La notte del Commendatore - 13
l'Ariberti sul vivo. Perchè? Non lo sapeva nemmeno lui, ma forse
perchè tutti noi, quando amiamo una donna, vorremmo sempre esser
giunti i primi, alle porte del suo cuore, o vorremmo giungere i primi,
quando, per un nostro capriccio, ci mettiamo sulla galanteria,
disposti sì e no ad imbarcarci nel tenerume.
S'intende che quel senso ingrato, che gli avean fatto le parole della
diva, il giovine Ariberti se lo tenne per sè, provandosi invece a
sciorinare tutti gli argomenti che si potevano addurre contro la sua
tesi troppo ricisa e paradossale. Ma ella, col diritto che hanno le
donne di rifiutarsi a tutte le sottigliezze della logica, gli diede
sulla voce, ammettendo di poter riuscire simpatica a qualcheduno, e di
esser buona per sè medesima. E questo doveva essere; almeno, lo
dimostrava ampiamente quella sua schietta semplicità, se pure non era
furberia di tre cotte. Del resto, era colta e di belle maniere, piena
di grazia e ricca di quell'eleganza naturale che si manifesta in ogni
atto della persona, anche il meno rilevante, e dà uno spicco
particolare alle vesti neglette di casa come all'abbigliamento
sfoggiato di una festa da ballo.
Mentre erano in quei discorsi, un uscio si aperse ed entrò nel salotto
la vecchia signora che Ariberti aveva veduta colla diva in teatro. Era
la madre, donna grave e di modesto aspetto, la quale salutò il giovane
e scambiò colla figlia alcune parole in una lingua, che a lui parve
turca, o giù di lì. La qual cosa non tolse che egli ascoltasse con
piacere ineffabile, quasi fossero una musica celeste, le parole
profferite in quella lingua dalla bella figliuola. Poco stante udiva
il suo nome, gradevolmente strascicato in quell'idioma, e indovinando
che la signora Szeleny lo presentava lui a sua madre, le fece un
secondo inchino (il primo lo aveva fatto al primo apparire di lei) e
sudò freddo per non essere venuto a capo di intendere la frase che
ella gli disse in un francese da cani. Era il poco che la vecchia
signora masticava; quanto all'altre lingue, all'italiana in ispecie,
non ne sapeva una maledetta.
Per tal guisa, facilmente liberato dalla molestia d'una conversazione
in tre, Ariberti si sentì solo colla sua dama, com'era prima, e
continuò allegramente la guerricciuola delle frasi galanti. Seppe tra
l'altre cose che la signora si chiamava Giselda e giurò di non aver
mai sentito un nome più bello. Ed anche lui non aveva un bel nome,
Ariberto? Madonna Giselda lo trovò dolce come una melodia italiana.
Ariberti nuotava in un mar di latte. Compatiamolo. Per la prima volta
in sua vita egli si trovava involto in quel piccolo mondo di dolcezze,
di fragranze e di tutto quel ben di Dio che vorrete, in cui vive e a
cui dà vita una donna gentile. Va bene che quel salotto non era il
pensatoio d'una gran dama, nè il quartierino un palazzo. Nemmeno la
signora Giselda era una duchessa, od altro di somigliante; ma era
bella, elegante e colta, e questi titoli parvero in ogni tempo più che
bastanti ad innalzare una donna, ed anco a tramutarla in regina. Ciò
posto, non occorreva notare (tanto, il nostro eroe novellino non era
così esperto da badare a simili inezie) che il mògano usuale dei
mobili non era legno di rosa, che la sargia colorata della tappezzeria
non era damasco, e che quel grazioso tavolincino, su cui posavano le
viole mammole, come un presente divoto sull'ara del nume, era di lacca
bensì, ma moderna ed apocrifa.
Del resto, che cos'altro è il piacere nella vita dell'uomo, se non una
apparenza, un profumo, una delibazione delle cose? E non è desso
piuttosto in noi, che fuori di noi? Fantasia vagabonda, non sei tu che
dài lume e colore a ciò che vedono gli occhi? Il cuore istesso, questo
povero cuore, a cui si dà colpa d'ogni falso indirizzo e d'ogni male
che c'incolga, è un docile strumento in tua mano; arpa di cui tu
sfiori le corde, e ne traggi, ora i lieti, ora i flebili suoni.
La beatitudine del nostro Ariberti fu turbata una seconda volta
dall'aprirsi di un uscio; ma questa volta dalla parte dell'anticamera.
Due signore erano annunziate, e la prima di esse, che era eziandio la
più giovane, irruppe, più che non entrasse, nel salotto della signora
Szeleny. Giselda si era alzata dal sofà per muovere incontro
all'amica; ma questa non le diè il tempo di spiccarsi dal suo posto;
volò verso di lei, la strinse nelle sue braccia, le scoccò due baci
rumorosi sulle guancie, si staccò un tratto per guardarla negli occhi,
indi tornò a baciarla, ridendo come una pazza.
Giselda lasciava fare; si concedeva di buon grado a quegl'impeti di
affetto, ma senza ardore di compiacenza, e ad uno spettatore anche
meno imbevuto di classicismo che non fosse l'Ariberti, avrebbe fatto
ricordare la statua d'una bella dea dei tempi pagani, che si lasciasse
umanamente involgere in una nube d'incenso, ma senza smuoversi d'un
punto dal suo piedistallo. Poi, come l'amica si fu chetata, Giselda si
volse ammezzo e le additò il giovane che stava immobile a
contemplarle.
--Il signor dottore Ariberto Ariberti;--disse ella in pari tempo,
presentandole il suo visitatore.
La nuova venuta rispose con un mezzo inchino al saluto del giovine e
gli diede un'occhiata inquisitoria, come se volesse squadrare e pesare
il personaggio di un colpo.
Anche Ariberti la guardò attentamente, e, fosse perchè tutte quelle
carezze lo avevano indispettito o perchè veramente la ci avesse
qualcosa di ostico nella persona, fatto sta che non gli piacque punto.
Era bella molto, ma d'una bellezza rigida; bianca, con occhi e capegli
nerissimi, la fronte stretta, il naso diritto, la bocca ben fatta, ma
di duri contorni. Perfino i colori del suo abbigliamento, che era
grigio con mostreggiature di seta azzurra, aiutavano a darle
quell'aspetto di freddezza, che svegliò nel cuore di Ariberti un senso
di ripulsione indicibile.
Come poi tutta quella apparenza di rigidità si accordasse colle sue
rumorose dimostrazioni di affetto, non saprei dire ai lettori. Forse,
appunto perchè erano rumorose, non potevano aversi in conto di
profonde e sincere. Forse, come Diana cacciatrice, a cui somigliava un
tantino, la nuova venuta non amava gli uomini e doveva riuscir loro
inamabile. Forse... Ma non poteva anche darsi che tutte quelle brutte
cose le avesse vedute Ariberti cogli occhi della fantasia? Egli era
diventato di pessimo umore, e il pessimo umore (chi nol sa?) fa veder
buio a mezzogiorno.
Comunque fosse, rimasto ancora pochi minuti per le buone creanze e
prestata una mezza attenzione al cicaleccio delle signore, dal quale
potè cogliere appena che la nuova venuta si chiamava Mary, che era
nata a Nizza, che doveva andare quel giorno a veder le bellezze e le
rarità di Torino in compagnia di alcuni gentili cavalieri, e che
invitava l'amica ad essere della brigata, Ariberti si alzò e prese
commiato.
Giselda si era avveduta (e di che non si avvedono le donne?) che il
giovinetto aveva il broncio con qualcheduno, e col pretesto di avergli
a chiedere un servizio lo accompagnò fino all'anticamera, come avrebbe
fatto per un'amica, o per qualche gran personaggio.
