La notte del Commendatore - 07

che un gentiluomo... _Mais pas le moins du monde, parbleu!_ Io non mi
lorderò mai con tal sorte di gente.
--Lei, lo capisco, che è nobile, e può sostenere la sua dignità. Ma
io, che non lo sono?...
---_C'est vrai;_--disse il contino, facendo quella concessione
all'amico.--_Mais enfin, il ne faudrait pas que des fripons
pussent_.... Del resto; quanto a me,--soggiunse egli temperando il
diniego con un mezzo sospiro,--voi mi capite, Ariberti; come non
potrei incrociar mai la mia spada con gente troppo da meno di me, così
non posso mettermi al caso di vedermi certi figuri tra' piedi e di
doverci ricambiare una carta da visita.--
Ariberti rimase sconcertato, in atto di chi non trova più risposta
alle argomentazioni del suo interlocutore.
--Sicchè,--diss'egli poscia, a mo' di conclusione, e alzandosi da
sedere,--Ella non mi consiglia nulla.
--_Mon Dieu!_--rispose quell'altro, stringendosi nelle spalle.--Non
saprei..... Lasciate correre....
--O come? E se a mezzogiorno verranno i padrini?...
--Capisco... capisco... Ma qui su due piedi... Domandate parere al
Ferrero;--conchiuse, come per liberarsi. È un giovinetto di ripieghi e
saprà trovarvi il bandolo.
--Ma, come Le ho detto, signor conte, sono già stato da lui questa
mane e mi ha ricusato il servizio.
--Come padrino, lo intendo; ma per darvi un consiglio...... Un
consiglio non si nega mai ad un amico.--
Ariberti chinò la testa, e stretta la mano che il contino fu pronto a
stendergli per accommiatarlo più presto, se ne andò via, maledicendo
la sua stella, e quello sciocco vanaglorioso, che non voleva fargli
servizio, nè mettersi un po' ne' suoi panni, per dargli un consiglio
da amico.
Amico! Era un amico il contino? Sicuramente; uno di quegli amici da
starnuti, che il più che se ne cava è un: Dio v'aiuti! E qui il nostro
Ariberti incominciava dentro di sè un certo monologo sull'amicizia,
che al petto suo quello famoso d'Amleto sull'essere e il non essere
poteva andarsi a riporre.
Senonchè, tutti i monologhi del mondo avrebbero giovato poco nel caso
di Ariberti. L'appuntamento era per le dodici; ed erano già scoccate
le dieci.
Dal Ferrerò non voleva più andare. Anzi, a questo proposito, gli era
venuto in mente di ritirarsi dalla collaborazione della _Dora._ Il
sacrificio non era grande, per verità, perchè il giornale intisichiva
a occhi veggenti e si potea prevedere che una settimana o l'altra
avrebbe tirato il calcetto. Ma il colpo mulinato dall'Ariberti
indicava il proposito di levarsi da quella compagnia di sciocchi
invidiosi e pettegoli, che in un momento di bisogno lo lasciavano
nelle peste.
Andare da Bertone? Ma a che farci? Quale utile consiglio avrebbe
potuto dargli quel topo tettaiuolo? Ara diritto, non ti mettere
negl'impicci, non andare a cercare il male come i medici, se vuoi
viver tranquillo! Ma questo era il senno di poi, del quale son piene
le fosse, come diceva il becchino, che era uomo da saperlo. Quanto a
dargli una mano in quella sua necessità, Filippo non gli avrebbe
servito a nulla.
Pensa e ripensa, cammin facendo, gli sovvenne d'un certo Tizio, capo
scarico e accattabrighe per la pelle, col quale avea fatto conoscenza
un mese addietro alla birreria di Valdocco. Il compare aveva preso una
sbornia da non reggersi ritto; cionondimeno s'era attaccato con cinque
o sei, che stavano seduti ad un tavolino lì presso, e che, lasciata la
pazienza a Giobbe, s'erano messi a picchiarlo di santa ragione.
