La notte del Commendatore - 06
leggermente china e col ventaglio ritto che le sfiorava il mento,
pareva intenta al dialogo de' suoi cavalieri. Forse era svogliata e
distratta; e quell'atteggiamento e un sorrisetto a fior di labbro
erano pretta cortesia, non attenzione vera, alle inezie di cui
certamente si componeva il discorso.
L'infranciosato patrizio doveva passare in rassegna le donne e i
personaggi più notevoli dell'uditorio, poichè il marchese di San
Ginesio a volte alzava il binoccolo per guardare qua e là, e la
marchesa dal canto suo faceva in pari tempo un mezzo giro del capo,
per dare uno sguardo fuggevole là dove egli sicuramente accennava. Poi
venne la volta dei posti distinti, aia pulita e lucente su cui
dimenavano gloriosamente il collo e facevano la ruota i signori del
mondo elegante.
Pensando allora che l'attenzione dei tre nobili osservatori poteva da
un momento all'altro rivolgersi sulla sua modesta persona, lo studente
assunse un'aria sbadata. Era in piedi, e dava le spalle al
palcoscenico; epperò fece le mostre di guardare qua e là senza
fermarsi in nessun luogo, distratto, anzi svogliato, come è debito
d'ogni gentiluomo che si rispetti un tantino. Per altro, s'intende che
ad ogni tratto nel vagabondare a destra e a sinistra, gli occhi
dell'innamorato ricorrevano al loro centro d'attrazione, e gli
giravano intorno con una rapida volta, come farebbe una cometa col
sole.
Per tal modo egli potè avvedersi in tempo di essere stato notato dal
Candioli ed anche (oh Numi!) d'essere indicato da lui alla dama.
Giunone volse allora lentamente la testa, abbassò le ciglia dal suo
Olimpo, e il poeta dei salici, dei pioppi e dei portici, sentì che il
suo cuore rispondeva con un palpito all'appressarsi di quella gran
luce. Sbirciando colla coda si avvide di ben altro. La signora aveva
stesa la mano alla mensoletta di velluto che reggeva il suo binocolo
incrostato di madreperla, e rialzando leggiadramente sul gomito un
braccio tornito dalle Grazie, si degnava di recare il bel trovato di
Galileo all'altezza degli occhi. Oh miracolo inaudito! Oh fortuna
insperata! Quelle due lenti, piene di arcani bagliori, erano appuntate
su lui.
Qual fosti allora, per dirla con una frase prediletta di Giacomo
Leopardi, qual fosti, o Ariberti? Aver meritato uno sguardo di quella
donna, pensare che quella donna sapeva il suo nome, e che egli, umile
e sconosciuto il giorno addietro, entrava di primo acchito nel settimo
cielo de' suoi desiderii; o non era quello il caso di andare in
visibilio?
Balenò un tratto, come se lo avesse colto una vertigine; indi,
cercando di pigliare un contegno, fece per alzare il binoccolo a sua
volta e guardare in qualche luogo. Ma nell'atto di alzare il gomito,
gli parve quello un cattivo espediente. Diffatti, se la marchesa
guardava lui, con che animo avrebbe egli fatto le viste di guardare
un'altra? E così avvenne che, tra il sì e il no, rimanesse a
mezz'aria. Avrebbe voluto mettersi due dita nel solino, per
rassettarselo intorno al collo, ma si ricordò in tempo di Don
Abbondio, e finì per lasciar ricadere il braccio disteso, lungo la
costura dei calzoni, nella posizione del soldato senz'armi. Frattanto,
al caldo che sentì salirsi alla faccia, gli parve di arrossire come un
coscritto che si vede guardato la prima volta dal suo colonnello.
Sicuramente, lassù si parlava di lui. Nel volgersi che fece
macchinalmente alcuni secondi dopo, si avvide che anche il marchese di
San Ginesio aveva chinato gli occhi a guardarlo. Ariberti lo avrebbe
liberato volentieri da quella molestia. A lui non premeva punto di
destar l'attenzione del tiranno prima del tempo. Scellerato Candioli!
Non poteva aspettare a metter fuori le sue indicazioni quando il
tiranno sullodato fosse uscito di là?
Ma la tortura del nostro innamorato non era finita con quella guardata
del marchese. Ariberti doveva bere fino all'ultima goccia il calice
amaro della sua gloria. La conversazione intorno ai fatti suoi (che
non poteva essere altrimenti con tutto quel lavoro di binocoli) era
interrotta o conchiusa con una risata della signora. Il povero
studente, impacciato come un pulcino nella stoppia n'ebbe una stretta
dolorosissima al cuore. Come mai una dama di quella sorte, per solito
così severa e contegnosa, dava in uno scoppio di risa? Imperocchè, non
c'era da sofisticarci su, gli era stato uno scoppio; argentino, se
vogliamo, ma l'epiteto non toglieva nulla al sostantivo. E proprio nel
guardar lui; e proprio nel ragionare di lui!
Che diamine le aveva detto il cagnolino inglese? Forse si era fatto
beffe de' suoi versi? O del nome di Nicolò mutato in Ariberto? O della
sua qualità di provinciale? Comunque fosse, la sua vanità aveva
toccato un colpo profondo; comunque fosse, poi, la bella e severa
Giunone aveva dato in uno scoppio di risa, come avrebbe fatto la più
umile, la più volgare tra tutte le donne di questo basso mondo,
poniamo la signora Giuseppina Giumella, fiorista in via Doragrossa.
S'intende che tutti questi ragionamenti il nostro eroe non li faceva
lì per lì dal suo sedile, ma per via, nel tornarsene a casa, torbido e
sbuffante come una belva ferita che si ripara nel suo covo. Là, in
teatro, fu solamente cruccioso e impacciato. Non volse più gli occhi
al palchetto di seconda fila; anzi, rannicchiatosi nella poltrona, col
collo tirato in dentro come le tartarughe e colle ginocchia alla
sciamannata contro la spalliera della poltrona che aveva davanti a sè,
rimase per tutto il rimanente dello spettacolo voltato dall'altra
parte.
Giunone non si avvide di quel broncio terribile. Anche lei, come
portavano le consuetudini della civil compagnia, dato al signorino
quell'istante di attenzione che era consentito dal discorso, non aveva
più posto gli occhi su lui.
La notte di Ariberti fu inquieta. Mulinò sul guanciale truci pensieri
e propositi di arcane vendette. Voleva salire in fama, farsi amare da
quella donna e poi disprezzarla, come aveva letto d'un eroe da
romanzo; ma pensò con ragione che queste peripezie facili a svolgersi
in una tela da romanzo, non lo erano del pari nella vita comune, dove
le signore donne sogliono curarsi poco, assai poco, degli uomini
illustri. Pei giovanotti, che si sono bene o male educati a questo
culto, studiando il _De Viris_ e la storia della letteratura, non c'è
che dire, un grand'uomo è un grand'uomo; per le donne è tutt'altro;
qualche volta, per esempio, è un noioso, e si sospetta generalmente
che prenda tabacco.
Piuttosto, avrebbe dovuto darsi alla gaia vita, diventare uno
zerbinotto, celebre per le sue avventure e per qualche elegante
capestreria. Ma di questi Don Giovanni ce n'erano già tanti in ordine
di marcia, che il nostro Ariberti correva il rischio di giunger
l'ultimo, e quando non ci fosse stato più sugo a tentare l'impresa.
Voleva una vendetta più spicciativa, lui; ma sì, pigliala! Tra l'altre
belle invenzioni, pensò di non guardar più quella donna, di andare a
farsi trappista, per raccontare la sua storia a qualche giramondo
francese, il quale vi avrebbe tessuto un capitolo d'_Impressioni_; le
quali sarebbero cadute sotto gli occhi di lei; la quale... Insomma, un
monte di scioccherie, sulle quali si addormentò finalmente, ma per
sognare di guardate superbe e beffardi scoppi di risa.
