La notte del Commendatore - 11
tutto questo non c'è nulla da temere. _La marquise a des principes;_ e
poi, ve l'ho detto altre volte, _elle est froide comme un beau marbre.
Seulement,_ il vostro amico Bertone...
--Ah! Bertone!--esclamò il giovine, dando un sobbalzo e strabuzzando
gli occhi dallo stupore.--Come c'entra costui?
--Ecco, pigliate fuoco. _Vraiment, je suis désolé_....
--Signor conte,--interruppe l'Ariberti con piglio solenne,--Ella ha la
mia parola d'onore, ed io non seno un bambino. La cosa mi è parsa
strana, ecco tutto. Ma come mai Bertone, il mio amico Filippo Bertone,
ha potuto avvicinare la marchesa?
--_Voilà ce que je me suis demandé, aussi bien que vous_... Con quella
_redingote,_ poi!
--Oh per questa, non dubiti, l'ha smessa;--si affrettò a dirgli
l'Ariberti sbuffando.
--_Je sais, je sais; il y déja loin de là._ Ma il vostro amico non ha
_renouvelé sa garde-robe qu'après._
--_Après_... che cosa?
--_Eh, mon Dieu, après la connaissance faite._ Egli ha ora le sue
_grandes et petites entrées_, nella sua qualità di maestro del
marchesino.
--Maestro? E di che?
--Non saprei; probabilmente di leggere e scrivere. Il ragazzo non ha
ancora sette anni.
--Strano!--borbottò l'Ariberti.--E Filippo che non mi ha detto nulla,
l'ipocrita!
--_Mon cher, vous savez, on ne raconte pas ses bonnes fortunes,_ e
qui, se non si tratta _à la rigueur d'une bonne fortune,_ non era il
caso di salire sui tetti per dar la notizia alla gente.
--Ma come può essere andata? Forse nel modo più naturale;--disse
l'Ariberti, dimenticando che poc'anzi gli era parso strano.
--_Oh pour cela, rien de plus naturel,_ quando s'abita a quattro passi
discosto, con un cortile soltanto per mezzo.
--Come? Il palazzo san Ginesio è in via...
--Santa Teresa, sicuro; e non lo sapevate?
--Ah!--gridò il nostro innamorato, senza rispondere alla domanda del
suo biondo Mefistofele.
--Capisco ora perchè il signorino....
--Perchè... andate innanzi.
--Nulla, nulla, è un'idea che mi passa pel capo. Signor conte, la
ringrazio.
--Ve ne andate? Spero bene che non mi farete una _incartade._
--Le ho dato la mia parola; che cosa debbo dirle di più?
--_J'y compte donc. Au revoir!_ E badate, aspetto il vostro volume.
_Il ne sera jamais dit que j'aurai dû acheter le livre d'un ami tel
que vous._
Ariberti gli rispose con un cenno del capo, con un sorriso
sforzato e fuggì.
--_Enfin!_--disse il contino tra sè, disponendosi a fare una
visita alla baronessa Vergnani, _taille de guêpe et pied
d'Andalouse._--Faccia un po' quel che vuole; io me ne lavo le
mani. Ah ah! la marchesa mi fa l'adirata mi sta rigida e fredda
come una divinità sul piedestallo... E intanto quello straccione
di filosofo da dozzina, _qui n'est pas même des nôtres_... Basta,
ora hanno a vedersela tra loro, _messieurs les manants._ In
verità, non m'aspettavo già più che quello sciocco d'Ariberti mi
cascasse sotto la mano. Oggi ho avuto fortuna cogli uomini. _Avec
les femmes, ma foi, nous verrons tout-à l'heure._--
E ravviati leggermente con tre dita i capegli e data una scrollatina
all'abito nero, come per levarne le grinze, il figlio di Sua
Eccellenza se ne andò verso il corridoio dei palchi di prima fila, per
consolarsi presso la _taille de guêpe_ dei superbi dispregi di madonna
Giunone. La quale, per uno di quegli arcani psicologici che hanno
fatto chiamare l'uomo un animale imitatore, era parsa bella e
desiderabile al contino Candioli, dopo che l'avevano trovata bella e
desiderabile gli altri. Ed Ariberti, dal canto suo, non si era
innamorato per una ragione altrettanto frivola? Nel suo struggimento,
più assai di testa che di cuore, non c'entrava egli per due terzi di
vanità? Avrebbe egli dato nei gerundi a quel modo, se la marchesa di
San Ginesio, scambio di una gran dama, fosse stata, con tutte le sue
bellezze, una buona pacchierona di bottegaia, o d'ostessa?
Eppure, notate, per quel riscaldamento di testa non vedeva più lume.
Date due o tre giravolte nell'atrio, era tornato al suo posto in
teatro, come per sincerarsi se la marchesa fosse ancora quella di
prima, o se gli occhi suoi l'avrebbero veduta tutt'altra, dopo le
rivelazioni del contino Candioli. Era là, nel suo palchetto,
tranquilla, impassibile, quella superba che non si degnava di
guardarlo, e che pure aveva abbassato gli occhi benevoli su di un
giubbone color di tabacco. Ma che gusti erano dunque i suoi? Candioli
avrebbe esclamato: _fi donc!_
Il nostro Ariberti stabiliva _a priori_ che una donna non può guardare
che un bell'abito, e innamorarsi che per la trafila del figurino delle
mode. Così la passione acceca! Se fosse stato un pezzente, avrebbe
pensato tutto l'opposto, e stabilito che una donna a modo non dovesse
guardare che i cenci.
--Eccola dunque là, col segreto de' suoi amori plebei, nascosta, sotto
quella maschera di aristocratica noncuranza! Ed ecco là, accanto a
lei, quell'uomo felice per legittimità di possesso, che non sa nulla
di nulla e se la ride, scioccamente fiducioso, dei vani armeggiamenti
di tanti vagheggini miei pari! Donne! Donne!--
Fo grazia al lettore degli «eterni Dei» e di tutto quell'altro che
dovrebbe far seguito. Il monologo, del resto, è vecchio come i primi
venti anni del primo innamorato che abbia esercitato la pazienza degli
echi solitarii. Frughi ognuno nei suoi ricordi, e vedrà di averne
fatto, non uno, ma parecchi e non solamente a vent'anni.
Mal potendo dissimulare la sua stizza, Ariberti uscì da teatro
mezz'ora prima che finisse lo spettacolo, non badando al bisbiglio che
suscitava la sua rumorosa partenza dal bel mezzo delle sedie chiuse,
tra tutti quegli spettatori, a cui egli turbava insieme la visuale del
palcoscenico e l'udita. E indovinate mo' dove andasse a far capo?
Nella via di Santa Teresa, ad asolare davanti al palazzo San Ginesio,
di cui le parole del maligno contino gli avevano indicata la
situazione. Sicuro; egli non aveva mai pedinata la carrozza della
marchesa, e costei abitava per l'appunto laggiù, a pochi passi
discosto da Filippo Bertone. Dall'abbaino dell'amico aveva veduto la
finestra della dama e il cuore non gli aveva detto nulla! E
quell'ipocrita, nemmeno! Addosso all'ipocrita! Infatti, che cosa
significava quel davanzale ornato di fiori fin dai primi giorni della
sua dimora lassù? Mirava ad attirare gli sguardi della signora, il
furfante. E poi, quell'essersi rimpannucciato d'improvviso! Era
perfino diventato bello. Lui, Filippo Bertone! C'era da crepar dalla
rabbia. Ed egli frattanto a perdersi in mille zacchere, colla
Giumella, coi cavalieri di Malta, coi libri, colle tragedie, colla
gloria. Imbecille! E giungeva tardi, per conseguenza; perdeva il
vantaggio di essersi fatto innanzi pel primo; quel destro mariuolo,
che non pareva lui, gli aveva vogato sul remo.