Ariberti, che non lo conosceva punto, ma mosso da un sentimento di
compassione, si era interposto, e usando le buone parole, aveva
accomodato la cosa, portando via il furibondo, che voleva farli tutti
a pezzi e bocconi. S'intende che i fumi della cervogia gli avevano
dato al cervello. Difatti, come gli fu alquanto sbollita, conobbe il
suo torto, ma più ancora il pericolo a cui s'era esposto, da solo
contro un'intiera brigata, e giurò un'amicizia eterna al signor
Ariberti, del cui nome, per altro, non poteva ancora pronunciare i due
erre.
--Quello là (disse Ariberti tra sè, rammentando i saluti e gl'inchini
che gli faceva il suo amico notturno ogni qual volta lo vedeva per
via) quello là deve essere il mio uomo. Ma dove pescarlo, a quest'ora?
Non so mica dove abita. Quella notte l'ho dovuto portare a casa mia,
perchè della sua ci aveva smarrito il ricapito da un pezzo. Ma dopo
tutto, non posso andare a chieder di lui nella birreria di Valdocco?
Se è un avventore del negozio, come m'è parso, dovranno pure sapere
dove ha il domicilio.
Gli parve quella una ispirazione del cielo, e se ne andò difilato alla
birreria di Valdocco. Ma il padrone, che conosceva benissimo il signor
Bonisconti (come si chiamava per l'appunto il compare), non ne
conosceva del pari il ricapito. Per fortuna, all'udir la richiesta di
Ariberti, saltò su una di quelle Erigoni, che nella birreria di
Valdocco ministravano l'ambrosia di luppolo ai divoti. Costei sapeva
tutto quanto mettesse conto al nostro eroe di sapere.
--Via di San Massimo;--diss'ella;--al numero 29, in fondo alla corte.
Fatto il primo giro di scale, si prende per la scaletta a sinistra;
secondo piano; non può sbagliare. C'è il campanello colla nappina
rossa.--
Costei, come si vede, la sapeva lunga. E avrebbe potuto aggiunger
dell'altro, se all'Ariberti fosse tornato utile di saperlo.
Ma l'Ariberti non avea più bisogno di nulla. Epperò, fatto un grazioso
inchino al padrone e un altro alla ragazza, che glielo restituì con
una occhiata assassina per la buona misura, se ne uscì dalla birreria,
dopo aver bevuto _pro forma_ una tazza di quel tristo succedaneo del
vino.
Mezz'ora dopo, aveva trovato il Bonisconti, e, miracolo più strano a
gran pezza, lo aveva fatto saltar giù dal letto, dove il suo
conoscente pensava di schiacciare ancora un sonnellino di tre ore.
Il Bonisconti, per solito, si alzava all'alba dei mosconi; segno che
andava a letto all'alba di tutti gli altri animali. Uscito di casa, e
strofinatosi gli occhi un'ultima volta, si recava a bere il vermutte
dal Cora; indi a meditar sotto i portici di piazza Castello e di Po,
quando, s'intende, non ci fossero urgenti cagioni di _alibì_. Del
resto, aveva buoni occhi, e i creditori li vedeva da lunge; anzi,
pareva che li fiutasse, tanto era pronto a spulezzare alla prima
cantonata. Pranzava, o, per dire più veramente, desinava alle cinque,
lasciando che l'oste mettesse a libro, o tenesse in memoria. Fatto il
suo chilo andava a teatro, dove, o per amicizia coll'impresario, o col
primo attore, ci aveva sempre il passo libero, e pigliava le sue
lezioni di storia, d'usi e costumi, dai maestri della ribalta, che
egli pagava in fischi o in applausi, secondo l'umore. Dopo di che,
sdrucciolava al caffè o alla birreria, dov'erano i suoi compagni
d'oziosaggine. Si trincava, si cinguettava d'arte ed anche di
filosofia trascendentale. Qualche volta, pensando ai debiti, si
studiava sul sodo un disegno finanziario; e allora, veniva magari in
campo l'idea d'una colonia italiana sul territorio dell'antica
Cartagine. Ma i ricordi fenicii tiravano i cananei, e si finiva sempre
a cercare qualche nuovo espediente per piantare un chiodo al popolo
primogenito del Signore, dal cui seno uscivano i banchieri ordinarî
della combriccola.
