece da
Filippo Bertone, dal suo fortunato rivale, in cui la sera antecedente
egli vedeva ancora un nemico.
Filippo gli aperse le braccia e se lo strinse al petto con tenerezza
fraterna. Voleva sorridergli; ma lo vide così stralunato, che il
sorriso gli si gelò sulle labbra.
--Mio Dio!--esclamò egli impallidendo.--Che ti è accaduto, Ariberto?
--Rovinato, Filippo, rovinato!--rispose il giovane mentre si lasciava
cadere come corpo morto su di una scranna.--Rimandato all'esame;
rimandato, capisci? Mio padre è qui. Egli sa tutto, le mie pazzie, le
mie colpe. Ne ho molte... ne ho troppe... ed anche con te, Filippo...
--Oh, non parlar di me, te ne prego. Vedi, ti ho sempre aspettato.
L'avevo qui nel cuore: egli è buono e tornerà. Sarei venuto io per il
primo, se non avessi temuto di farti dispiacere; sarei corso, se ti
avessi saputo infelice.
--Lo sono, Filippo mio, lo sono, e più che tu forse non credi. Ho
perduto l'affetto di quell'uomo onesto e leale che è mio padre; la mia
santa mamma è inferma dal rammarico che io le ho cagionato; insomma,
io sono un disgraziato, e mi fo orrore, capisci? mi fo orrore!
Qui, d'una in altra parola, Ariberti scese a raccontar ogni cosa a
Filippo; della sua vita sregolata, degli amori, dei debiti, degli
esami falliti, e via discorrendo.
--Povero amico, fatti animo---gli disse Bertone. Un padre come il
tuo ama sempre il suo sangue, qualunque cosa egli faccia; fuori,
s'intende, il bruttarsi con azioni malvagie od infami. Tu ti sei
indebitato fino agli occhi e non hai studiato come dovevi. È male,
lo capisco, ma non è fortunatamente un delitto di lesa famiglia,
come lo sarebbe stato per me. Non ti disperare, Ariberto; parlerò
io a tuo padre. Tu frattanto va subito a Dogliani per consolare la
tua povera mamma. Chi sa che il vederti non le ridoni la salute,
meglio di tutte le ordinazioni del medico! So ancor poco di
medicina,--soggiunse Filippo sorridendo,--ma già abbastanza per
conoscere il pregio delle medicine morali. Va dunque, e subito. Se
ti occorre danaro, eccone.
--Che fai?--balbettò Ariberti confuso.--Tu ti privi per me...
--Non temere; ne ho più del bisogno. Son ricco, sai? Guadagno un
dugento lire al mese e fo ancora qualche sparagno.
--E come?--chiese Ariberti, meravigliato più dei guadagni che non dei
risparmi del suo amico Filippo.
--Ho già parecchie lezioni,---rispose questi candidamente,--ed anche
qualche ripetizione di anatomia. Che vuoi? Insegno quel che non
so;--aggiunse Filippo, accompagnando le parole con uno dei suoi
malinconici sorrisi;--ma studio la mattina e insegno più tardi quello
che ho imparato io medesimo un'ora prima. In tal guisa non inganno
nessuno. Mi stanco un pochino, è vero; ma tu lo sai, sono un montanaro
e ci ho uno stomaco di ferro.
--Mio buon Filippo! Tu meriti davvero di essere amato;--esclamò
Ariberti, gittandogli le braccia al collo.
E il pensiero gli correva in quel mentre, ma senza gelosia, alla bella
marchesa di San Ginesio. Quella severa Giunone amava il suo Filippo;
su questo non ci cascava dubbio. Ma questa, per chi conosceva lui e
lei, doveva essere la cosa più naturale del mondo. Ariberti si sarebbe
meravigliato fortemente, avrebbe creduto meno alla virtù e
all'influenza della virtù, se la cosa fosse andata altrimenti.
--Grazie di questo e dell'altro;--ripigliò Ariberti, dopo aver ceduto
a quell'impulso di affetto e di ammirazione.--Tu dunque parlerai a mio
padre? otterrai il suo perdono per me?