Il filo delle irose considerazioni gli fu poco stante interrotto
dall'arrivo di una carrozza, che si fermò davanti al palazzo dei San
Ginesio, per svoltare incontanente sotto l'androne. La signora tornava
da teatro, e Ariberti nel passare davanti al portone, potè vederla
ancora col piede sullo smontatoio.
--A quest'ora,--pensò egli con amarezza,--l'ipocrita è già in
sentinella al suo finestrino. Chi sa? Forse tra pochi minuti, dal suo
spogliatoio, madonna darà un'occhiata furtiva su in alto, a quel buco
illuminato e adorno di piante rampichine, come una capannuccia di
Natale.--
Ariberti se ne andò dalla via di Santa Teresa dicendo il paternostro
della bertuccia. E quella notte, nell'osteria del Mago, prese una
sbornia solenne, per affogare, da quell'eroe di Byron che si teneva di
essere, la sua rabbia nel vino. Senonchè, tra un bicchiere e l'altro,
aveva bisbigliato al Priore, con cui era entrato in molta
dimestichezza dopo la faccenda del duello:
--Forse domani avrò bisogno di te.--
Che tiro mancino meditava l'Ariberti in quell'ora? Egli stesso non ne
aveva un concetto ben chiaro. Metteva le mani innanzi, come per
impegnarsi a fare qualcosa. Del resto, la notte (e per notte intendeva
le poche ore mattutine destinate al sonno) avrebbe portato consiglio.
Così avvenne diffatti. Andato a letto assai tardi, e colla mente in
iscompiglio, si alzò per tempo, con una pensata da gran diplomatico, e
azzimatosi con molta cura e provato lungamente un sorriso allo
specchio, si recò dal Bertone, prima che questi uscisse per andare
all'Università.
--Amico,--gli disse, adoperando quel tal sorriso, che gli uscì per
altro un pochino stentato,--sono venuto a chiederti un servizio.
--Dimmi; son cosa tua;--gli rispose candidamente Filippo.
--Ecco gua; ti chiedo la tua camera.--
Bertone lo guardò trasognato.
--Sì,--proseguì l'Ariberti,--non posso più rimanere nel mio
quartierino in piazza Vittorio, e ti domando il tuo bugigattolo, come
lo chiami. A te certo non importerà.
--Ma, scusami;--ripigliò Filippo Bertone, che ancora non sapeva
capacitarsi perchè l'Ariberti gli facesse quella uscita bizzarra;--e
dove vuoi che vada io?
--Eh, per esempio, in via degli Argentieri, nel tuo alloggio dell'anno
scorso. La signora Paolina ci ha quella tua stamberga libera; l'ho
ancora veduta ieri l'altro e mi ha pregato anzi di parlartene.--
Filippo rimase un tratto sovra pensiero, guardando ora la stuoia del
pavimento, ora il suo amico Ariberti.
--E non potresti andarci tu, in via degli Argentieri? chiese egli
--poscia all'amico.
--Non posso;--rispose l'Ariberti, rannuvolandosi; ci ho le mie buone
ragioni per non andare a star là.
--Perdonami, sai;--replicò allora Filippo, che incominciava a
sospettare qualcosa;--ma io ci ho le mie per rimaner dove sono.
--Credo d'indovinarle.
--Bella forza! Qui ci sto bene, oramai; ci ho fatto l'uso; ho speso
qualche scudo per mettermi in sesto, e capirai...
--Sì, ho capito che non vuoi cedermi il tuo osservatorio.--
Per quella volta non c'era più dubbio; Ariberti voleva toccarlo nel
vivo.
--Che cosa intendi di dire?--esclamò Filippo, arrossendo.
--Che tu l'ami; non è egli vero?
--E chi di grazia? io non riesco a capirti.
--Non mi fare il nuovo; la marchesa di San...
--Ti prego;--interruppe Filippo, fortemente turbato;--non far giudizi
temerari, e sopratutto lascia in pace le signore.
--Ah sì, non la compromettiamo;--notò sarcasticamente l'Ariberti;--fra
tutte le maschere dell'ipocrisia c'è anche la discretezza.
--Basta!--gridò Filippo, che già non vedeva più lume.--O dove ti duole
stamane? Non è ipocrisia ricordarti che le donne vanno lasciate in
pace, segnatamente quando non le si conoscono. Non mi dir
altro!--proseguì Bertone, rimettendosi un tratto.--Ho inteso il tuo
pensiero, e mi contento di risponderti che sei in errore.
--Cedimi la tua camera, e lo crederò;--riprese l'Ariberti implacato.
--No;--disse Filippo;--tu vuoi da me un atto di debolezza, ed io non
sono disposto a commetterne.
--Bada; potresti pentirtene.--
Filippo Bertone si strinse nelle spalle e non rispose parola.
Ariberti se ne andò invelenito. Mezz'ora dopo, si metteva nelle mani
del Priore, e lo pregava di andare e sfidargli il rivale.
--Sì, sì, come vorrai;--disse Tristano;--ma lascia fare a me. Questa è
faccenda che bisogna trattare delicatamente. Andrò da solo a
parlargli, e te lo ridurrò mansueto come un agnello.--
Filippo Bertone si aspettava quella visita. E come ebbe udito dal
Priore, che egli, innanzi di presentarsi in veste da araldo, veniva a
guisa di amico, per ragionare alla libera, anzi col cuore in mano, gli
seppe grado dell'atto cortese e mostrò di volersi rimettere in lui.
--Ella intenderà,--gli aveva detto Tristano,--che qui si sta per fare
un pasticcio, e non già di quei di Strasburgo, ma che poi non potremmo
più accomodare, per quanta buona volontà ci mettessimo da ambe le
parti. Il suo amico Ariberti è fuor dei gangheri e non c'è verso di
fargli intender la ragione. Vediamo dunque di uscirne alla meglio e
senza pubblicità.
--Capisco;--rispose Filippo;--quantunque da un amico d'infanzia io non
dovessi aspettarmi una scartata simile, e senza un'ombra di ragione da
parte sua. Ma come vuole che noi l'accomodiamo, se egli domanda una
cosa ingiusta? Io, veda, non ho pratica di quistioni di onore e non so
se sosterrei bene o male uno scontro. Bisognerebbe vedere. Ma qui, per
intanto, le dirò schiettamente che, sfidato a duello da lui, e pel
motivo che Ella mi dice, non andrei sul terreno. Egli dovrebbe
tirarmici pei capegli, e con un altro pretesto. Ariberti è innamorato;
e lo sia. Quanto a me, non involgerò mai nello scandalo, che egli
vorrebbe, una famiglia rispettabile che mi ha accolto come maestro ad
un suo fanciullo, per intercessione di un degno professore che mi vuol
bene. Signor Falzoni, io parlo ad un uomo più vecchio e assai più
sperimentato di me. Crede Lei che sia il caso di fare un duello, che
metterebbe in piazza una riputatissima dama, superiore di tanto alle
nostre bizze da scolaretti? Dovrei cavarmi d'impiccio dandogli la
camera; lo so. Ma anche quei signori di laggiù sanno che io abito
questa soffitta. Come potrei colorire lo sgombero? E noti, signor mio,
che se l'Ariberti corteggia la dama, può anche darsi che ella se ne
sia avveduta. Almeno, è da supporsi. In questo caso, di due l'una, o
passerò agli occhi di quella signora per un pusillanime, o per un
amico troppo compiacente. E nell'un caso e nell'altro, le apparirò
consapevole di un segreto che la riguarda, e senza giovare a lui, ne
avrò il danno e le beffe.--
Il ragionamento correva a filo di logica, e Tristano in cuor suo
dovette convenirne. Tristano, da quel vecchio diavolo ch'egli era,
intese benissimo anche un'altra cosa; intese che si trattava di
persone ragguardevoli e potenti, che non c'era guadagno a toccarle, e
che male sarebbe potuto incoglierne a lui, se avesse mai secondato
l'Ariberti in quella picca e fatto nascere un guaio.
