La notte del Commendatore - 15

--_Latonae tacitum pertentat gaudia pectus._
--Ne volete?--disse alla perfine Giselda, sollevando lo sguardo verso
il taciturno gaudente.--Ve ne metto due all'occhiello.
--No grazie;--rispose egli tra umile e malcontento.--Ne vorrei una di
quelle.--
E accennava le mammole che avevano già trovato il luogo migliore.
--Ah!--esclamò Giselda, alzando il dito in atto di difesa.--Queste poi
no.
--E perchè, di grazia?
--Perchè queste son vostre, e le debbo tener io.
--Ma anche quest'altre son mie, mi sembra, o, per meglio dire, vi
vengono da me.
--Sì, ma non posso già inalberare tutto il vostro mazzolino. Ne ho
preso la mostra e la serberò gelosamente; mi avete capito? Or dunque,
signor mio, queste violette che vedete sul tavolino, son mie, e ve ne
offro; queste altre--e accennava così dicendo i fiori nascosti sotto
la gala,--son vostre e me le tengo io. Vi piace così?
--È una cattiveria!---rispose egli imbronciato.
--Ah sì, cominciamo da capo!--diss'ella, con piglio di
padronanza.--Venite qua e lasciatemi fare.--
Ariberti dovette contentarsi di quella cortesia fatta a mezzo e
fiutare le violette più fortunate da lunge. La signora Szeleny
aggiustava ogni cosa a sua posta e passava alla svelta su tutto quello
che non le andava a genio di fare e di dire.
--Ecco fatto;--ripigliò essa, com'ebbe raffermati i fiori
all'occhiello del soprabito.--Ora, sedete un po' qua ed aiutatemi a
dipanare questo matassino di seta. Vedete? Ho da disfare e ricucire
una veste. Le vostre sarte torinesi non mi finiscono. Così; tenete a
modo, colle mani più alte. E adesso?....
--Come siete bella, Giselda!
--Vi pare?
--Oh, se mi pare! Io credo anzi....
--Che arrufferemo la matassa, se mi lasciate cascare i giri a questo
modo.
--Avete ragione; non mi accadrà più. Dunque, io dicevo....
--A proposito, dove siete stato iersera?
--A teatro, lo sapete. Dicevo che il vostro profilo...
--A teatro, sì, è vero, e mi dovete raccontare l'intreccio. Animo,
dunque; atto primo, scena prima!
--Signora, a cominciare di qui, si andrebbe un po' troppo per le
lunghe.
--Non sbadiglierò, ve lo assicuro. Amo le storie lunghe, io.
--Come intendete voi? Amereste le storie che non finiscono più?
--Ah, queste sarebbero eterne. E di eterno, pur troppo, non c'è nulla
nel mondo.
--Errore, signora mia! Io so d'una cosa che potrebbe esserlo, purchè
voi la vedeste di buon occhio.
--Sì, sì, vi capisco; voi continuate la vostra frase, interruppe ella
--ridendo;--poc'anzi rasserenavo i cuori; adesso ci fo nascere la
--sempreviva. È ancora l'ufficio del sole.
--Eh, perchè no? Ridete liberamente e schiudetemi i tesori
dell'Eritreo; purchè ammettiate la possibilità della cosa.
--Ah, non ho detto questo; anzi, la nego. Nella mia qualità di sole,
conosco gli uomini quanto bisogna, per non conceder loro una così
grande virtù.--
Una stoccata al cuore non avrebbe, io credo, fatto più senso al nostro
giovinotto, di quel che facesse quella semplicissima frase,
quantunque, accartocciata in uno scherzo, potesse fino ad un certo
segno interpretarsi anch'essa per uno scherzo e nulla più.
