La notte del Commendatore - 05

malizioso ed ingenuo.--E poi, finita la stagione teatrale...
--Ne è cominciata un'altra ad un teatro di prosa. I teatri di Torino
io li ho girati tutti, e qualche volta tre in una sera, per veder di
trovare la mia bella Giunone. In queste corse a teatro c'è tutta la
mia storia di cinque o sei mesi. Poi è venuto il mese di studiare, per
prepararmi all'esame; poi le vacanze... ed ora... ed ora capirai che
mi sapeva mill'anni di rivedere Torino.
--Per correre sotto le finestre della signora... Giunone.
--Non so dove abita.
--Bravo! Sei molto avanti.
--Ma che farci? La vedevo sempre al Regio e ci volle un secolo perchè
sapessi il suo vero nome. Sulle prime non era dentro di me che un
pochino di curiosità artistica, o estetica, se ti piace meglio. Non
avevo ricevuto dalla sua bellezza che una impressione passeggera, nè
più, nè meno di quella che avrebbe potuto far su te. Anche tu, vedendo
una bella signora, avrai detto qualche volta a te stesso: «ecco una
bella donna», senza bisogno di andare più in là.
--Certamente;--balbettò Filippo, mentre si avvicinava al balcone, col
pretesto di strappare due foglie ingiallite ad una rosa delle quattro
stagioni;--senza andare più in là.
--Orbene, io che non ci vedevo un pericolo al mondo, guarda oggi e
guarda domani, tunfete! ci sono cascato. Innamorato, Filippo mio,
innamorato morto. Il guaio si è che, quando me ne avvidi, ero
diventato timido come un coniglio. Canzonami, ma la è così, come io te
la dico. Ti basti che voltavo gli occhi da un lato, o li piantavo a
terra, quando mi pareva di veder volgere i suoi dalla mia parte, e che
mi facevo del color della brace, quando per caso il suo binocolo si
appuntava su me. All'uscita, ogni sera, facevo il proponimento di
fermarmi, per vederla passare. Vuoi credere? Ogni sera mi mancava il
coraggio. Vedevo spuntare da un pianerottolo delle scale il lembo
della sua veste, e fuggivo. Già, l'anno scorso ero ancora un ragazzo.
--E avrai più coraggio quest'anno?
--Oh sì! l'ho giurato;--rispose solennemente l'Ariberti.--Ho scritto
nelle vacanze un migliaio di versi per lei. Sono senza fallo i
migliori che ho fatto fin qui. Vuoi sentirne qualcuno?
--Anzi, mi farai un vero regalo.
--Te li dico... Ma, di grazia, lascia un pochino il tuo orto botanico.
--Sì, sì;--disse l'altro, che oramai per quel giorno disperava di
vedere la sua bella vicina.
E stette a sentire i versi dell'amico; versi abbastanza belli e più
levigati che a quell'età non si usi ancora di farli. Nicolino Ariberti
si chiariva in quelle composizioni un divoto seguace dei classici e
prometteva (poichè tutti promettiamo qualcosa da giovani) prometteva,
dico, alle lettere italiane un nuovo e felice cultore dell'epiteto. La
qual cosa, se faceva prova del suo buon gusto letterario, dinotava
meno calore d'affetto, e fors'anco d'ispirazione. Almeno, così
affermano i critici ed io ripeto. Del resto, da quel profano ch'io
sono e mi tengo, so che tra i latini, Ovidio epitetava alla grossa, e
Virgilio con giusta misura. Ora, io leggo assai volentieri Virgilio e
trovo più calore nel quarto libro dell'Eneide che in tutte le elegie
venute dal Ponto. E per venire ai moderni, dove troverete più affetto
che nel povero Foscolo? Eppure, che nobil fioritura d'epiteti, giusto
Iddio! Ma sono un profano, lo ripeto, e vi dò le mie chiacchiere per
quel poco che valgono.
