La notte del Commendatore - 17

C'era ella stata davvero, in pericolo? Io non ardirei di affermarlo. E
forse, pensandoci su a mente fredda, non lo avrebbe creduto neanche
Ariberti. Ma là, a quel caldo, non bisognava guardarla tanto nel
sottile. Ad altro pensava Ariberti; pensava a via d'Angennes e gli
mordevano il cuore certi rimorsi! A quell'età, si capisce che ne
avesse ancora. Non poteva Giselda risapere il giorno seguente quella
sua scorribanda notturna? E con che coraggio si sarebbe presentato a
lei? Imperocchè, delle due l'una, o l'inglesina era una donna a modo e
avrebbe taciuto, ma lo avrebbe anche messo lui nel caso di dover
rinunciare a Giselda; o non lo era, e per vanità, o per chiasso,
avrebbe cantato senza fallo. Pregarla che stesse zitta; sicuro! La
cosa sarebbe stata davvero di buon gusto, a quell'ora!
Intanto, la furba inglesina andava pigliandosi spasso de' fatti suoi.
--Dite, mio bel signorino, vi sono io sempre antipatica?
--Voi? a me?--chiese egli confuso.
--Sì, io. Non è questa l'impressione che io ho avuto la disgrazia di
fare su voi?
--Ma chi ha potuto dirvi?...
--Eh, un testimonio credibile; la mia amica Giselda.--
Quel tradimento della signora Szeleny gli diede maledettamente sui
nervi. Che bisogno c'era egli di andare a ripetere i suoi discorsi a
Maria? Ariberti se n'ebbe a morder le labbra dalla stizza. Ma,
intanto, bisognava rispondere, e la stizza contro l'una non era una
risposta per l'altra.
--Sì,--disse allora, facendo di necessità virtù,--l'ho detto... per
vendicarmi.
--Vendicarvi? Di che?
---Correggo la frase; rendervi pan per focaccia. La signora Giselda mi
ha raccontato che vi ero antipatico, ed io ho risposto: a buon
rendere. Dite su, non le avete forse detto che io vi ero antipatico?
--Sì e no;--rispose Maria.
--Come sì e no? Questa è una sciarada. Non la capisco.
--Quando conoscerete un po' meglio le donne,--replicò
l'inglesina,--capirete anche questa.--
Fu quella l'unica volta che il nome di Giselda venne fuori nella loro
conversazione. Forse l'inglesina ne aveva troppo parlato in principio
e non voleva tormentare più oltre il suo cavaliere. Fors'anche, e
questo mi pare più probabile, ella non voleva spaventarlo di soverchio
coll'ombra dell'amica lontana, e mirava a serbarsi il benefizio di
parlar chiaro e di mettergli le sue condizioni più tardi. Gli faceva
insomma la strada piana ed agevole ad entrar nella rete, salvo a
fargli trovare gl'intoppi quando si trattasse di uscirne. È suppergiù
l'artifizio delle nasse, in cui le aliguste entrano così facilmente a
morder l'esca, e poi, con tutte quelle steccoline che chiudono la gola
del ricettacolo, non trovano più il verso di liberarsi.
Per altro, se l'inglesina taceva, non taceva del pari la coscienza di
Ariberti. L'immagine della signora Szeleny gli tornava ad ogni tratto
davanti; ed egli era ancora troppo giovane per cavarsela da queste
malinconie con una alzata di spalle, nè abbastanza padrone di sè (e
questo lo abbiamo già visto) per rinunziare ad una fortuna così piena
di rimorsi. Egli non era, per dirla con una frase volgare, nè carne nè
pesce, e incominciava a portare la pena de' suoi tentennamenti.