--Ella ha fatto bene, rivolgendosi a me;--disse il Bonisconti, poi
ch'ebbe udito da capo a fondo la narrazione dello studente.--Non
dubiti; ora andremo dal Priore e acconceremo quei signori pel dì delle
feste. Ella non conosce il Priore? È un uomo che non vuol ciarle. Ha
viaggiato sempre, conosce il globo terracqueo come la palma della sua
mano e niente gli fa paura. Ha fatto il padrino in settantacinque
duelli, due dei quali in America, da far rizzare i capegli, e i suoi
propri non li conta nemmeno. È a Torino da un anno, con nostra
soddisfazione grandissima, e lo sanno tutti una lama pericolosa;
perciò nessuno ardisce toccarlo. Stia dunque di buon animo; il Priore
ed io saremo i suoi padrini in questa faccenda, e i signori del
matrimonio l'avranno a dire con noi.--
Ariberti respirò. Finalmente poteva farlo. Prima di allora, non aveva
che ansimato.
Quando giunsero alla casa del Priore, questi era già uscito. Ma il
Bonisconti era un buon cane da seguito e andava meravigliosamente
sull'orma. Pochi minuti dopo, il Priore fu scovato, sull'uscio di una
botteguccia da caffè; del quale uscio occupava tutto il vano
coll'ampia travatura delle spalle.
--Eccolo là; vedete che pezzo d'uomo!--disse Bonisconti allo studente,
con aria di compiacenza sublime.
Ariberti guardò, e vide un uomo sui quaranta, alto della persona e
fieramente atteggiato. Portava la barba intiera, nerissima come i
capegli, ma piuttosto rada sulle guance. Aveva occhi cilestri, che
sarebbero stati belli, se non li avessero guastati certe palpebre
vizze, rugose e livide, indizio certo di scioperate vigilie. Bello era
il naso, diritto e sottile; ombreggiate da un paio di baffi
morbidamente ricadenti sugli angoli, ma lì subito rialzati in due
punte minacciose. Più notevole contrasto offriva la sua guardatura.
Corrugava spesso le sopracciglia e rimaneva un tratto cogli occhi
socchiusi; poi li riapriva d'un subito e il globo bianco perlato,
sgusciandosi quasi dall'orbita, parea metter lampi.
La fronte del personaggio non si vedeva, coperta com'era dalla tesa di
un cappellaccio alla brigantesca, orlato da un nastro di velluto nero.
Il gran torace sporgeva in fuori, ma nascosto nelle vaste pieghe di
una beduina, posta alla scapestrata sulle spalle, per modo che il
cappuccio gli pendeva sull'omero destro e il lembo del mantello,
rigirandosi intorno al collo, andava ad occuparne il posto sul tergo.
Qual vestimento coprisse quella strana foggia di toga non era dato
indovinare; bensì era lecito di argomentare un pomo rispettabile di
bastone piombato, dalla punta di un nerbo di bove che appariva fuor
dalle pieghe.
Il Priore era insomma un bel tipo, che a tutta prima attirava la
curiosità, ma subito dopo comandava il rispetto alla maggior parte dei
viandanti, gente che non voleva attaccar briga, e che doveva provare
un certo rimescolo, vedendo lampeggiargli di sotto alle ciglia quei
due occhi da spiritato.
Che cos'era il Priore? Un uomo di polso, o una caricatura? Un Don
Giovanni scaduto? Un Lara di bassa mano? Andiamo avanti e vedremo.