--E questi versi,--disse Filippo Bertone, dopo che li ebbe uditi e
lodati,--li farai giungere a lei?
--Spero;--rispose l'Ariberti;--chi sa che non le cadano sott'occhio?
Fo conto di stamparli. Si sta fondando in Torino un giornale
letterario, artistico, e scientifico, e capirai...
--Ah, bene! E chi ci scrive?
--Io, come puoi figurarti; ma io sono l'ultimo degli ultimi. Ti dirò
dunque i nomi degli altri; Ferrero, Vigna, Balestra, il conte
Candioli.
--Candioli! Quello sciocco?--non potè trattenersi dallo esclamare
Filippo.--E di che cosa scriverà mai, il signor figlio di suo padre?
--Note di viaggi, ricordi parigini...
--Perdinci! E con quel po' di italiano che lo ha fatto passare in
proverbio fra tutti gli studenti di rettorica del Piemonte?
--Hai ragione;--disse l'Ariberti ridendo;--ma il conte Candioli
scriverà a dirittura in francese.
--Eh, in questo caso,--notò Filippo, chinando la testa--non dico più
altro. Temo soltanto una nota diplomatica del governo francese. Ma
via, il signor padre è ministro; ci penserà lui.
--Senti;--soggiunse poco dopo l'Ariberti, che era in un momento di
tenerezza per Filippo Bertone;--vuoi scriverci anche tu?
--Io? Che cosa potrei scrivere io?
--Ma... quel che vorrai. Di botanica, per esempio. Descrivi magari il
tuo orto babilonese. Come ti ho detto, il giornale è anche scientifico
e tu saresti proprio la mano di Dio.--
Nicolino Ariberti aveva parlato col cuore sulle labbra, epperciò col
desiderio di mettere l'amico Filippo a parte di quel passatempo. Non
avrebbe operato diverso, se si fosse trattato di una scampagnata a
Moncalieri, o a Superga. Ma poco stante, anzi subito dopo aver fatto
l'invito, gli venne in mente la ripulsione, sciocca, se vogliamo, ma
profonda, e tale per conseguenza, da non doversi trascurare, che i
suoi eleganti compagni sentivano pel giubbone di color tabacco. Era
là, appeso alla parete, di rincontro a lui, quel povero giubbone, e
certamente ignorava di quanta avversione fossero causa, o pretesto, il
suo colore, il suo taglio e la sua antichità venerabile.
Ora, per Nicolino Ariberti, lo accorgersi di aver fatto una papera e
il pensare allo scampo, se gli riusciva di trovarlo, furono un punto
solo.
--Mi passi i tuoi manoscritti,--soggiunse egli, a modo di
conclusione,--ed io li consegno al direttore... che sarà probabilmente
il signor conte Candioli. Tu sei modesto, lo so, e non ami farti
conoscere. Orbene, c'è rimedio anche a questo; tu ti nascondi sotto
uno pseudonimo. Anzi, vedi, mi par meglio così; lo pseudonimo aguzza
la curiosità dei lettori e fa anche bene al giornale, perchè,
trattandosi di materie scientifiche, la gente si metterà in capo che
abbiamo la collaborazione di qualche professore. Dunque, è intesa?
--No; non mi va;--rispose Filippo accigliato.
--Perchè?
--Perchè non amo gli pseudonimi. Lo scrivere in tal modo mi parrebbe
un lavorare alla macchia, per aspettare il giudizio del pubblico,
pronti a scoprirsi e gridare: _ecce, ad sum qui feci,_ se il lavoro
piace, o a sconfessarlo, e a dir corna dell'autore, se quel lavoro è
riuscito e giudicato un pasticcio. So bene che su questo argomento si
possono dire molte cose pro e contro, e che uno pseudonimo,
segnatamente nei giornali, può ammettersi come un nome di guerra.