Il giorno dopo era venerdì, e quella sera il teatro Regio era chiuso.
Giorno nefasto! Ariberti non si accostò nemmeno all'atrio
dell'università; ingoiò dell'assenzio, bevanda de' forti, e scrisse a
sfogo un centinaio di giambi. Venne il sabato e tutta la sua rabbia
era smaltita; non gli era rimasto nel cuore che un dolor sordo, che io
paragonerei volentieri a quello del mal di denti quando è per
andarsene, se non temessi di farmi mettere al bando dalle anime
innamorate. Quella sera il teatro era aperto, anzi v'era spettacolo
nuovo, e il gran concorso degli spettatori, collo scintillìo di tutte
le stelle di prima e di seconda grandezza sul meridiano del Regio,
oscurò la luce tapina di quel povero satellite che si chiamava
Ariberti. La metafora vuol dire che la marchesa di San Ginesio non
mostrò di avvedersi che egli fosse al mondo. Rinunzio a descriver la
notte; _animus meminisse horret, luctuque refugit._
Venne la domenica. Ma le domeniche la marchesa non andava a teatro,
salvo che in certi casi eccezionali. E quella sera il caso eccezionale
mancava; nè l'Ariberti poteva gloriarsi di esserne lui uno. Gli
bisognò dunque aspettare il lunedì sera. Ma ohimè! per quanto lo
spettacolo non avesse più il pregio della novità e la sala non
offrisse più le distrazioni dell'altra volta, madonna non pose mente a
lui, nè si accorse de' suoi atti, o delle sue giaculatorie, rincalzate
dal più operoso binocolo che uscisse mai dalle vetrine di Fries.
Come fare a destar l'attenzione di quella superba? L'Ariberti avrebbe
rotto volentieri un bracciuolo della poltrona, o invitato ad alta voce
il contrabasso a scorciare di due palmi il braccio del suo molesto
istrumento. Fece in cambio la ragazzata di applaudire una seconda
ballerina di contrattempo, e senza che un cane gli tenesse bordone.
Lo zittirono, com'era naturale, e tutti gli sguardi si volsero a lui,
che si provò a star duro come un milorde inglese, quantunque si
sentisse venir rosso fino alla radice dei capelli. Per altro, non andò
guari che dovette allibire, avendo veduto con quella benedetta coda
dell'occhio che la signora, seguendo il moto delle teste, aveva posto
lo sguardo su lui e lo considerava coll'aria attonita di chi non
capisce la ragione di un atto, o di una parola, che potrebbe anco
esser l'atto, o la parola di un pazzo. Questo, nella sua foga
giovanile, non aveva preveduto l'Ariberti; il quale giurò in cuor suo
di non far più capo a così eroici spedienti.
Finito il ballo, che gli parve assai lungo, uscì dal teatro, senza
volerne saper altro. Voleva in quella vece andare al caffè, e bere del
pònce. Nel vestibolo incontrò il conte Candioli, che scendeva allora
dalla scala dei palchetti.
--_Arrêtez donc? Où diable courez-vous si vite?_--gli gridò il contino
alle spalle.
Ariberti lo avrebbe mandato lui al diavolo; ma bisognava adattarsi
alla necessità e far bocca da ridere.
--Vo a prender aria;--rispose egli, dopo aver stretta la mano che il
signor conte si degnava di porgergli.
--Aspettate quella della prima donna, perbacco!--sclamò il Candioli,
felice d'avere imbroccato un bisticcio.--Il terz'atto è il più bello
dell'opera.
--Ma io, veramente....
--Sì, capisco--interruppe l'altro ridendo;--voi andate ad appostarvi
sull'uscita del corpo di ballo. _Avouez-le, heureux fripon_; voi
aspettate la piccola Diavolina.--
Diavolina era il nome che portava nel ballo la danzatrice «di rango
italiano» applaudita pur dianzi dall'Ariberti.
--Io? Non la intendo;--diss'egli confuso.--Andavo a bere un pònce; ed
anzi, se il signor conte vuole onorarmi...
--Grazie, non posso. Questa sera son di servizio; ho da accompagnare a
casa la baronessa Vergnani, che ha il marito in missione a Monaco e
che offre un tè ai suoi cavalieri di quest'inverno. _Vous voyez ça
d'ici_; Penelope che convita i Proci! Ma a proposito della piccola
Diavolina, che diamine v'è saltato in mente, mio caro, di applaudirla
a quel modo? Siete il suo _valet de coeur_?
--Che! non la conosco neanche per prossimo.
--Ah, meglio così; perchè, a dirvela qui _entre nous deux_, quella
piccina non val proprio nulla. E poi c'è il suo re di danari, il
cavaliere di Grugliasco, che ve la contenderebbe _à outrance_.
Intanto, vedete, voi ve ne siete fatto un nemico mortale, poichè con
quell'applauso avete esposta la sua bella a pigliarsi dei fischi.
--Ah sì? Non me ne importa proprio un bel nulla.
--_Prenez garde!_ Il cavaliere passa per la prima lama di Torino.
--Le ripeto, signor conte, che ciò non mi fa caldo nè freddo. Col mal
umore che ho in corpo, la romperei anche con il gran lama del Tibet.
--_Pas mal, pas mal!_--disse Candioli, con un cenno del capo che
indicava il buongustaio.--_Mais quelle mouche vous a piqué?_ Sareste
in collera con Giunone?--
Ariberti si rabbruscò a quel ricordo dei loro discorsi di caffè.
--Le ho già detto, signor conte, che in tutta quella chiacchiera del
Vigna non c'era una parola di vero.
--Eh via! Non sofistichiamo. Se non c'era allora, ci può essere
adesso. L'altra sera vi ho colto in flagranti di contemplazione.
--Sì, non lo nego, l'ho guardata;--balbettò l'Ariberti, confuso;--ma
come ne ho guardate tante altre, e non ci sono più tornato.
--Davvero?
--Glielo assicuro.
--_Tant mieux!_ Mi pare di avervelo già detto; è una donna troppa
fredda. _On ne lui connait pas la moindre aventure._
Quella frase, buttata là a caso dal contino, suonò dolcemente
all'orecchio d'Ariberti. Egli, per vero, non avrebbe saputo dirne il
perchè, quando pure si fosse fermato a pensarci; ma provava una certa
consolazione a sentire che quella superba donna, la quale rideva di
lui, facesse piangere gli altri; che certamente erano in molti a
sospirare per lei.
E tuttavia, quella risata gli stava sempre sul cuore. Avrebbe voluto
chiederne al conte, e saperne, come suol dirsi, l'intiero. Ma sì, per
riuscire al suo fine, gli sarebbe bisognato scoprirsi troppo,
confessare ch'era stato tutt'occhi per la marchesa, che si era
avveduto dall'accenno a lui, e via via tutta una filatessa di cose da
non dirsi al Candioli. E poi, anche disponendosi a ciò, il nostro
provinciale non avrebbe saputo come prenderla.
Così avvenne che rimanesse colla voglia e colla stizza, non bene
affogate più tardi nel pònce, che fu ad un pelo di scottargli il
palato. Di tornare in teatro, dopo quella memoranda impresa dei
battimani, non sentiva più il desiderio. Anche quella vergogna gli
stava sul cuore, e in quel momento poi, anche la marchesa gli era
venuta in uggia, per quella sua attonita e altezzosa guardata.
A farla breve, il nostro innamorato era in quella sera un tal misto di
contradizioni, che io rinunzio a descriverlo, per non sembrarvi più
matto di lui.