Ella conosceva gli uomini! Bella notizia! Poteva adunque parlarne _ex
professo?_ E il povero ragazzo se li vedeva sfilare davanti,
processione noiosa tra tutte, cominciando da quel signor Paolo
ungherese, che aveva vergato la prima pagina dell'albo, e venendo giù.
giù, fino.... a proposito, fino a chi? Probabilmente a quel temerario
d'un cavaliere Roberti, o ad un altro, conte o duca, conosciuto in
Milano, dove la signora Szeleny aveva il suo domicilio artistico.
Infine, che c'era egli di strano? Una donna giovane, bellissima,
elegante, abbandonata (perchè l'artista è sempre una specie di Didone,
senza l'amminicolo del rogo), che cos'altro ha da fare, se non
lasciarsi corteggiare un tantino? Il mondo è una selva, e dietro ad
ogni tronco d'albero, dietro ad ogni cespuglio, c'è un cacciatore
appostato. Se ne cansa uno, se ne cansano due; il terzo vi crivella
un'ala, o vi fracassa uno stinco.
E la processione s'inoltrava, cresceva, sfilava a dilungo; tutti quei
cavalieri, vagheggini, damerini, cascamorti, zerbinotti, pezzi grossi,
Alcibiadi antiquati e rimessi a nuovo, passavano daccanto a lei, le
bisbigliavano una parolina all'orecchio; ed ella si faceva rossa in
volto, ma sorrideva, sorrideva sempre e con tutti. Ahimè, così vuole
la civiltà, ma così porta anche l'inverecondia.
E tutta questa visione per una frase? Sicuro; mi pare d'averlo già
detto, e, se non l'ho detto, voi già ve ne siete accorti, o lettori;
il mio Ariberti era un tipo di delicatezza che quasi potrebbe
chiamarsi morbosa. Siffatti caratteri son più frequenti che non si
creda nel tempo nostro, che è pure il tempo del mal di nervi. Saremo
forse meno disgraziati di prima, può darsi, ma è un fatto che
soffriamo di più; la raffinatezza del sentimento ci ha recato i suoi
mali inseparabili, la diffidenza e lo struggicuore. Non siamo mai
stati tanto sospettosi, tanto sottili, tanto tiranni per noi e per gli
altri, come ora. È un bene? è un male? Potrei dirvelo, ragionandoci
su; ma, figlio del mio tempo anzitutto, dubito anch'io e vi rispondo:
non so.
Comunque, e lasciando le sottigliezze da banda, quella frase di
Giselda potea dirsi un errore. Che bisogno c'era egli di dirla? Ma
già, la signora Szeleny non era migliore nè peggiore di tante e tante
altre. Era una bella zingara, piena d'ingegno ed anche di cuore; ma
nella vita randagia dell'arte aveva forse perduto tutte quelle
velature e delicatezze di sentire, che accrescono il pregio della
bellezza e perfino della severità di costume.
Ricordate l'involucro velloso che rende più gradito nella sua medesima
ruvidità il calice d'una rosa non ancora brancicata? Orbene,
intenderete dunque che cosa mancasse alla signora Giselda, a questa
leggiadra farfalla, che, aliando qua e là, aveva lasciato contro le
siepi dell'orto, o sotto una scossa di pioggia primaverile, il suo
polviscolo d'oro.
Ora la storia di quella graziosa farfalla, Ariberti doveva
industriarsi a conoscerla, ed ella doveva sollevare un lembo della
cortina che nascondeva il suo passato, senza pensar più che tanto alle
nuove ferite che poteva arrecargli. Che egli l'amasse, Giselda doveva
pure vederlo; ma probabilmente essa aveva quelle sue tenerezze in
conto di una galanteria mascolina, o almeno di un impeto giovanile. E
mostrava di corrispondergli, sì, certamente, perchè Ariberti non era e
non poteva riuscirle antipatico. La donna apprezza sempre chi l'ama;
al poi ci ha da pensare il destino. Non ce ne avvediamo, ma facciamo
qualche volta lo stesso. Non siamo noi prepotenti la parte nostra? Non
pretendiamo che le donne si mettano ad ogni risico per noi? Or bene,
anche le donne hanno la loro ragione di operare, che non è punto la
nostra, o non somiglia alla nostra; e quella fusione di pensieri e di
gusti, che noi domandiamo, è una fisima del nostro cervello. Quando
per avventura ella s'incarna, quando da una parte e dall'altra c'è
quel delicato riguardo, quel desiderio di piacere, di interpretare, di
indovinare scambievolmente i gusti e i pensieri, i filosofi dicono che
da una delle due parti c'è sacrifizio manifesto; gli scettici del
mondo elegante asseriscono che l'una e l'altra si smarriscono nelle
sottigliezze e non intendono la vita.