--Verrete domani?--gli chiese, prendendogli amorevolmente le mani tra
le sue.
--Signora,--balbettò egli confuso,--non vorrei essere importuno...
Ella tenne fermo con ostinatezza infantile.
--Verrete domani?--replicò, alzando la voce di un tono.
--Verrò;--rispose il giovine, affascinato da quelle parole e dallo
sguardo ond'erano accompagnate.
E resa la stretta, di mano, si avviò al pianerottolo. L'uscio si
richiuse dietro a lui ed egli approfittò di quella solitudine per
appoggiarsi alla ringhiera... Infatti, ce n'era bisogno; quel breve
dialogo gli aveva dato al cervello, e il nostro innamorato nello
scendere le scale barcollava come un... l'ho a dire? No, lettori
umanissimi; immaginatelo voi.
CAPITOLO XII.
Dove si vede il mio eroe più innamorato che mai.
E poichè siete sull'immaginare, lettori umanissimi di cui sopra,
immaginate ancora con che ansia, con che febbre, il nostro eroe
aspettasse il domani e poi l'ora di tornare a quel benedetto angolo di
via d'Angennes.
L'ora! qual'ora? La signora Szeleny non gliene aveva detto nessuna.
Pensandoci bene, poteva esser quella del giorno addietro; ma il giorno
addietro egli era andato per la sua presentazione alle due; ora,
pensandoci bene, gli parve che alle due avrebbe fatto troppo tardi per
una visita a cui era stato impegnato con tanta benevolenza. Credette
perciò conveniente di anticipare un pocolino e la conseguenza di
questa riflessione si fu, che alle undici del mattino il signor
dottore, o baccelliere che vi piaccia chiamarlo, poneva il piede in
quella stessa anticamera dove la bella ungherese gli aveva fatto il
dolcissimo invito.
La donna di servizio lo introdusse nel salotto. Il tempio era deserto.
--È già uscita la signora?--domandò il giovinotto, fermandosi sulla
soglia.
--Nossignore; è ancora allo specchio. Aspetti, ora vado ad avvertirla.
--Mi rincrescerebbe scomodarla. Non le dite nulla; tornerò più
tardi.--
Quello scambio di parole tra lui e la donna di servizio fu udito dalla
camera vicina, e il fruscio d'una veste e lo scricchiolio d'una sedia
smossa avvertirono l'Ariberti che egli non aveva più il tempo di
uscire dal salotto. Subito dopo, si aperse l'uscio e la signora
Szeleny apparve dal vano colla sua bella testolina e mezzo il petto,
chiuso in un accappatoio di cambrì; segno evidente che ella stava per
l'appunto mettendosi in assetto di guerra, o di galanteria, che per
una bella signora è tutt'uno.
--Aspettate, vengo subito;--diss'ella.--Abbiatevi intanto il buon
giorno.
E scomparve, prima che Ariberti avesse avuto il tempo di ringraziarla.
Per altro, ebbe il tempo di fare molte altre cose, poichè la signora
non venne subito, come aveva pur detto. Egli ebbe il tempo,
verbigrazia, di dare una guardata a tutti i quadri e a tutte le stampe
che decoravano le pareti; il tempo di esaminare, senza capirne nulla,
una scenetta cinese che era tratteggiata in oro sulla lastra di quel
tavolincino di lacca, che già i lettori conoscono; il tempo di sedersi
tre volte e di alzarsi altrettante, infine, poichè bisogna dir tutto,
il tempo di persuadersi che aveva fatto male ad ascoltare i consigli
della sua impazienza, e di darsi dello stolido a tutto pasto.
Andando qua e là per la sala, gli venne finalmente veduto su d'uno
scaffale, presso il pianoforte, un grosso volume dalle carte dorate,
legato in pelle, con borchie e fermagli d'oro. Lo aperse e vide che
era un albo, pieno zeppo di versi, la più parte ungheresi e tedeschi,
poi francesi, inglesi, ed anche italiani. Ariberti non poteva leggere
che questi e i francesi, che d'inglese ne masticava poco, e niente
affatto di magiaro e tedesco. Egli dunque si fece a scorrere quello
che intendeva, e non ebbe a lodarsene molto, perchè erano versi da
dilettanti, o giù di lì.--Saranno migliori gli ungheresi e i tedeschi,
di certo!--pensò egli tra sè. E torno indietro, facendo scorrere i
fogli, fino alla prima pagina, per vedere chi avesse cominciato quella
antologia di complimenti rimati.
--Ecco un poeta modesto!--notò l'Ariberti vedendo a pie' della pagina
un nome solitario, cioè senza la compagnia del casato.--Generalmente,
in questi campi chiusi della vanità ci si sottoscrive nome e cognome a
tanto di lettere, sperando che la gloria si fermi e sorrida. Ma, lui,
questo signor _Paulus_... che ragione avrà avuto, per non dir altro di
sè?
Mentre il nostro giovine stava pensando al signor _Paulus_, capitò la
signora Szeleny; ed egli fu sollecito a deporre il volume sullo
scaffale.
--Vi ho fatto aspettare;--diss'ella con accento che esprimeva il suo
rammarico e insieme una affettuosa sollecitudine pel giovinetto.
--Che! non mette conto parlarne;--rispose egli, stringendo la bella
mano di Giselda e rammorbidendosi tutto a quel soave calore.
--Scusate, ve ne prego;--soggiunse la signora Szeleny, tenendo la sua
mano in quella del giovine, ed aiutando anzi con essa la sua
perorazione vittoriosa;--noi donne siamo fatte così; quando ci
mettiamo allo specchio vi restiamo fino a tanto che il troppo sincero
testimone, o per compiacenza, o per stanchezza, non diventi bugiardo.
--Il vostro, signora, vi avrà detto una cosa sola dal principio alla
fine; siete così bella!--
Questo voleva dire Ariberti, ma non gli venne fatto di trovar subito
la forma più bella in cui compendiare la sua ammirazione. E perciò si
tenne il suo complimento inedito; ma il suo sguardo attonito parlava
chiaramente per lui.
Ora questi eloquenti silenzi tornano in molti casi più graditi alle
donne, che non le più levigate fioriture del discorso, indizio quasi
sempre di padronanza d'animo e di lavoro a freddo.
Appena il nostro Ariberti potè raccapezzarsi un tantino, si scusò
colla signora Szeleny di esser giunto troppo presto; cosa che ella
doveva attribuire soltanto alla sua impazienza, che dava contro a
tutte le norme dell'etichetta.
--No, no,--interruppe Giselda,--io sono nemica giurata delle
cerimonie. Avete fatto bene a venir prima; venite sempre a quest'ora.
Io sono quasi sempre sola; non ricevo altre visite che quelle di
andare qualche volta a teatro, per udire gli artisti, i
colleghi,--soggiunse ella sorridendo,--che non hanno più la molestia
di dover pensare alla prima rappresentazione.
--Se potessi offrirmi per vostro cavaliere...--entrò a dire
timidamente Ariberti.--Ma voi, signora, avete compagnia migliore della
mia.
--Che dite mai? Migliore della vostra non ce ne può esser nessuna. Mi
ha cortesemente accompagnato due volte il cavaliere Roberti;--proseguì
ella con aria di naturalezza invidiabile;--un signore compitissimo,
che si è fatto presentare dal mio impresario, ma che mi sembra un po'
troppo... galante, mentre io sono d'indole più tranquilla e di gusti
più semplici.
Ariberti non sapeva se dovesse rallegrarsi o dolersi di quei cenni,
che la signora Szeleny gli aveva buttati là alla sfuggita.