Tuttavia, letterariamente parlando, mi pare che la comodità del
soprannome (e metti anche del nome soppresso, come si usa appunto
nella più parte dei giornali) aiuta un po' troppo a tirar giù come
viene, in quella stessa guisa che la maschera sul volto aiuta a
parlare con una libertà a cui non vorrebbe licenziarsi una faccia
scoperta. Te l'ho dunque detto, non mi va. Se scriverò qualche cosa lo
farò sempre col mio nome, umilissimo, se vuoi, ma schiettamente
disposto a pigliarsi il biasimo, come si piglierebbe la lode.
Nicolino Ariberti era sulle spine, e non sapeva più da qual banda
voltarsi.
--Del resto, ti ringrazio della profferta;--ripigliò Filippo, con
accento malinconico,--ma non potrò scrivere nel nuovo giornale. Questo
lusso non è fatto per me. Si perderebbe del tempo, ed io non posso
perdere neanche un'ora del mio. Vedi, Ariberti; io dovrò faticar molto
per vivere agli studi in Torino, e cercarmi forse qualche occupazione
fuori via, per guadagnarmi il diritto di restare. Hai da offrirmi
lavoro? Lo accetto, qualunque esso sia. C'è da far l'amanuense? Ho,
grazie al cielo, una bella mano di scritto. Far di conti? Ho
l'aritmetica sulle dita. Vegliare infermi? Non patisco il sonno.
Corregger bozze di stampa? Ho buoni occhi. E poi, non vedo che una
cosa; rimanere agli studi. Sono venuto con questa idea. Forse è una
vanità pericolosa, fatale, che è nata in capo al mio povero padre; ma
ti assicuro che dal canto mio farò ogni sforzo, ogni sacrifizio,
perchè il futuro non mi dia una smentita. Entro per la via più
difficile; non avrò gioventù; ci vuol pazienza; ed io ne ho quanto
occorre. Addio giuochi; addio passatempi; addio lieti indugi (come li
chiamava il mio maestro di rettorica) cogli amici e i compagni di
scuola; ho rinunziato a tutte queste bellissime cose, pensando alla
mia famiglia che soffre, che si priva del necessario per me. Questo,
intendiamoci--soggiunse Filippo con una grazia e con una nobiltà che
avrebbero fatto onore ad un artista più provetto di lui sul
palcoscenico della vita,--non torrà che io ti accolga volentieri
quassù. Quando vorrai studiare, o avrai qualche rammarico da sfogare
con un amico sincero, vieni liberamente; sarai il benvenuto in questo
_aereo nido_.
--Grazie!--mormorò l'Ariberti, commosso da quella triste schiettezza.
E diede frattanto un'occhiata furtiva a quel giubbone di color
tabacco, che gli parve risplendere, appiccato alla parete, più
glorioso di uno stinco di santo.
--E a proposito di nido,--continuò Filippo Bertone,--ti ricordi degli
uccellini? Nella nidiata ce n'è sempre uno, venuto su a stento, che è
l'ultimo a impennarsi e a volare, quando pure ci riesce. Piccino e
balordo ma non per sua colpa, lo chiamano comunemente la cria, Qualche
volta il poveretto non vince l'avversa fortuna, e muore nel nido,
abbandonato dalla madre, che non ha potuto addestrarlo al volo e che
ha fretta di portare via i suoi fratellini, nati tutti vitali. Farò
anch'io questa fine? Non lo so; ma mi par di poterti dire che questo
nido è fatato; o sarà il mio trampellino, per ispiccare il salto, o
sarà la mia tomba.--
Così parlava Filippo Bertone. Nicolino Ariberti avrebbe voluto
dire qualcosa, per consolare l'amico; ma pensò giustamente che
quello non aveva bisogno di consolazioni, come non aveva bisogno
d'incoraggiamenti. Son rari, ma pure qualche volta si trovano,
questi uomini privilegiati dal destino, solitarî sventurati e
sereni, che possono dar consiglio altrui, ma non riceverne per sè.