--È vero, ciò che Ella dice;--rispose adunque il Priore, offrendo a
Filippo un'uscita onorevole:--e quando Ella mi assicura che non
corteggia la signora... che non ha pensato mai a vogare sul remo
dell'amico...
--Lasciamo stare l'amico, per carità!--interruppe Filippo, che aveva
il cuor gonfio d'amarezza.--Ariberti non è amico mio, se ha potuto
sospettarmi prima, e meditar poi una sfida. Questo io posso assicurare
a Lei: che la signora in discorso è un angelo di bontà e che io non
ardirei mai di alzare gli sguardi, non che le speranze, fino alla mia
eccelsa benefattrice. Così infatti io debbo chiamarla; tale io debbo,
e non altrimenti vederla. Il caso mi aveva condotto ad abitare quassù;
i miei studi mi hanno posto in relazione col venerando uomo, che si è
fatto di buon grado il mio protettore. Sappia, signor Falzoni, che io
son debitore del mio umile uffizio di maestro presso il marchesino,
alla bontà del mio professore di clinica, che è in pari tempo il
medico e l'amico di quella famiglia. Questa è la pura storia, ed io
l'ho raccontata a Lei, a Lei solo...
--È detta al confessore, non dubiti;--rispose Tristano.--Io la stimo,
signor Bertone e non ho più altro da chiedere alla sua cortese
schiettezza. Dirò ad Ariberti che non può, non deve aver rancore con
Lei. Insomma,--conchiuse il Priore, scuotendo alteramente le
spalle,--si tratta di una ragazzata e la farò finita senza tanti
discorsi. Io frattanto sono lieto di queste sue spiegazioni, non
solamente perchè mi daranno più ansa ad usare della mia autorità su
lui, ma anche perchè mi hanno offerto occasione di conoscere un
giovine discreto ed onesto come Lei. Signor Filippo Bertone, la mia
amicizia; e se valgo in qualche cosa per Lei, mi spenda liberamente.--
Filippo Bertone restò confuso a tutte quelle gentilezze e non seppe
che dire. Però strinse con effusione la mano che gli sporgeva il
Priore, e, balbettando un complimento, lo accompagnò fino al
pianerottolo della sua piccionaia.
--Quando si dice la riputazione!--pensava egli, tornando alla pace
insidiata del suo modesto scrittoio.--Ecco un uomo che passa in tutta
Torino per un accattabrighe, un rodomonte, un uomo senza cuore; ed è
buono poi come il pane.--
Ben altra opinione aveva a farsene l'Ariberti, quando si sentì dire
dal suo araldo di guerra che non bisognava far nulla. Si provò a
sostenere il contrario, ma Tristano alzò le spalle e gli diede su per
giù del ragazzo. Volle star sulla sua, e rispose che avrebbe cercato
altri padrini; ma il Priore gli disse che si guardasse bene dal farlo,
perchè, all'ultimo degli ultimi, egli, Tristano, avrebbe fatto il
padrino a Filippo Bertone, e dato, non una, ma tre lezioni di
cavalleria, ed anco di gratitudine a chi dell'una cosa e dell'altra,
si mostrasse dimentico.
L'uomo era in tutta la pienezza della sua autorità, come il marito di
Sefora, prima di ascendere il Sinai, o, se vi piace di più, come il
vecchio della Montagna in mezzo ai suoi divoti seguaci. E Ariberti
cedette. Tristano gliene seppe grado, e tornò umano, trattabile come
prima. Ariberti in quella vece rimase grosso con lui, non già
all'apparenza, ma nel fatto. Lo si vedeva inoliato di fuori, ma dentro
ci aveva la ruggine. Per la prima volta, dopo tanta adorazione cieca,
il Priore dei cavalieri di Malta gli apparve un egoista di tre cotte,
un uomo leggiero, una carrucola, e tutto quel che peggio vorrete.
Ariberti era giovine, e in questo basso mondo aveva ancora a vederne
di tutti i colori, e a pentirsi più d'una volta de' suoi primi
giudizi. _Prima frons decipit,_ lo hanno detto gli antichi.
Lascio intanto argomentare ai lettori come gli cuocesse di quella
figuraccia; che tale gli pareva davvero, al cospetto di Filippo
«l'ipocrita» e della sua marchesana. _Primo primis_ si sbandeggiò dal
teatro, che era del resto agli sgoccioli, e si diede tutto, anima e
corpo alla vita scioperata. Amore e gloria lo disdegnavano; ed egli
mandava al diavolo la gloria e l'amore.
Rimaneva per altro il suo debito di figlio. Proprio in quel torno
capitò una lettera di sua madre. Quella santa donna gli scriveva,
piena di sgomento, e in tutta segretezza. Il signor Amedeo stava muto
come un pesce, ma dalla sua stessa taciturnità la moglie indovinava
che egli non avesse troppo buone informazioni del figlio; epperciò
nella sua lettera gli raccomandava di fuggire le male compagnie e di
studiare a tutt'uomo per non essere cagione di lagrime in casa.
Quella lettera, accompagnata dai piccoli risparmi della signora
Caterina, fu anzitutto un grande aiuto al bilancio del nostro eroe,
quindi un raggio di luce nelle tenebre del suo spirito infermo. Un
mese o poco più, gli rimaneva di buono per gli esami. Tornò quel
giorno stesso all'Università. S'intese col Balestra, e andò con lui a
ripassare ogni mattina le istituzioni del Diritto romano. Si affogò
nel latino; meditò le dottrine del Savigny; raffrontandole con quelle
del Vico; consumò le notti e le lucerne intorno a certe annotazioni
che gli dovevano stampar meglio nella memoria il testo delle Pandette.
Infine, che vi dirò? Verso i quindici di maggio, del mese in cui la
natura risorge, e perfino gli asini cantano d'amore, il nostro
studente scioperato faceva uno splendido esame, e usciva, se non
m'inganno, baccelliere in giurisprudenza.
Baccelliere da baccello!
CAPITOLO X.
Dove i nodi vengono al pettine.
Era una splendida giornata della fine di maggio quando il giovane
baccelliere fece ritorno a Dogliani; una giornata tutta tepori e
fragranze, come avviene per solito nei trapassi dalla primavera
all'estate. Ma il nostro eroe badava assai poco alla bella giornata;
l'animo suo era sordo alle liete voci della natura; invano la gran
madre, a dirvela con una frase audacissima, si era infronzolita per
lui. Il signor baccelliere si mostrava pensieroso, anzi peggio,
stizzoso, di mala voglia; insomma, per usare una parola moderna, che
risponde ad una moderna infermità, maledettamente nervoso.
Con chi l'aveva? Con se stesso e cogli altri, col mondo interno e col
mondo esteriore; due mondi che l'uomo incomincia ad avere in uggia,
quando ha varcato la fatale trentina. Ma il nostro Ariberti, ragazzo
precoce, faceva tutto in anticipazione.
Le accoglienze della signora Caterina furono materne, e con questo
aggettivo mi pare di avervi detto ogni cosa. Quelle del signor Amedeo,
per contro, furon fredde anzi che no. Le belle imprese dello studente,
avevano avuto un'eco fino a Dogliani. E qui, facciamo ad intenderci.