Torniamo al fatto. La storia di Giselda era semplice e poteva
compendiarsi in poche parole. Figlia ad un colonnello dell'esercito
austriaco, non ricco, e morto da molti anni, la giovinetta era stata
educata signorilmente. Era piaciuta ad un giovine di Pest, figlio del
padrone della casa in cui la fanciulla e la madre abitavano.
Quell'amore, cresciuto nella dimestichezza del vicinato, dispiacque ai
parenti del giovane, e la ruggine che ne seguì tra le due famiglie
portò per conseguenza uno sgombero, che era anche consigliato alla
vecchia signora Szeleny da ragioni di economia domestica.
Intanto, il giovinetto era mandato a cambiar aria; quanto a lei, che
sapeva abbastanza di musica e aveva una graziosa vocina di mezzo
soprano, la madre pensò di condurla a Milano, terra del canto, e
semenzaio di artisti.
La famiglia del giovane aveva aiutato a render possibile questo
disegno delle signore Szeleny? Questo punto non fu mai potuto
chiarire; rimanga adunque con altri punti oscuri, o controversi della
storia, che sono del resto moltissimi, e uno di più non aggraverà
sensibilmente il fardello della umana ignoranza. Piuttosto sarebbe da
indagare come il signor Paolo (chiamiamolo così perchè a conti fatti
dovrebbe esser lui lo scrittore della prima pagina d'albo) comportasse
la sua disgrazia amorosa. Ma questo possiamo argomentarlo da noi,
pensando che il signor Paolo aveva ventidue anni, età dei grandi
dolori e delle grandi consolazioni. La qual cosa ci potrà far
intendere altresì che l'innamorato, ardente da prima e disperato
peggio di Werther, aveva dovuto consolarsi, e lasciar le pistole nella
vetrina dell'armaiuolo. Che diamine! Vienna non era poi l'ultima Tule,
e nemmanco Ovidio, quel gran maestro e schiavo d'amore che sappiamo,
aveva creduto di uccidersi, nel suo confino del Ponto. Pensiamo dunque
per la migliore che il signor Paolo non è stato guari senza trovare il
suo Boezio nella cerchia della _Ringstrasse_, che ha vissuto
lietamente da scapolo un paio di anni tanto per fare il lutto
conveniente al suo amore infelice, che ha preso moglie, viaggiato
l'Italia e fors'anco rasentato l'uscio di casa della cantante, a
Milano, senza che il suo cuore dèsse una battuta più rapida delle
altre. _Hélas,_ ha detto la signora di Solms, _tout passe, tout lasse,
tout casse._
Quanto a Giselda, si può credere facilmente che ella avesse trovato
nella dignità offesa un possente rimedio ai rammarichi della fanciulla
abbandonata, perchè senza dote. E poichè il destino aveva voluto così,
poichè i pretendenti accettabili si sarebbero presentati tutti, qual
più, qual meno, nelle condizioni del signor Paolo, poichè infine la
vita signorile a cui l'aveva assuefatta la sua educazione bisognava
pure continuarla, avvenne che la signorina Giselda lasciasse
l'Ungheria senza rimpianto e vedesse anche con una certa compiacenza
l'occasione di andare in Italia per dare l'ultima pulitura alle sue
corde vocali. L'ombra del Duomo di Milano coperse il segreto de' suoi
sogni delusi.