Si direbbe che cosiffatti caratteri sfuggono alla legge di
compensazione, che fa di tutte le esistenze una catena e di tutte
le creature un aiuto scambievole; tanto essi appariscono bastare a
sè medesimi, anco nella più umile delle condizioni sociali, e
trovare in sè stessi ogni cosa, non esclusi i balsami per le
proprie ferite, come per quelle degli altri.


CAPITOLO V.
Della gloria di Ariberto Ariberti e di qualche sciocchezza ch'ei fece.

Un mese dopo questi discorsi e gli altri del caffè dell'Aquila, Torino
aveva la sua meraviglia, come Rodi, come Efeso, come Tebe, e come
altre città ugualmente fortunate nei tempi antichi. Era venuto alla
luce il primo numero del giornale _La Dora_; il più bel saggio
d'ibridismo che si vedesse mai nel regno animale. Ah no, scusate,
volevo dire nella repubblica letteraria.
C'era in quel primo numero tutto il banno e l'eribanno della
scolaresca del primo anno di legge, con qualche rappresentanza delle
altre facoltà. Il programma, intitolato modestamente _Nos intentions_,
era stato scritto dal Ferrero in italiano e voltato in francese dal
conte Candioli, che gli aveva dato (giusta la confessione del suo
autore) una _tournure_, una _noblesse_, un _cachet_, di cui difettava
pur troppo il testo italiano. Il sullodato Candioli aveva poi
cominciato la stampa del suo _Voyage au pays des rêves_, che era il
racconto della sua gita a Parigi. Il sullodato Ferrero stampava il
primo capitolo de' suoi _Tre mesi sull'Arno_, nel quale da autore che
ama i suoi comodi, egli giungeva a mala pena a Viareggio. Del Balestra
c'era una canzone; del Vigna una cicalata intorno agli amori di
Tibullo, con citazioni analoghe. E non mancava neppure quello studio
critico sui Nibelunghi, che il Vigna aveva tolto per roba da mangiare.
L'Ariberti dava fuori una trilogia lirica; nientemeno! La prima parte
s'intitolava: _Sotto i salici_, e cantava amori contadineschi; la
seconda: _Sotto i pioppi_, e cantava amori in villeggiatura; la terza:
_Sotto i portici_, e l'amore, come si vede, da questa terza categoria
d'alberi, entrava a dirittura in città, facendo anche una scappatina
nella seconda fila di palchi del teatro Regio, per ossequiare la bella
marchesa di San Ginesio.
Venendo ora ai nomi, alcuni firmavano i loro scritti, altri no. Il
Candioli, per esempio, si nascondeva dietro un _Comte de***_; ma
trovava il modo di dire cinquanta volte in un giorno che le tre stelle
della _Dora_ non avevano altro scopo fuor quello di usar riguardo ad
una famiglia _qui ne s'était jamais encanaillée dans les lettres._
Quanto al poeta della trilogia, egli firmava per la prima volta in sua
vita; Ariberto Ariberti.
Com'era andata la faccenda? Nicolino era stato persuaso a
sbattezzarsi, da un discorso dell'amico Ferrero.
--Sentimi;--gli aveva detto costui;--vuoi salire in fama di poeta? Non
basta esserlo, bisogna parerlo. Ora, quel tuo nome di Nicolino non è
abbastanza poetico; ti dirò anzi schiettamente che non lo è punto. Un
poeta ha da avere un bel nome, che i giovani e le donne possano
ripetere volentieri. Vedi, per esempio, il Foscolo. Si chiamava Nicolò
come te. Nicolò Foscolo! Ti pare che quel nome potesse andare, pel
futuro cantor dei Sepolcri? A lui per il primo non parve affatto,
poichè incominciò un giorno dal chiamarsi timidamente, e come per via
d'esperimento, Nicolò Ugo Foscolo; indi, buttata la parte inutile,
trovò la vera armonia del suo nome, «Ugo Foscolo», cinque sillabe che
non morranno mai più.--
Quelle ragioni erano sembrate il _nec plus ultra_ a Nicolino Ariberti,
che aveva subito pensato di ribattezzarsi a suo modo. E chi vorrà
biasimarlo del suo capriccio innocente, in un mondo che è così largo
di perdono a tante altre cose, niente affatto innocenti? Dopo tutto
questa di foggiare il nome a somiglianza del casato, è moda antica e
prettamente italiana. Per non ricordare che un esempio illustre,
citerò Galileo Galilei.