Costui all'appressarsi dei due giovani, trasse indietro la testa con
un moto che doveva essergli famigliare e che lo faceva due cotanti più
altero alla vista. Socchiuse gli occhi indi li spalancò, guardando
l'Ariberti come se volesse passarlo fuor fuori; e frattanto, senza
muoversi dalla sua superba postura, diede la mano al Bonisconti,
borbottandogli un asciutto buon dì, coll'accento cupo di un primo
attore, che si prepara a recitare l'_Amleto,_ od altra parte di forza.
--Abbiamo del nuovo;--disse il Bonisconti, entrando subito in
materia;--e si domanda il tuo valido appoggio. Prima di tutto,
Tristano, lascia che io ti presenti Ariberto Ariberti, studente,
poeta, spirito bollente ed avido di forti commozioni, che sarà
quind'innanzi del refettorio. Non è vero?--
Ariberti non capiva molto; ma vedendo che la domanda era rivolta a
lui, rispose subito con un cenno del capo. Con quella gente, e sotto
il lampo di quelle olimpiche ciglia, come fare altrimenti?
--Di che si tratta?--domandò il Priore con voce studiatamente armonica
e non senza un pochino di strascico, mentre stendeva la mano (dal
disopra, s'intende, com'è usanza delle dame e degli alti personaggi)
al giovine Ariberti, che fu sollecito a stringerla, con atto di
riverenza divota.---Ma intanto, beviamo qualche cosa. Posso offrirle
un assenzio? O ama meglio una tazza di caffè?
--Grazie; prenderò l'assenzio;--rispose l'Ariberti, desideroso di
mettersi subito all'altezza del personaggio.
--Ehi, bottega! Tre bicchieri all'assenzio!--ripigliò il Priore,
volgendosi al tavoleggiante.--E adesso, la prego, si accomodi. Quanto
a te, Bonisconti, non ti ho chiesto che cosa vuoi; ho indovinato i
tuoi gusti.
--Non si può averli diversi da' tuoi, senza averli cattivi,--notò il
Bonisconti, da cortigiano finito.
Il Priore brontolò un paio di sillabe, che potevano essere un grazie,
e andò a sedersi in un angolo, indicando cortesemente all'Ariberti di
mettersi alla sua destra.
--E così? Veniamo al _quia._
--Ecco;--entrò a dire il Bonisconti, mettendosi a cavalcioni su di una
sedia rivoltata davanti a loro.---Parlo io, per farla più breve.--
E raccontò in modo sbrigativo l'occorso, esponendo da ultimo il
bisogno di ricordare che questi gli aveva fatto servizio una sera,
alla birreria di Valdocco, difendendolo da una brigata di
malintenzionati, mentre era in cimberli, e lì lì per soccombere.
--Veramente,--disse il Priore, mentre colla massima gravità facea
sgocciolare dalla boccia di cristallo un fil d'acqua nella sua verde
bevanda,--veramente, è sempre stato mio costume di non servir da
padrino che agli amici intrinseci, o a coloro che fanno vita con me.
Nelle quistioni io c'entro un pochino, come suol dirsi, cogli stivali,
e non vo' uscirne senza una buona misura di sangue. Tanto peggio per
chi ci si mette, senza esserci preparato. Donde la necessità che i
miei clienti siano uomini provati ed amici. Ma Ella,--soggiunse con
grazia,--se non è amico mio, può diventarlo. E quanto all'essere uomo
provato, mi basta che abbia fatto servizio a Bonisconti... che è un
buon saracino.--
Bonisconti s'inchinò, com'era debito suo. Sentirsi dare di buon
saracino dal Priore era il massimo degli onori a cui potesse aspirare
uno del refettorio.
--Or dunque,--ripigliò Tristano,--per che ora è l'appuntamento?
--Per le dodici.
--E che ore sono adesso?--
Bonisconti fece l'atto di guardare l'orologio; ma non lo aveva.
--Vedi che testa!--esclamò facendo bocca da ridere.--Nella furia del
vestirmi l'ho dimenticato...