In casa, dove finalmente si ridusse colle sue stravaganze, lo
aspettava una novità. Sul suo tavolino da notte, appoggiata al
piattello del candeliere perchè avesse a dargli subito nell'occhio,
stava una lettera per lui. La soprascritta, di mano evidentemente
femminile, oltre la calligrafia poco sicura dimostrava un'ortografia
male in gambe. E non era qui tutto, poichè l'Ariberti nel rivoltare la
lettera, vide che era sigillata colla metà d'una volgarissima ostia.
--Chi diavolo ha potuto scrivermi?--domandò mentalmente a sè stesso.
Al nostro eroe era passato per la fantasia un nembo di lettere
profumate in carta di seta, collo stemma impresso a colori sulla
ripiegatura, e con una mano di scritto affilettata all'inglese; sogni
tutti e desiderii della sua giovinezza precoce. Ed ecco, gli capitava
in quella vece alle mani una letteraccia in carta comune, mal
ripiegata, peggio sigillata, e probabilmente piena di scarabocchi, sul
fare di quelli che la soprascritta portava ad insegna.
Basta, non è tutto oro nel mondo, e Ariberti doveva contentarsi per
quella volta agli spiccioli di rame. Chi sa? poteva anche essere oro
misto. Imperocchè dopo tutto ci son pure delle care e belle donnine,
che hanno una brutta calligrafia e che suggellano le lettere
coll'ostia.
Il giovine aperse tra rassegnato e curioso quella che gli mandava per
allora il destino. Essa incominciava «illustrissimo signor Riberti»
che gli fece di scoppio «_rizzar le chiome sul crin_», come cantò
elegantemente un poeta di mia conoscenza.
Oramai, non c'era più da sperare. Ariberti corse cogli occhi in fondo
alla lettera. E qui, s'egli avesse avuto la memoria più pronta, non ci
sarebbe stato neanche da stupirsi. La firma era quella della «sua
devotissima serva, Giuseppina Giumella» di quella fiorista in via Dora
Grossa e pigionale della signora Paolina, in via degli Argentieri, che
i lettori conoscono.
Il primo atto che fece egli al leggere quella firma, voleva dire: che
nome prosaico! chi sarà mai questa devotissima serva? E stava
rigirandosi il foglio tra le dita, ma senza cavarne un costrutto.
Laonde, si appigliò allo spediente più ovvio, che era quello di
leggere, o, per dire più veramente, di decifrare quei geroglifici.
La signora Giuseppina lo ringraziava del bene che aveva avuto da lui e
giurava che gliene sarebbe stata riconoscentissima «fino all'estremo
anelito»; la qual frase faceva testimonianza d'una certa coltura
letteraria, raspata nei libretti d'opera. Finiva pregandolo caldamente
a voler passare da lei, per una cosa di molta importanza che aveva a
dirgli.
Ariberti si ricordò allora della pigione pagata, e gli tornò anche in
mente, sebbene veduto alla sfuggita, il tipo della ragazza che aveva
occupato l'antico domicilio di Filippo Bertone.
Ma che cosa voleva costei? La vanità nascente non permise al giovine
di dare al fatto la spiegazione più naturale. Di certo, quella ragazza
gli aveva a parlare per conto d'altrui, e molto probabilmente d'una
donna. A quella supposizione che gli faceva intravedere un intrigo
donnesco, si sentì battere il cuore. Infatti, e non poteva esser
proprio così? Non faceva essa la fiorista in uno dei più riputati
negozi di Torino, dove certamente praticavano le più eleganti signore
della città?
Di questa guisa, tra l'immagine della marchesa e quella di Giuseppina
Giumella, che la sua ferace fantasia accoppiò per alcuni momenti in un
medesimo intrigo, tra gli zitti della vigilia e la visita del giorno
imminente, il nostro eroe dormì poco e balzò dal letto più presto del
solito.
Quella mattina si vestì con una ricercatezza che mai la maggiore, si
profumò, si lisciò un'ora allo specchio, come se si fosse trattato di
un ripesco amoroso. Si è detto che ogni donna, alle sue ore, è un
pochino civetta; ma io vi so dire che l'uomo è un civettone
senz'altro. Il mio eroe uscì di casa azzimato come un vero damerino e
si avviò verso quella benedetta strada degli Argentieri, che gli
pareva tutt'altra da quella di prima. Salì le note scale con un po' di
rimescolo nel sangue; chè non si era mai trovato fino allora in un
caso simile. Per altro, siccome non era un andare alla morte, si fece
animo come potè, e ravviati colla mano i morbidi capegli sul fronte, e
tirate due punte, o per dir meglio, due ombre di baffi, diede una
scossa al campanello che sapete.
L'uscio si aperse prontamente, e la signora Giuseppina Giumella, fatto
entrare il visitatore, fu pronta del pari a richiuderlo. Certo ella
era stata in ascolto colla mano sul catenaccio, e avea fretta di
chiuder quell'uscio, perchè quella curiosaccia della signora Paolina,
facendo capolino dal suo, non vedesse lo studente. Anche lei era
vestita con una certa attillatura, e i suoi capegli biondi, indocili
al pettine, apparivano assettati con cura. Ed anche lei si vedeva
confusa, e dopo avergli additato una scranna presso l'abbaino, stette
lì cogli occhi bassi e in silenzio, quasi non sapesse neppur lei da
che parte incominciare.
C'era, a diportarsi in tal modo, il suo bravo perchè. L'accorta
ragazza voleva piantare un chiodo, e le premeva di non parergli
sfacciata. Dai discorsi della padrona di casa, aveva fiutato subito la
selvaggina e non voleva lasciarsela fuggire di mano. C'era di mezzo un
certo giovinastro, studente di medicina, frequentatore di bische, il
quale non le avrebbe anche levati quei pochi che ella guadagnava col
suo lavoro di tutta la settimana. Ora, senza contare ch'ella era già
stanca di quell'arnesaccio e lo avrebbe volentieri mandato a quel
paese, la fiorista cercava un'anima gentile, un cuore ben fatto, che
sapesse intendere il suo e le prestasse lì per lì una cinquantina di
lire. Come si vede, era modesta ne' suoi desiderii, e una così piccola
somma l'avrebbe trovata soltanto a scendere in istrada per chiederla
al primo che fosse passato di là. Ma questo forse non faceva comodo
alla signora Giuseppina. Ci aveva il ricordo fresco della cortesia
d'Ariberti, cortesia fatta senza pur conoscere a chi la usasse. E
questo era un precedente degno di nota.
Donde il proposito fatto di rivolgersi a lui e il bisogno, se voleva
riuscire nell'intento, di mostrarglisi amabilmente confusa.
Ariberti fu quello che doveva essere in una simile occasione; cioè a
dire un pretto collegiale. Le vide i lucciconi sugli occhi e non seppe
resistere. Certo, egli cadeva un po' giù dalle sue prime illusioni. Ma
la signora Giumella era tanto graziosa, a quel lume mattutino! E poi,
non rideva di lui, come quell'altra! Infine, chi sapesse da quali
piccole cause dipendono spesso gli atti più rilevanti di un' uomo!....
Fo punto, perchè credo che la cosa sia stata già detta e stampata da
Panfilo Castaldi in poi, almeno un migliaio di volte.
CAPITOLO VI.
Dove s'illustra il motto: "amici da starnuti" e si fanno anche due
preziose conoscenze.
Una mattina di gennaio il contino Candioli se ne stava ritto e
impettito davanti allo specchio, vestendosi comodamente alla vampa di
un buon fuoco che scoppiettava allegro nel suo quartierino, posto ad
un piano più su di quello che abitava S. E. il conte padre. Si vestiva
di mezza parata, per andare all'università, ma la testa era già stata
a lungo nelle mani del cameriere, il quale l'avea ridotta quel
portento di bellezza che sapete.