Al tempo in cui la mia storia la incontra, tutti quei dolori erano
passati, non lasciando altro che la traccia naturale dell'esperienza
nel cuore di lei. È anche probabile che questa esperienza si fosse
accresciuta, mercè nuovi studi dal vero. Gli uomini le erano sfilati
dinanzi a diecine, con tutte le loro dorate prepotenze e le loro
squattrinate follìe. Ed essa, perdendo la freschezza e il profumo
delle illusioni, era tornata ilare e franca; ma venendo sul capitolo
dei signori uomini, di cui pure gradiva gli omaggi nella sua duplice
natura di donna e di artista, diceva che non avrebbe creduto mai alle
loro proteste di amore e di fede.
E questo piaceva grandemente alla signora Mary (debbo dir signorina?
no, ho detto signora, e forse è già troppo), alla signora Mary,
inglese di Nizza, o nizzarda d'Inghilterra che dir si voglia, e amica
sviscerata da venti giorni, della signora Giselda. _Arcades ambo,_
cioè a dire, artiste tutt'e due, nubili tutt'e due, diseredate tutt'e
due dalla sorte, e risolute, ognuna secondo il poter suo e le sue vie
particolari, a conquistare un posto nelle prime file, dovevano fare
insieme una lega, che sarebbe poi durata come tutte le leghe in
generale, e come quella delle donne in particolare, quanto avrebbe
potuto.
Una parte della storia di Giselda, e la men facile a raccontarsi in
persona prima, l'aveva lasciata trapelare per l'appunto ad Ariberti la
signora Maria, un giorno che egli, più cotto che mai, pieno di
speranze, di dolori e di debiti, era andato nella casa di via
d'Angennes, senza trovare Giselda, che era alle prove in teatro, e
incontrandoci in quella vece la _grande demoiselle_ (così aveva preso
egli a chiamarla), che egli fece umanamente gli onori di casa. Mary
custodiva l'amica, come il famoso drago dell'antichità vigilava
l'albero dello melarance nell'orto delle Esperidi. Era burlona in
apparenza e maligna dentro come una scimmia; però le sue celie
sapevano sempre d'amaro. _Son esprit a des griffes,_ avrebbe detto il
Candioli. Punzecchiava sempre il povero Ariberti, lo canzonava intorno
alle sue vane speranze e lavorava con un gusto matto a stringerlo tra
l'uscio e il muro.
Un giorno, che erano andati tutti insieme a vedere il castello di
Moncalieri, la signora Maria notò con piglio dispettoso la
fanciullaggine di Ariberti che aveva fatto per Giselda una raccolta di
fiori selvatici e pretendeva di farle portare tutto quel fascio di
sterpi.
---Non sapete regalare che del verde!--gli disse, con aria di superbo
dispregio.
--Signorina,--rispose Ariberti, toccato sul vivo, nel verde c'entrano
--anche gli smeraldi.
--Bene, offrite dunque smeraldi,--replicò la stizzosa
osservatrice,--_et que cela finisse._--
Giselda fu pronta ad intromettersi; domandò a Maria, abbracciandola,
che idea balzana le fosse girata pel capo; pregò Ariberti a non far
caso di quello scherzo; aggiunse che portava volentieri quei fiori dei
boschi, che le ricordavano i begli anni d'infanzia; insomma, tanto
disse e fece che la nube fu dissipata e il temporale si chetò alle
prime gocce di pioggia.
Ma il nostro innamorato aveva ricevuto la botta e non poteva
dissimularla a sè stesso. Sicuro, i suoi erano doni da fanciullo; un
diamante, bellamente incastonato, gli avrebbe fatto più onore.
E lui subito a cercarlo. Sarebbe andato di grand'animo a razzolare
nelle miniere del Capo di Buona Speranza, se fossero state un po' più
alla mano e non gli avessero fatto perdere cinque mesi di tempo, tra
l'andata e il ritorno.