--Dove? al monte di Pietà?--chiese il Priore, ridendo per
davvero.--Non ti vergognare, Bonisconti. È la fine di tutti gli
orologi. Del resto, non son buoni ad altro. Si comprano per vezzo e si
tengono come una valuta portatile, da cambiarsi alla prima
necessità.--
L'amico scorbacchiato, quantunque di mala voglia, pure atteggiò le
labbra ad un sorriso.
---Sono le undici e un quarto;--diceva frattanto l'Ariberti, tutto
confuso per aver dovuto cavar fuori il suo orologio.
La confusione veniva da questo, che lo studente avea un bell'orologio
da tasca, raccomandato ad una lunga catena, un po' troppo vistosa, se
vogliamo, e alquanto provincialesca, ma pur sempre d'oro massiccio; la
qual cosa non dovrebbe guastar mai, ma che a lui, lì per lì, sembrava
uno sfoggio asiatico e quasi insolente, al cospetto di quei due
valentuomini che dovevano salvarlo da una brutta figura.
Per altro, s'ingannava a partito. Il Priore era un uomo che non faceva
nulla a caso, e meditava sempre gli effetti che doveva ottenere.
--Vediamo se il suo va bene;--diss'egli.
E sollevato con un gesto regale il lembo del mantello, cavò dal
taschino uno stupendo cronometro d'oro, di cui fece saltare il
coperchio, per confrontare la sua mostra con quella d'Ariberti. Il
quale, nell'atto di accostare il suo all'orologio del Priore, potè
scorgere che il coperchio del cronometro era attorniato da un
cerchietto di piccoli diamanti.
--Bello!--gridò egli, non potendo trattenere la sua ammirazione.
--Ah sì!--disse il Priore, accompagnando la frase con un sospiro.--È
un ultimo ricordo di tempi felici. Ero infatti un uomo felice, quando
militavo, sempre capitano di cavalleria, nell'esercito del raià di
Lahore.
--E come hai potuto lasciare il servizio?--dimandò Bonisconti, che gli
dava amichevolmente la battuta.
--Non ne parliamo! Anco i re sono uomini ed hanno diritto di esser
gelosi;--sentenziò Tristano, rannuvolandosi.--Per altro, bisognerebbe
che fossero uomini del tutto, e si potesse qualche volta giuocarsela
anche con loro. Ma via, lasciamo questi discorsi, e andiamo piuttosto
al ritrovo. Ella è pronta a scendere sul terreno?
---Sicuramente! Posto tra le due corna del dilemma...
---Preferisce il secondo corno. Ha ragione. E l'arma?
--Non so maneggiarne di nessuna specie.
--Bene!--esclamò il Priore colla medesima facilità con cui il contino
Candidi aveva detto: «male!»--Ella si batterà dunque alla pistola.
--Vada per la pistola!--rispose Ariberti, che ormai si vedeva in
ballo.--Io sono nelle loro mani.
--Non dubiti; con noi farà sempre buona figura;--entrò a dire
Bonisconti.--Andiamo dunque al caffè dell'Aquila, a sentire questi due
messaggieri del signor Forniglia. Ella c'indicherà i loro rispettabili
grugnì.
--Ci presenterà come suoi padrini,--soggiunse il Priore, per metter le
cose nei giusti termini,--e ci lascierà subito. Verremo poi a cercarla
sotto i portici di piazza Castello, per informarla dell'esito del
nostro colloquio.--
Erano le dodici in punto, quando i tre compagni giunsero davanti al
caffè dell'Aquila, dove era fissato il ritrovo. L'Ariberti entrò,
diede un'occhiata nella sala, ma non vide i due che cercava.
--Sta a vedere che non si presenta nessuno!--disse il Bonisconti,
veduto che i due compari non c'erano.