Levatosi l'accappatoio, che lo rendeva abbastanza ridicolo, ma che gli
era stato necessario poc'anzi per l'acconciatura del capo, il
signorino indossava una sottoveste di stoffa inglese tutta bioccoli
come il mantello d'un can barbone, e vi gittava leggiadramente su la
catenella dell'orologio, allorquando rientrò il cameriere.
--_C'est toi, Lafleur?_--diss'egli, vedendo riflettersi nella spera la
faccia tonda e spelacchiata del servo che si lasciava chiamare con
quel nome da commedia.--Che cosa vuoi?
--C'è in anticamera un signore che domanda di parlare al signor conte.
--Ha detto il suo nome?
--Sì, signor conte. È il signor Ariberti.
---_Que diable?_ a quest'ora!--esclamò il conte, facendo un gesto
d'impazienza.--Ma tu gli avrai detto...
--Che il signor conte si sta vestendo per uscire. Ma egli mi ha
risposto che è amicissimo del signor conte, che ha da parlargli di
cosa urgente per lui, e che certamente, udito il suo nome, il signor
conte lo farebbe entrare.
--_Mon Dieu, quel ennui!_ Ed io che prima di andare all'università
volevo passare da piazza San Carlo, per chieder notizie della
baronessa!...
--Se il signor conte lo comanda, gli dirò che è aspettato da sua
Eccellenza, prima di uscire, e che non ha un minuto da perdere.
---No, no;--disse il giovane patrizio con aria di
rassegnazione;--_exécutons-nous puisqu'il est ici._ Fallo entrare.--
Il cameriere uscì, dopo avere aiutato il suo padrone a infilare un
soprabito turchino, mostreggiato di velluto.
--_Eh bien, arrivez donc, mon cher!_...--gridò il contino, udendo il
passo di Ariberti sulla soglia.
--_Quel bonheur de vous voir!_... Ma che avete?--soggiunse tosto,
mutando idioma ed accento.--Siete pallido come un moribondo.
--Signor conte,--disse Ariberti, con aria abbattuta,--c'è di peggio;
sono un uomo morto.
--_Diable!_ E che cosa vi è intervenuto?
--Che sono stato insultato, provocato a duello ieri sera.--
Il conte Candioli si rizzò nobilmente sulla persona, inarcò le ciglia
e stette nell'atteggiamento dell'Apollo di Belvedere, guardando il suo
interlocutore.
--_Il faut se battre;_--sentenziò egli poscia, con gran sicumèra.--È
la mia opinione.
--Capisco;--rispose Ariberti;--e non è difatti per questo che io...
Insomma, sono dispostissimo ad andare sul terreno, quantunque io non
abbia mai tenuto arma in pugno....
--Male!--interruppe quell'altro.--Pigliate esempio da me, che mi
esercito nel maneggio delle armi ogni giorno.
--Ella ha ragione;--disse Ariberti.--Comincio a capire che bisogna
tenersi preparati sempre a respingere un insulto, o un atto di
prepotenza del nostro simile. Ma, lo ripeto, non è per questo che io
ero venuto da Lei; bensì per un'altra faccenda che mi mette in
pensiero. Non ho ancora potuto trovare due padrini da poter mandare al
mio avversario. Vigna e Balestra non se ne intendono affatto. Ferrero
si schermisce, mettendo innanzi le sue grandi occupazioni. Sono andato
a cercar d'altri, ma non li ho trovati in casa. Ed ecco perchè son
venuto ad importunar Lei, signor conte, che mi ha sempre dimostrato
tanta benevolenza. So bene che non dovrei incomodare un suo pari, ma
pensi a mia scusa che non ricorro al più autorevole, se non quando i
meno mi abbandonano.
--Ah sì.... grazie--balbettò il contino, impacciato.
--Ma vediamo prima.... consideriamo... Infine, di che cosa si tratta?
--Ecco qua. Devo premettere che ho conosciuto, or non è molto, una
povera ragazza....
--Ci siamo; _une amourette!_
--No, non c'è nulla di questo;--disse Ariberti, facendosi
rosso.--Quella poverina mi aveva toccato il cuore colle sue disgrazie,
e mi accade di farle servizio una prima volta. L'avevo conosciuta per
caso, e fu ella che domandò di rivedermi, per chiedermi dell'altro,
che non mi diè l'animo di ricusare.
--Fin qui non vedo niente che meriti una riparazione d'onore;--notò il
Candioli, con un burlesco sussiego.--_Allez toujours!_
--Così ero entrato in relazione con quella giovane, che fa la fiorista
in via Doragrossa, e, tra un servizio chiesto e un servizio reso, Ella
mi intenderà, ho dovuto rispondere a qualche sua lettera.
--Le avete scritto?
--Sì, cinque o sei volte.
--Malissimo! Non scrivete mai lettere! Imitate Carlomagno, che non ne
scrisse mai, _et pour cause!_--
Ariberti, tutto pieno de' sopraccapi com'era, non ebbe agio di gustare
l'arguzia.
--Ora,--ripigliò il nostro eroe,--egli sembra che la ragazza ci avesse
un cugino, diventato tenero tutto ad un tratto della parentela, il
quale ha trovato le lettere mie e gli hanno preso le furie.
--Un cugino!--esclamò il Candioli.--Fosse almeno un fratello! E come
si chiama questo cugino? Donde viene? Che cosa fa?
--Che so io? È un certo Forniglia, o giù di lì; studente di medicina,
a quanto dicono, ma che all'università non si è mai visto. Ferrero
dice che è un giovinastro di bassa mano, frequentatore di bische;
insomma un mascalzone. Contuttociò, egli ha trovato due persone
pulite, almeno in apparenza, che son venute a propormi un certo
dilemma....
--Sentiamo il dilemma.
--Eccolo qua. Pretendono che io abbia fatto perdere il suo buon nome
alla ragazza. Una fiorista, noti, una fiorista che sta da sola in una
camera d'affitto, in via degli Argentieri! E per questo mi mettono
davanti l'_aut aut;_ o sposare la cugina del signor Forniglia, o
battermi con lui all'ultimo sangue. Di qui non si esce. E adesso Lei
capirà, signor conte, che io non potevo esitare nella scelta. Lasciamo
stare che son figliuol di famiglia e sottoposto alla patria potestà.
Ma non si può ammettere nemmeno per celia che io sposi la signora
Giuseppina Giumella, una ragazza che vive da sola in Torino, che tira
stoccate alla mia borsa, e che tutto ad un tratto mi diventa una santa
innocentina, con tanto di protettore da fianco.
--Sposarla! _Mais pas le moins du monde, parbleu!_
--Or dunque, venendo alla conclusione, i padrini di questo signor
Forniglia mi hanno aspettato iersera sull'uscio di casa mia, dopo il
teatro. Ed io ho dovuto prendere appuntamento per quest'oggi, sul
mezzodì, al caffè dell'Aquila, dove si sarebbero abboccati coi miei
padrini.
--Se riuscirete a trovarne!--disse gravemente il Candioli.
Ariberti lo guardò istupidito.
--Eh, difatti,--soggiunse egli dopo un momento di pausa,--finora non
ne ho trovati; ma sperava che Lei...
---_Mon cher,_ che cosa domandate voi mai? Io non commetterò mai la
sciocchezza di consigliarvi un duello, in queste condizioni.
--Ma poc'anzi....--entrò a dire peritoso l'Ariberti.