Gli bisognava svagarsi, inebbriarsi, dimenticare. Questo era per un
animo come il suo il consiglio migliore. Era giovine, e la cosa gli
venne fatta più facilmente che non a me spiegarvela con queste mie
ciance. Si lasciò andare agl'impeti della sua indole pronta ed
esuberante; finse la più profonda passione che nascesse mai da un
momento all'altro nel cuore di un uomo e credo che nella furia andasse
perfino di là dal segno. Alla sua età, con quell'ardore nel sangue, il
nostro eroe poteva illudere a quel giuoco, non che una donna, sè
stesso.
Così riscaldato com'era, egli non si fermò neanche a considerare che
il passo della signora Mary era ardito oltre ogni ritegno di
condizione ed ogni misura di convenienza. Ma in questo errore sarebbe
caduto anche un uomo più maturo di lui. Tutto ciò che le signore donne
fanno per noi è ben fatto; nelle loro debolezze non vediamo che la
nostra potenza, e questa poi, siamo sempre disposti a condonarcela. Se
si trattasse della fortuna di un altro, oh allora, giù senza
misericordia sulle donne che cascano. Ma si tratta di noi.... È forse
colpa di quelle poverine, se noi siamo nati irresistibili? E il giorno
che si è fatta quella scoperta, come si desina di buon appetito! come
ci si stropiccia allegramente le mani!
Lettori, io mi perdo in chiacchiere, e sono già le tre del mattino.
Anche i miei due personaggi se ne sono accorti, per l'indiscrezione di
non so quale orologio del vicinato.
--Mio Dio!--esclamò Ariberti, col suo solito candore.--Che dirà ora la
zia?--
In questo caso, come in tanti altri che ha registrati la storia, da
Eva in giù, la donna si mostrò più forte dell'uomo.
--Che importa?--diss'ella.--Alla fin fine non sono più una bambina.
Sappiate, signor mio, che tra due mesi anch'io calcherò le scene e
dovrò pure uscir di tutela.
--Ma intanto...
--Ma intanto non vi date pensiero di ciò che diranno le zie. E questo
sia detto sui generali, per tutto ciò che può occorrervi nella vita.
Nel caso nostro poi, non c'è da pensar molto per trovare un pretesto.
Avevo freddo; sentivo lo stomaco vuoto e siamo andati da Biffo...
--A prendere un brodo; benissimo. Ci si potrebbe andar ora, per non
dire una bugia tutta intera.
--No, no!--interruppe l'inglesina.--Potrebbero vederci, e ciò non mi
garba... colla vostra aria da trionfatore romano.
--Cattiva! Dite piuttosto che temete d'incontrarvi in qualcheduno dei
vostri eterni adoratori.
--Voi vedete a quest'ora come io mi prenda pensiero di loro.
--Venite, dunque.
--No;--replicò la signora Mary, che aveva buon senso per due;--a
quest'ora da Biffo ci si può essere ancora, ma lo andarci a
quest'ora...
--Ho capito;--gridò Ariberti;--ed io sono una bestia.
--Ah, manco male!--
E quel battibecco d'innamorati finì in una sonora risata.
La conseguenza del ragionamento si fu che Ariberti accompagnò a casa,
senz'altre fermate, la signora Mary, giurandole sull'uscio un amore
infinito e promettendo alle sue cinquecento lire che, se nessuno
gliele rubava al ritorno per via, sarebbero andate il giorno vegnente
dal gioielliere a ricongiungersi con certe altre, da cui erano state
barbaramente divelte.


CAPITOLO XVI.
Che chiude l'êra delle pazzie giovanili.

Erano questi gli studi d'Ariberto Ariberti; così viveva egli,
ciondolandosi, coll'isocronismo comune ai pendoli e agli animi deboli,
dalle marchese di San Ginesio alle Giuseppine Giumelle, dalle Giselde
alle Marie, dalle _Dore_ alle _Euterpi,_ dai Bertoni ai Ferreri e dai
Candioli ai Priori.