Peraltro le difficoltà che doveva superare per impadronirsi di un
pezzettino di carbonio cristallizzato, non erano minori a Torino,
sebbene quei graziosi nonnulla scintillassero a centinaia nelle
vetrine de' gioiellieri. Ci erano infatti quelle maledette lastre di
cristallo, che lasciavano vedere e non toccare, c'era per giunta la
necessità preliminare di metter fuori quella merce di scambio che è
l'oro, o l'argento, vecchio ingrediente di ogni contratto, che la
civiltà, con tutti i suoi progressi non ha ancora inventato il modo di
lasciare da banda.
Ora il nostro eroe, lì per lì, di quella merce preziosa non si trovava
ad averne. Il Priore aveva già snocciolato un cinquecento di lire, e
non poteva rendergli un nuovo servizio. Lo mandò per conseguenza da
Bonisconti; ma Bonisconti ne aveva meno di lui, e lo mandò da Valerga.
Da Valerga, il poeta? Sissignori, e non era una celia. Valerga poteva
aiutare in quel bisogno Ariberti. Apollo s'era messo nei panni di
Mercurio: e voglio dire con questo che Luciano si mise l'ali ai piedi
per correre in traccia dell'araba fenice dei banchieri e far trovare
al suo giovine amico il denaro corrente, coll'interesse ragionevole
del seicento per cento. Così almeno mi sembra che debba andare la
proporzione, perchè Ariberti sottoscrisse per sei mila, non ricavando
dalla merce acquistata che mille.
Il sacrifizio parrà troppo forte a chi va comodamente per la via
piana; ma a ciò si risponde che il traffico bene inteso non deve, con
un soverchio d'agevolezze nello sconto, lusingare le menti dei giovani
e promuovere la manìa scialacquatrice dei figli di famiglia. Va bene
che il nostro eroe non domandava la somma per scialarla in bagordi,
bensì per fare un grazioso regalo alla sua diva; ma anche su questo
capitolo il Ghetto era assai rigoroso, e alla fin fine non ci aveva
nulla a vedere nelle ragioni degli innamorati.
--Volete danaro? Eccone; in mercatanzia, ci s'intende, per rivenderla
e farne commercio, come dice la frase d'obbligo, e come consiglia il
bisogno di non dare nell'occhio ai nemici dell'usura. La merce è
danaro; pigliatela per quel che fa la piazza; un compare la
ricomprerà, e, nel prezzo che farete, io non c'entro. Del resto, siamo
filosofi; l'importanza del danaro va misurata al fine che l'uomo si
propone di raggiungere. Si vuole una soddisfazione? Bisogna pagare
anche quella. La domanda rincara la merce; è legge economica. E poi,
con che diritto vi lagnate dell'usuraio? Voi giovani comperate con
mille, mettendo di costa la gioventù e la fortuna, quello che altri
non otterrebbe al prezzo di ventimila. Dunque, ecco subito diciannove
mila di differenza, che io posso mettere in coscienza a mio profitto.
Questa è giustizia distributiva e null'altro.--
Così doveva ragionare il vecchio Aronne (Arunel-Rascid, come lo
chiamava Luciano Valerga) che imprestò ad Ariberti il danaro, o gli
vendette la sua merce in guanti e calze di seta, che tornava lo
stesso. La merce valeva poco in confronto della somma, direte; ma, e
la firma dello studente valeva forse di più? L'onesto Aronne non
doveva essere compensato in qualche modo del risico?