--Sì, non dubitare, parlerò per te, gli spiegherò.... Veramente, non
so che cosa potrò spiegargli, io che vivo fuori di questi viluppi...
Ma infine gli dirò il buon cuore che hai, ed egli mi crederà. È tuo
padre, l'ho detto, e non potrà vederla diversamente. Quanto a me, io
spero che l'amicizia mi renderà facondo come Ortensio, caldo come
Demostene.
E Filippo Bertone mantenne la promessa. Vide il signor Amedeo quel
medesimo giorno, ma non entrò in argomento, perchè il babbo di
Ariberti era troppo adirato col figlio. Scambio di affrontarlo, col
pericolo di farsi mandare a tutti i diavoli, lo circuì bel bello, gli
si fece compagno nelle sue gite per Torino, mettendo fuori ora una
parolina, ora un'altra, e aspettando pazientemente le occasioni più
favorevoli. E siccome il signor Amedeo tra carezze e minacce, era
riuscito ad ottenere da quel briccone di Arun el Rascid un grosso
taglio sul preteso suo credito, e con dodicimila lire date lì per lì
riusciva ad estinguere tutti i debiti del suo signor figlio, il nostro
Bertone giunse ad averlo più maneggevole, e la perorazione fece un
effetto che Demostene ed Ortensio redivivi non si sarebbero ripromessi
di certo, se si fossero trovati nei panni di Filippo Bertone.
Sì, veramente, Ariberto si era diportato da matto. Ma era giovine,
faceva i primi passi nel mondo, e i primi passi son sempre difficili.
Lo sapeva Filippo Bertone, che veramente non era cascato, ma soltanto
perchè stretto dal bisogno, senza la croce d'un quattrino e l'ombra
d'una speranza negli aiuti della famiglia. Filippo si buttava giù, si
calunniava, ma lo faceva a buon fine. Per contro si esaltava, si
nobilitava a dipingere il cuore dell'amico, a dimostrare come fosse
amaramente pentito de' suoi trascorsi, quanto avesse pianto tra le sue
braccia, come egli avesse durato gran fatica a chetarlo, quali
promesse e giuramenti avesse religiosamente accolto da lui. Insomma,
tanto disse e fece il bravo Filippo, che il signor Amedeo si lasciò
intenerire e quando tornò a Dogliani, fra la moglie trepidante e il
figlio confuso, gli vennero meno le forze a star grosso.
E qui bisognerà dire che Ariberto non mentì alle promesse che Filippo
aveva fatte in suo nome. Fu quello l'ultimo dolore che egli cagionasse
ai suoi parenti. La lezione era stata dura e gli aveva lasciato una
traccia profonda nell'anima.
Ogni suo pensiero, ogni studio, ogni cura, fu in lui di riacquistare
il tempo perduto. Alla seconda prova d'esame era armato di tutto punto
e non fu il caso di voltargli le sue risposte in burletta, bensì di
dargli i pieni voti e la lode. Riconquistato in tal forma il suo
onore, non volle rimanere a Torino; se ne andò a Pisa, a far vita
nuova; e là, non so dirvi come annaspasse, fatto sta che, senza
guardar l'Ussero con occhio torvo, senza disdegnare la baraonda «tanto
gioconda» del Giusti, guadagnò un anno di corso, e in otto mesi
prendeva il berretto, l'anello e tutte l'altre insegne di Bartolo e di
Cujacio.
CAPITOLO XVII.
"Poëta nascitur, orator fit".
Si era innamorato dello studio, come già di tante altre cose. E tra
tutte le nobili discipline (notate, lettori umanissimi, come anche lo
scrittore si metta sul grave e adoperi parole convenienti al soggetto)
tra tutte le nobili discipline, io dico, il nostro eroe preferiva le
più ostiche, come a dire l'economia politica, il diritto
amministrativo, la procedura civile. Chi l'avesse mai detto, qualche
anno prima all'autore delle _Frondi sparse_, si sarebbe fatto ridere
sul muso. Ma già, lo ha scritto un autore di vaglia: «mutano i saggi»,
ed io potrei aggiungere, coll'esempio di Ariberti, anche coloro che
non lo sono.