La comparsa della _Dora_ aveva fatto chiasso. Si era riso un pochino
intorno a quella novità di un giornale bilingue; e un certo
_Messaggiere_, che non la perdonava a nessuno, e neanco ai figli de'
ministri, aveva posto meritamente que' signorini in canzone. La celia
era parsa così grave, che i collaboratori della _Dora_, raccolti in
solenne adunanza al caffè dell'Aquila, avevano lungamente ed altamente
disputato, per vedere se non fosse il caso di andare a chiederne
ragione al beffardo collega. Fortunatamente per lui, prevalse l'idea
di rispondere inchiostro per inchiostro, sebbene colla giunta del sale
e del pepe, che doveva, nell'animo loro, esser peggio di un colpo di
spada.
Del resto, a far rimanere questa nel fodero, aveva contribuito
largamente la lode che, secondo il conte Candioli, era data nei
salotti aristocratici al nuovo giornale. _Il avait du premier coup
conquis sa place;_ cosa di cui non era da dubitare anche prima della
pubblicazione; ma che doveva sempre dar gusto e vendetta allegra di
certi lazzi plebei.
Soltanto una cosa dava molestia ai collaboratori della _Dora_ e ne
amareggiava un pochino il trionfo. Quel francese del Candioli era
maledettamente scorretto, ed essi da molte parti avevano udito farne
l'appunto. Per contro, il signorino sosteneva che il giornale era
tutto quanto scorretto; _faute_ d'un bravo correttore che rivedesse le
bozze di stampa. Ariberti gli teneva bordone; un correttore gli parea
proprio necessario, attento, di buona volontà, e che si contentasse di
poco, per non aggravare il bilancio della _Dora_. Questa fenice dei
correttori il nostro Ariberti l'aveva già in pronto, e, sentendosi
sostenuto dal Candioli, ne aveva anche detto il nome.
Tutti avevano fatto buon viso alla proposta, salvo il Ferrero, la cui
gratitudine perseguitava Filippo Bertone fino al punto di non
lasciargli guadagnare venti lire al mese. S'intende che Ferrero
parlava in nome dell'economia. C'è sempre una ragione onesta, per
commettere una bricconata. Che diamine! L'economia insegnava di andare
cauti fino a tanto non ci fosse la vendita del giornale in rispondenza
delle spese di stampa. Soltanto quando fosse raggiunto quel
modestissimo scopo, si sarebbe potuto prendere il correttore, ed anche
pagarlo un po' meglio; che quanto a lui lo avrebbe voluto coi fiocchi,
dovesse anche costare un centinaio di lire. Frattanto, poichè non
potevano spendersi neppure le venti, si lasciasse la proposta in
sospeso e ognuno dei collaboratori pensasse a correggere con maggior
diligenza le sue bozze, anche a tornarci su due o tre volte.
Per altro, il conte Candioli non era rimasto persuaso, _et pour
cause_. Nel medesimo giorno egli aveva preso in disparte Nicolino...
cioè, no, diciamo d'ora innanzi Ariberto Ariberti.
--_Est-ce que votre ami Berton connait le francais?_
--Sicuramente; il povero giovane sa un po' di tutto, e quel poco lo sa
bene, come tutti coloro che hanno dovuto imparare senza maestri.