--C'è poi un'amica...---notò egli, per non aver aria di fermarsi
troppo sugli uomini.
--Ah sì, e molto bella, come avete veduto. Ditemi francamente vi
piace?
--No.
--È strano;--esclamò Giselda,--tutti e due!
--Anch'io ho fatto la medesima impressione su lei? Ci ho gusto,
perbacco!
--Sì, mi ha detto iersera che non le piacevate affatto. Ma non badate
a queste cose...
--Vi ho detto che ci ho gusto;--ribadì il giovane, innamorato della
sua frase.
--Sappiate,--proseguiva intanto la signora Szeleny, che qui c'entra un
--pochino di gelosia. Mary è gelosa; non vorrebbe veder nessuno
--intorno a me.
--Ma voleva ieri condurvi fuori con alcuni cavalieri di sua
conoscenza.
--Sì, ma appunto perchè erano di sua conoscenza, e non amici miei
personali;--rispose prontamente Giselda.--Del resto, non sono andata,
e credo di non averle fatto dispiacere.--
Ariberti respirò, all'udire quell'altro cenno, buttato là a caso come
il primo.
--Il guaio, in tutto questo,--diss'egli,--sarà che la signora Mary mi
farà contro presso di voi.
---No, cambierà; le diverrete simpatico.
--Oh, questo poi non m'importa nè punto, nè poco. Si tenga neutrale, e
mi basta.--
La signora Szeleny lasciò cadere il discorso, che del resto era un
episodio di poco rilievo nella loro conversazione, e si parlò d'altro,
delle prove che sarebbero cominciate tra pochi giorni per lei, del
timore che aveva di non incontrare il favore del pubblico, di lui, de'
suoi studi, delle sue speranze, e qua e là, negli intervalli, d'amore,
ma con riguardo, velatamente, sui generali, in terza persona, siccome
è l'uso, quando si comincia a parlarne.
Questa graziosa conversazione, la più cara ad un uomo colto e mezzo
innamorato, perchè essa è fior di sentimento, tutto fragranze e
promesse, fu interrotta dall'arrivo di due altri... visitatori, che
eravamo lì lì, col nostro eroe, per chiamare noiosi.
Va detto per altro, in omaggio al vero, che Ariberti li consacrò
ambedue di gran cuore alle Deità infernali. Chi sa se la maledizione
del poeta innamorato avrà poi sortito l'effetto?
Il primo di essi era un giornalista politico; l'altro un professore
d'orchestra, concertista di violino a ore perse. Il giornalista, uomo
di mezza età, ma lisciato, azzimato e pieno di pretensioni, tirava,
come suol dirsi, la gioventù coi denti. Per sua fortuna, questi
indispensabili arnesi erano ancora in essere; donde la conseguenza
naturalissima che il nostro Minosse della politica sorridesse
benignamente, come potrebbe sorridere un uomo che non avesse respirati
mai gli acri effluvii d'antimonio in una officina tipografica, o
intinto inchiostro d'un ufficio di giornale, per schizzarlo qualche
volta, alla guisa delle seppie, contro amici e nemici. Sorrideva
dunque benignamente, il nostro Minosse; stava impettito come un idolo
indiano, e quando accennava di voler fare qualche grazietta, o di
voler rispondere ad una frase laudatoria, incominciava a piegar la
persona dall'imbusto; atto leggiadro che nulla più. Parlava in punta
di forchetta, lento e solenne e lasciava sgocciolar le parole come gli
oracoli del suo articolo di fondo. Qua e là seminava un'arguzia, ma
con parsimonia, come chi sa di non averne molti da spendere. Insomma,
stava in contegno, si teneva in osservazione, voleva piacere al suo
uditorio, custodire gelosamente la sua prosa dai granchi, dai refusi e
da tutte le altre noie dell'arte nobilissima di Panfilo Castaldi. Si
sa; un errore di stampa vi può sformare, da solo, tutto quanto un
articolo.
Questo bel tipo della specie letterata riuscì sommamente antipatico ad
Ariberti. E doveva riuscirgli antipatico del pari il signor professore
d'orchestra, concertista di violino a ore perse, con tutta la bontà
che spirava dal suo viso aperto e il suo discorso senza pretensioni,
perchè fu lui il primo a proporre e il più pronto a combinare per
quella sera, in casa della signora Giselda, un piccolo concerto di
pianoforte, violino e canto, per cui bisognava invitare anche il
tenore e il baritono della compagnia e Dio sa quali altri dilettanti e
buongustai, gente fatta a posta per andare in visibilio.
Era quello il mondo della diva, che involgeva Ariberti, dando una
pregustazione di tutte le amarezze che gli avrebbe fatto inghiottire.
Ma in fondo in fondo, ogni donna non ci ha il suo e non bisogna
rassegnarsi a goderselo?
Si racconta da certi viaggiatori, che nella Cina, in quella terra
famosa per le sue minuterie di mano e di pensiero, ci siano delle
prigioni così gentiline all'aspetto, che ad uno dei nostri Alcidi
popolani parrebbe di doverne sfondar le pareti con un pugno, e di
voler anche riuscir fuori dal muro di cinta con un semplice colpo di
spalla. Eppure, no; le sono così ben congegnate in forma di labirinto,
con anditi, viottole, andirivieni, usci, usciolini, toppe, catenacci
ed altri simiglianti gingilli, che perfino l'Ercole Farnese perderebbe
la pazienza nei primi, e nei secondi poi si sgretolerebbe le dita.
Finalmente i due visitatori partirono. Ariberti per quella volta aveva
fatto il provinciale, tenendo fermo il suo posto; e il giornalista
politico, duro e stecchito come un granatiere di Federico II,
balbettava con garbo la chiusa del suo articolo di fondo, si
accommiatò prima di lui. Anche il professore concertista, che aveva
bisogno di otto righe di cronaca, gli tenne dietro ossequiente, come
fa il chierichetto col prete, dopo la lettura dell'ultimo evangelio e
l'inchino di prammatica all'altare.
Al nostro innamorato sembrò che la signora Szeleny avesse dato una
piccola rifiatata di contentezza.
--Vi hanno recato un po' di noia?--si provò egli a domandare.
--No;--rispose Giselda.--Il professor Baldi è molto bravo ed è
amicissimo col direttore d'orchestra. L'avvocato Germani, poi, è, a
quanto dicono, il più influente dei giornalisti di qui. Del resto, è
un _charmant causeur;_--soggiunse la diva, con quella benevolenza che
abbiamo tutti per le persone utili a noi.--Una cosa sola mi annoia, ed
è questo dover ricevere ogni giorno, quasi ogni ora, quando la mente
avrebbe mestieri d'un po' di riposo.
--Signora, io me ne vado;--disse Ariberti, alzandosi dalla sua
scranna.
--Perchè?--dimandò ella con aria attonita.
--Ma...: per lasciarvi riposare.
--Cattivo! Non ho parlato mica per voi.
--Grazie;--ripigliò Ariberti, imitando senza avvedersene l'inchino del
giornalista;--ma ad ogni modo bisognerà darvi un po' di tregua. Ho
voluto rimanere dopo di quei due... signori, per dirvi che siete
adorabile e che farete _furore_ nel vostro concertino di questa sera.
--Ci verrete, s'intende?
--No, grazie, signora;--rispose il giovane con una cera da funerale.
--E perchè... se è lecito saperlo?
--Perchè... soffrirei troppo.--
La reticenza non era meditata, come il lettore potrebbe immaginarsi.