La ricerca del capitalista, i negoziati, la sottoscrizione delle
cambiali, la consegna della merce, la commedia del sensale per far
parer manna ad Ariberti le mille lire, in cambio di seimila che doveva
valere tutta quella roba di scarto, tirarono maledettamente in lungo
il negozio. I moccoli attaccati dallo studente non furono pochi, anche
perchè sul più bello si venne a conoscere (e il sensale mostrava di
non vederci più lume) che metà dei guanti venduti dal giudeo erano
tutti della mano sinistra, e che probabilmente un così gran numero di
monchi della mano destra non si sarebbe trovato a Torino. Finalmente,
il nostro Ariberti, che già non sapeva più con chi farsela tra i santi
del paradiso, avendoli invocati tutti a suo modo, intascò le mille
lire e gli parve ancora una grazia particolare del cielo, che, per
dire la verità, egli aveva assai poco meritata.
Intascò le mille lire, ho detto, ma gli si dimezzarono pochi minuti
dopo nella borsa, per la compera di un elegantissimo medaglioncino,
tempestato di brillanti e corredato del suo monile, affinchè Giselda
potesse cingerne il collo.
La signora Szeleny vide il gioiello, ne rimase grandemente ammirata e
lo fece anche vedere a Maria, che promise ad Ariberti di ritrattare la
sua frase di Moncalieri, al secondo presente d'uguale valore che egli
avrebbe fatto a Giselda. Ma questa le diede sulla voce, anzi non
accettò il dono del giovane, e non ci fu verso di farglielo tenere.
--Alla mia serata,--gli disse da ultimo, temperando nelle
preoccupazioni dell'artista gli scrupoli della donna,--alla mia
serata, non dico di no; farà spicco, e qualche altra regina del
palcoscenico, morrà per cagion vostra, dalla rabbia.--
Di fatti, la stagione teatrale al Regio era già abbastanza inoltrata e
Giselda aveva cantato in due opere di ripiego, per dirla anche noi nel
gergo di palcoscenico. Disgraziatamente la cantatrice non era piaciuta
che per la sua bellezza, o piuttosto la sua bellezza aveva fatto
passar sopra alla povertà della voce e dell'azione drammatica. Cantava
bello, come suol dirsi con vecchia arguzia dagli Aristofani delle
platee. Ora, perchè la bellezza frutti applausi da sola e faccia
andare in visibilio i dolci di sale, è mestieri che questa bellezza si
mostri umana, e lusinghi, coi sorrisi dalla ribalta e colle
presentazioni in casa, l'amor proprio ai semidei del proscenio, e agli
eroi delle sedie chiuse. E questo non era il caso della signora
Giselda, che aveva fatto poche conoscenze tra gli onnipotenti del
giorno, quantunque ad Ariberti paressero già troppe; e quelle poche,
poi, non sapevano acconciarsi di buon grado alla eterna presenza di
quello sbarbatello, geloso in vista e permaloso, secondo i casi,
peggio di un antico cavaliere spagnuolo.
Dunque, visibilio no, e gli applausi erano pochi. La freddezza del
pubblico recava per contraccolpo una nuova e più grande molestia allo
studente, costretto a farsi in quattro, in otto, in dodici, per
procacciare un'ombra di partito, che le dicesse brava nei punti topici
e sostenesse i battimani, o per dettare su questo giornale e su quello
articoli laudatorii, che dovevano andare, diligentemente ritagliati
dalla pezza, a rimpinzar le colonne dei giornali teatrali delle altre
città, come testimonianza credibile dei trionfi di Torino.