--_Eh bien_, fatelo venire domattina da me; c'intenderemo. Io non ho
pazienza a rivedere le mie bozze di stampa. _C'est une corvée, et mon
état est de ne pas en faire._--
Da questo discorso del Candidi coll'Ariberti ne avvenne che la prosa
francese del contino nel secondo quaderno della _Dora_, uscisse
stampata in forma cristiana. Ci si mostravano poi certe frasi, ci si
rigiravano certe _tournures_, che il nobile autore non avea pur
sognato di metterci. Ma egli si guardò bene dal protestare; che
anzi!..
--_Ce pauvre Berton! mais savez-vouz qi'il a de
l'intelligence_?--aveva detto egli all'Ariberti in un impeto di
entusiasmo.
In un altro di questi lucidi intervalli, il conte Candioli, che, per
ragione della sua povera prosa, non isdegnava di salir qualche volta
le scale d'un quinto piano in via Santa Teresa, aveva perfino tentato
di far smettere a Filippo il suo venerando giubbone di color tabacco.
Sventuratamente non l'aveva pigliata pel suo verso, e si era impuntato
ad offrirgli i suoi spogli. Filippo Bertone non era orgoglioso più del
bisogno, ma non vedeva ragione di romper fede al suo povero soprabito,
per far sapere alla gente che indossava gli abiti smessi dal conte
Candioli. Quanto poi a farsene fare di nuovi, come il suo mecenate gli
propose da ultimo, profferendosi a pagarne la spesa, egli non ne
vedeva ancora la necessità. In fondo in fondo, non voleva elemosina.
Guadagnava venti lire al mese per mettere in buon francese il tunisino
del signor conte, e per allora ne aveva di catti.
Tornando al giornale, se la prosa del Candioli cominciava, a passare,
le liriche amatorie dell'Ariberti avevano dato a conoscere un poetino
di garbo, una speranza nuova della patria, un astro nascente, e tutto
quel che vorrete. Il nostro giovinetto entrava anche lui nell'orto
della fama, così fieramente custodito dai draghi della critica, e vi
gustava (dirò così per continuare la metafora seicentistica) i primi
frutti della gloria, come sarebbe quello che Orazio ha espresso in un
felicissimo verso, così recato in italiano da non so quale traduttore:
_Ir mostro a dito e udirsi dire: è desso._
Una sera, per venire agli esempi, una sera egli era al teatro Regio,
seduto nel suo scanno presso l'orchestra. Il nostro Ariberti non
poteva già più contentarsi di rimanere in platea. La cosa era buona
per un filosofo; ma per uno studente di legge, per un avvocato in
erba, non poteva più andare. A fare questo gran cambiamento nelle sue
consuetudini, mancavano, a dir vero, i quattrini; ma la necessità
rende l'uomo ingegnoso. E per comodo dello studente in angustia,
nacque lì per lì un avvocato che doveva partire da Torino, per andarsi
ad allogare non so dove, e che non poteva portar seco tutta quanta la
libreria. Gli autori utili, anzi necessari, che si potevano avere in
quella occasione e a buon patto, erano molti, da Bortolo di
Sassoferrato al Deluca, e da questo al Merlin, col Pardessus (avrebbe
detto Candioli) _par dessus le marché_. In conseguenza di questa
bella trovata erano venuti per la posta da Dogliani i denari
dell'abbonamento alla sedia chiusa del Regio. E perciò avvenne che,
quella sera di cui si parla, il sullodato astro nascente, in giubba a
coda di rondine, petto di porcellana, e cappello a stiacciata, fosse
visibile sull'orizzonte del Regio, dalle otto alle undici, in quella
che un'altra e più vivida stella sfolgorava da un palchetto di seconda
fila. Era essa, come il savio lettore avrà già indovinato, la bella
marchesa di San Ginesio; la quale, pari a tutte le belle donne
l'ultima volta che si sono vedute, era in quella sera più bella che
mai.