Ariberti non era per anco uomo da somiglianti partiti. Voleva
schiccherarle la sua brava dichiarazione e non sapeva da qual parte
incominciare; l'occasione gli si era profferta ed egli l'aveva
afferrata. Senonchè, pervenuto al punto di voler metter fuori il suo
perchè, gli era parso di aver preso il lancio troppo presto; ma
oramai, che farci? si era spiccato dalla riva e non c'era più scampo;
bisognava spingersi innanzi, o affogare nel ridicolo.
--È fatta!--pensò egli tra sè, com'ebbe gettato il suo dado.
Ma pareva che la sua sorte non avesse a decidersi lì su due piedi. La
signora Szeleny lo guardò un tratto, con occhio incerto, senza
appuntare altrimenti la frase; e Ariberti, novellino com'era, potè
credere che Giselda non lo avesse capito.
--Amico mio,--diss'ella con molta tranquillità,--come fare? son queste
le noie dei poveri artisti. Bisogna fare buon viso agli altri, perchè
lo facciano a noi. Ditemi dunque; dove andrete stassera?
--Io?--domandò il giovane, cascando dalle nuvole.--Al teatro Gerbino.
Si recita un dramma nuovo, di cui si fanno già grandi pronostici;
andrò a sentire che cos'è.
--Oh, come v'invidio!--esclamò Giselda giungendo le palme, con atto di
fanciullesco rammarico.--Amo tanto il dramma! Andate dunque per voi e
per me, e venite domattina a trovarmi. Io dovrò lavorare intorno a
certi fronzoli donneschi, e voi mi racconterete l'intreccio del
dramma.
--Vi obbedirò, signora.---
Così dicendo, il giovinetto stendeva malinconicamente la mano, per
prender commiato da lei.
--Badate che ci conto;--soggiunse Giselda, accompagnandolo verso
l'uscio del salotto.--Voglio vedere...
Questa sì era una reticenza meditata, un laccio teso ad Ariberti, che
ci cascò bravamente.
--Che cosa?--dimandò egli, fermandosi.
--Se sarete stato attento alla scena;--rispose ella, col più
zingarescamente malizioso dei suoi leggiadri sorrisi.
Il giovane notò l'allusione birichina fatta alla prima volta che si
erano veduti, e gongolò.--Ella mi ha inteso poc'anzi,--pensava,--e
questa allusione è la risposta. Oh donna adorabile!--
Fece intanto un inchino lì per lì, senza rispondere una parola, che
invero non ne avrebbe trovato di acconce, e si ritirò, promettendo di
tornare la mattina seguente.
Guardò l'orologio quando fu nelle scale. Erano le quattro. Egli era
dunque stato cinque ore da lei. Sì, ma mezz'ora non contava, perchè
l'aveva passata da solo, aspettando; poi, quegli altri due importuni
avevano fatto una stazione di forse due ore. Vedete che gente
ineducata. Come si può star due ore per fare una visita? Dunque,
ricapitolando, cinque ore meno due e mezzo, fanno due e mezzo
soltanto. Ma bene; e lui dunque non ci era stato più del bisogno?
Sicuro; ma lui, in fin de' conti, lui... era lui.
Con questa conclusione mise in pace lo spirito. Dico male; lo chetò
sul capitolo della discrezione, ma non sugli altri, che già facevano
un bel numero. C'era, per esempio, quella faccenda del concerto!... Il
signor giornalista politico sarebbe andato a pavoneggiarsi, a far la
ruota nel salotto di Giselda, a sciorinare il suo articolo di fondo.
Guardate un po'! lasciava perfino il dramma nuovo, di cui si parlava
da giorni per tutta Torino! E già, si capisce, anche il cavaliere
Roberti avrebbe fatto lo stesso; si sarebbe eclissato al Gerbino, per
andare a bisbigliare le sue galanterie a quel terzo piano di via
d'Angennes. E il tenore, e il baritono, non contenti di aversela a
contendere più tardi sulla scena... Insomma, tutto dava noia, tutto
insospettiva l'innamorato, e i moscerini sul naso, diventavano
mosconi, cavalocchi, pipistrelli, e che so io.
Andò quella sera al Gerbino; ma era svogliato, stizzito, pieno di mal
talento, e il dramma non gli piacque, quantunque fosse di uno dei
primi ingegni della moderna scuola francese, e quantunque gli
applausi, che fioccavano da ogni parte, mostrassero che l'uditorio si
accordava a pensarla diversamente da lui: «Orazio sol contro Toscana
tutta». Accusò, ci s'intende, la pessima traduzione, che doveva esser
fatta dal suggeritore della compagnia, e conchiuse che il gusto de'
suoi concittadini (concittadini per mo' di dire) doveva essere molto
depravato, se essi tolleravano di simili offese alla lingua italiana.
E pensava involontariamente al contino Candioli; e gli tornava davanti
agli occhi l'immagine di Filippo Bertone, colla sua marchesana di San
Ginesio, quella superba Giunone che non si era degnata di volger gli
occhi su di lui, Ariberti, se non per mettersi a ridere.
Al diavolo le donne, alte e basse, dame e pedine! Quella sera il
nostro baccelliere andò a finire dal Mago, non senza aver passato in
via d'Angennes a digrignare i denti sotto quelle finestre, donde gli
veniva tanta luce dei soliti doppieri e tanta onda delle sempre elette
armonie.
La sua apparizione tra i cavalieri di Malta fu salutata da un
poderissimo evviva e celebrata con parecchi bicchieri di Gattinara,
accompagnati dai più matti brindisi del mondo.
CAPITOLO XIII.
La pecorella smarrita ritorna all'ovile.
--Alla salute dell'estinto! di Lazzaro... semestrale, che esce fuori
dal monumento fet....
--Ohibò! Questi aggettivi a tavola?
--Ma se viene dalla tomba! Non si può dunque più dire che ha pigliato
il selvatico?
--Ah, così traduci il _faisandé_, topo cruscaiuolo.
--È proprio un morto risuscitato. Vedete che cera!
--Ariberti, dove hai lasciato il lenzuolo?
--Non gli dite nulla, poverino! Avrà fiutato un creditore per via.
--Come? ardirebbero i vili avventurarsi a quest'ora nei nostri
paraggi?
--Amici, io bevo al ritorno di Ariberti, e alla distruzione dell'empia
sètta.
--Meglio ancora che bere, sarebbe ammazzare il vitello grasso.
--Perchè?
--Si fa celia? È venuto il figliuol prodigo.
--Benissimo; lasciate allora che lo ammazzi suo padre.
--Ammazzarlo suo padre! Tu proponi un parricidio.
--No, parlo del vitello, bestia!
--Bella scoperta! Signori, il vitello è una bestia.
--Spiritoso! Io volevo dire soltanto che il vitello... sei tu.
--Amici,--interruppe il Priore,--le celie e le metafore continuate non
sono permesse dagli statuti dell'ordine. Viva Ariberti, che finalmente
ci è reso. E quantunque meriterebbe una predica...
--Una predica? La faccio io.
--Chi parla, dietro a quel boccale?
--Luciano Valerga, dei minori osservanti.
--Il Segneri della brigata!
--La gloria dell'ordine!
--Parli Valerga! Parli!--
E lì un chiasso d'inferno, un nabisso, un diavoleto. Si intende che
vociando e ridendo si seguitava a trincare. Già, diceva il filosofo,
non c'è cosa che bagni l'ugola come il bere.
Luciano Valerga si alzò barcollando. Era una finzione, perchè il
letterato della compagnia non si ubbriacava mai, e si diceva di lui
che avrebbe potuto bere impunemente tutta l'acqua delle nozze di Cana,
dopo fatto il miracolo. Ma tra i tre cavalieri di Malta era la moda di
parer brilli al secondo bicchiere, forse per salvare le apparenze,
coprendo la debolezza di quelli tra loro che pigliavano troppo
facilmente la sbornia.
perchè tutti noi, quando amiamo una donna, vorremmo sempre esser
giunti i primi, alle porte del suo cuore, o vorremmo giungere i primi,
quando, per un nostro capriccio, ci mettiamo sulla galanteria,
disposti sì e no ad imbarcarci nel tenerume.