Fatto il male, si pentiva; l'indole sua generosa portava così. Egli
adunque si pentì eziandio di quel tradimento che gli pareva d'aver
fatto a Giselda, e, dovendo comparirle davanti, si tenne per un uomo
spacciato. Ma Giselda non gli disse nulla, non mostrò nemmeno di
avvedersi del suo turbamento; la qual cosa gli fece credere che
l'inglesina avesse taciuto. E infine, perchè avrebbe parlato? Non ci
aveva anche lei il suo tornaconto a star zitta? Così, tra speranza e
sospetto, col cuore lungamente in angoscia, tirò innanzi più giorni,
proseguendo fiaccamente a farle la corte. Egli era impacciato, Giselda
era tiepida; il loro affetto accennava a voler morire d'anemia.
Avrebbe anche l'amore il suo periodo matrimoniale?
La signora Szeleny doveva per altro aver saputo, o indovinato qualche
cosa. Ma in verità il signor Ariberti dovea premerle ben poco, perchè
ella non fece gran caso di quel suo tradimento. Solo un quindici o
venti giorni più tardi trovandosi ella nel suo salotto con Ariberti e
con qualche altro, per modo che non c'era adito a nessuna peripezia
drammatica, di punto in bianco gli chiese:
--Vi è più antipatica la mia amica Maria?--
Quella domanda improvvisa, accompagnata da uno sguardo che parve voler
dire assai più dischiuse il solito abisso davanti agli occhi del
giovane; il solito mondo di pensieri gli si affacciò alla mente
turbata, e lì sui due piedi, come portava il bisogno, la solita
deliberazione fu presa.
--No;--le rispose egli, dopo i tre minuti secondi necessarii a tutto
quel lavoro mentale che ho detto.
E la conversazione non ebbe altro seguito.
Rammento ancora il brutto senso che fece in me, scolaretto di
grammatica, e con tutta la maggior venerazione per l'ingegno di
Vincenzo Monti, la chiusa dell'Aristodemo, con quel suo endecasillabo
così povero di concetto e finito così malamente in tronco:
_«Qual morte! Egli spirò»._
Scommetto che ai miei lettori non riuscirò meno molesto io, quando
avrò detto che con quel _no,_ tronco, o monosillabico che dir si
voglia, ma sempre maledettamente asciutto, ebbe fine il romanzo tra
lui e la bella Giselda. Con quei cominciamenti maravigliosi! Sicuro;
anche l'Aristodemo incomincia maestoso e fiorito:
_«Sì, Palamede, alla regal Messene
«Di pace apportator Sparta m'invia.
«Sparta...»_
con quel che segue e che ogni buon dilettante ricorda, senza bisogno
di suggeritore alla buca.
Del resto, chi sa? Era logico che quell'amore, nato così facilmente,
come i funghi tra uno scroscio di pioggia ed un raggio di sole, si
disfacesse chetamente da sè, con altrettanta ragione di morte quanta
era stata la sua ragione di vita.
Di Ariberti e delle sue incertezze vi ho detto, e si capisce perchè
avesse lasciata intisichire la sua passione a quel modo. Ma che
pensare della signora Giselda? Ecco qua una faccia del poliedro
(poichè la geometria è di moda in letteratura) una faccia da poliedro
teatrale. La donna, creatura debole, ha sempre mestieri di appoggio;
la prima donna, che è donna alla seconda potenza (vedete? dalla
geometria si passa nell'algebra), ha mestieri di appoggi. L'uomo,
anzi, gli uomini, non sono un fine per lei, ma strumenti ordinati ad
un fine, collocati sulla sua strada perchè essa li usi a quel fine.
Perciò, amori pochi, e tutta galanteria; galanteria molta o poca,
schietta od impura come le varie qualità di petrolio che sono in
commercio (ahimè, qui si casca dall'algebra nell'industria!), ma
sempre subordinata alla carriera.