A quella supposizione del padrino, l'Ariberti si sentì allargare il
cuore. Noto il fatto, anche a risico di abbassare un tantino il mio
giovine eroe. Dopo tutto, un piccolo atto di debolezza non è così
grave peccato da non meritare l'assoluzione. A quanti giovani soldati,
il primo giorno di combattimento, non avvenne di salutare le palle con
un moto involontario del capo? Sono piccolezze che non provano nulla.
Quanto al mio Ariberti, debbo soggiungere che egli si pentì subito di
quel suo moto d'allegrezza, e che ne fece buona testimonianza ai
compagni.
--In verità, mi rincrescerebbe,--diss'egli, quantunque un po'
tardi;--tanto più ora che ho incomodato due persone come loro.
--Che! Non vorrebbe dir nulla;--rispose il Priore
--Del resto, sono anch'io della sua opinione; queste faccende, una
volta cominciate, mi piace finirle e scriverci sopra il motto di Mosca
Lamberti.--
Mentre si facevano queste chiacchiere e il mezzogiorno era passato da
un bel poco, Ariberti, che stava sempre alle vedette, si spiccò dai
compagni e andò oltre due o tre passi sotto il porticato. Egli aveva
veduto spuntare da lunge i due padrini del Forniglia.
Erano due così smilzi e male in arnese, che non mette conto
descrivere. Il meno sciatto portava un cappello a tuba, inclinato
sulle ventitrè ore. L'altro, più modesto, copriva la fronte con uno di
quei cappellacci col cocuzzolo basso e tondo, che il volgo toscano
chiama pioppini, per la somiglianzà che hanno coi funghi del medesimo
nome.
--Eccoci qua;--disse quel della tuba, piantandosi davanti al nostro
Ariberti e facendo cipiglio;--che risposta intende Ella di darci?--
Lo studente sorrise con tutto quel garbo che seppe, e voltandosi sul
fianco indicò i due compagni, che quell'altro non aveva a prima giunta
veduti.
--Ecco gli amici miei;--soggiunse egli, arrossendo come una fanciulla,
ma non senza un principio di dignità virile nell'accento;--vogliano
intendersela con loro. Sono i miei padrini ed hanno pieni poteri.--
Quella risposta giunse inaspettata ai due nuovi venuti, che si volsero
stupefatti a guardare i loro avversarii. Si argomentavano di poter
sopraffare quel povero ragazzo, di metterlo, come suol dirsi, tra
l'uscio e il muro; e in quella vece, si vedevano a fronte due uomini,
uno dei quali, alla presenza poderosa e alla guardatura superba,
pareva dovesse bastare per tutti.
--I signori...--balbettò confuso il primo che aveva parlato, recando
macchinalmente la mano alla tuba.
--Tristano Falzoni;--entrò a dire gravemente il Priore, continuando la
frase;--e questi è il mio collega, signor Giorgio Bonisconti; ambidue
ai loro riveriti comandi.--
Quei due non ebbero nemmeno la presenza d'animo di mettere fuori i
loro nomi. Stettero muti come due pesci, facendo istintivamente un
inchino.
--Vogliano entrare!--disse Tristano, col piglio di un comandante in
piazza d'armi.--Parleremo con più agio là dentro. Signor Ariberti, la
ringraziamo da capo dell'onore che ci fa, mettendo l'onor suo nelle
nostre mani. Ella sarà servita come desidera; si fidi di noi e si
degni di aspettarci qualche minuto.--
Ariberti, tutto confuso da quella cerimoniosa solennità del Priore,
strinse la mano a lui e al Bonisconti. Indi, salutati con un grazioso
inchino i due padrini avversarii, si allontanò con passo leggiero dal
caffè dell'Aquila.