Al signor Amedeo non dispiaceva punto che il figliuol suo si facesse
un uomo e si mostrasse tale anche prima della età voluta dalle
statistiche. I babbi son tutti così; hanno fretta; non per niente son
nati prima di noi. Perciò il duello del figlio, che, ancora in
_fieri_, gli avrebbe dato sui nervi come una solenne ragazzata, degna
di una tiratina d'orecchi, non doveva dispiacergli, a cose fatte, poi
tanto. Anche i versi, pomposamente stampati, non gli parevano un
delitto imperdonabile. Alla fin fine, erano belli; e se ne nascevano
in casa Ariberti, c'era piuttosto da tenersene, che da fargliene una
ramanzina. Neanco gli avrebbe dato ombra qualche ripesco amoroso. Suo
figlio era un bel giovinetto; che diamine! e se piaceva alle donne,
non c'era mica da condannare... le donne. Ecco qua per l'appunto il
nodo della quistione. Rispetto agli altri, e considerate ad una ad
una, quelle imprese gli parevano naturali e fino ad un certo segno
condonabili; ma tutte insieme, e rispetto al figlio, gli apparivano
malefatte, da non meritare indulgenza. E ciò segnatamente per gli
studi, che ne avrebbero sofferto. Il ragazzo si svia, pensava egli, il
ragazzo si svia, e bisognerà rimetterlo in carreggiata. _Principiis
obsta; sero medicina paratur._
Per altro, il signor Amedeo si rabbonì, quando vide il certificato
degli esami, che portava segnati, a giustificazione del figlio, tutti
i punti e la lode. La lode! che vi pare? Va bene che in legge, secondo
i maligni, è abbastanza facile buscarla; ma per contro è altrettanto
facile di non buscarla affatto; dunque... La conseguenza viene da sè.
E il signor padre si rabbonì; non già ad occhi veggenti, perchè
l'autorità sua ne avrebbe scapitato; ma bene lo intese la signora
Caterina, che vide il marito star meno sostenuto con lei.
Del nostro baccelliere furono invece assai meno contente le sue
vecchie conoscenze di Dogliani. Le ragazze lo trovarono più bello, più
elegante di prima, e pensarono a lui per una settimana, con gran
dispetto degli Adoni di mandamento; ma finirono col giudicarlo freddo,
contegnoso, aristocratico. Si è sempre aristocratici per qualcheduno;
e nel suo paesello natale, dov'era conosciuto lui, dove era conosciuta
la famiglia, il giovane Ariberti doveva parere superbo senza ragione.
Ci fu, tra l'altre, una figlia di droghiere che ebbe da lui un saluto
di tanta degnazione, da piangerne per una notte intiera. Una
conservatrice d'ipoteche, perduta la speranza di registrarlo fra i
frequentatori delle sue veglie, lo definì, tra due giuochi innocenti,
uno sciocco.
Il giovane dava appicco a tutti questi giudizi, a tutti questi
malumori, fuggendo le conversazioni e le compagnie d'ogni sorta.
Poverino! pensava ai suoi debiti, segnatamente a quello del tipografo,
che presto gli aveva a cascare tra capo e collo, e almanaccava più di
un ministro di finanze, quando cerca il pareggio tra la entrata e
l'uscita.
La mattina, per almanaccare a suo agio, si alzava da letto per tempo e
se n'andava lontano pei campi, ma senza dare l'occhiata del presidente
ai coltivati, nè quella del poeta ai salvatici. Invano le colline
s'indoravano per lui al primo raggio del sole; invano i rosolacci
disposti a gruppi, a manipoli, a file serrate, agitavano i calici
scarlatti sui ciglioni dei prati; invano le monacucce facevano pompa
degli steli diritti e dei fiori incarnatini in mezzo alle spighe
biondeggianti del grano. Il signor baccelliere andava diritto per la
sua strada, senza pure avvedersi delle api, che gli gironzavano a
sciami intorno alle ginocchia, andando in busca di cera e di miele
nella varia fioritura dei pingui maggesi. La bella natura, le albe, i
tramonti, i rivoli solitarii tra due file d'ontani o di frassini, i
buoi aggiogati che trascinavano lentamente la loro gran mole di fieno
odoroso sulla nota carraia, tutte queste cose sane, che intendiamo
così bene quando ci manca il tempo a goderle, non avevano voce per
lui.
Si guardava dentro, il poverino, e ci vedeva buio, gran buio. Per
altro, a furia di guardare, ci trovò il soggetto e la materia d'un
dramma. Era il secondo che perpetrava; ma stavolta il delitto era in
prosa, e d'indole acconcia alla scena; si allontanava ad un tempo da
quel vero che non ha fortuna in teatro e da quel falso che spesso è
frutto di larghe vedute estetiche; ma seguitava la via di mezzo, che
piace tanto alla comune degli uomini, poichè rappresenta in arte
quell'aurea mediocrità che regna in tutte le cose della vita, e agli
uni tempera i desiderii, agli altri smorza le invidie, a tutti
conferisce come un'aria di famiglia e li consola d'esser figli
d'Adamo.
Lo tirò giù venti giorni, che per un'opera simigliante erano forse già
troppi, e gli parve che andasse bene. Spese altri cinque giorni per
tirarlo a pulimento e per farne una copia presentabile; poi lo
accartocciò, lo rinvolse in un bel foglio di carta turchina da
bottegai, che suggellò bravamente sul margine, e si dispose a scrivere
su l'indirizzo.
Ma a chi mandarlo? Questo era il busilli. Per fortuna l'_Euterpe_
veniva ogni settimana a salutarlo in Dogliani, e sull'_Euterpe_
c'erano indicazioni di compagnie drammatiche a bizzeffe. Trovò in
questa guisa il capocomico di suo gusto, che recitava in quel torno a
Genova, e gli spedì il manoscritto dicendogli nella lettera, che
glielo avrebbe potuto dare per ottocento lire, nè più, nè meno; o
prendere, o lasciare.
Così contava di pagare il tipografo e di avere per giunta un po' di
danaro in serbo per altri debitucci che lo aspettavano a Torino. Per
quattro o cinque giorni attese risposta, ma invano. Già, bisognava
dare al capocomico il tempo di leggere; cosa difficile, come tutti
sanno. All'ottavo giorno gli scappò la pazienza, e riscrisse,
sollecitando quella benedetta risposta. Il suo uomo non si fece vivo.
Allora ne pensò una da furbo di tre cotte; mandò all'amico
dell'_Euterpe_ una notarella agrodolce in cui si pregava il gran
capocomico Tizio (è qui c'era il nome scritto a mezzo, colla, promessa
del resto) a rispondere alle lettere, o rimandare i manoscritti che si
sottoponevano al suo riputato giudizio. La noterella comparve
stampata, e tre giorni dopo, il nostro Ariberti riceveva per la posta
il suo scartafaccio.
Altro che ottocento lire! Il degno pronipote di Roscio, in una sua
letterina mandata quel medesimo giorno, gli diceva d'aver letto
attentamente il suo dramma. Belle scene; stile classico; passione....
oh, passione, poi, quanta ce ne poteva essere in un dramma di
Shakespeare; ma il lavoro era troppo serio, oh sì, troppo serio, e il
pubblico, per allora, domandava di ridere. Inoltre era un po' lungo.
Va bene, che si sarebbe potuto scorciare, ma sarebbe stato un vero
peccato. Tanti bei pensieri! Scene così belle! Infine era un lavoro da
stampare; oh sì, da stamparsi senz'altro, e i lettori avrebbero reso
giustizia, ecc. ecc., gustato, ammirato; e qui mettete a dirittura una
dozzina di eccetera.
Che c'era di vero in tutte quelle considerazioni del pronipote di
Roscio? Ariberti diede un'occhiata al suo povero manoscritto. Oh
rabbia! Era rivolto ancora nella sua fascia turchina e coi medesimi
suggelli di ceralacca che ci aveva messo lui a Dogliani.
Il signor capocomico aveva dimenticato di salvar le apparenze.
Oh capicomici! Il mio eroe vi mise tutti in un mazzo, v'involse tutti
in una sola maledizione. E aveva il torto marcio, come lo si ha
sempre, quando si giudica in modo assoluto. Almeno almeno, avrebbe
dovuto fare una eccezione pel suo uomo, che gli diceva ben del suo
dramma senza averlo letto, e non gli prometteva di pagargli tremila
poi, ve l'ho detto altre volte, _elle est froide comme un beau marbre.