S'intende che quel senso ingrato, che gli avean fatto le parole della
diva, il giovine Ariberti se lo tenne per sè, provandosi invece a
sciorinare tutti gli argomenti che si potevano addurre contro la sua
tesi troppo ricisa e paradossale. Ma ella, col diritto che hanno le
donne di rifiutarsi a tutte le sottigliezze della logica, gli diede
sulla voce, ammettendo di poter riuscire simpatica a qualcheduno, e di
esser buona per sè medesima. E questo doveva essere; almeno, lo
dimostrava ampiamente quella sua schietta semplicità, se pure non era
furberia di tre cotte. Del resto, era colta e di belle maniere, piena
di grazia e ricca di quell'eleganza naturale che si manifesta in ogni
atto della persona, anche il meno rilevante, e dà uno spicco
particolare alle vesti neglette di casa come all'abbigliamento
sfoggiato di una festa da ballo.
Mentre erano in quei discorsi, un uscio si aperse ed entrò nel salotto
la vecchia signora che Ariberti aveva veduta colla diva in teatro. Era
la madre, donna grave e di modesto aspetto, la quale salutò il giovane
e scambiò colla figlia alcune parole in una lingua, che a lui parve
turca, o giù di lì. La qual cosa non tolse che egli ascoltasse con
piacere ineffabile, quasi fossero una musica celeste, le parole
profferite in quella lingua dalla bella figliuola. Poco stante udiva
il suo nome, gradevolmente strascicato in quell'idioma, e indovinando
che la signora Szeleny lo presentava lui a sua madre, le fece un
secondo inchino (il primo lo aveva fatto al primo apparire di lei) e
sudò freddo per non essere venuto a capo di intendere la frase che
ella gli disse in un francese da cani. Era il poco che la vecchia
signora masticava; quanto all'altre lingue, all'italiana in ispecie,
non ne sapeva una maledetta.
Per tal guisa, facilmente liberato dalla molestia d'una conversazione
in tre, Ariberti si sentì solo colla sua dama, com'era prima, e
continuò allegramente la guerricciuola delle frasi galanti. Seppe tra
l'altre cose che la signora si chiamava Giselda e giurò di non aver
mai sentito un nome più bello. Ed anche lui non aveva un bel nome,
Ariberto? Madonna Giselda lo trovò dolce come una melodia italiana.
Ariberti nuotava in un mar di latte. Compatiamolo. Per la prima volta
in sua vita egli si trovava involto in quel piccolo mondo di dolcezze,
di fragranze e di tutto quel ben di Dio che vorrete, in cui vive e a
cui dà vita una donna gentile. Va bene che quel salotto non era il
pensatoio d'una gran dama, nè il quartierino un palazzo. Nemmeno la
signora Giselda era una duchessa, od altro di somigliante; ma era
bella, elegante e colta, e questi titoli parvero in ogni tempo più che
bastanti ad innalzare una donna, ed anco a tramutarla in regina. Ciò
posto, non occorreva notare (tanto, il nostro eroe novellino non era
così esperto da badare a simili inezie) che il mògano usuale dei
mobili non era legno di rosa, che la sargia colorata della tappezzeria
non era damasco, e che quel grazioso tavolincino, su cui posavano le
viole mammole, come un presente divoto sull'ara del nume, era di lacca
bensì, ma moderna ed apocrifa.
Del resto, che cos'altro è il piacere nella vita dell'uomo, se non una
apparenza, un profumo, una delibazione delle cose? E non è desso
piuttosto in noi, che fuori di noi? Fantasia vagabonda, non sei tu che
dài lume e colore a ciò che vedono gli occhi? Il cuore istesso, questo
povero cuore, a cui si dà colpa d'ogni falso indirizzo e d'ogni male
che c'incolga, è un docile strumento in tua mano; arpa di cui tu
sfiori le corde, e ne traggi, ora i lieti, ora i flebili suoni.
La beatitudine del nostro Ariberti fu turbata una seconda volta
dall'aprirsi di un uscio; ma questa volta dalla parte dell'anticamera.
Due signore erano annunziate, e la prima di esse, che era eziandio la
più giovane, irruppe, più che non entrasse, nel salotto della signora
Szeleny. Giselda si era alzata dal sofà per muovere incontro
all'amica; ma questa non le diè il tempo di spiccarsi dal suo posto;
volò verso di lei, la strinse nelle sue braccia, le scoccò due baci
rumorosi sulle guancie, si staccò un tratto per guardarla negli occhi,
indi tornò a baciarla, ridendo come una pazza.
Giselda lasciava fare; si concedeva di buon grado a quegl'impeti di
affetto, ma senza ardore di compiacenza, e ad uno spettatore anche
meno imbevuto di classicismo che non fosse l'Ariberti, avrebbe fatto
ricordare la statua d'una bella dea dei tempi pagani, che si lasciasse
umanamente involgere in una nube d'incenso, ma senza smuoversi d'un
punto dal suo piedistallo. Poi, come l'amica si fu chetata, Giselda si
volse ammezzo e le additò il giovane che stava immobile a
contemplarle.
--Il signor dottore Ariberto Ariberti;--disse ella in pari tempo,
presentandole il suo visitatore.
La nuova venuta rispose con un mezzo inchino al saluto del giovine e
gli diede un'occhiata inquisitoria, come se volesse squadrare e pesare
il personaggio di un colpo.
Anche Ariberti la guardò attentamente, e, fosse perchè tutte quelle
carezze lo avevano indispettito o perchè veramente la ci avesse
qualcosa di ostico nella persona, fatto sta che non gli piacque punto.
Era bella molto, ma d'una bellezza rigida; bianca, con occhi e capegli
nerissimi, la fronte stretta, il naso diritto, la bocca ben fatta, ma
di duri contorni. Perfino i colori del suo abbigliamento, che era
grigio con mostreggiature di seta azzurra, aiutavano a darle
quell'aspetto di freddezza, che svegliò nel cuore di Ariberti un senso
di ripulsione indicibile.
Come poi tutta quella apparenza di rigidità si accordasse colle sue
rumorose dimostrazioni di affetto, non saprei dire ai lettori. Forse,
appunto perchè erano rumorose, non potevano aversi in conto di
profonde e sincere. Forse, come Diana cacciatrice, a cui somigliava un
tantino, la nuova venuta non amava gli uomini e doveva riuscir loro
inamabile. Forse... Ma non poteva anche darsi che tutte quelle brutte
cose le avesse vedute Ariberti cogli occhi della fantasia? Egli era
diventato di pessimo umore, e il pessimo umore (chi nol sa?) fa veder
buio a mezzogiorno.
Comunque fosse, rimasto ancora pochi minuti per le buone creanze e
prestata una mezza attenzione al cicaleccio delle signore, dal quale
potè cogliere appena che la nuova venuta si chiamava Mary, che era
nata a Nizza, che doveva andare quel giorno a veder le bellezze e le
rarità di Torino in compagnia di alcuni gentili cavalieri, e che
invitava l'amica ad essere della brigata, Ariberti si alzò e prese
commiato.
Giselda si era avveduta (e di che non si avvedono le donne?) che il
giovinetto aveva il broncio con qualcheduno, e col pretesto di avergli
a chiedere un servizio lo accompagnò fino all'anticamera, come avrebbe
fatto per un'amica, o per qualche gran personaggio.