Quando egli si addottorò in leggi, che fu due anni dopo la sua
partenza da Torino, gli aveva preso la mania del grave, come
aveva avuto prima la manìa dello scapestrato. Per altro, non era
tutto capriccio in lui, o amore di novità. Gli stavano sempre
davanti le tristi scene in cui si era chiusa la sua vita di
buontempone, e lo umor suo ne risentiva le angoscie. Dottor
Fausto in sessantaquattresimo, Ariberti non volle e non ebbe più
una ora di svago. Aggiungo, che provava una certa voluttà tutta
sua particolare a stillarsi il cervello in quel modo, tra un
codice e un repertorio di giurisprudenza, tra una allegazione e
una causa ingarbugliata, di quelle che ai curiali paiono
solamente «complesse» e piene di bei «rapporti giuridici».
Esagerazione di propositi, comune a tutti i nuovi convertiti! Pel
nostro neofito si aggiunse la morte della madre, vittima della rottura
di un aneurisma, secondo che sentenziarono i medici, ma che alla sua
pietà filiale doveva parere colpita di ben altro male, e accrescergli
in cuore i rimorsi. La santa donna si era spenta benedicendo a suo
figlio, e facendo voti perchè si conservasse così assegnato e studioso
come si dimostrava da due anni. E questo aiutò a renderlo più triste,
più chiuso, più intento al lavoro, che non fosse dapprima, e per
conseguenza più dimentico delle allegrezze mondane, dei sollazzi e
delle espansioni della sua medesima età.
Poi, non c'è cosa che invecchi un uomo anzi tempo, come la pratica
forense. Alla mattina, anche prima di asciolvere, e sto per dire di
essersi levato il sonno dagli occhi, ci sono le conclusioni da finire
pel causidico, i punti controversi da chiarire, la «concione» da
meditare per l'udienza vicina. Il tribunale vi ruba le due o tre ore,
spesso colla noia di attendere che sia chiamata la vostra causa.
Tornate a casa, seguito dalle benedizioni o dai moccoli del cliente, e
vi assediano da capo i procuratori con altre conclusioni da preparare,
clienti che non pagano e vi chiedono un consulto, società, istituti,
che vi domandano un congresso, o vi appioppano la cura di mettere le
loro trappolerie in riga col codice.
E in queste occupazioni vi capita addosso l'ora del pranzo, o desinare
che sia. Avvertito dal servitore, ordinate che si dia in tavola, e
frattanto andate a caccia di articoli per un'altra mezz'ora. Così
avviene che, quando finalmente potete sedervi a tavola per mangiare un
boccone in furia, la minestra è rifredda, l'intingolo non ha più
gusto, il pasticcio sente il bruciato, e l'appetito non vi tien più
compagnia. E la sera, poi? La sera bisogna tornar nello studio; il
teatro, i salotti, i geniali ritrovi sono proibiti come le pistole
corte; è l'ora dei clienti; l'avvocato ha da aspettare i clienti,
anche quando c'è da scommettere cento contro uno che i clienti non si
lasceranno vedere.
Imperocchè l'avvocato è nel suo studio quello che un ragno nella sua
buca. Il povero insetto solitario se ne sta in attesa per giorni e per
settimane, regge l'anima coi denti, invocando una mosca, disposto a
contentarsi d'un moscherino purchessia. E per giorni che passino, per
settimane che si seguano e si rassomiglino, il povero solitario non
può muoversi dal suo bugigattolo. Se per caso un moscerino avesse a
passare da quelle parti e non trovasse l'avvocato! Scusate, volevo
dire il ragno; ma già, poichè ho detto l'avvocato, lo lascio stare;
mettete voi il cliente in luogo del moscerino, e tutti pari!