Seulement,_ il vostro amico Bertone...
--Ah! Bertone!--esclamò il giovine, dando un sobbalzo e strabuzzando
gli occhi dallo stupore.--Come c'entra costui?
--Ecco, pigliate fuoco. _Vraiment, je suis désolé_....
--Signor conte,--interruppe l'Ariberti con piglio solenne,--Ella ha la
mia parola d'onore, ed io non seno un bambino. La cosa mi è parsa
strana, ecco tutto. Ma come mai Bertone, il mio amico Filippo Bertone,
ha potuto avvicinare la marchesa?
--_Voilà ce que je me suis demandé, aussi bien que vous_... Con quella
_redingote,_ poi!
--Oh per questa, non dubiti, l'ha smessa;--si affrettò a dirgli
l'Ariberti sbuffando.
--_Je sais, je sais; il y déja loin de là._ Ma il vostro amico non ha
_renouvelé sa garde-robe qu'après._
--_Après_... che cosa?
--_Eh, mon Dieu, après la connaissance faite._ Egli ha ora le sue
_grandes et petites entrées_, nella sua qualità di maestro del
marchesino.
--Maestro? E di che?
--Non saprei; probabilmente di leggere e scrivere. Il ragazzo non ha
ancora sette anni.
--Strano!--borbottò l'Ariberti.--E Filippo che non mi ha detto nulla,
l'ipocrita!
--_Mon cher, vous savez, on ne raconte pas ses bonnes fortunes,_ e
qui, se non si tratta _à la rigueur d'une bonne fortune,_ non era il
caso di salire sui tetti per dar la notizia alla gente.
--Ma come può essere andata? Forse nel modo più naturale;--disse
l'Ariberti, dimenticando che poc'anzi gli era parso strano.
--_Oh pour cela, rien de plus naturel,_ quando s'abita a quattro passi
discosto, con un cortile soltanto per mezzo.
--Come? Il palazzo san Ginesio è in via...
--Santa Teresa, sicuro; e non lo sapevate?
--Ah!--gridò il nostro innamorato, senza rispondere alla domanda del
suo biondo Mefistofele.
--Capisco ora perchè il signorino....
--Perchè... andate innanzi.
--Nulla, nulla, è un'idea che mi passa pel capo. Signor conte, la
ringrazio.
--Ve ne andate? Spero bene che non mi farete una _incartade._
--Le ho dato la mia parola; che cosa debbo dirle di più?
--_J'y compte donc. Au revoir!_ E badate, aspetto il vostro volume.
_Il ne sera jamais dit que j'aurai dû acheter le livre d'un ami tel
que vous._
Ariberti gli rispose con un cenno del capo, con un sorriso
sforzato e fuggì.
--_Enfin!_--disse il contino tra sè, disponendosi a fare una
visita alla baronessa Vergnani, _taille de guêpe et pied
d'Andalouse._--Faccia un po' quel che vuole; io me ne lavo le
mani. Ah ah! la marchesa mi fa l'adirata mi sta rigida e fredda
come una divinità sul piedestallo... E intanto quello straccione
di filosofo da dozzina, _qui n'est pas même des nôtres_... Basta,
ora hanno a vedersela tra loro, _messieurs les manants._ In
verità, non m'aspettavo già più che quello sciocco d'Ariberti mi
cascasse sotto la mano. Oggi ho avuto fortuna cogli uomini. _Avec
les femmes, ma foi, nous verrons tout-à l'heure._--
E ravviati leggermente con tre dita i capegli e data una scrollatina
all'abito nero, come per levarne le grinze, il figlio di Sua
Eccellenza se ne andò verso il corridoio dei palchi di prima fila, per
consolarsi presso la _taille de guêpe_ dei superbi dispregi di madonna
Giunone. La quale, per uno di quegli arcani psicologici che hanno
fatto chiamare l'uomo un animale imitatore, era parsa bella e
desiderabile al contino Candioli, dopo che l'avevano trovata bella e
desiderabile gli altri. Ed Ariberti, dal canto suo, non si era
innamorato per una ragione altrettanto frivola? Nel suo struggimento,
più assai di testa che di cuore, non c'entrava egli per due terzi di
vanità? Avrebbe egli dato nei gerundi a quel modo, se la marchesa di
San Ginesio, scambio di una gran dama, fosse stata, con tutte le sue
bellezze, una buona pacchierona di bottegaia, o d'ostessa?
Eppure, notate, per quel riscaldamento di testa non vedeva più lume.
Date due o tre giravolte nell'atrio, era tornato al suo posto in
teatro, come per sincerarsi se la marchesa fosse ancora quella di
prima, o se gli occhi suoi l'avrebbero veduta tutt'altra, dopo le
rivelazioni del contino Candioli. Era là, nel suo palchetto,
tranquilla, impassibile, quella superba che non si degnava di
guardarlo, e che pure aveva abbassato gli occhi benevoli su di un
giubbone color di tabacco. Ma che gusti erano dunque i suoi? Candioli
avrebbe esclamato: _fi donc!_
Il nostro Ariberti stabiliva _a priori_ che una donna non può guardare
che un bell'abito, e innamorarsi che per la trafila del figurino delle
mode. Così la passione acceca! Se fosse stato un pezzente, avrebbe
pensato tutto l'opposto, e stabilito che una donna a modo non dovesse
guardare che i cenci.
--Eccola dunque là, col segreto de' suoi amori plebei, nascosta, sotto
quella maschera di aristocratica noncuranza! Ed ecco là, accanto a
lei, quell'uomo felice per legittimità di possesso, che non sa nulla
di nulla e se la ride, scioccamente fiducioso, dei vani armeggiamenti
di tanti vagheggini miei pari! Donne! Donne!--
Fo grazia al lettore degli «eterni Dei» e di tutto quell'altro che
dovrebbe far seguito. Il monologo, del resto, è vecchio come i primi
venti anni del primo innamorato che abbia esercitato la pazienza degli
echi solitarii. Frughi ognuno nei suoi ricordi, e vedrà di averne
fatto, non uno, ma parecchi e non solamente a vent'anni.
Mal potendo dissimulare la sua stizza, Ariberti uscì da teatro
mezz'ora prima che finisse lo spettacolo, non badando al bisbiglio che
suscitava la sua rumorosa partenza dal bel mezzo delle sedie chiuse,
tra tutti quegli spettatori, a cui egli turbava insieme la visuale del
palcoscenico e l'udita. E indovinate mo' dove andasse a far capo?
Nella via di Santa Teresa, ad asolare davanti al palazzo San Ginesio,
di cui le parole del maligno contino gli avevano indicata la
situazione. Sicuro; egli non aveva mai pedinata la carrozza della
marchesa, e costei abitava per l'appunto laggiù, a pochi passi
discosto da Filippo Bertone. Dall'abbaino dell'amico aveva veduto la
finestra della dama e il cuore non gli aveva detto nulla! E
quell'ipocrita, nemmeno! Addosso all'ipocrita! Infatti, che cosa
significava quel davanzale ornato di fiori fin dai primi giorni della
sua dimora lassù? Mirava ad attirare gli sguardi della signora, il
furfante. E poi, quell'essersi rimpannucciato d'improvviso! Era
perfino diventato bello. Lui, Filippo Bertone! C'era da crepar dalla
rabbia. Ed egli frattanto a perdersi in mille zacchere, colla
Giumella, coi cavalieri di Malta, coi libri, colle tragedie, colla
gloria. Imbecille! E giungeva tardi, per conseguenza; perdeva il
vantaggio di essersi fatto innanzi pel primo; quel destro mariuolo,
che non pareva lui, gli aveva vogato sul remo.