Giselda lo ringraziava, ma senza andare in visibilio neppur lei, come
lo avrebbe ringraziato per un mazzolino di viole mammole, o per una
scatola di confetti. Forse tutti quegli atti di servitù le parevano
naturali, anzi obbligatorii in ognuno che l'avvicinasse: fors'anco
vedeva di non avere incontrato il favore del pubblico e la sua dignità
non le consentiva di riconoscerlo apertamente, con dimostrazioni di
gratitudine a quel povero ragazzo. Certo, ella si dava molto pensiero
del suo avviamento artistico, e per naturalissima conseguenza le si
era infiltrato nell'amena un miccino di vanità, d'amor proprio, di
gelosia, in faccia alle altre sue compagne di palcoscenico. Quello
delle quinte è un altro mondo nel mondo; ha una lingua sua, passioni
sue, allegrezze, dolori, trionfi e vergogne
_Che intender non le può chi non ci vive._
Cittadina di questo piccolo mondo e partecipe a tutte le sue
debolezze, la signora Szeleny ringraziava facilmente, ma leggermente
altresì, il giovine innamorato dei suoi quotidiani servigi, e metteva
in quella vece tutto l'ardore a desiderare, usava tutti i più sottili
accorgimenti a procurarsi la parola amica di chi avesse taciuto fino a
quel giorno, o il favore e l'applauso di chi, tra i semidei che ho
detto più sopra, le si fosse mostrato restìo. Il sorriso
confidenziale, o la protezione grossolana di un impresario, la mandava
a casa più allegra di quel che facesse un _sì_ di petto, venuto fuori
senza stento soverchio; una risposta ritardata d'agente teatrale la
faceva stare di cattivo umore per due giorni alla fila. S'intende che
per ogni visitatore ella sapea ritrovare la sua giocondità di prima e
sciorinare le sue grazie più elette. Erano conoscenti e sarebbero
andati a teatro; bisognava dunque far loro buon viso. La vittima era
sempre Ariberti, Ariberti che tutti credevano felice, o almeno molto
innanzi nel favore della diva, ma che pur troppo avrebbe potuto cedere
i suoi profitti al portinaio, senza dar nulla di sicuro, o giuocarseli
col suggeritore, con cui erano pari quanto a sostanza di felicità,
cioè a dire molto vicini per soliti, ma unicamente da' piedi.
Unico guadagno era per lui quella sapiente mistura di dolce e di amaro
che Giselda sapeva ministrargli ogni giorno; verbigrazia, la stretta
di mano serbata a lui ultimo nell'ora di commiato, l'occhiatina
furtiva negl'intervalli d'una conversazione che lo avesse condotto ad
un pelo di prendere il cappello e di andarsene, o un bacio lasciato
deporre su quelle sue dita affusolate, in un momento d'oblìo, mentre
il discorso era rivolto a tutt'altro. Così viveva il nostro povero
eroe, cangiando d'umore più volte al giorno, che non faccia di colori
il cielo in un tramonto d'autunno.
Ho detto degli articoli che scriveva egli solo su parecchi giornali,
ma non ho detto quanto gli costassero, d'inchini, di sotterfugii e
d'altro. Figuratevi che per ficcarne uno di poche linee nella cronaca
d'un giornalone politico, aveva... Ma no, non lo dirò, perchè non mi
si accusi di aver disvelato i misteri d'Eleusi ai profani.


CAPITOLO XV.
In cui è dimostrato, contrariamente al proverbio, che chi non cerca
trova.

La serata a benefizio di Giselda Szeleny venne finalmente, per
accrescer le cure e l'ansietà dell'innamorato che ormai si era fatto
più molesto di un padre di ballerina, o d'un marito di prima donna
poco assoluta. Già, di studii universitari non si parlava da un pezzo;
anche il suo dramma, finito a Dogliani, che doveva essere posto in
scena in quel medesimo inverno per grazia profumata di un capo-comico
di terz'ordine, era lasciato affatto in balìa degli attori. Ariberti
non vedeva più altro fuorchè le faccende di Giselda, non si curava più
d'altro fuorchè delle sorti d'una serata, a cui mancava il più sicuro
fondamento, cioè l'entusiasmo del pubblico. Non avrebbe fatto quel
mestiere di galoppino per tutto l'oro del mondo; e lo faceva in cambio
per nulla. Ma chi nol sa? L'amore come la fame, piega gli uomini ad
ogni sorte d'uffizi.