La vita materiale dell'avvocatino Ariberti, fra il tribunale e lo
studio, condannato per anni ed anni a non avere che moscerini,
clientucoli al civile e ladruncoli al criminale, s'intenderà
facilmente; nè io farò fatica di descriverla, nè voi, lettori
umanissimi, farete quella di starla a leggere. Vorrei parlarvi in
quella vece della sua vita intellettuale; vorrei dirvi del suo cuore,
che diavolo facesse in quella galera. Ma già, mente e cuore, se non
erano atrofizzati, sonnecchiavano, come si sonnecchia in diligenza, o
in ferrovia, tra un paese che si è lasciato e un altro a cui non si è
ancora arrivati.
Diffatti, Ariberto Ariberti, era proprio in quella età che un uomo
incomincia a sentir le sue forze e vuole giungere con esse a qualcosa,
a scalzare una montagna, o a cavare un ragno da un buco. Si è invasi
da una febbre di operare, sollecitati da un desiderio di andare, non
importa dove, rosi da una maledetta ambizione che si cruccia da sè,
per mancanza di un fine stabilito, e mentre vi fa anelare ad una
carica di ministro, o ad altra di quelle altezze intorno alle quali
c'è il vuoto, vi fa durare una fatica da cani per afferrare un seggio
di consigliere comunale, una croce di cavaliere, una presidenza di
comizio agrario, od altra simile tra le umane grandezze, in cui
s'assottiglia l'ingegno, e per cui soventi si perdono i sonni, pur di
far crepare d'invidia un centinaio di sciocchi della vostra medesima
forza.
A quei lumi di luna, l'amore, il povero amore, non è più, o non è
ancora tornato, il gran negozio della vita. Imperocchè, non vanno
neppure contati i ripeschi da dozzina, i capricci, le effimere
ebbrezze che gli uomini seri ammettono a guisa di svago dalle cure più
gravi, o di abitudine senza conseguenza, e che meritano il nome di
amore come la stretta di mano e il darsi del tu meritano il nome di
amicizia, in questo commercio quotidiano di graziose menzogne, che è
la nostra vita cittadina.
Trista cosa, non è egli vero? E diffatti io ve ne parlo di volo, e
solamente perchè non posso a dirittura passarmene, essendo che questa
è la storia del mio eroe, ed io, fermandomi con una certa compiacenza
ai punti principali, debbo pure accennare il rimanente, e colmar
gl'intervalli. Del resto, il mio eroe non è veramente un eroe; è
semplicemente un uomo, con tutte le sue debolezze. E se gli pare che
sia una bella cosa esser fatto consigliere comunale o provinciale, che
ci ho da far io? Gli è parso dapprincipio che ciò dovesse aiutarlo
nella sua professione d'avvocato, e può anche darsi che avesse
ragione; ma badate, io non metterei una mano sul fuoco per
guarentirvelo, e non farei due passi sopra un mattone (vedete quanto
sarebbe lieve il fastidio!) per andare a sincerarmi del fatto.
Comunque sia, eccolo con un monte di faccende sulle spalle. È
consigliere di tutto un po' ed ha mano e voce in una dozzina di
commissioni, l'una più utile dell'altra al buon andamento della cosa
pubblica, il cui intento, chi nol sapesse, è di andare alla peggio.
L'avvocato consigliere è proprio nella sua beva, e, non c'è che dire,
trova tempo a far tutto, a pensare, a ricordarsi di tutto. S'intende
che non ne ha per leggere un bel libro, e meno ancora per dettarne de'
suoi. Dio buono, e come avrebbe a fare, con tanta roba alle mani? Già
da un pezzo non scrive che conclusioni, allegazioni, relazioni,
esposizioni, ed altre consimili negazioni d'ogni arte e di ogni
bellezza. È un uomo serio, che ci s'ha a dire? Certo, non l'ho fatto
io quel che è; e poichè siamo sull'argomento, e perchè non abbiate a
darmene carico più tardi, vi giuro fin d'ora, e per tutto quello che
io mi ho di più sacro, incominciando dai vostri occhi che mi leggono,
vi giuro, io dico, che non gli ho dato il mio voto quando uscì eletto
deputato al Parlamento da uno di quei collegi delle sue Langhe, tanto
care al mio cuore.