--Verrete domani?--gli chiese, prendendogli amorevolmente le mani tra
le sue.
--Signora,--balbettò egli confuso,--non vorrei essere importuno...
Ella tenne fermo con ostinatezza infantile.
--Verrete domani?--replicò, alzando la voce di un tono.
--Verrò;--rispose il giovine, affascinato da quelle parole e dallo
sguardo ond'erano accompagnate.
E resa la stretta, di mano, si avviò al pianerottolo. L'uscio si
richiuse dietro a lui ed egli approfittò di quella solitudine per
appoggiarsi alla ringhiera... Infatti, ce n'era bisogno; quel breve
dialogo gli aveva dato al cervello, e il nostro innamorato nello
scendere le scale barcollava come un... l'ho a dire? No, lettori
umanissimi; immaginatelo voi.
CAPITOLO XII.
Dove si vede il mio eroe più innamorato che mai.
E poichè siete sull'immaginare, lettori umanissimi di cui sopra,
immaginate ancora con che ansia, con che febbre, il nostro eroe
aspettasse il domani e poi l'ora di tornare a quel benedetto angolo di
via d'Angennes.
L'ora! qual'ora? La signora Szeleny non gliene aveva detto nessuna.
Pensandoci bene, poteva esser quella del giorno addietro; ma il giorno
addietro egli era andato per la sua presentazione alle due; ora,
pensandoci bene, gli parve che alle due avrebbe fatto troppo tardi per
una visita a cui era stato impegnato con tanta benevolenza. Credette
perciò conveniente di anticipare un pocolino e la conseguenza di
questa riflessione si fu, che alle undici del mattino il signor
dottore, o baccelliere che vi piaccia chiamarlo, poneva il piede in
quella stessa anticamera dove la bella ungherese gli aveva fatto il
dolcissimo invito.
La donna di servizio lo introdusse nel salotto. Il tempio era deserto.
--È già uscita la signora?--domandò il giovinotto, fermandosi sulla
soglia.
--Nossignore; è ancora allo specchio. Aspetti, ora vado ad avvertirla.
--Mi rincrescerebbe scomodarla. Non le dite nulla; tornerò più
tardi.--
Quello scambio di parole tra lui e la donna di servizio fu udito dalla
camera vicina, e il fruscio d'una veste e lo scricchiolio d'una sedia
smossa avvertirono l'Ariberti che egli non aveva più il tempo di
uscire dal salotto. Subito dopo, si aperse l'uscio e la signora
Szeleny apparve dal vano colla sua bella testolina e mezzo il petto,
chiuso in un accappatoio di cambrì; segno evidente che ella stava per
l'appunto mettendosi in assetto di guerra, o di galanteria, che per
una bella signora è tutt'uno.
--Aspettate, vengo subito;--diss'ella.--Abbiatevi intanto il buon
giorno.
E scomparve, prima che Ariberti avesse avuto il tempo di ringraziarla.
Per altro, ebbe il tempo di fare molte altre cose, poichè la signora
non venne subito, come aveva pur detto. Egli ebbe il tempo,
verbigrazia, di dare una guardata a tutti i quadri e a tutte le stampe
che decoravano le pareti; il tempo di esaminare, senza capirne nulla,
una scenetta cinese che era tratteggiata in oro sulla lastra di quel
tavolincino di lacca, che già i lettori conoscono; il tempo di sedersi
tre volte e di alzarsi altrettante, infine, poichè bisogna dir tutto,
il tempo di persuadersi che aveva fatto male ad ascoltare i consigli
della sua impazienza, e di darsi dello stolido a tutto pasto.
Andando qua e là per la sala, gli venne finalmente veduto su d'uno
scaffale, presso il pianoforte, un grosso volume dalle carte dorate,
legato in pelle, con borchie e fermagli d'oro. Lo aperse e vide che
era un albo, pieno zeppo di versi, la più parte ungheresi e tedeschi,
poi francesi, inglesi, ed anche italiani. Ariberti non poteva leggere
che questi e i francesi, che d'inglese ne masticava poco, e niente
affatto di magiaro e tedesco. Egli dunque si fece a scorrere quello
che intendeva, e non ebbe a lodarsene molto, perchè erano versi da
dilettanti, o giù di lì.--Saranno migliori gli ungheresi e i tedeschi,
di certo!--pensò egli tra sè. E torno indietro, facendo scorrere i
fogli, fino alla prima pagina, per vedere chi avesse cominciato quella
antologia di complimenti rimati.
--Ecco un poeta modesto!--notò l'Ariberti vedendo a pie' della pagina
un nome solitario, cioè senza la compagnia del casato.--Generalmente,
in questi campi chiusi della vanità ci si sottoscrive nome e cognome a
tanto di lettere, sperando che la gloria si fermi e sorrida. Ma, lui,
questo signor _Paulus_... che ragione avrà avuto, per non dir altro di
sè?
Mentre il nostro giovine stava pensando al signor _Paulus_, capitò la
signora Szeleny; ed egli fu sollecito a deporre il volume sullo
scaffale.
--Vi ho fatto aspettare;--diss'ella con accento che esprimeva il suo
rammarico e insieme una affettuosa sollecitudine pel giovinetto.
--Che! non mette conto parlarne;--rispose egli, stringendo la bella
mano di Giselda e rammorbidendosi tutto a quel soave calore.
--Scusate, ve ne prego;--soggiunse la signora Szeleny, tenendo la sua
mano in quella del giovine, ed aiutando anzi con essa la sua
perorazione vittoriosa;--noi donne siamo fatte così; quando ci
mettiamo allo specchio vi restiamo fino a tanto che il troppo sincero
testimone, o per compiacenza, o per stanchezza, non diventi bugiardo.
--Il vostro, signora, vi avrà detto una cosa sola dal principio alla
fine; siete così bella!--
Questo voleva dire Ariberti, ma non gli venne fatto di trovar subito
la forma più bella in cui compendiare la sua ammirazione. E perciò si
tenne il suo complimento inedito; ma il suo sguardo attonito parlava
chiaramente per lui.
Ora questi eloquenti silenzi tornano in molti casi più graditi alle
donne, che non le più levigate fioriture del discorso, indizio quasi
sempre di padronanza d'animo e di lavoro a freddo.
Appena il nostro Ariberti potè raccapezzarsi un tantino, si scusò
colla signora Szeleny di esser giunto troppo presto; cosa che ella
doveva attribuire soltanto alla sua impazienza, che dava contro a
tutte le norme dell'etichetta.
--No, no,--interruppe Giselda,--io sono nemica giurata delle
cerimonie. Avete fatto bene a venir prima; venite sempre a quest'ora.
Io sono quasi sempre sola; non ricevo altre visite che quelle di
andare qualche volta a teatro, per udire gli artisti, i
colleghi,--soggiunse ella sorridendo,--che non hanno più la molestia
di dover pensare alla prima rappresentazione.
--Se potessi offrirmi per vostro cavaliere...--entrò a dire
timidamente Ariberti.--Ma voi, signora, avete compagnia migliore della
mia.
--Che dite mai? Migliore della vostra non ce ne può esser nessuna. Mi
ha cortesemente accompagnato due volte il cavaliere Roberti;--proseguì
ella con aria di naturalezza invidiabile;--un signore compitissimo,
che si è fatto presentare dal mio impresario, ma che mi sembra un po'
troppo... galante, mentre io sono d'indole più tranquilla e di gusti
più semplici.
Ariberti non sapeva se dovesse rallegrarsi o dolersi di quei cenni,
che la signora Szeleny gli aveva buttati là alla sfuggita.
--C'è poi un'amica...---notò egli, per non aver aria di fermarsi
troppo sugli uomini.