La carriera, capite? Imperocchè, salvo i casi di fare fortuna con
qualche ricco sfondolato che offra il suo cuore per la trafila del
notaio e del prete (adesso bisognerà aggiungere il sindaco), il
sopraccapo della carriera artistica va innanzi perfino alla cura del
vile guadagno. il tornaconto è una cosa; la carriera è tutto. C'è
dentro la soddisfazione dell'animo, la vanità consolata, le rivalità
debellate, la notorietà, l'apparenza, insomma tutti i benefizi
dell'essere in mostra. Anche il giornalista, per quanto dicono i suoi
critici, è fatto un pochino così. _Semel abbas semper abbas;_ cioè a
dire che quando abbia una volta assaporate le pericolose gioie
dell'essere in vista, alla ribalta del suo teatro politico, non sa più
rassegnarsi a tornare fra le quinte. Come? potrebbe egli venire il
giorno per lui che Minghetti, o chi per esso, non tremasse nello
strappare la fascia del suo riverito giornale? che nessuno dei
mendicanti di fama credesse più necessario di fargli la sua
scappellata per via? Si grida contro le seccature del mestiere; ma che
serve? il palcoscenico attira. Avanti dunque gl'istrioni! Anche a
Nerone, buon'anima sua, dispiaceva di andarsene dalla scena del mondo,
e soltanto perchè non avrebbe potuto più sostenervi la sua parte.
«_Qualis artifex pereo!_»
Eppure la felicità è una cosa modesta nelle sue apparenze, dirò
meglio, una cosa oscura, che si compiace nel silenzio e sa farsi, con
pochi ma saldi affetti e con umili ma care consuetudini, il suo
recesso ignorato anche in mezzo alla folla. Solo il piccolo mondo che
ci siamo foggiati, per così dire, nei ritagli del grande, ha veri
conforti per noi, o tanto più efficaci in quanto che sono più
concentrati. Ma sì, andate a dirlo agli istrioni! Neppure Giselda era
fatta per accettare di buon animo la sua parte di felicità con
Ariberti, quantunque giovane, bello, e innamorato per giunta. Se egli
avesse posseduto almeno cinquanta mila lire d'entrata, chi sa?....
Forse allora la bella diva avrebbe potuto rinunziare al suo
piedistallo sul palcoscenico, ma per formarsene un altro nella società
elegante e per avere il diritto di lagnarsi poi, di rimpiangere
costantemente due volte al giorno il sacrificio fatto di tanti omaggi
d'adoratori a cui era avvezzata, dei fiori, degli applausi e del nome
in mostra sui cartelloni.
Quanto ad accettarlo come un amante, a dargli e ad accoglierne un
tributo d'affetto immenso e fugace, la cosa sarebbe stata più facile,
perchè Ariberti le era simpatico. Rammentate il modo in cui si erano
conosciuti. Ma il piacere agli occhi di una donna non basta ancora; e
spesso, in una società che fa tutto a mezzo e non ha gagliardia
d'impulsi per la virtù nè pel vizio, val più una occasione colta a
volo, che non la costanza e l'ossequio da un lato, e la passione, o la
misericordia, dall'altro. Poi, il nostro innamorato non era stato
abbastanza audace, o la signora Szeleny non aveva avuto bisogno
abbastanza di lui. Siate audaci; un granellino d'audacia dà risalto
all'amore. Rendetevi necessari, e sarete anche cercati. È il segreto
di molti con molte, e se non temessi di farmi cavar gli occhi da
qualche decima Musa sdegnata, vorrei dire con tutte.
Così adunque ebbe fine quell'altra passione di Ariberto Ariberti.
Venne un mattino uggioso e freddo, sebbene fosse già di primavera
inoltrata, che la signora Giselda Szeleny se ne andò via da Torino.