Unico cavaliere (essendo lo spettacolo appena incominciato,) stava nel
palchetto della marchesa di San Ginesio un signore di mezza età, che
all'aria fredda e svogliata s'indovinava essere il marito. È notevole
la cura che questi signori così largamente favoriti dal codice civile
pongono a far conoscere i loro diritti ed in pari tempo la fiacchezza
con cui sono disposti a difenderli. Pronti, ilari e pieni di
smancerie, quando vanno in giro, aliando negli orti del prossimo,
costoro vi appaiono stanchi, musoni, pieni di tedio, quando l'ufficio
della accompagnatura li trattiene per poco a quattrocchi colle dolci
metà. Quell'aria di olimpica noia par che dica alle genti: «Signori,
se credono che io ci provi gusto a star qui, s'ingannano a partito; io
mi divoro i miei proprii sbadigli, come Saturno i figliuoli. Vengano
liberamente e vedranno come piglio il portante. Animo, dunque, _en
avant les cavaliers!_»
Anche la signora moglie profitta di questo matrimoniale intermezzo,
per cento atti e vezzi che non riguardano punto il suo annoiato
compagno. Si prova due o tre volte sul cuscino; si rassetta la veste,
perchè non istia troppo tirata, e perchè faccia agli occhi dei
riguardanti un bel partito di pieghe; dà una guardata in giro alle
prime file e una sbirciata alle ultime; sorride di compassione, al
vedere qualche veste, o acconciatura, non più nuova fiammante; si
morde il labbro dall'invidia, scorgendo una collana di diamanti o un
paio di gocciole che sembrino deriderla coi mutevoli e sfolgoranti
riflessi; solleva con grazia il binoccolo incrostato di madreperla e
lo appunta su questo o su quel palchetto rivale, non senza lasciar
cadere qualche occhiata in platea e nei posti distinti, dove il suo
braccio mollemente appoggiato sul davanzale di velluto è fatto
argomento di dotte considerazioni e di ascetiche contemplazioni da
tutta una Tebaide di scapoli. Insomma, par che canti anche lei il suo
verso: «Signori, non facciano caso, è mio marito; otto anni di
matrimonio ci hanno ridotti così. Se il Codice non dicesse che la
moglie deve seguire il marito, quando egli la accompagna a teatro, lor
signori certamente non mi vedrebbero, vittima rassegnata, misurare i
miei passi su quelli del mio sacrificatore. Animo, chi si fa innanzi a
consolarci quest'ora di martirio?»
Qui per altro va fatta una restrizione. Se nel palchetto della
marchesa di San Ginesio il signore di mezza età appariva alla sua aria
svogliata il marito di quella Giunone, la signora dal canto suo non
somigliava punto a quel tipo di moglie che ho tratteggiato pur dianzi.
La marchesa di San Ginesio aveva dato a mala pena uno sguardo alla
sala, nell'atto di sedersi al suo posto, ed essendo giunta in
principio di spettacolo (cosa piuttosto rara, che molte altre dame non
avrebbero ardito di fare) era rimasta intenta alla scena, e più ancora
alla musica, senza pure voltarsi, o sogguardare colla coda
dell'occhio, al ripetuto cigolare degli usci e al consecutivo fruscio
delle sete e dei velluti, che esercitano durante il primo atto di una
rappresentazione la pazienza del colto sì, ma pur qualche volta
invelenito uditorio.
Alda di San Ginesio si curava poco del volgo profano che le stava
dintorno e lo lasciava scorgere senza un ritegno al mondo. Tale per
fermo dovette parere la regina di Cartagine a Jarba, quando costui,
alla dimanda, del suo confidente: «Qual ti sembra, o signore?» rispose
ammirato il suo metastasiano: «Superba e bella».
Difatti, ella era superba. Ma superba per vano orgoglio, o per gentile
alterezza d'animo? Questo venìa domandando a sè stesso il giovine
Ariberti, mentre, appuntando il binocolo a caso tre o quattro
palchetti più indietro, stava di soppiatto ammirando le forme
scultorie (è questa la frase moderna, e l'adopero anch'io senza
scrupolo) della sua bella Giunone, che parte emergevano e parte
trasparivano dai pizzi, dalle trine e da tutti gli altri intessuti
nonnulla, di cui si copre la bellezza, ma senza troppo nascondersi.