--Ah sì, e molto bella, come avete veduto. Ditemi francamente vi
piace?
--No.
--È strano;--esclamò Giselda,--tutti e due!
--Anch'io ho fatto la medesima impressione su lei? Ci ho gusto,
perbacco!
--Sì, mi ha detto iersera che non le piacevate affatto. Ma non badate
a queste cose...
--Vi ho detto che ci ho gusto;--ribadì il giovane, innamorato della
sua frase.
--Sappiate,--proseguiva intanto la signora Szeleny, che qui c'entra un
--pochino di gelosia. Mary è gelosa; non vorrebbe veder nessuno
--intorno a me.
--Ma voleva ieri condurvi fuori con alcuni cavalieri di sua
conoscenza.
--Sì, ma appunto perchè erano di sua conoscenza, e non amici miei
personali;--rispose prontamente Giselda.--Del resto, non sono andata,
e credo di non averle fatto dispiacere.--
Ariberti respirò, all'udire quell'altro cenno, buttato là a caso come
il primo.
--Il guaio, in tutto questo,--diss'egli,--sarà che la signora Mary mi
farà contro presso di voi.
---No, cambierà; le diverrete simpatico.
--Oh, questo poi non m'importa nè punto, nè poco. Si tenga neutrale, e
mi basta.--
La signora Szeleny lasciò cadere il discorso, che del resto era un
episodio di poco rilievo nella loro conversazione, e si parlò d'altro,
delle prove che sarebbero cominciate tra pochi giorni per lei, del
timore che aveva di non incontrare il favore del pubblico, di lui, de'
suoi studi, delle sue speranze, e qua e là, negli intervalli, d'amore,
ma con riguardo, velatamente, sui generali, in terza persona, siccome
è l'uso, quando si comincia a parlarne.
Questa graziosa conversazione, la più cara ad un uomo colto e mezzo
innamorato, perchè essa è fior di sentimento, tutto fragranze e
promesse, fu interrotta dall'arrivo di due altri... visitatori, che
eravamo lì lì, col nostro eroe, per chiamare noiosi.
Va detto per altro, in omaggio al vero, che Ariberti li consacrò
ambedue di gran cuore alle Deità infernali. Chi sa se la maledizione
del poeta innamorato avrà poi sortito l'effetto?
Il primo di essi era un giornalista politico; l'altro un professore
d'orchestra, concertista di violino a ore perse. Il giornalista, uomo
di mezza età, ma lisciato, azzimato e pieno di pretensioni, tirava,
come suol dirsi, la gioventù coi denti. Per sua fortuna, questi
indispensabili arnesi erano ancora in essere; donde la conseguenza
naturalissima che il nostro Minosse della politica sorridesse
benignamente, come potrebbe sorridere un uomo che non avesse respirati
mai gli acri effluvii d'antimonio in una officina tipografica, o
intinto inchiostro d'un ufficio di giornale, per schizzarlo qualche
volta, alla guisa delle seppie, contro amici e nemici. Sorrideva
dunque benignamente, il nostro Minosse; stava impettito come un idolo
indiano, e quando accennava di voler fare qualche grazietta, o di
voler rispondere ad una frase laudatoria, incominciava a piegar la
persona dall'imbusto; atto leggiadro che nulla più. Parlava in punta
di forchetta, lento e solenne e lasciava sgocciolar le parole come gli
oracoli del suo articolo di fondo. Qua e là seminava un'arguzia, ma
con parsimonia, come chi sa di non averne molti da spendere. Insomma,
stava in contegno, si teneva in osservazione, voleva piacere al suo
uditorio, custodire gelosamente la sua prosa dai granchi, dai refusi e
da tutte le altre noie dell'arte nobilissima di Panfilo Castaldi. Si
sa; un errore di stampa vi può sformare, da solo, tutto quanto un
articolo.
Questo bel tipo della specie letterata riuscì sommamente antipatico ad
Ariberti. E doveva riuscirgli antipatico del pari il signor professore
d'orchestra, concertista di violino a ore perse, con tutta la bontà
che spirava dal suo viso aperto e il suo discorso senza pretensioni,
perchè fu lui il primo a proporre e il più pronto a combinare per
quella sera, in casa della signora Giselda, un piccolo concerto di
pianoforte, violino e canto, per cui bisognava invitare anche il
tenore e il baritono della compagnia e Dio sa quali altri dilettanti e
buongustai, gente fatta a posta per andare in visibilio.
Era quello il mondo della diva, che involgeva Ariberti, dando una
pregustazione di tutte le amarezze che gli avrebbe fatto inghiottire.
Ma in fondo in fondo, ogni donna non ci ha il suo e non bisogna
rassegnarsi a goderselo?
Si racconta da certi viaggiatori, che nella Cina, in quella terra
famosa per le sue minuterie di mano e di pensiero, ci siano delle
prigioni così gentiline all'aspetto, che ad uno dei nostri Alcidi
popolani parrebbe di doverne sfondar le pareti con un pugno, e di
voler anche riuscir fuori dal muro di cinta con un semplice colpo di
spalla. Eppure, no; le sono così ben congegnate in forma di labirinto,
con anditi, viottole, andirivieni, usci, usciolini, toppe, catenacci
ed altri simiglianti gingilli, che perfino l'Ercole Farnese perderebbe
la pazienza nei primi, e nei secondi poi si sgretolerebbe le dita.
Finalmente i due visitatori partirono. Ariberti per quella volta aveva
fatto il provinciale, tenendo fermo il suo posto; e il giornalista
politico, duro e stecchito come un granatiere di Federico II,
balbettava con garbo la chiusa del suo articolo di fondo, si
accommiatò prima di lui. Anche il professore concertista, che aveva
bisogno di otto righe di cronaca, gli tenne dietro ossequiente, come
fa il chierichetto col prete, dopo la lettura dell'ultimo evangelio e
l'inchino di prammatica all'altare.
Al nostro innamorato sembrò che la signora Szeleny avesse dato una
piccola rifiatata di contentezza.
--Vi hanno recato un po' di noia?--si provò egli a domandare.
--No;--rispose Giselda.--Il professor Baldi è molto bravo ed è
amicissimo col direttore d'orchestra. L'avvocato Germani, poi, è, a
quanto dicono, il più influente dei giornalisti di qui. Del resto, è
un _charmant causeur;_--soggiunse la diva, con quella benevolenza che
abbiamo tutti per le persone utili a noi.--Una cosa sola mi annoia, ed
è questo dover ricevere ogni giorno, quasi ogni ora, quando la mente
avrebbe mestieri d'un po' di riposo.
--Signora, io me ne vado;--disse Ariberti, alzandosi dalla sua
scranna.
--Perchè?--dimandò ella con aria attonita.
--Ma...: per lasciarvi riposare.
--Cattivo! Non ho parlato mica per voi.
--Grazie;--ripigliò Ariberti, imitando senza avvedersene l'inchino del
giornalista;--ma ad ogni modo bisognerà darvi un po' di tregua. Ho
voluto rimanere dopo di quei due... signori, per dirvi che siete
adorabile e che farete _furore_ nel vostro concertino di questa sera.
--Ci verrete, s'intende?
--No, grazie, signora;--rispose il giovane con una cera da funerale.
--E perchè... se è lecito saperlo?
--Perchè... soffrirei troppo.--
La reticenza non era meditata, come il lettore potrebbe immaginarsi.
Ariberti non era per anco uomo da somiglianti partiti. Voleva
schiccherarle la sua brava dichiarazione e non sapeva da qual parte
incominciare; l'occasione gli si era profferta ed egli l'aveva
afferrata. Senonchè, pervenuto al punto di voler metter fuori il suo
perchè, gli era parso di aver preso il lancio troppo presto; ma
oramai, che farci? si era spiccato dalla riva e non c'era più scampo;
bisognava spingersi innanzi, o affogare nel ridicolo.