Era stata cinque mesi sulle rive del Po, e mietuti quei pochi allori,
pigliati a stento quei magri quartali che l'impresario giurava non
aver essa guadagnati, se ne tornava alla sua residenza artistica in
riva all'Olona. Spariva, insomma, portando via ad Ariberti un
pezzettino di cuore e lasciandogli in ricambio qualche frase magiara
pei suoi studi di lingue comparate, un guanto per la sua collezione di
roba scompagnata e qualche ciocca di viole appassite, malinconici
trofei d'un amore, che si era fermato alle prime avvisaglie. Ma no,
dico male; gli lasciava anche la promessa di scrivergli spesso e
lungamente, tanto per avere una scusa a non dirgli altro a parole e
per dare una forma meno recisa e fredda all'addio.
Frattanto quel suo ripesco amoroso colla bella inglesina andava
innanzi col solito metro. E i debiti pur troppo del pari, di guisa che
Arun-el-Rascid già incominciava a star sul tirato e il nostro eroe si
vedeva in un ronco, senza speranza di uscirne.
Il suo dramma era stato recitato ed era anche piaciuto discretamente
ai popoli. Ma egli aveva lavorato per la gloria, la qual cosa vuol
dire che non aveva buscato un soldo. E per giunta alla derrata, quel
po' di gloria gli fruttò noie e grattacapi a bizzeffe. La _Dora_ aveva
detto corna del lavoro, e con parole di superbo dispregio, che a lui
parve eccedessero i termini assegnati alla critica onesta. Si capisce
che mandò subito i suoi padrini ai compilatori dell'ibrido giornale.
Andarono questi e trovarono Ferrero, che rifiutò di battersi per un
giudizio letterario. Povero a lui, diceva, se avesse dovuto dare
soddisfazione sul terreno a tutti gli autori fischiati, o degni di
esserlo! In quell'idea s'incocciò, nè ci fu verso di smuoverlo,
neanche con qualche frase un po' dura. Quanto al contino Candioli,
egli non poteva battersi che coi pari suoi, e Ariberto Ariberti era un
plebeo. La teorica parve più codarda che superba al Priore, che,
trovandosi in ballo, commise l'imprudenza di dare il suo conto giusto
a quello sciocco vanaglorioso. Non lo avesse mai fatto! La sera di
quel medesimo giorno, era chiamato _ad audiendum verbum_ alla polizia,
e lì, sui due piedi, mandato via da Torino. Straniero, con qualche
marachella sulla coscienza, ce n'era d'avanzo per dargli lo sfratto.
Ariberti capì l'antifona. Era in un paese di prepotenti, e qualcosa
poteva toccare anche a lui. Però stette zitto e divorò la sua rabbia.
Intanto, la cacciata del Priore gli faceva perdere eziandio la
speranza di qualche aiuto ne' suoi bisogni più urgenti. Perchè, come
sapete, il Priore era generoso a' suoi giorni. Lui partito da Torino e
senza timore che potesse tornare, incominciarono le chiacchiere sul
conto suo e si venne a risapere che teneva il sacco ai banchieri del
Ghetto e tirava in trappola i figli di famiglia; ma, dopo tutto,
Tristano Falzoni non era un usuraio egli stesso, e se guadagnava male
il denaro, sapeva poi spenderlo bene, rendendo anche qualche servizio
ai merli spennacchiati per opera sua. C'era in lui, come si vede, il
sentimento della restituzione; non lo si poteva dire in tutto, nè del
tutto un malvagio... In altri tempi, e con più nobili occasioni,
avrebbe potuto essere un eroe. Il tempo suo, la vita randagia,
l'oziosità, l'amor dello spendere, il bisogno, ne avevano fatto un
cavaliere d'industria.
L'accorta inglesina non ebbe a far molto, per avvedersi che il suo
amante navigava in cattive acque. In verità, bisogna dire che ci sia
proprio qualche cosa, intorno a noi e parte imponderabile di noi, la
quale non si vede, come l'aureola dei santi nei quadri della vecchia
scuola, ma si sente tuttavia e fa intendere l'animo nostro, indovinare
gli arcani della nostra vita a cui meno vorremmo. Essa è qualche volta
l'aureola della felicità e della gloria, qualche altra della miseria e
dell'abbattimento. Si ha un bel nascondere questi segreti e custodirsi
il volto con una maschera di bronzo; essi, quando non traspariscono,
traspirano da noi. Inoltre ci sono nella vita di un uomo giorni di
fortuna e giorni di disdetta; negli uni va tutto bene, anche il mal
fatto; negli altri va tutto male, anche il più sapientemente
architettato a fin di bene.