Con passo leggiero, sì; ma dentro del cuore il nostro eroe sentiva
qualche cosa che non era allegrezza. A dirvela chiaramente, ci aveva
dentro di sè una sensazione di vuoto, che i medici avrebbero spiegato
come la conseguenza di una soverchia tensione di nervi, i filosofi,
come un torpore delle facoltà mentali, e i gastronomi come il bisogno
di una costoletta e d'un bicchiere di vecchio Borgogna: ma che io,
profano alle scienze, non mi attenterò di indagare, contentandomi di
raccontarvi che questo indefinibile stato dell'animo suo non gli
consentiva di pensare a nulla, di fermarsi su nulla. Era quello un
momento d'incertezza per lui, come una lunga battuta d'aspetto nella
sua vita. E invero, a che cosa avrebbe egli utilmente pensato, se
quella impresa che si stava deliberando per lui tra i quattro padrini,
poteva mandare a vuoto ogni proposito, ogni disegno suo, ed anco
interrompere il filo della sua giovine vita?
Andava innanzi, muovendo le gambe e gli occhi a guisa d'automa,
cansando i viandanti per virtù d'abitudine, vedendo intorno a sè, e
non considerando ciò che vedeva. Gli passavano da fianco le contegnose
dame e le frettolose pedine; ma egli non dava più loro quella rapida
occhiata che conforta il senso estetico e ci fa dire tra noi: ecco una
bella capigliatura, un bel piede, una graziosa curva di spalle. Fu un
istante tra gli altri che il pensiero gli corse a Dogliani, a suo
padre, a sua madre, alle sue tranquille gioie domestiche, e lo assalse
un brivido e gli passò l'anima la punta acuta di un rimorso. Cercò
allora di scuotersi, di scacciare da sè quel tenero e molesto
pensiero, e si fermò davanti alla mostra di un libraio, per vedere
alcune stampe che attiravano la curiosità dei viandanti. Ma aveva un
bel guardare; non intendeva nulla di nulla.
Si mosse di nuovo, per andare verso piazza Castello. E appunto allora
i suoi occhi caddero su d'una figura di donna, che scendeva verso la
sua parte, con quel passo nè frettoloso nè tardo che distingue la gran
dama, più ancora che non facciano lo sfarzo e l'eleganza degli abiti.
I contorni della persona, l'andatura, il portamento del capo,
destarono l'attenzione del giovane e gli fecero battere il cuore.
Forse lei? Sì, certo, ancora due passi e non v'era più dubbio per
Ariberti; era lei, la marchesa di San Ginesio che veniva alla sua
volta. Un velo di pizzo nero le scendeva sul viso, ma senza
nasconderne la maravigliosa bellezza.
Tremò a quella vista, arrossì, e volle tornare indietro. Ma la dama si
avvicinava sempre più e non gli venne fatto di uscirsene a quel modo;
era affascinato, attratto verso di lei. Poco stante si sentì come
travolto in quell'onda di arcani effluvi che emana da una donna amata,
a cui ci troviamo per la prima volta vicini. La marchesa passava,
leggiera e composta negli atti, daccanto al giovine innamorato, che in
quel momento si sentì ribollire nel profondo tutti gli assopiti
ardori, tutti i desideri di prima. E proprio in quel momento gli parve
che gli occhi della marchesa fossero volti su lui. La cosa non aveva
niente di strano. Neanche alla dama più contegnosa del mondo è dato di
passare per via, senza che il suo sguardo s'incontri mai nello sguardo
di qualcheduno tra i viandanti che l'ammirano. Ma dopo tutto, lo aveva
essa guardato davvero? Pensandoci bene, Ariberti non avrebbe potuto
giurarlo, perchè egli in quel punto medesimo aveva abbassato
timidamente le ciglia.
Ben gli diè l'animo di voltarsi a guardarla, dopo pochi istanti che
era passata; che anzi e' l'avrebbe volentieri pedinata un tratto, ad
una rispettosa distanza, per non dar nell'occhio alla gente, e vedere
intanto se gli riusciva di sapere ove ella abitasse. Ho già detto che
Ariberti, riguardoso in ciò come tutti gli innamorati di primo pelo,
non aveva ardito mai di domandarne ad alcuno. Nè poteva scoprirlo da
sè, all'uscir di teatro, perchè la marchesa saliva in carrozza, e via;
di guisa che a lui non restava altra speranza che quella di incontrar
la signora in istrada e di seguirla da lunge.