Il filo delle irose considerazioni gli fu poco stante interrotto
dall'arrivo di una carrozza, che si fermò davanti al palazzo dei San
Ginesio, per svoltare incontanente sotto l'androne. La signora tornava
da teatro, e Ariberti nel passare davanti al portone, potè vederla
ancora col piede sullo smontatoio.
--A quest'ora,--pensò egli con amarezza,--l'ipocrita è già in
sentinella al suo finestrino. Chi sa? Forse tra pochi minuti, dal suo
spogliatoio, madonna darà un'occhiata furtiva su in alto, a quel buco
illuminato e adorno di piante rampichine, come una capannuccia di
Natale.--
Ariberti se ne andò dalla via di Santa Teresa dicendo il paternostro
della bertuccia. E quella notte, nell'osteria del Mago, prese una
sbornia solenne, per affogare, da quell'eroe di Byron che si teneva di
essere, la sua rabbia nel vino. Senonchè, tra un bicchiere e l'altro,
aveva bisbigliato al Priore, con cui era entrato in molta
dimestichezza dopo la faccenda del duello:
--Forse domani avrò bisogno di te.--
Che tiro mancino meditava l'Ariberti in quell'ora? Egli stesso non ne
aveva un concetto ben chiaro. Metteva le mani innanzi, come per
impegnarsi a fare qualcosa. Del resto, la notte (e per notte intendeva
le poche ore mattutine destinate al sonno) avrebbe portato consiglio.
Così avvenne diffatti. Andato a letto assai tardi, e colla mente in
iscompiglio, si alzò per tempo, con una pensata da gran diplomatico, e
azzimatosi con molta cura e provato lungamente un sorriso allo
specchio, si recò dal Bertone, prima che questi uscisse per andare
all'Università.
--Amico,--gli disse, adoperando quel tal sorriso, che gli uscì per
altro un pochino stentato,--sono venuto a chiederti un servizio.
--Dimmi; son cosa tua;--gli rispose candidamente Filippo.
--Ecco gua; ti chiedo la tua camera.--
Bertone lo guardò trasognato.
--Sì,--proseguì l'Ariberti,--non posso più rimanere nel mio
quartierino in piazza Vittorio, e ti domando il tuo bugigattolo, come
lo chiami. A te certo non importerà.
--Ma, scusami;--ripigliò Filippo Bertone, che ancora non sapeva
capacitarsi perchè l'Ariberti gli facesse quella uscita bizzarra;--e
dove vuoi che vada io?
--Eh, per esempio, in via degli Argentieri, nel tuo alloggio dell'anno
scorso. La signora Paolina ci ha quella tua stamberga libera; l'ho
ancora veduta ieri l'altro e mi ha pregato anzi di parlartene.--
Filippo rimase un tratto sovra pensiero, guardando ora la stuoia del
pavimento, ora il suo amico Ariberti.
--E non potresti andarci tu, in via degli Argentieri? chiese egli
--poscia all'amico.
--Non posso;--rispose l'Ariberti, rannuvolandosi; ci ho le mie buone
ragioni per non andare a star là.
--Perdonami, sai;--replicò allora Filippo, che incominciava a
sospettare qualcosa;--ma io ci ho le mie per rimaner dove sono.
--Credo d'indovinarle.
--Bella forza! Qui ci sto bene, oramai; ci ho fatto l'uso; ho speso
qualche scudo per mettermi in sesto, e capirai...
--Sì, ho capito che non vuoi cedermi il tuo osservatorio.--
Per quella volta non c'era più dubbio; Ariberti voleva toccarlo nel
vivo.
--Che cosa intendi di dire?--esclamò Filippo, arrossendo.
--Che tu l'ami; non è egli vero?
--E chi di grazia? io non riesco a capirti.
--Non mi fare il nuovo; la marchesa di San...
--Ti prego;--interruppe Filippo, fortemente turbato;--non far giudizi
temerari, e sopratutto lascia in pace le signore.
--Ah sì, non la compromettiamo;--notò sarcasticamente l'Ariberti;--fra
tutte le maschere dell'ipocrisia c'è anche la discretezza.
--Basta!--gridò Filippo, che già non vedeva più lume.--O dove ti duole
stamane? Non è ipocrisia ricordarti che le donne vanno lasciate in
pace, segnatamente quando non le si conoscono. Non mi dir
altro!--proseguì Bertone, rimettendosi un tratto.--Ho inteso il tuo
pensiero, e mi contento di risponderti che sei in errore.
--Cedimi la tua camera, e lo crederò;--riprese l'Ariberti implacato.
--No;--disse Filippo;--tu vuoi da me un atto di debolezza, ed io non
sono disposto a commetterne.
--Bada; potresti pentirtene.--
Filippo Bertone si strinse nelle spalle e non rispose parola.
Ariberti se ne andò invelenito. Mezz'ora dopo, si metteva nelle mani
del Priore, e lo pregava di andare e sfidargli il rivale.
--Sì, sì, come vorrai;--disse Tristano;--ma lascia fare a me. Questa è
faccenda che bisogna trattare delicatamente. Andrò da solo a
parlargli, e te lo ridurrò mansueto come un agnello.--
Filippo Bertone si aspettava quella visita. E come ebbe udito dal
Priore, che egli, innanzi di presentarsi in veste da araldo, veniva a
guisa di amico, per ragionare alla libera, anzi col cuore in mano, gli
seppe grado dell'atto cortese e mostrò di volersi rimettere in lui.
--Ella intenderà,--gli aveva detto Tristano,--che qui si sta per fare
un pasticcio, e non già di quei di Strasburgo, ma che poi non potremmo
più accomodare, per quanta buona volontà ci mettessimo da ambe le
parti. Il suo amico Ariberti è fuor dei gangheri e non c'è verso di
fargli intender la ragione. Vediamo dunque di uscirne alla meglio e
senza pubblicità.
--Capisco;--rispose Filippo;--quantunque da un amico d'infanzia io non
dovessi aspettarmi una scartata simile, e senza un'ombra di ragione da
parte sua. Ma come vuole che noi l'accomodiamo, se egli domanda una
cosa ingiusta? Io, veda, non ho pratica di quistioni di onore e non so
se sosterrei bene o male uno scontro. Bisognerebbe vedere. Ma qui, per
intanto, le dirò schiettamente che, sfidato a duello da lui, e pel
motivo che Ella mi dice, non andrei sul terreno. Egli dovrebbe
tirarmici pei capegli, e con un altro pretesto. Ariberti è innamorato;
e lo sia. Quanto a me, non involgerò mai nello scandalo, che egli
vorrebbe, una famiglia rispettabile che mi ha accolto come maestro ad
un suo fanciullo, per intercessione di un degno professore che mi vuol
bene. Signor Falzoni, io parlo ad un uomo più vecchio e assai più
sperimentato di me. Crede Lei che sia il caso di fare un duello, che
metterebbe in piazza una riputatissima dama, superiore di tanto alle
nostre bizze da scolaretti? Dovrei cavarmi d'impiccio dandogli la
camera; lo so. Ma anche quei signori di laggiù sanno che io abito
questa soffitta. Come potrei colorire lo sgombero? E noti, signor mio,
che se l'Ariberti corteggia la dama, può anche darsi che ella se ne
sia avveduta. Almeno, è da supporsi. In questo caso, di due l'una, o
passerò agli occhi di quella signora per un pusillanime, o per un
amico troppo compiacente. E nell'un caso e nell'altro, le apparirò
consapevole di un segreto che la riguarda, e senza giovare a lui, ne
avrò il danno e le beffe.--
Il ragionamento correva a filo di logica, e Tristano in cuor suo
dovette convenirne. Tristano, da quel vecchio diavolo ch'egli era,
intese benissimo anche un'altra cosa; intese che si trattava di
persone ragguardevoli e potenti, che non c'era guadagno a toccarle, e
che male sarebbe potuto incoglierne a lui, se avesse mai secondato
l'Ariberti in quella picca e fatto nascere un guaio.