Per far numero in teatro, aveva preso in affitto quella sera un palco
di seconda fila, e si era invitata presso di lui la signora Maria,
coll'amminicolo della zia e d'un vecchio parente, o amico di casa che
fosse, della categoria dei personaggi che non parlano. Questo onore
sulle prime non gli andava molto a' versi, ed era rimasto perplesso
mettendo fuori il dubbio che probabilmente non avrebbe trovato un
palco degno di ospitare la _grande demoiselle;_ ma Giselda aveva
mostrato piacere che la cosa andasse per l'appunto così, ed egli, che
il palco se lo era già accaparrato, aveva finito col dirle: _et cum
spiritu tuo_ o qualche cosa di simile.
Eccolo dunque colla signorina Mary (ho detto signorina? orbene
lasciamola andare), che faceva uno sfoggio meraviglioso di trine, di
svolazzi, e d'altri fronzoli donneschi, nel suo palchetto di seconda
fila. Era bella, più bella del solito in quella sera, l'inglesina di
Nizza. Ho già detto che la sua era una bellezza un po' dura; ma debbo
soggiungere che lo sfarzo delle vesti, la luce del teatro e la
soddisfazione di stare là in vista come una regina seduta sul trono,
l'avevano trasfigurata senz'altro.
Una cosa notò Ariberti, che doveva notarne tante in sua vita; vo' dire
la disinvoltura con cui certe donne accolgono i servigi di un uomo,
che pare gli facciano grazia, e lo contano nulla, lì per lì, o poco
meno di nulla, salvo a contarlo assai da un momento all'altro, senza
una ragione sufficiente di quel cambiamento d'umore. Infatti, per
allora, il cavaliere della bella nizzarda non contava niente più del
personaggio muto che aveva accompagnato la zia. In quel palchetto si
pigiavano e si succedevano le visite, e lui, l'accompagnatore e
l'ospite, doveva rimanere per necessità della carica, ma risospinto ad
ogni nuovo arrivo e dimenticato a dirittura in un angolo.
Inoltre, tutti quei farfalloni facevano un chiasso del diavolo non
permettendo nemmanco di mettere un po' d'attenzione allo spettacolo.
Mary qualche volta si provava a dar loro sulla voce ma con un tono che
dava ansa a far peggio.
--Signori, sentiamo la cavatina, vi prego; è così bella!
--Sì, se fosse bene cantata.
--Non ne sapete ancor nulla. Stiamo dunque un po' cheti.
E gli altri a sorridere maliziosamente, a far boccacce, fino a quel
segno che consentivano le buone creanze, ed anche ad esprimere più
apertamente i loro riveriti dubbi intorno al merito della cantante.
Non avevano poi tutti i torti; ma infine, perchè scegliere appunto
quel palco per loro tribunale? Ariberti, non potendo rimbeccarli senza
mancar di rispetto alle dame, fremeva in silenzio e si mordeva le
labbra. E vedete combinazione: anche Maria difendeva fiaccamente
l'amica; anzi peggio, la difendeva in modo, da farlo schiattar lui
dalla rabbia.
--Signori,--diceva l'inglesina, assumendo un'aria d'autorità, che
rasentava la celia,--vi proibisco di trovar difetti nella signora
Szeleny. È la mia migliore amica, ed io non posso ascoltarvi.--
Venne finalmente la grand'aria di Giselda, e qualche applauso della
platea, aiutato coi gesti dal palco di Mary, che aveva voluto dai suoi
visitatori quell'atto di compiacenza, permise ai servi di scena di
farsi avanti coi mazzi di fiori e col vassoio d'argento, su cui era
posato quel tale astuccio di gioielli che i lettori conoscono. I mazzi
erano quattro, e tutti del povero Ariberti, che si era proprio
spartito in quattro, per far comparita in quella solenne occasione.
--Quattro mazzi! Di chi saranno?--si domandava nel palco.
--Ecco,--rispose l'inglesina,--uno è mio.--
Non era vero, come Ariberti sapeva per prova; ma un'occhiata che gli
diede, o per dir meglio, che gli gittò in fondo al palco la giovane,