Ariberti era in uno di questi periodi; non gliene andava più una
diritta. Però aveva perduto la serenità spensierata dell'animo; rideva
ancora qualche volta, ma, in mezzo alle matte allegrezze, il suo
spirito si arrestava in soprassalto, come se una voce interna lo
richiamasse alle angustie, alle malinconie della sua condizione. Si
aggiunga che la sua eleganza era sparita, o per meglio dire, aveva
perduto ogni freschezza, ed egli faceva lo zerbinotto sugli avanzi del
passato splendore; campava sui rilievi della sua propria mensa. Aveva
incominciato a mettere un cordoncino di seta in luogo della catenella
vistosa che gli ornava la sottoveste, venduto a mano a mano i
ciondoli, le spille, i bottoni ed altri simiglianti gingilli. Un bel
giorno anche l'orologio se ne andò al monte; segno (avrebbe detto
qualche capo armonico dei cavalieri di Malta) che era annoiato di
rimanere in pianura.
E proprio allora quell'inglesina del malanno incominciava ad aver
mestieri ogni tanto di saper l'ora giusta. Per qualche giorno la tenne
a bada con certe sue invenzioni; un po' era uscito senza orologio; un
altro po' lo aveva dato ad aggiustare, e l'orologiaio, secondo il
solito, non si faceva premura di renderlo, infine, menava il can per
l'aia, o fingeva di non avere udito.
Intanto, i calabroni erano ricomparsi e le ronzavano a sciami
d'attorno. Questa frequenza non si era più vista dopo la passeggiata
notturna che ho raccontato più sopra; segno che l'inglesina tutta
intenta ad irretire il giovinetto, aveva tenuti quei molesti invasori
lontani dall'alveare. Come diamine si erano essi fidati di ritornare?
Fiutavano anch'essi la chiusa del romanzetto, o rispondevano ad una
chiamata? Ariberti non ne sapeva nulla, ma si adombrava di tutto. Il
cattivo umore lo rendeva ancor più geloso che per sua natura non
fosse.
E incominciarono i lagni, i battibbecchi, temperati in principio dalla
passione, resi ancora sopportabili da un certo qual garbo capriccioso,
come le gelosie dei personaggi goldoniani, ma in processo di tempo più
acerbi, via via meno facili a chetarsi, e conchiusi da ultimo in una
scenata coi fiocchi.
Erano volati da una parte e dall'altra i paroloni; ma quelli di
Ariberti non dimostravano altro che il suo dolore; quelli di Mary
andavano a ferire il punto più sensibile del cuore umano, la vanità.
Una rottura era dunque inevitabile. E si piantarono scambievolmente;
quella medesima facilità che aveva accese le faci d'amore, fu pronta
del pari ad estinguerle.
A distogliere l'animo di Ariberti dal pensiero niente piacevole di
quella catastrofe amorosa, ne sopravvenne un altro egualmente molesto,
quello degli esami, che quasi gli erano usciti di mente. Ma già,
questa è la storia degli esami, che hanno il torto di capitar sempre a
contrattempo. Studiò in fretta, e male, o per dire più veramente,
diede una scorsa di gran carriera ai trattati per vedere se gli
riuscisse di ritenere almeno i titoli delle materie. La prova gli
andò, com'era naturale che andasse, con quella tintura superficiale e
con quella confusione di Digesto e d'indigesto in corpo.
Per giunta, il professore di diritto romano gli fece un tiro mancino,
che segnò irremissibilmente la sua caduta.