--È vero, ciò che Ella dice;--rispose adunque il Priore, offrendo a
Filippo un'uscita onorevole:--e quando Ella mi assicura che non
corteggia la signora... che non ha pensato mai a vogare sul remo
dell'amico...
--Lasciamo stare l'amico, per carità!--interruppe Filippo, che aveva
il cuor gonfio d'amarezza.--Ariberti non è amico mio, se ha potuto
sospettarmi prima, e meditar poi una sfida. Questo io posso assicurare
a Lei: che la signora in discorso è un angelo di bontà e che io non
ardirei mai di alzare gli sguardi, non che le speranze, fino alla mia
eccelsa benefattrice. Così infatti io debbo chiamarla; tale io debbo,
e non altrimenti vederla. Il caso mi aveva condotto ad abitare quassù;
i miei studi mi hanno posto in relazione col venerando uomo, che si è
fatto di buon grado il mio protettore. Sappia, signor Falzoni, che io
son debitore del mio umile uffizio di maestro presso il marchesino,
alla bontà del mio professore di clinica, che è in pari tempo il
medico e l'amico di quella famiglia. Questa è la pura storia, ed io
l'ho raccontata a Lei, a Lei solo...
--È detta al confessore, non dubiti;--rispose Tristano.--Io la stimo,
signor Bertone e non ho più altro da chiedere alla sua cortese
schiettezza. Dirò ad Ariberti che non può, non deve aver rancore con
Lei. Insomma,--conchiuse il Priore, scuotendo alteramente le
spalle,--si tratta di una ragazzata e la farò finita senza tanti
discorsi. Io frattanto sono lieto di queste sue spiegazioni, non
solamente perchè mi daranno più ansa ad usare della mia autorità su
lui, ma anche perchè mi hanno offerto occasione di conoscere un
giovine discreto ed onesto come Lei. Signor Filippo Bertone, la mia
amicizia; e se valgo in qualche cosa per Lei, mi spenda liberamente.--
Filippo Bertone restò confuso a tutte quelle gentilezze e non seppe
che dire. Però strinse con effusione la mano che gli sporgeva il
Priore, e, balbettando un complimento, lo accompagnò fino al
pianerottolo della sua piccionaia.
--Quando si dice la riputazione!--pensava egli, tornando alla pace
insidiata del suo modesto scrittoio.--Ecco un uomo che passa in tutta
Torino per un accattabrighe, un rodomonte, un uomo senza cuore; ed è
buono poi come il pane.--
Ben altra opinione aveva a farsene l'Ariberti, quando si sentì dire
dal suo araldo di guerra che non bisognava far nulla. Si provò a
sostenere il contrario, ma Tristano alzò le spalle e gli diede su per
giù del ragazzo. Volle star sulla sua, e rispose che avrebbe cercato
altri padrini; ma il Priore gli disse che si guardasse bene dal farlo,
perchè, all'ultimo degli ultimi, egli, Tristano, avrebbe fatto il
padrino a Filippo Bertone, e dato, non una, ma tre lezioni di
cavalleria, ed anco di gratitudine a chi dell'una cosa e dell'altra,
si mostrasse dimentico.
L'uomo era in tutta la pienezza della sua autorità, come il marito di
Sefora, prima di ascendere il Sinai, o, se vi piace di più, come il
vecchio della Montagna in mezzo ai suoi divoti seguaci. E Ariberti
cedette. Tristano gliene seppe grado, e tornò umano, trattabile come
prima. Ariberti in quella vece rimase grosso con lui, non già
all'apparenza, ma nel fatto. Lo si vedeva inoliato di fuori, ma dentro
ci aveva la ruggine. Per la prima volta, dopo tanta adorazione cieca,
il Priore dei cavalieri di Malta gli apparve un egoista di tre cotte,
un uomo leggiero, una carrucola, e tutto quel che peggio vorrete.
Ariberti era giovine, e in questo basso mondo aveva ancora a vederne
di tutti i colori, e a pentirsi più d'una volta de' suoi primi
giudizi. _Prima frons decipit,_ lo hanno detto gli antichi.
Lascio intanto argomentare ai lettori come gli cuocesse di quella
figuraccia; che tale gli pareva davvero, al cospetto di Filippo
«l'ipocrita» e della sua marchesana. _Primo primis_ si sbandeggiò dal
teatro, che era del resto agli sgoccioli, e si diede tutto, anima e
corpo alla vita scioperata. Amore e gloria lo disdegnavano; ed egli
mandava al diavolo la gloria e l'amore.
Rimaneva per altro il suo debito di figlio. Proprio in quel torno
capitò una lettera di sua madre. Quella santa donna gli scriveva,
piena di sgomento, e in tutta segretezza. Il signor Amedeo stava muto
come un pesce, ma dalla sua stessa taciturnità la moglie indovinava
che egli non avesse troppo buone informazioni del figlio; epperciò
nella sua lettera gli raccomandava di fuggire le male compagnie e di
studiare a tutt'uomo per non essere cagione di lagrime in casa.
Quella lettera, accompagnata dai piccoli risparmi della signora
Caterina, fu anzitutto un grande aiuto al bilancio del nostro eroe,
quindi un raggio di luce nelle tenebre del suo spirito infermo. Un
mese o poco più, gli rimaneva di buono per gli esami. Tornò quel
giorno stesso all'Università. S'intese col Balestra, e andò con lui a
ripassare ogni mattina le istituzioni del Diritto romano. Si affogò
nel latino; meditò le dottrine del Savigny; raffrontandole con quelle
del Vico; consumò le notti e le lucerne intorno a certe annotazioni
che gli dovevano stampar meglio nella memoria il testo delle Pandette.
Infine, che vi dirò? Verso i quindici di maggio, del mese in cui la
natura risorge, e perfino gli asini cantano d'amore, il nostro
studente scioperato faceva uno splendido esame, e usciva, se non
m'inganno, baccelliere in giurisprudenza.
Baccelliere da baccello!
CAPITOLO X.
Dove i nodi vengono al pettine.
Era una splendida giornata della fine di maggio quando il giovane
baccelliere fece ritorno a Dogliani; una giornata tutta tepori e
fragranze, come avviene per solito nei trapassi dalla primavera
all'estate. Ma il nostro eroe badava assai poco alla bella giornata;
l'animo suo era sordo alle liete voci della natura; invano la gran
madre, a dirvela con una frase audacissima, si era infronzolita per
lui. Il signor baccelliere si mostrava pensieroso, anzi peggio,
stizzoso, di mala voglia; insomma, per usare una parola moderna, che
risponde ad una moderna infermità, maledettamente nervoso.
Con chi l'aveva? Con se stesso e cogli altri, col mondo interno e col
mondo esteriore; due mondi che l'uomo incomincia ad avere in uggia,
quando ha varcato la fatale trentina. Ma il nostro Ariberti, ragazzo
precoce, faceva tutto in anticipazione.
Le accoglienze della signora Caterina furono materne, e con questo
aggettivo mi pare di avervi detto ogni cosa. Quelle del signor Amedeo,
per contro, furon fredde anzi che no. Le belle imprese dello studente,
avevano avuto un'eco fino a Dogliani. E qui, facciamo ad intenderci.