--Poc'anzi, era un altro paio di maniche. Qui c'è un cugino.... che
non dev'essere un cugino. _Ça sent le chantage,_ il ricatto. E volete
pareva intenta al dialogo de' suoi cavalieri. Forse era svogliata e
distratta; e quell'atteggiamento e un sorrisetto a fior di labbro
erano pretta cortesia, non attenzione vera, alle inezie di cui
certamente si componeva il discorso.
L'infranciosato patrizio doveva passare in rassegna le donne e i
personaggi più notevoli dell'uditorio, poichè il marchese di San
Ginesio a volte alzava il binoccolo per guardare qua e là, e la
marchesa dal canto suo faceva in pari tempo un mezzo giro del capo,
per dare uno sguardo fuggevole là dove egli sicuramente accennava. Poi
venne la volta dei posti distinti, aia pulita e lucente su cui
dimenavano gloriosamente il collo e facevano la ruota i signori del
mondo elegante.
Pensando allora che l'attenzione dei tre nobili osservatori poteva da
un momento all'altro rivolgersi sulla sua modesta persona, lo studente
assunse un'aria sbadata. Era in piedi, e dava le spalle al
palcoscenico; epperò fece le mostre di guardare qua e là senza
fermarsi in nessun luogo, distratto, anzi svogliato, come è debito
d'ogni gentiluomo che si rispetti un tantino. Per altro, s'intende che
ad ogni tratto nel vagabondare a destra e a sinistra, gli occhi
dell'innamorato ricorrevano al loro centro d'attrazione, e gli
giravano intorno con una rapida volta, come farebbe una cometa col
sole.
Per tal modo egli potè avvedersi in tempo di essere stato notato dal
Candioli ed anche (oh Numi!) d'essere indicato da lui alla dama.
Giunone volse allora lentamente la testa, abbassò le ciglia dal suo
Olimpo, e il poeta dei salici, dei pioppi e dei portici, sentì che il
suo cuore rispondeva con un palpito all'appressarsi di quella gran
luce. Sbirciando colla coda si avvide di ben altro. La signora aveva
stesa la mano alla mensoletta di velluto che reggeva il suo binocolo
incrostato di madreperla, e rialzando leggiadramente sul gomito un
braccio tornito dalle Grazie, si degnava di recare il bel trovato di
Galileo all'altezza degli occhi. Oh miracolo inaudito! Oh fortuna
insperata! Quelle due lenti, piene di arcani bagliori, erano appuntate
su lui.
Qual fosti allora, per dirla con una frase prediletta di Giacomo
Leopardi, qual fosti, o Ariberti? Aver meritato uno sguardo di quella
donna, pensare che quella donna sapeva il suo nome, e che egli, umile
e sconosciuto il giorno addietro, entrava di primo acchito nel settimo
cielo de' suoi desiderii; o non era quello il caso di andare in
visibilio?
Balenò un tratto, come se lo avesse colto una vertigine; indi,
cercando di pigliare un contegno, fece per alzare il binoccolo a sua
volta e guardare in qualche luogo. Ma nell'atto di alzare il gomito,
gli parve quello un cattivo espediente. Diffatti, se la marchesa
guardava lui, con che animo avrebbe egli fatto le viste di guardare
un'altra? E così avvenne che, tra il sì e il no, rimanesse a
mezz'aria. Avrebbe voluto mettersi due dita nel solino, per
rassettarselo intorno al collo, ma si ricordò in tempo di Don
Abbondio, e finì per lasciar ricadere il braccio disteso, lungo la
costura dei calzoni, nella posizione del soldato senz'armi. Frattanto,
al caldo che sentì salirsi alla faccia, gli parve di arrossire come un
coscritto che si vede guardato la prima volta dal suo colonnello.
Sicuramente, lassù si parlava di lui. Nel volgersi che fece
macchinalmente alcuni secondi dopo, si avvide che anche il marchese di
San Ginesio aveva chinato gli occhi a guardarlo. Ariberti lo avrebbe
liberato volentieri da quella molestia. A lui non premeva punto di
destar l'attenzione del tiranno prima del tempo. Scellerato Candioli!
Non poteva aspettare a metter fuori le sue indicazioni quando il
tiranno sullodato fosse uscito di là?
Ma la tortura del nostro innamorato non era finita con quella guardata
del marchese. Ariberti doveva bere fino all'ultima goccia il calice
amaro della sua gloria. La conversazione intorno ai fatti suoi (che
non poteva essere altrimenti con tutto quel lavoro di binocoli) era
interrotta o conchiusa con una risata della signora. Il povero
studente, impacciato come un pulcino nella stoppia n'ebbe una stretta
dolorosissima al cuore. Come mai una dama di quella sorte, per solito
così severa e contegnosa, dava in uno scoppio di risa? Imperocchè, non
c'era da sofisticarci su, gli era stato uno scoppio; argentino, se
vogliamo, ma l'epiteto non toglieva nulla al sostantivo. E proprio nel
guardar lui; e proprio nel ragionare di lui!
Che diamine le aveva detto il cagnolino inglese? Forse si era fatto
beffe de' suoi versi? O del nome di Nicolò mutato in Ariberto? O della
sua qualità di provinciale? Comunque fosse, la sua vanità aveva
toccato un colpo profondo; comunque fosse, poi, la bella e severa
Giunone aveva dato in uno scoppio di risa, come avrebbe fatto la più
umile, la più volgare tra tutte le donne di questo basso mondo,
poniamo la signora Giuseppina Giumella, fiorista in via Doragrossa.
S'intende che tutti questi ragionamenti il nostro eroe non li faceva
lì per lì dal suo sedile, ma per via, nel tornarsene a casa, torbido e
sbuffante come una belva ferita che si ripara nel suo covo. Là, in
teatro, fu solamente cruccioso e impacciato. Non volse più gli occhi
al palchetto di seconda fila; anzi, rannicchiatosi nella poltrona, col
collo tirato in dentro come le tartarughe e colle ginocchia alla
sciamannata contro la spalliera della poltrona che aveva davanti a sè,
rimase per tutto il rimanente dello spettacolo voltato dall'altra
parte.
Giunone non si avvide di quel broncio terribile. Anche lei, come
portavano le consuetudini della civil compagnia, dato al signorino
quell'istante di attenzione che era consentito dal discorso, non aveva
più posto gli occhi su lui.
La notte di Ariberti fu inquieta. Mulinò sul guanciale truci pensieri
e propositi di arcane vendette. Voleva salire in fama, farsi amare da
quella donna e poi disprezzarla, come aveva letto d'un eroe da
romanzo; ma pensò con ragione che queste peripezie facili a svolgersi
in una tela da romanzo, non lo erano del pari nella vita comune, dove
le signore donne sogliono curarsi poco, assai poco, degli uomini
illustri. Pei giovanotti, che si sono bene o male educati a questo
culto, studiando il _De Viris_ e la storia della letteratura, non c'è
che dire, un grand'uomo è un grand'uomo; per le donne è tutt'altro;
qualche volta, per esempio, è un noioso, e si sospetta generalmente
che prenda tabacco.
Piuttosto, avrebbe dovuto darsi alla gaia vita, diventare uno
zerbinotto, celebre per le sue avventure e per qualche elegante
capestreria. Ma di questi Don Giovanni ce n'erano già tanti in ordine
di marcia, che il nostro Ariberti correva il rischio di giunger
l'ultimo, e quando non ci fosse stato più sugo a tentare l'impresa.
Voleva una vendetta più spicciativa, lui; ma sì, pigliala! Tra l'altre
belle invenzioni, pensò di non guardar più quella donna, di andare a
farsi trappista, per raccontare la sua storia a qualche giramondo
francese, il quale vi avrebbe tessuto un capitolo d'_Impressioni_; le
quali sarebbero cadute sotto gli occhi di lei; la quale... Insomma, un
monte di scioccherie, sulle quali si addormentò finalmente, ma per
sognare di guardate superbe e beffardi scoppi di risa.