Ad una risposta spropositata che n'ebbe intorno alla classificazione
delle azioni giuridiche, quel burlone di professore, trasse al povero
Ariberti questa sanguinosa bottata: «già capisco, signor mio, ch'Ella
conoscerà solamente l'azione... teatrale».
--Non capisco;--balbettò lo studente.
--Già, l'azione del poeta comico contro il corago, o direttore di
compagnia drammatica presso i Romani, per chiedere il pagamento di una
favola in cinque atti.
E così, passin passino, trastullandosi con lui come il micio col
topolino, il degno sacerdote di Astrea condusse lo studente attraverso
tutti gli andirivieni, le viottole e i chiassi delle antiche
consuetudini teatrali. Ariberti perdette a dirittura la bussola.
--Capisco,--disse allora il giureconsulto con un suo risolino
sardonico;--Ella è più forte in diritto teatrale moderno. Ma questo
non è affar mio; favorisca passare al collega.--
Ora, siccome il collega non ebbe più fortuna di lui nelle
interrogazioni che fece al nostro povero eroe, ne avvenne che questi
fu rimandato senza misericordia agli esami di novembre. Cosa strana,
inaudita, quasi, nella facoltà dell'_utroque jure;_ eppure doveva
toccare al signor Ariberto Ariberti.
Voleva piangere, e già stavano per apparire i lucciconi tra ciglio e
ciglio; ma si trattenne, per non dare argomento di riso ai suoi
compagni di corso, gente ignota, o giù di lì, che lo stavano guatando
curiosamente ammucchiati sull'uscio della sala tremenda, che risuonava
ancora del doloroso giudizio.
--Andate là, signor Ariberto Ariberti,--parevano dirgli quelle
occhiate curiose,--per un drammaturgo della vostra forza, per un
raccoglitore di _Frondi sparse_ come voi siete, una figuraccia simile
è troppo. Che non aveste a diventare un Bartolo da Sassoferrato, lo si
capiva, giudicandovi ad occhio; ma s'intende acqua e non tempesta, e
voi siete andato a dirittura a sedervi sulla panca dell'asino.--
Così, divorando le sue lagrime col metodo dei camini fumivori, uscì
dall'Università con un muso lungo un braccio; che poteva esser broncio
e tracotanza ad un tempo. Ma l'uno e l'altro sparirono per dar luogo
alla confusione più profonda, quando, sotto i portici di Po, s'imbattè
d'improvviso in una certa figura, che gli gelò il sangue nelle vene
più prontamente che non avrebbe fatto la testa di Medusa, buon'anima
sua. Ha indovinato il lettore? La figura che faceva di simili effetti
sul sangue di Ariberti era quella del signor Amedeo, di suo padre.
Si ricambiarono poche parole. Ariberti si avvide al solo atteggiamento
del volto paterno, che non era il caso di chiedere un abbraccio, e
avvilito e confuso come un cane bastonato, accompagnò il muto genitore
al suo quartierino di piazza Vittorio.
Il signor Amedeo ascese le scale con passo grave e misurato, come il
famoso commendatore di pietra. Don Giovanni Tenorio già prevedeva la
sua sorte, e frattanto quel passo gli rimbombava spaventosamente
all'orecchio.
Come furono dentro, il vecchio accigliato diede una spinta all'uscio,
che si richiuse da sè. Ci siamo, disse in cuor suo il giovinotto, che
avrebbe voluto in quell'ora sprofondarsi due metri sotterra, anche a
rischio di dover fare una visita inaspettata ai casigliani del primo
piano.
Finalmente, nello studio del figlio, e davanti a quello scrittoio che
faceva ancora testimonianza delle recenti ed inutili sue meditazioni
sul Digesto, il signor Amedeo si fermò su due piedi a guardare il
figliuolo.