Al signor Amedeo non dispiaceva punto che il figliuol suo si facesse
un uomo e si mostrasse tale anche prima della età voluta dalle
statistiche. I babbi son tutti così; hanno fretta; non per niente son
nati prima di noi. Perciò il duello del figlio, che, ancora in
_fieri_, gli avrebbe dato sui nervi come una solenne ragazzata, degna
di una tiratina d'orecchi, non doveva dispiacergli, a cose fatte, poi
tanto. Anche i versi, pomposamente stampati, non gli parevano un
delitto imperdonabile. Alla fin fine, erano belli; e se ne nascevano
in casa Ariberti, c'era piuttosto da tenersene, che da fargliene una
ramanzina. Neanco gli avrebbe dato ombra qualche ripesco amoroso. Suo
figlio era un bel giovinetto; che diamine! e se piaceva alle donne,
non c'era mica da condannare... le donne. Ecco qua per l'appunto il
nodo della quistione. Rispetto agli altri, e considerate ad una ad
una, quelle imprese gli parevano naturali e fino ad un certo segno
condonabili; ma tutte insieme, e rispetto al figlio, gli apparivano
malefatte, da non meritare indulgenza. E ciò segnatamente per gli
studi, che ne avrebbero sofferto. Il ragazzo si svia, pensava egli, il
ragazzo si svia, e bisognerà rimetterlo in carreggiata. _Principiis
obsta; sero medicina paratur._
Per altro, il signor Amedeo si rabbonì, quando vide il certificato
degli esami, che portava segnati, a giustificazione del figlio, tutti
i punti e la lode. La lode! che vi pare? Va bene che in legge, secondo
i maligni, è abbastanza facile buscarla; ma per contro è altrettanto
facile di non buscarla affatto; dunque... La conseguenza viene da sè.
E il signor padre si rabbonì; non già ad occhi veggenti, perchè
l'autorità sua ne avrebbe scapitato; ma bene lo intese la signora
Caterina, che vide il marito star meno sostenuto con lei.
Del nostro baccelliere furono invece assai meno contente le sue
vecchie conoscenze di Dogliani. Le ragazze lo trovarono più bello, più
elegante di prima, e pensarono a lui per una settimana, con gran
dispetto degli Adoni di mandamento; ma finirono col giudicarlo freddo,
contegnoso, aristocratico. Si è sempre aristocratici per qualcheduno;
e nel suo paesello natale, dov'era conosciuto lui, dove era conosciuta
la famiglia, il giovane Ariberti doveva parere superbo senza ragione.
Ci fu, tra l'altre, una figlia di droghiere che ebbe da lui un saluto
di tanta degnazione, da piangerne per una notte intiera. Una
conservatrice d'ipoteche, perduta la speranza di registrarlo fra i
frequentatori delle sue veglie, lo definì, tra due giuochi innocenti,
uno sciocco.
Il giovane dava appicco a tutti questi giudizi, a tutti questi
malumori, fuggendo le conversazioni e le compagnie d'ogni sorta.
Poverino! pensava ai suoi debiti, segnatamente a quello del tipografo,
che presto gli aveva a cascare tra capo e collo, e almanaccava più di
un ministro di finanze, quando cerca il pareggio tra la entrata e
l'uscita.
La mattina, per almanaccare a suo agio, si alzava da letto per tempo e
se n'andava lontano pei campi, ma senza dare l'occhiata del presidente
ai coltivati, nè quella del poeta ai salvatici. Invano le colline
s'indoravano per lui al primo raggio del sole; invano i rosolacci
disposti a gruppi, a manipoli, a file serrate, agitavano i calici
scarlatti sui ciglioni dei prati; invano le monacucce facevano pompa
degli steli diritti e dei fiori incarnatini in mezzo alle spighe
biondeggianti del grano. Il signor baccelliere andava diritto per la
sua strada, senza pure avvedersi delle api, che gli gironzavano a
sciami intorno alle ginocchia, andando in busca di cera e di miele
nella varia fioritura dei pingui maggesi. La bella natura, le albe, i
tramonti, i rivoli solitarii tra due file d'ontani o di frassini, i
buoi aggiogati che trascinavano lentamente la loro gran mole di fieno
odoroso sulla nota carraia, tutte queste cose sane, che intendiamo
così bene quando ci manca il tempo a goderle, non avevano voce per
lui.
Si guardava dentro, il poverino, e ci vedeva buio, gran buio. Per
altro, a furia di guardare, ci trovò il soggetto e la materia d'un
dramma. Era il secondo che perpetrava; ma stavolta il delitto era in
prosa, e d'indole acconcia alla scena; si allontanava ad un tempo da
quel vero che non ha fortuna in teatro e da quel falso che spesso è
frutto di larghe vedute estetiche; ma seguitava la via di mezzo, che
piace tanto alla comune degli uomini, poichè rappresenta in arte
quell'aurea mediocrità che regna in tutte le cose della vita, e agli
uni tempera i desiderii, agli altri smorza le invidie, a tutti
conferisce come un'aria di famiglia e li consola d'esser figli
d'Adamo.
Lo tirò giù venti giorni, che per un'opera simigliante erano forse già
troppi, e gli parve che andasse bene. Spese altri cinque giorni per
tirarlo a pulimento e per farne una copia presentabile; poi lo
accartocciò, lo rinvolse in un bel foglio di carta turchina da
bottegai, che suggellò bravamente sul margine, e si dispose a scrivere
su l'indirizzo.
Ma a chi mandarlo? Questo era il busilli. Per fortuna l'_Euterpe_
veniva ogni settimana a salutarlo in Dogliani, e sull'_Euterpe_
c'erano indicazioni di compagnie drammatiche a bizzeffe. Trovò in
questa guisa il capocomico di suo gusto, che recitava in quel torno a
Genova, e gli spedì il manoscritto dicendogli nella lettera, che
glielo avrebbe potuto dare per ottocento lire, nè più, nè meno; o
prendere, o lasciare.
Così contava di pagare il tipografo e di avere per giunta un po' di
danaro in serbo per altri debitucci che lo aspettavano a Torino. Per
quattro o cinque giorni attese risposta, ma invano. Già, bisognava
dare al capocomico il tempo di leggere; cosa difficile, come tutti
sanno. All'ottavo giorno gli scappò la pazienza, e riscrisse,
sollecitando quella benedetta risposta. Il suo uomo non si fece vivo.
Allora ne pensò una da furbo di tre cotte; mandò all'amico
dell'_Euterpe_ una notarella agrodolce in cui si pregava il gran
capocomico Tizio (è qui c'era il nome scritto a mezzo, colla, promessa
del resto) a rispondere alle lettere, o rimandare i manoscritti che si
sottoponevano al suo riputato giudizio. La noterella comparve
stampata, e tre giorni dopo, il nostro Ariberti riceveva per la posta
il suo scartafaccio.
Altro che ottocento lire! Il degno pronipote di Roscio, in una sua
letterina mandata quel medesimo giorno, gli diceva d'aver letto
attentamente il suo dramma. Belle scene; stile classico; passione....
oh, passione, poi, quanta ce ne poteva essere in un dramma di
Shakespeare; ma il lavoro era troppo serio, oh sì, troppo serio, e il
pubblico, per allora, domandava di ridere. Inoltre era un po' lungo.
Va bene, che si sarebbe potuto scorciare, ma sarebbe stato un vero
peccato. Tanti bei pensieri! Scene così belle! Infine era un lavoro da
stampare; oh sì, da stamparsi senz'altro, e i lettori avrebbero reso
giustizia, ecc. ecc., gustato, ammirato; e qui mettete a dirittura una
dozzina di eccetera.
Che c'era di vero in tutte quelle considerazioni del pronipote di
Roscio? Ariberti diede un'occhiata al suo povero manoscritto. Oh
rabbia! Era rivolto ancora nella sua fascia turchina e coi medesimi
suggelli di ceralacca che ci aveva messo lui a Dogliani.
Il signor capocomico aveva dimenticato di salvar le apparenze.
Oh capicomici! Il mio eroe vi mise tutti in un mazzo, v'involse tutti
in una sola maledizione. E aveva il torto marcio, come lo si ha
sempre, quando si giudica in modo assoluto. Almeno almeno, avrebbe
dovuto fare una eccezione pel suo uomo, che gli diceva ben del suo
dramma senza averlo letto, e non gli prometteva di pagargli tremila
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