--È fatta!--pensò egli tra sè, com'ebbe gettato il suo dado.
Ma pareva che la sua sorte non avesse a decidersi lì su due piedi. La
signora Szeleny lo guardò un tratto, con occhio incerto, senza
appuntare altrimenti la frase; e Ariberti, novellino com'era, potè
credere che Giselda non lo avesse capito.
--Amico mio,--diss'ella con molta tranquillità,--come fare? son queste
le noie dei poveri artisti. Bisogna fare buon viso agli altri, perchè
lo facciano a noi. Ditemi dunque; dove andrete stassera?
--Io?--domandò il giovane, cascando dalle nuvole.--Al teatro Gerbino.
Si recita un dramma nuovo, di cui si fanno già grandi pronostici;
andrò a sentire che cos'è.
--Oh, come v'invidio!--esclamò Giselda giungendo le palme, con atto di
fanciullesco rammarico.--Amo tanto il dramma! Andate dunque per voi e
per me, e venite domattina a trovarmi. Io dovrò lavorare intorno a
certi fronzoli donneschi, e voi mi racconterete l'intreccio del
dramma.
--Vi obbedirò, signora.---
Così dicendo, il giovinetto stendeva malinconicamente la mano, per
prender commiato da lei.
--Badate che ci conto;--soggiunse Giselda, accompagnandolo verso
l'uscio del salotto.--Voglio vedere...
Questa sì era una reticenza meditata, un laccio teso ad Ariberti, che
ci cascò bravamente.
--Che cosa?--dimandò egli, fermandosi.
--Se sarete stato attento alla scena;--rispose ella, col più
zingarescamente malizioso dei suoi leggiadri sorrisi.
Il giovane notò l'allusione birichina fatta alla prima volta che si
erano veduti, e gongolò.--Ella mi ha inteso poc'anzi,--pensava,--e
questa allusione è la risposta. Oh donna adorabile!--
Fece intanto un inchino lì per lì, senza rispondere una parola, che
invero non ne avrebbe trovato di acconce, e si ritirò, promettendo di
tornare la mattina seguente.
Guardò l'orologio quando fu nelle scale. Erano le quattro. Egli era
dunque stato cinque ore da lei. Sì, ma mezz'ora non contava, perchè
l'aveva passata da solo, aspettando; poi, quegli altri due importuni
avevano fatto una stazione di forse due ore. Vedete che gente
ineducata. Come si può star due ore per fare una visita? Dunque,
ricapitolando, cinque ore meno due e mezzo, fanno due e mezzo
soltanto. Ma bene; e lui dunque non ci era stato più del bisogno?
Sicuro; ma lui, in fin de' conti, lui... era lui.
Con questa conclusione mise in pace lo spirito. Dico male; lo chetò
sul capitolo della discrezione, ma non sugli altri, che già facevano
un bel numero. C'era, per esempio, quella faccenda del concerto!... Il
signor giornalista politico sarebbe andato a pavoneggiarsi, a far la
ruota nel salotto di Giselda, a sciorinare il suo articolo di fondo.
Guardate un po'! lasciava perfino il dramma nuovo, di cui si parlava
da giorni per tutta Torino! E già, si capisce, anche il cavaliere
Roberti avrebbe fatto lo stesso; si sarebbe eclissato al Gerbino, per
andare a bisbigliare le sue galanterie a quel terzo piano di via
d'Angennes. E il tenore, e il baritono, non contenti di aversela a
contendere più tardi sulla scena... Insomma, tutto dava noia, tutto
insospettiva l'innamorato, e i moscerini sul naso, diventavano
mosconi, cavalocchi, pipistrelli, e che so io.
Andò quella sera al Gerbino; ma era svogliato, stizzito, pieno di mal
talento, e il dramma non gli piacque, quantunque fosse di uno dei
primi ingegni della moderna scuola francese, e quantunque gli
applausi, che fioccavano da ogni parte, mostrassero che l'uditorio si
accordava a pensarla diversamente da lui: «Orazio sol contro Toscana
tutta». Accusò, ci s'intende, la pessima traduzione, che doveva esser
fatta dal suggeritore della compagnia, e conchiuse che il gusto de'
suoi concittadini (concittadini per mo' di dire) doveva essere molto
depravato, se essi tolleravano di simili offese alla lingua italiana.
E pensava involontariamente al contino Candioli; e gli tornava davanti
agli occhi l'immagine di Filippo Bertone, colla sua marchesana di San
Ginesio, quella superba Giunone che non si era degnata di volger gli
occhi su di lui, Ariberti, se non per mettersi a ridere.
Al diavolo le donne, alte e basse, dame e pedine! Quella sera il
nostro baccelliere andò a finire dal Mago, non senza aver passato in
via d'Angennes a digrignare i denti sotto quelle finestre, donde gli
veniva tanta luce dei soliti doppieri e tanta onda delle sempre elette
armonie.
La sua apparizione tra i cavalieri di Malta fu salutata da un
poderissimo evviva e celebrata con parecchi bicchieri di Gattinara,
accompagnati dai più matti brindisi del mondo.
CAPITOLO XIII.
La pecorella smarrita ritorna all'ovile.
--Alla salute dell'estinto! di Lazzaro... semestrale, che esce fuori
dal monumento fet....
--Ohibò! Questi aggettivi a tavola?
--Ma se viene dalla tomba! Non si può dunque più dire che ha pigliato
il selvatico?
--Ah, così traduci il _faisandé_, topo cruscaiuolo.
--È proprio un morto risuscitato. Vedete che cera!
--Ariberti, dove hai lasciato il lenzuolo?
--Non gli dite nulla, poverino! Avrà fiutato un creditore per via.
--Come? ardirebbero i vili avventurarsi a quest'ora nei nostri
paraggi?
--Amici, io bevo al ritorno di Ariberti, e alla distruzione dell'empia
sètta.
--Meglio ancora che bere, sarebbe ammazzare il vitello grasso.
--Perchè?
--Si fa celia? È venuto il figliuol prodigo.
--Benissimo; lasciate allora che lo ammazzi suo padre.
--Ammazzarlo suo padre! Tu proponi un parricidio.
--No, parlo del vitello, bestia!
--Bella scoperta! Signori, il vitello è una bestia.
--Spiritoso! Io volevo dire soltanto che il vitello... sei tu.
--Amici,--interruppe il Priore,--le celie e le metafore continuate non
sono permesse dagli statuti dell'ordine. Viva Ariberti, che finalmente
ci è reso. E quantunque meriterebbe una predica...
--Una predica? La faccio io.
--Chi parla, dietro a quel boccale?
--Luciano Valerga, dei minori osservanti.
--Il Segneri della brigata!
--La gloria dell'ordine!
--Parli Valerga! Parli!--
E lì un chiasso d'inferno, un nabisso, un diavoleto. Si intende che
vociando e ridendo si seguitava a trincare. Già, diceva il filosofo,
non c'è cosa che bagni l'ugola come il bere.
Luciano Valerga si alzò barcollando. Era una finzione, perchè il
letterato della compagnia non si ubbriacava mai, e si diceva di lui
che avrebbe potuto bere impunemente tutta l'acqua delle nozze di Cana,
dopo fatto il miracolo. Ma tra i tre cavalieri di Malta era la moda di
parer brilli al secondo bicchiere, forse per salvare le apparenze,
coprendo la debolezza di quelli tra loro che pigliavano troppo
facilmente la sbornia.
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