--È inutile; non mi fate commedie;--disse il signor Amedeo, troncando
le parole in bocca a suo figlio, che, armatosi di coraggio, balbettava
alcune parole di pentimento,--so tutto, e le vostre bugie non
servirebbero più.--
Ariberto si gettò singhiozzando ai piedi di suo padre.
--Vostra madre è inferma;--proseguì quegli implacabile.--Sapete il
perchè?--
Il giovine aveva dato un sobbalzo. Ma prima che potesse profferire
parola, suo padre gli gettava sdegnosamente davanti una lettera, con
un «leggete!» così imperioso, che egli non ebbe più il coraggio di
chiedere altro.
Prese in quella vece la lettera e l'aperse. Era sottoscritta «un
amico»; la solita firma degli anonimi. Questo amico mandava da Torino
al signor Amedeo le più brutte nuove del figlio, della sua
scioperataggine, dei suoi debiti e via discorrendo. Un cenno intorno
al probabilissimo esito degli esami, disse abbastanza chiaramente ad
Ariberti che l'anonimo era un compagno di Università, e il nome di
Ferrero gli corse tosto alla mente. Codardo e briccone! Così si
vendicava il compilatore della _Dora_ dell'invio dei padrini.
Ariberti aveva a mala pena finito di leggere, che il signor Amedeo gli
buttò a' piedi una seconda lettera. Questa era di Aronne, il buon
servitore del Dio degli eserciti; e informava il padre degli
imprestiti fatti al figliuolo, domandandogli se egli, Aronne, poteva
all'occorrenza fargliene di nuovi. Generoso Aronne! Anima candida come
le sue unghie, o poco meno!
Il signor Amedeo sapeva proprio tutto, siccome aveva detto pur dianzi.
Che cosa soggiungergli allora? E prima d'ogni altra cosa, come
guardarlo in faccia? Il nostro eroe non sapeva davvero in qual modo
uscire dal ronco. Frattanto rimaneva lì grullo, cogli occhi bassi e le
braccia penzoloni davanti al suo giudice, aspettando un'altra frase
che lo facesse cadere da capo sulle ginocchia.
Dopo alcuni istanti di silenzio, che al nostro eroe parvero un secolo,
e che gli diedero una pregustazione dell'inferno, come l'hanno
immaginato e perfezionato i teologi, il signor Amedeo domandò
asciuttamente a qual somma ascendessero i debiti del signorino.
La somma, per uno studente, era enorme, ed Ariberti non sapeva
risolversi a dirla. Balbettò alcune frasi inintelligibili, arrossì,
impallidì, sudò freddo, e finalmente non trovò altra via per uscire
d'impaccio fuorchè dare in un nuovo scoppio di pianto.
--Finiamola!--ripigliò severamente il signor Amedeo.--Il buon nome
della mia casa io non lo salverò mica colle vostre lagrime di
coccodrillo. Parlate, e sia per vostra punizione; a qual somma
ascendono i vostri debiti?
--Padre mio... non saprei...
--Come?--tuonò il signor Amedeo.--Non sapete.
--Cioè... volevo dire... non mi bastava l'animo...
--Vi è pure bastato per farli! Suvvia, meno chiacchiere; di che si
tratta? di sei mila lire?
--Di più;--mormorò tra i singhiozzi Ariberti.
--Dieci?
--Di più. Ah, padre mio, ve ne supplico; uccidetemi colle vostre mani,
ma non mi fate morir di vergogna.
--È bene che la conosciate ancora;--notò il signor Amedeo.--E poi,
dove sarebbe la moralità, se non aveste a sentire tutto il peso delle
vostre opere malvagie?
--Oh, se lo sento, padre mio, se lo sento! Vorrei esser morto appena
nato, pur di non esser costato tanti dolori alla mia famiglia.
--Ma insomma, disgraziato,--gridò il signor Amedeo, muovendogli
incontro con piglio sdegnoso,--si si può sapere senza tante frasi
drammatiche, tutto il male che avete fatto fin qui? Avreste per