Quello era dunque il buon punto. La marchesa era uscita di certo per
fare qualcuna di quelle compere eleganti, che non si commettono a un
servitore, o ad una cameriera. Poteva darsi che ci fosse la vettura ad
aspettarla ad una svolta di strada, e poteva anche darsi che non ci
fosse. In questo caso, egli avrebbe potuto sapere finalmente il fatto
suo, tenendole dietro con molta circospezione ed altrettanta pazienza.
Ma in quella che il giovinetto era li per colorire il suo disegno, gli
venne alla mente il ritrovo coi due padrini. Egli non era più libero;
era in balìa di quei signori, che avevano stabilito la sua sorte e che
forse allora si muovevano per andarlo a cercare sotto i portici di
piazza Castello.
Vedete un po' che disdetta! Proprio in quel momento; proprio la prima
volta che gli era dato di vedere la marchesa a piedi per le vie di
Torino! E per chi, poi, quella noia? Per chi, quel duello imbastito?
Per una femminuccia, pigliata in mal punto a proteggere. Ariberti si
vergognò della sua debolezza; là, alla luce del giorno, in quel luogo
per dove era passata pur dianzi la regina de' suoi pensieri, e dove
gli sembrava di respirarne ancora le soavi fragranze, il ricordo di
Giuseppina Giumella gli destava un senso di ribrezzo per tutte le
fibre: sto per dire che gli muoveva lo stomaco.
Infastidito, pigliò l'abbrivo verso piazza Castello. Se in quel punto
gli fosse venuto dinanzi quel figuro di Forniglia, gli si sarebbe
avventato alla gola come un mastino rabbioso, tanta era la stizza che
lo divorava. Figuratevi dunque con che grido di giubilo egli, poc'anzi
così abbattuto, accogliesse le parole del Priore, venuto ad
annunziargli che era deliberato lo scontro.


CAPITOLO VII.
Qui si contano alcune belle particolarità del Priore Tristano e de'
suoi Cavalieri di Malta.

--Li abbiamo messi colle spalle al muro;---disse Tristano.--Erano
venuti per sonare e furono sonati. Lo scontro è stabilito per
domattina alle otto; abbiamo scelto la pistola; dodici passi di
distanza, che è il minimo della misura legale; tirare fino a tanto che
uno rimanga ferito.
--Grazie!--rispose Ariberti convulso.--È quello che volevo.--
E strinse la mano ai due valentuomini, che gli avevano fatto quel
grande servizio.
--Dove pranza oggi?--gli chiese poscia il Priore.
--Con loro, se accettano il mio povero invito.
--Grazie; sarà per un'altra volta. Quest'oggi è lei che dovrà
accettare un pranzetto da noi. Non dimentichi che fino a domattina, e
a guerra finita, Ella ci deve obbedienza cieca.
--Padroni, padroni!--sentenziò Bonisconti, con breviloquenza spartana.
Ariberti non seppe che cosa rispondere ad una argomentazione così
perentoria e fece quel cenno del capo che comunemente vuol dire: son
vinto.
Passeggiarono un'oretta, discorrendo di cento cose, sotto i portici di
Po; ma senza che al povero Ariberti venisse fatto di rivedere la
marchesa. Vide in quella vece il Ferrero, quella brutta copia di
Pilato, e fece vendetta allegra del suo abbandono di quella mattina,
gittandogli un saluto per carità, come si getta un soldo nella
scodella d'un cieco.
--Guarda con che gente son io,--voleva dire quel saluto a fior di
labbro,--e crepa dalla bile.--
Difatti, il Priore, a cui Ferrero diede una sbirciatina curiosa, era
un uomo da tirare a sè gli occhi della gente. Chiunque egli fosse, il
suo aspetto non era d'uomo volgare.