Eppure, non posso e non voglio negare che i suoi elettori mandassero
alla Camera un fior di galantuomo. Debbo anche aggiungere, per debito
d'imparzialità (non giornalistica, intendiamoci che è imparzialità a
denti stretti), come il candidato non brigasse poi troppo per farsi
eleggere. Il caso lo aveva aiutato in tutti i modi, prima colla morte
del titolare, poi colla pronta convocazione del collegio, da ultimo
con la mancanza di competitori temibili. Era giovane, e qualche
giornale torinese disse ridendo di lui, come di Pier Carlo Boggio,
ch'egli era il deputato trentenne. Ma lo avere trenta anni non era
mica una disgrazia. Intanto, gli aveva giovato molto il non essere
troppo in vista a Torino, dove le invidie e i rancori non avrebbero
tralasciato di perseguitarlo, incarnati nei Ferrero, nei Vigna, nei
Balestra, nei Candioli, e via discorrendo. E più ancora gli era
tornato utile lo aver vinto una causa di qualche rilievo per un suo
conterraneo, intendente e _factotum_ di un Creso delle Langhe, i cui
fittaiuoli ed aderenti votavano con una disciplina esemplare.
In tal guisa favorito dalla fortuna, il nostro Ariberti potè credere,
per un giorno almeno, che tutto fosse oro di coppella a questo mondo,
poichè nessuno, durante il periodo elettorale, gli aveva dato del
venduto, o del ladro. Un diario della capitale, che propugnava una
delle solite candidature universali, non potendogli ancora dir altro,
perchè non lo conosceva e non ci aveva ai fianchi un Ferrero, si
contentò di dargli dell'asino. Ma Ariberti si era tastato le spalle,
e, non avendo sentito il basto, si era contentato di sorridere. Se non
ci hanno altri moccoli, aveva detto tra sè, possono andarsene a letto
al buio.
Salutiamo dunque il signor deputato, e rallegriamoci col signor
Amedeo, il quale da tanti anni vedeva il suo figliuolo arare diritto e
finalmente raccogliere i frutti di quello che aveva seminato.
Il signor Amedeo in quella faccenda non ci vedeva troppo giusto;
bisogna confessarlo a suo marcio dispetto. Ma i babbi son tutti
tagliati ad una guisa; amano di vedere i loro figliuoli che tirano al
sodo; e, quando ciò sia, non la guardano poi tanto nel sottile; anzi,
voi li fareste maravigliare non poco, se vi metteste alla prova di
persuader loro che ci possono essere altre fantasie, altre passioni,
più pericolose delle scappatelle di gioventù, degli amori, dei debiti,
e via dicendo; se faceste trapelare al loro miope affetto quali
sopraccapi, ambizioni, e struggimenti, lavorino sotto l'intonaco di
una vita assegnata, e che razza di granchi vivano e si moltiplichino,
nelle acque in apparenza più chete.
Ma siamo giusti, i poveri babbi hanno proprio a sapere e prevedere
ogni cosa? Lasciamo, vivaddio, che si consolino di vedere i loro
figliuoli arar diritto e non mettiamo pulci negli orecchi a nessuno.
Ora, il nostro Ariberti arava diritto, non c'è che dire. Avvocato di
qualche grido, consigliere, cavaliere, deputato, era un uomo oramai
che andava innanzi da sè e non gli bisognava l'aiuto delle falde. Il
signor Amedeo poteva dunque intuonare il _Nunc dimittis_ e chiuder gli
occhi in pace, senza timore che il suo Ariberto gli sgarrasse
quind'innanzi una spanna. Suo figlio, a farla breve, era un uomo sodo,
e andava per la maggiore.