Il giorno dopo era venerdì, e quella sera il teatro Regio era chiuso.
Giorno nefasto! Ariberti non si accostò nemmeno all'atrio
dell'università; ingoiò dell'assenzio, bevanda de' forti, e scrisse a
sfogo un centinaio di giambi. Venne il sabato e tutta la sua rabbia
era smaltita; non gli era rimasto nel cuore che un dolor sordo, che io
paragonerei volentieri a quello del mal di denti quando è per
andarsene, se non temessi di farmi mettere al bando dalle anime
innamorate. Quella sera il teatro era aperto, anzi v'era spettacolo
nuovo, e il gran concorso degli spettatori, collo scintillìo di tutte
le stelle di prima e di seconda grandezza sul meridiano del Regio,
oscurò la luce tapina di quel povero satellite che si chiamava
Ariberti. La metafora vuol dire che la marchesa di San Ginesio non
mostrò di avvedersi che egli fosse al mondo. Rinunzio a descriver la
notte; _animus meminisse horret, luctuque refugit._
Venne la domenica. Ma le domeniche la marchesa non andava a teatro,
salvo che in certi casi eccezionali. E quella sera il caso eccezionale
mancava; nè l'Ariberti poteva gloriarsi di esserne lui uno. Gli
bisognò dunque aspettare il lunedì sera. Ma ohimè! per quanto lo
spettacolo non avesse più il pregio della novità e la sala non
offrisse più le distrazioni dell'altra volta, madonna non pose mente a
lui, nè si accorse de' suoi atti, o delle sue giaculatorie, rincalzate
dal più operoso binocolo che uscisse mai dalle vetrine di Fries.
Come fare a destar l'attenzione di quella superba? L'Ariberti avrebbe
rotto volentieri un bracciuolo della poltrona, o invitato ad alta voce
il contrabasso a scorciare di due palmi il braccio del suo molesto
istrumento. Fece in cambio la ragazzata di applaudire una seconda
ballerina di contrattempo, e senza che un cane gli tenesse bordone.
Lo zittirono, com'era naturale, e tutti gli sguardi si volsero a lui,
che si provò a star duro come un milorde inglese, quantunque si
sentisse venir rosso fino alla radice dei capelli. Per altro, non andò
guari che dovette allibire, avendo veduto con quella benedetta coda
dell'occhio che la signora, seguendo il moto delle teste, aveva posto
lo sguardo su lui e lo considerava coll'aria attonita di chi non
capisce la ragione di un atto, o di una parola, che potrebbe anco
esser l'atto, o la parola di un pazzo. Questo, nella sua foga
giovanile, non aveva preveduto l'Ariberti; il quale giurò in cuor suo
di non far più capo a così eroici spedienti.
Finito il ballo, che gli parve assai lungo, uscì dal teatro, senza
volerne saper altro. Voleva in quella vece andare al caffè, e bere del
pònce. Nel vestibolo incontrò il conte Candioli, che scendeva allora
dalla scala dei palchetti.
--_Arrêtez donc? Où diable courez-vous si vite?_--gli gridò il contino
alle spalle.
Ariberti lo avrebbe mandato lui al diavolo; ma bisognava adattarsi
alla necessità e far bocca da ridere.
--Vo a prender aria;--rispose egli, dopo aver stretta la mano che il
signor conte si degnava di porgergli.
--Aspettate quella della prima donna, perbacco!--sclamò il Candioli,
felice d'avere imbroccato un bisticcio.--Il terz'atto è il più bello
dell'opera.
--Ma io, veramente....
--Sì, capisco--interruppe l'altro ridendo;--voi andate ad appostarvi
sull'uscita del corpo di ballo. _Avouez-le, heureux fripon_; voi
aspettate la piccola Diavolina.--
Diavolina era il nome che portava nel ballo la danzatrice «di rango
italiano» applaudita pur dianzi dall'Ariberti.
--Io? Non la intendo;--diss'egli confuso.--Andavo a bere un pònce; ed
anzi, se il signor conte vuole onorarmi...
--Grazie, non posso. Questa sera son di servizio; ho da accompagnare a
casa la baronessa Vergnani, che ha il marito in missione a Monaco e
che offre un tè ai suoi cavalieri di quest'inverno. _Vous voyez ça
d'ici_; Penelope che convita i Proci! Ma a proposito della piccola
Diavolina, che diamine v'è saltato in mente, mio caro, di applaudirla
a quel modo? Siete il suo _valet de coeur_?
--Che! non la conosco neanche per prossimo.
--Ah, meglio così; perchè, a dirvela qui _entre nous deux_, quella
piccina non val proprio nulla. E poi c'è il suo re di danari, il
cavaliere di Grugliasco, che ve la contenderebbe _à outrance_.
Intanto, vedete, voi ve ne siete fatto un nemico mortale, poichè con
quell'applauso avete esposta la sua bella a pigliarsi dei fischi.
--Ah sì? Non me ne importa proprio un bel nulla.
--_Prenez garde!_ Il cavaliere passa per la prima lama di Torino.
--Le ripeto, signor conte, che ciò non mi fa caldo nè freddo. Col mal
umore che ho in corpo, la romperei anche con il gran lama del Tibet.
--_Pas mal, pas mal!_--disse Candioli, con un cenno del capo che
indicava il buongustaio.--_Mais quelle mouche vous a piqué?_ Sareste
in collera con Giunone?--
Ariberti si rabbruscò a quel ricordo dei loro discorsi di caffè.
--Le ho già detto, signor conte, che in tutta quella chiacchiera del
Vigna non c'era una parola di vero.
--Eh via! Non sofistichiamo. Se non c'era allora, ci può essere
adesso. L'altra sera vi ho colto in flagranti di contemplazione.
--Sì, non lo nego, l'ho guardata;--balbettò l'Ariberti, confuso;--ma
come ne ho guardate tante altre, e non ci sono più tornato.
--Davvero?
--Glielo assicuro.
--_Tant mieux!_ Mi pare di avervelo già detto; è una donna troppa
fredda. _On ne lui connait pas la moindre aventure._
Quella frase, buttata là a caso dal contino, suonò dolcemente
all'orecchio d'Ariberti. Egli, per vero, non avrebbe saputo dirne il
perchè, quando pure si fosse fermato a pensarci; ma provava una certa
consolazione a sentire che quella superba donna, la quale rideva di
lui, facesse piangere gli altri; che certamente erano in molti a
sospirare per lei.
E tuttavia, quella risata gli stava sempre sul cuore. Avrebbe voluto
chiederne al conte, e saperne, come suol dirsi, l'intiero. Ma sì, per
riuscire al suo fine, gli sarebbe bisognato scoprirsi troppo,
confessare ch'era stato tutt'occhi per la marchesa, che si era
avveduto dall'accenno a lui, e via via tutta una filatessa di cose da
non dirsi al Candioli. E poi, anche disponendosi a ciò, il nostro
provinciale non avrebbe saputo come prenderla.
Così avvenne che rimanesse colla voglia e colla stizza, non bene
affogate più tardi nel pònce, che fu ad un pelo di scottargli il
palato. Di tornare in teatro, dopo quella memoranda impresa dei
battimani, non sentiva più il desiderio. Anche quella vergogna gli
stava sul cuore, e in quel momento poi, anche la marchesa gli era
venuta in uggia, per quella sua attonita e altezzosa guardata.
A farla breve, il nostro innamorato era in quella sera un tal misto di
contradizioni, che io rinunzio a descriverlo, per non sembrarvi più
matto di lui.