Verso la fine del primo atto, l'uscio del palchetto che l'Ariberti non
perdeva di vista si aperse, e il voltarsi leggermente che fecero le
teste dei coniugi verso il fondo indicò l'arrivo di un visitatore. Le
visite lassù erano la gran seccatura del nostro innamorato, che vedeva
la marchesa costretta a rimaner lungamente colla faccia rivolta
dall'altra banda, le spalle contro la parete, e la persona quasi
nascosta a lui nella penombra del palchetto. Inoltre, chi erano essi e
con quali intenzioni andavano, tutti quei bene inguantati Achei, a
intrattenerla mezz'ora per ciascheduno di cento sciocchezze e a
respirare la loro parte d'aria a due spanne dalla sua bocca? Fossero
state dame, alla buon'ora; ma uomini!
Per questa volta, sebbene si trattasse di un uomo, l'Ariberti non uscì
fuori dai gangheri. Era apparsa dal fondo e si illuminava beatamente
in mezzo a quelle dei due coniugi la faccia gloriosa del contino
Candioli; un paio di baffi biondi che andavano a smarrirsi nella
cascata di due ventole bionde, uscenti senza soluzione di continuità
da una bionda zazzera, spartita a mezzo il cranio e tagliata sui lati
a punta di spazzola: poi, nei vani lasciati da questa ricca
vegetazione di canapa, un fronte piccino e un paio d'occhietti grigi,
un naso e un mento angolosetti anzi che no; a farla breve, un bel tipo
di cagnolino inglese, che, coll'aiuto del parrucchiere e del sarto, ma
più ancora per aver noi fatto l'occhio alla estetica nuova, può anche
dirsi ai tempi nostri, un bel giovine.
E questo bel giovane, entrato pur dianzi nel palchetto della marchesa
di San Ginesio, non aveva, siccome ho raccontato, fatto dar ne' lumi
il nostro Ariberti. Egli ricordava tuttavia due sentenze ed una
promessa del conte Candioli. Le sentenze dicevano: «_froide, ainsi que
le sont généralement toutes les grasses; taille de guêpe et pied
d'Andalouse, voilà comme je les aime_». La promessa poi era questa;
«non dubitate, Ariberti, noi rispetteremo la vostra Giunone». Ora, se
la promessa non lo raffidava poi troppo, ben gli parevano sufficiente
malleveria le due sentenze del contino, per quanto, a suo giudizio,
una fosse bugiarda e l'altra dinotasse un pessimo gusto, almeno nella
sua prima metà. Chiedo scusa alla _taille de guêpe_; non son io che
giudico in via sommaria; ho un personaggio alle mani, che pensa a suo
modo, e gli fo il dragomanno.
Il cagnolino inglese fu accolto con affabilità dalla dama e con lieta
dimestichezza dal marito. Nè poteva essere altrimenti, perchè il
contino Candioli era uno dei loro, poi il figlio di un ministro, poi
(che serve il tacerlo?) un primo Cireneo, che avrebbe aiutato il
marchese a portare per quella sera la sua croce, e fors'anco a deporla
un tratto, permettendogli di andare in un palco di bocca d'opera a
studiare più da vicino il corpo di ballo. Il marchese di San Ginesio
ci aveva due ragioni per coltivare gli studi coreografici; era marito
e consiglier comunale. Ne trovi delle altre il lettore, se queste due
non gli sembra che bastino.
Io dirò intanto che la presenza del nuovo venuto portò come un pizzico
d'allegrezza in quella musoneria maritale. Il contino Candioli, del
resto, recava nel terzetto la maggior quantità di parole. Il marchese
ad ogni tanto entrava nella conversazione con una frase, per dare lo
addentellato al suo interlocutore. La marchesa, colla testa