Ahimè, povera vita! Noi ne spendiamo mezza a sospirare il futuro, e
l'altra mezza a rimpiangere il passato. La nostra gravità è tutta qui,
come in estratto, e non se ne cava neppur tanto da farcene un brodo
per l'ultimo giorno di malattia, quando si legge la moralità della
favola.
Per altro, non corriamo così a fiaccacollo colle deduzioni. I primi
tempi di quella vita nuova di Ariberti non furono, o non gli parvero
brutti. Le consuetudini parlamentari gli schiudevano come un altro
orizzonte agli occhi dello spirito. Il viavai, l'affaccendarsi di
tanti colleghi, il meccanismo dei partiti, le amicizie facili, le
speranze comuni, gli davano una sembianza di allegra operosità, che
doveva a tutta prima lusingarlo, tanto più quando gli veniva alla
mente che tutti quei manipoli d'intelligenze, erano il meglio dello
Stato, fior di roba, cervelli sopraffini. L'onorevole Ariberti non li
aveva ancora esaminati per bene, non aveva ancora rivolto a sè stesso
il «_quot libras in duce summo?_» di quella lingua tabana che fu pe'
tempi suoi Giovenale. E poi, e poi, che serve tacerlo? Egli ci aveva
nel cuore un sentimento grave e poetico ad un tempo, che gli scaldava
tutte le fibre e lo faceva guardare con fiducia, davanti a sè: giovare
alla patria, meritare la gratitudine de' suoi concittadini, ottenere
un buon punto nella lotteria della storia.
Illusioni che avevano a svanire assai presto! Appunto allora che
l'onorevole Ariberti poteva giovare col senno e colla parola alla
patria, appunto allora incominciarono a pungerlo gli strali della
critica, che non si fermavano soltanto all'epidermide. Avvocato,
poteva ancora essere tollerato; il numero dei rivali era ristretto; e
poi, Dio buono, si trattava di rivali; laddove, nel campo della
politica, non erano soli i rivali a fargli il viso dell'armi, ma si
addensavano intorno a lui gl'invidiosi, gli odiatori di professione, i
cani ringhiosi per natura, e a farla breve, tutto il banno e
l'eribanno dei cattivi, degl'impotenti, dei malsani, degli spostati,
degli sciocchi, e chi più ne ha ne metta. Tutti erano contro di lui,
tutti prendevano a sfrombolarlo da lungi, quale colla matita del
caricaturista, quale coi periodi asmatici d'una lettera politica,
quale coi perfidi accenni di una notizia recentissima; che in queste e
in altre forme, che troppo mi condurrebbe in lungo il descrivere, le
serpi potevano schizzare il loro veleno, o la bava.
Così, guerreggiato da varie parti, il nostro povero eroe capì
finalmente la esistenza di certe alleanze sotterranee, che a prima
giunta, e ragionando onestamente, parrebbero impossibili, e che molti
galantuomini s'impuntano tuttavia a negare.
Ahimè, bisogna esserci dentro, colle mani e coi piedi nella maledetta
politica, per aversi a convincere che lo strano è il naturale,
l'assurdo il necessario, l'improbabile il vero.
S'intende e va da sè che su quel palcoscenico, anzi tra le quinte, i
tenori, i baritoni, le prime donne, gli facevano i più leggiadri
sorrisi del mondo. Il suo primo discorso, o, come direbbesi in gergo
teatrale, la sua aria d'uscita, ebbe applausi e complimenti d'ogni
parte. Ma appunto da quell'ora incominciarono gli assalti della bieca
combriccola, che mentisce il nome e la dignità di opinione pubblica, e
che ha l'arte di parer tale a tutti, per la semplicissima ragione che
tutti, un brutto giorno o una cattiva ora della loro vita, vanno a
deporvi la quintessenza del loro umor nero, delle loro bizze
subitanee, dei loro meditati rancori.
Ariberti militava nelle file d'opposizione, ma non voleva meritarsi la
nomèa di oppositore sistematico. Non voleva trovar male ogni cosa.
Pensava inoltre alla sua patria e si formava un giusto concetto delle
sue necessità. Donde le frequenti occasioni di scontentar Tizio e
Caio, perchè mirava anzi tutto a contentare la sua propria coscienza.