In casa, dove finalmente si ridusse colle sue stravaganze, lo
aspettava una novità. Sul suo tavolino da notte, appoggiata al
piattello del candeliere perchè avesse a dargli subito nell'occhio,
stava una lettera per lui. La soprascritta, di mano evidentemente
femminile, oltre la calligrafia poco sicura dimostrava un'ortografia
male in gambe. E non era qui tutto, poichè l'Ariberti nel rivoltare la
lettera, vide che era sigillata colla metà d'una volgarissima ostia.
--Chi diavolo ha potuto scrivermi?--domandò mentalmente a sè stesso.
Al nostro eroe era passato per la fantasia un nembo di lettere
profumate in carta di seta, collo stemma impresso a colori sulla
ripiegatura, e con una mano di scritto affilettata all'inglese; sogni
tutti e desiderii della sua giovinezza precoce. Ed ecco, gli capitava
in quella vece alle mani una letteraccia in carta comune, mal
ripiegata, peggio sigillata, e probabilmente piena di scarabocchi, sul
fare di quelli che la soprascritta portava ad insegna.
Basta, non è tutto oro nel mondo, e Ariberti doveva contentarsi per
quella volta agli spiccioli di rame. Chi sa? poteva anche essere oro
misto. Imperocchè dopo tutto ci son pure delle care e belle donnine,
che hanno una brutta calligrafia e che suggellano le lettere
coll'ostia.
Il giovine aperse tra rassegnato e curioso quella che gli mandava per
allora il destino. Essa incominciava «illustrissimo signor Riberti»
che gli fece di scoppio «_rizzar le chiome sul crin_», come cantò
elegantemente un poeta di mia conoscenza.
Oramai, non c'era più da sperare. Ariberti corse cogli occhi in fondo
alla lettera. E qui, s'egli avesse avuto la memoria più pronta, non ci
sarebbe stato neanche da stupirsi. La firma era quella della «sua
devotissima serva, Giuseppina Giumella» di quella fiorista in via Dora
Grossa e pigionale della signora Paolina, in via degli Argentieri, che
i lettori conoscono.
Il primo atto che fece egli al leggere quella firma, voleva dire: che
nome prosaico! chi sarà mai questa devotissima serva? E stava
rigirandosi il foglio tra le dita, ma senza cavarne un costrutto.
Laonde, si appigliò allo spediente più ovvio, che era quello di
leggere, o, per dire più veramente, di decifrare quei geroglifici.
La signora Giuseppina lo ringraziava del bene che aveva avuto da lui e
giurava che gliene sarebbe stata riconoscentissima «fino all'estremo
anelito»; la qual frase faceva testimonianza d'una certa coltura
letteraria, raspata nei libretti d'opera. Finiva pregandolo caldamente
a voler passare da lei, per una cosa di molta importanza che aveva a
dirgli.
Ariberti si ricordò allora della pigione pagata, e gli tornò anche in
mente, sebbene veduto alla sfuggita, il tipo della ragazza che aveva
occupato l'antico domicilio di Filippo Bertone.
Ma che cosa voleva costei? La vanità nascente non permise al giovine
di dare al fatto la spiegazione più naturale. Di certo, quella ragazza
gli aveva a parlare per conto d'altrui, e molto probabilmente d'una
donna. A quella supposizione che gli faceva intravedere un intrigo
donnesco, si sentì battere il cuore. Infatti, e non poteva esser
proprio così? Non faceva essa la fiorista in uno dei più riputati
negozi di Torino, dove certamente praticavano le più eleganti signore
della città?
Di questa guisa, tra l'immagine della marchesa e quella di Giuseppina
Giumella, che la sua ferace fantasia accoppiò per alcuni momenti in un
medesimo intrigo, tra gli zitti della vigilia e la visita del giorno
imminente, il nostro eroe dormì poco e balzò dal letto più presto del
solito.
Quella mattina si vestì con una ricercatezza che mai la maggiore, si
profumò, si lisciò un'ora allo specchio, come se si fosse trattato di
un ripesco amoroso. Si è detto che ogni donna, alle sue ore, è un
pochino civetta; ma io vi so dire che l'uomo è un civettone
senz'altro. Il mio eroe uscì di casa azzimato come un vero damerino e
si avviò verso quella benedetta strada degli Argentieri, che gli
pareva tutt'altra da quella di prima. Salì le note scale con un po' di
rimescolo nel sangue; chè non si era mai trovato fino allora in un
caso simile. Per altro, siccome non era un andare alla morte, si fece
animo come potè, e ravviati colla mano i morbidi capegli sul fronte, e
tirate due punte, o per dir meglio, due ombre di baffi, diede una
scossa al campanello che sapete.
L'uscio si aperse prontamente, e la signora Giuseppina Giumella, fatto
entrare il visitatore, fu pronta del pari a richiuderlo. Certo ella
era stata in ascolto colla mano sul catenaccio, e avea fretta di
chiuder quell'uscio, perchè quella curiosaccia della signora Paolina,
facendo capolino dal suo, non vedesse lo studente. Anche lei era
vestita con una certa attillatura, e i suoi capegli biondi, indocili
al pettine, apparivano assettati con cura. Ed anche lei si vedeva
confusa, e dopo avergli additato una scranna presso l'abbaino, stette
lì cogli occhi bassi e in silenzio, quasi non sapesse neppur lei da
che parte incominciare.
C'era, a diportarsi in tal modo, il suo bravo perchè. L'accorta
ragazza voleva piantare un chiodo, e le premeva di non parergli
sfacciata. Dai discorsi della padrona di casa, aveva fiutato subito la
selvaggina e non voleva lasciarsela fuggire di mano. C'era di mezzo un
certo giovinastro, studente di medicina, frequentatore di bische, il
quale non le avrebbe anche levati quei pochi che ella guadagnava col
suo lavoro di tutta la settimana. Ora, senza contare ch'ella era già
stanca di quell'arnesaccio e lo avrebbe volentieri mandato a quel
paese, la fiorista cercava un'anima gentile, un cuore ben fatto, che
sapesse intendere il suo e le prestasse lì per lì una cinquantina di
lire. Come si vede, era modesta ne' suoi desiderii, e una così piccola
somma l'avrebbe trovata soltanto a scendere in istrada per chiederla
al primo che fosse passato di là. Ma questo forse non faceva comodo
alla signora Giuseppina. Ci aveva il ricordo fresco della cortesia
d'Ariberti, cortesia fatta senza pur conoscere a chi la usasse. E
questo era un precedente degno di nota.
Donde il proposito fatto di rivolgersi a lui e il bisogno, se voleva
riuscire nell'intento, di mostrarglisi amabilmente confusa.
Ariberti fu quello che doveva essere in una simile occasione; cioè a
dire un pretto collegiale. Le vide i lucciconi sugli occhi e non seppe
resistere. Certo, egli cadeva un po' giù dalle sue prime illusioni. Ma
la signora Giumella era tanto graziosa, a quel lume mattutino! E poi,
non rideva di lui, come quell'altra! Infine, chi sapesse da quali
piccole cause dipendono spesso gli atti più rilevanti di un' uomo!....
Fo punto, perchè credo che la cosa sia stata già detta e stampata da
Panfilo Castaldi in poi, almeno un migliaio di volte.
CAPITOLO VI.
Dove s'illustra il motto: "amici da starnuti" e si fanno anche due
preziose conoscenze.
Una mattina di gennaio il contino Candioli se ne stava ritto e
impettito davanti allo specchio, vestendosi comodamente alla vampa di
un buon fuoco che scoppiettava allegro nel suo quartierino, posto ad
un piano più su di quello che abitava S. E. il conte padre. Si vestiva
di mezza parata, per andare all'università, ma la testa era già stata
a lungo nelle mani del cameriere, il quale l'avea ridotta quel
portento di bellezza che sapete.
Levatosi l'accappatoio, che lo rendeva abbastanza ridicolo, ma che gli
era stato necessario poc'anzi per l'acconciatura del capo, il
signorino indossava una sottoveste di stoffa inglese tutta bioccoli
come il mantello d'un can barbone, e vi gittava leggiadramente su la
catenella dell'orologio, allorquando rientrò il cameriere.
--_C'est toi, Lafleur?_--diss'egli, vedendo riflettersi nella spera la
faccia tonda e spelacchiata del servo che si lasciava chiamare con
quel nome da commedia.--Che cosa vuoi?
--C'è in anticamera un signore che domanda di parlare al signor conte.
--Ha detto il suo nome?
--Sì, signor conte. È il signor Ariberti.
---_Que diable?_ a quest'ora!--esclamò il conte, facendo un gesto
d'impazienza.--Ma tu gli avrai detto...
--Che il signor conte si sta vestendo per uscire. Ma egli mi ha
risposto che è amicissimo del signor conte, che ha da parlargli di
cosa urgente per lui, e che certamente, udito il suo nome, il signor
conte lo farebbe entrare.
--_Mon Dieu, quel ennui!_ Ed io che prima di andare all'università
volevo passare da piazza San Carlo, per chieder notizie della
baronessa!...
--Se il signor conte lo comanda, gli dirò che è aspettato da sua
Eccellenza, prima di uscire, e che non ha un minuto da perdere.
---No, no;--disse il giovane patrizio con aria di
rassegnazione;--_exécutons-nous puisqu'il est ici._ Fallo entrare.--
Il cameriere uscì, dopo avere aiutato il suo padrone a infilare un
soprabito turchino, mostreggiato di velluto.
--_Eh bien, arrivez donc, mon cher!_...--gridò il contino, udendo il
passo di Ariberti sulla soglia.
--_Quel bonheur de vous voir!_... Ma che avete?--soggiunse tosto,
mutando idioma ed accento.--Siete pallido come un moribondo.
--Signor conte,--disse Ariberti, con aria abbattuta,--c'è di peggio;
sono un uomo morto.
--_Diable!_ E che cosa vi è intervenuto?
--Che sono stato insultato, provocato a duello ieri sera.--
Il conte Candioli si rizzò nobilmente sulla persona, inarcò le ciglia
e stette nell'atteggiamento dell'Apollo di Belvedere, guardando il suo
interlocutore.
--_Il faut se battre;_--sentenziò egli poscia, con gran sicumèra.--È
la mia opinione.
--Capisco;--rispose Ariberti;--e non è difatti per questo che io...
Insomma, sono dispostissimo ad andare sul terreno, quantunque io non
abbia mai tenuto arma in pugno....
--Male!--interruppe quell'altro.--Pigliate esempio da me, che mi
esercito nel maneggio delle armi ogni giorno.
--Ella ha ragione;--disse Ariberti.--Comincio a capire che bisogna
tenersi preparati sempre a respingere un insulto, o un atto di
prepotenza del nostro simile. Ma, lo ripeto, non è per questo che io
ero venuto da Lei; bensì per un'altra faccenda che mi mette in
pensiero. Non ho ancora potuto trovare due padrini da poter mandare al
mio avversario. Vigna e Balestra non se ne intendono affatto. Ferrero
si schermisce, mettendo innanzi le sue grandi occupazioni. Sono andato
a cercar d'altri, ma non li ho trovati in casa. Ed ecco perchè son
venuto ad importunar Lei, signor conte, che mi ha sempre dimostrato
tanta benevolenza. So bene che non dovrei incomodare un suo pari, ma
pensi a mia scusa che non ricorro al più autorevole, se non quando i
meno mi abbandonano.
--Ah sì.... grazie--balbettò il contino, impacciato.
--Ma vediamo prima.... consideriamo... Infine, di che cosa si tratta?
--Ecco qua. Devo premettere che ho conosciuto, or non è molto, una
povera ragazza....
--Ci siamo; _une amourette!_
--No, non c'è nulla di questo;--disse Ariberti, facendosi
rosso.--Quella poverina mi aveva toccato il cuore colle sue disgrazie,
e mi accade di farle servizio una prima volta. L'avevo conosciuta per
caso, e fu ella che domandò di rivedermi, per chiedermi dell'altro,
che non mi diè l'animo di ricusare.
--Fin qui non vedo niente che meriti una riparazione d'onore;--notò il
Candioli, con un burlesco sussiego.--_Allez toujours!_
--Così ero entrato in relazione con quella giovane, che fa la fiorista
in via Doragrossa, e, tra un servizio chiesto e un servizio reso, Ella
mi intenderà, ho dovuto rispondere a qualche sua lettera.
--Le avete scritto?
--Sì, cinque o sei volte.
--Malissimo! Non scrivete mai lettere! Imitate Carlomagno, che non ne
scrisse mai, _et pour cause!_--
Ariberti, tutto pieno de' sopraccapi com'era, non ebbe agio di gustare
l'arguzia.
--Ora,--ripigliò il nostro eroe,--egli sembra che la ragazza ci avesse
un cugino, diventato tenero tutto ad un tratto della parentela, il
quale ha trovato le lettere mie e gli hanno preso le furie.
--Un cugino!--esclamò il Candioli.--Fosse almeno un fratello! E come
si chiama questo cugino? Donde viene? Che cosa fa?
--Che so io? È un certo Forniglia, o giù di lì; studente di medicina,
a quanto dicono, ma che all'università non si è mai visto. Ferrero
dice che è un giovinastro di bassa mano, frequentatore di bische;
insomma un mascalzone. Contuttociò, egli ha trovato due persone
pulite, almeno in apparenza, che son venute a propormi un certo
dilemma....
--Sentiamo il dilemma.
--Eccolo qua. Pretendono che io abbia fatto perdere il suo buon nome
alla ragazza. Una fiorista, noti, una fiorista che sta da sola in una
camera d'affitto, in via degli Argentieri! E per questo mi mettono
davanti l'_aut aut;_ o sposare la cugina del signor Forniglia, o
battermi con lui all'ultimo sangue. Di qui non si esce. E adesso Lei
capirà, signor conte, che io non potevo esitare nella scelta. Lasciamo
stare che son figliuol di famiglia e sottoposto alla patria potestà.
Ma non si può ammettere nemmeno per celia che io sposi la signora
Giuseppina Giumella, una ragazza che vive da sola in Torino, che tira
stoccate alla mia borsa, e che tutto ad un tratto mi diventa una santa
innocentina, con tanto di protettore da fianco.
--Sposarla! _Mais pas le moins du monde, parbleu!_
--Or dunque, venendo alla conclusione, i padrini di questo signor
Forniglia mi hanno aspettato iersera sull'uscio di casa mia, dopo il
teatro. Ed io ho dovuto prendere appuntamento per quest'oggi, sul
mezzodì, al caffè dell'Aquila, dove si sarebbero abboccati coi miei
padrini.
--Se riuscirete a trovarne!--disse gravemente il Candioli.
Ariberti lo guardò istupidito.
--Eh, difatti,--soggiunse egli dopo un momento di pausa,--finora non
ne ho trovati; ma sperava che Lei...
---_Mon cher,_ che cosa domandate voi mai? Io non commetterò mai la
sciocchezza di consigliarvi un duello, in queste condizioni.
--Ma poc'anzi....--entrò a dire peritoso l'Ariberti.
--Poc'anzi, era un altro paio di maniche. Qui c'è un cugino.... che
non dev'essere un cugino. _Ça sent le chantage,_ il ricatto. E volete
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