Ora ognuno che non abbia di questi giudici importuni nel foro interno
dell'anima, non crede o, a dirla più giusta non vuole ammettere che
altri ce n'abbia e li ascolti. Immaginate dunque se gli Aristofani da
dozzina non gli rivedevano il pelo! Qualche volta, vedendosi così
frainteso dai popoli, dava in certe furie, che fortunatamente per la
sua fama, restavano chiuse a forza nel petto, e si tradivano solamente
in bizze e malinconie pe' suoi familiari, o in versamenti di bile pel
medico. Avrebbe pianto volentieri, se non avesse reputato più
conveniente di serbare quelle perle dell'anima (l'Achillini può
andarsi a riporre) per farne un monile, e metterlo, insieme col suo
cuor, ai piedi di una donna.
Ah, ah! esclameranno i lettori; ecco la donna che torna in scena.
Amici lettori, voi lo sapete meglio di me, senza un raggio di sole il
giorno è uggioso; ma senza un sorriso di donna è noioso a dirittura. E
tuttavia, vedete, ancora per un tratto dobbiamo far senza di questo
delizioso ingrediente. La donna nuova, la donna che doveva far battere
il cuore di Ariberti uomo, come tante altre avevano fatto battere il
cuore di Ariberti giovane, era ancora in nube, a mezz'aria. Il nostro
eroe la sognava, non avendo anche avuto il tempo di andarla a cercare.
Chi sa? forse quella donna gli passava daccanto, bella e composta
negli atti come una madonna del Sanzio, mentre egli se n'andava
frettoloso alla Camera meditando uno squarcio d'eloquenza intorno ad
una quistione di tariffe doganali: o la vedeva trascorrere in calesse
alla volta dei Giardini pubblici, mentre egli usciva da sollecitare
una pratica in qualche ministero. Di certo essa gli appariva, divisa
in cento forme, l'una più incantevole dell'altra, nei giri vorticosi
d'un ballo di Corte. Se egli avesse potuto essere per un giorno per
un'ora almeno, uno di que' spensierati aiutanti che sgallettavano
intorno alle dame, come le avrebbe osservate tutte, studiate tutte
_intus et in cute_, per riuscire a trovar quella che gli destinavano i
Numi! E n'aveva spesso certi bagliori, e certi giramenti di capo, che
non vo' dirvene altro, per non ficcarmi in un ginepreto, donde non
uscirei forse più con onore. Per altro, si faceva forza; svoltava
l'angolo della strada, usciva dal ballo, entrava nel palazzo
Carignano, e le pericolose immagini svanivano tosto, lasciando
l'onorevole Ariberti a tu per tu col suo genio parlamentare, che è, in
mancanza di meglio, il genio tutelare dei deputati.
La durò un pezzo così, adattandosi colla torpida virtù della
consuetudine alla sua vita di uomo politico, e affondandosi lentamente
in quel pantano di mezze ambizioni, di mezze aspirazioni, di mezza
indipendenza. Dico di mezza indipendenza, perchè col suo carattere e
con quel suo gener di vita, egli non poteva che essere schiavo di
mille circostanze, dubbi, riguardi, convenienze sociali, ragioni
d'opportunità e via discorrendo. Pur troppo, il mondo, il mondo è
quello che vuol essere, e a mutarlo ci vorrebbe altra barba che quella
d'un uomo. Mai, come allora che fu in alto, tra coloro che più sanno e
possono, il nostro, Ariberti si avvide che questo mondo non si è
padroni di nulla, nemmeno di sè medesimi, che è tutto dire!
E tutto ciò senza mettere in conto gli elettori, questi padroni
incontentabili, pei quali il deputato è uno schiavo negro, a cui si
domanda il massimo lavoro, ma a cui per compenso non si risparmiano le
frustate. Gli elettori di Ariberti non erano da annoverarsi tra i
peggiori della specie, ma anche così com'erano, gli riuscivano
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