La notte del Commendatore - 04
--Ah, è lei, signor Ariberti? Cerca del signor Filippo?
--Sì; mi hanno detto che è giunto a Torino e venivo a salutarlo.
Credevo che fosse tornato nella sua cameretta, che gli piaceva
tanto...
--Oh, per questo ci aveva ragione;--soggiunse la vecchia.--Una camera
come quella, non fo per dire, ma non si trova in tutta la via degli
Argentieri. E difatti è venuto l'altro giorno da me per riaverla; ma
che vuole? Io già l'avevo appigionata. Colpa sua, perchè, quando è
partito l'estate scorsa, mi ha lasciato nel dubbio del suo ritorno a
Torino. È un bravo giovane, quantunque stia male a contanti, e mi è
rincresciuto di perderlo. Ma non potevo mica sacrificarmi... Capirà,
signor Ariberti: dodici lire al mese sono poco e son molto, secondo i
casi.
--Eh, capisco, dodici lire... già... sono una somma.
--Almeno per me;--proseguì la signora Paolina, Ah, se si fosse
--trattato di Lei, signor Ariberti, che ci ha i denari a palate...
--Non tanto, signora Paolina, non tanto;--gridò Nicolino Ariberti
ridendo.--Son figlio di famiglia, non lo dimentichi.
--Sicuro, e un bravo giovane, come ce n'è pochi. La non dubiti; il
signor Filippo le rendeva giustizia. Egli mi diceva sempre: veda,
signora Paolina; di tutti i miei compagni, il migliore, il più
sincero, il più studioso, è l'Ariberti.
--Caro Filippo!--esclamò egli, mentre il rimorso, di cui sanno i
lettori, gli dava un'altra e poderosa stretta.--E sa Lei almeno, dove
sia andato a mettere il nido?
--Oh, La non dubiti; appena lo ha trovato è corso ad avvisarmene.
Aspetti, ora mi raccapezzo. Santa Teresa... No, San Francesco di
Paola... Nemmeno! Di San Francesco me ne ha parlato, ma là c'era un
quartierino di tre camere, un po' caro per la sua borsa. Ecco, ora mi
ricordo; è andato proprio a stare in via Santa Teresa, la seconda casa
a sinistra; e mi pare che abbia detto il numero 4.
--Ultimo piano, m'immagino.
--Per l'appunto. Sui tetti c'è l'aria buona. Ma dopo tutto il signor
Filippo non è parso molto contento del suo nuovo alloggio. La camera è
brutta e piccola. Si figuri; un terzo della mia, e non ci ha neanche
la stufa.
--Non è poi un gran male;--pensò l'Ariberti;--avercela guasta o non
averne è tutt'uno.--
Il lettore discreto capirà che quel suo pensiero il nostro adolescente
se lo tenne gelosamente per sè. La signora Paolina credeva nella bontà
della sua stufa e a screditargliela le si sarebbe data una stilettata
nel cuore.
--Grazie, signora Paolina;--diss'egli in quella vece.--Mi sa mill'anni
di vedere Filippo. Corro in via Santa Teresa.
E fatte altre poche parole di commiato, il nostro Nicolino infilò le
scale, dopo aver risposto con una scappellata al gentile saluto e al
profondo inchino della signora Giuseppina Giumella, fiorista in
Doragrossa, a cui certe parole della padrona di casa avevano dato un
gran concetto delle ricchezze di quel timido visitatore.
Per altro, Nicolino Ariberti non la passò così liscia, come potrebbe
argomentarsi da questo commiato. A mezzo le scale fu ancora trattenuto
da una chiamata della signora Paolina, che aveva dell'altro ancora da
dirgli. Laonde si fermò ossequente al suono delle venerande ciabatte,
ed aspettò che avessero fornita tutta la distanza che già era tra lui
e l'ultimo piano.
--Scusi, sa;--gli disse la megèra, abbassando la voce con aria di
mistero, quando fu giunta sul pianerottolo dov'egli era rimasto
inchiodato;--vorrei pregarla di un'imbasciata pel signor Filippo. La
camera che gli piace tanto, un giorno o l'altro sarà libera. La
ragazza che Lei ha veduto non vuol rimanerci più molto. Si figuri che
siamo al venti, e non ha ancora pagato l'affitto di questo mese. Già,
se non pensa a trovarsi un benefattore, poverina, come ha da fare, con
quel gramo mestiere che ha per le mani?
--Un benefattore!--esclamò Ariberti, a cui l'età non dava di capire
alle prime.--Se posso far io qualche cosa....---
E metteva mano, così dicendo, alla borsa.
--Oh, non a me, non a me!--rispose frettolosa a quel gesto la signora
Paolina, come se si fosse scandalezzata all'idea di dover intascare la
somma di prima mano.--Se vuol fare una carità fiorita a quella povera
ragazza, ci vada lei; quanto a me, Dio mi guardi; potrebbe parere che
avessi cantato.--
Nicolino Ariberti nicchiava. Con che fronte si sarebb'egli presentato
a quella Flora cittadina, che aveva veduta a mala pena sul suo uscio,
e come avrebbe potuto dicevolmente consegnarle la tenue moneta di
dodici lire?
--In verità, non ardisco;--diss'egli, dopo essere stato un poco
perplesso.
E fu per rimettere la borsa in tasca. Ma qui la signora Paolina si
avvide di aver fatto una papera.
--Già, capisco;--ripigliò prontamente.--Lei vuol fare il bene e non
averne i ringraziamenti. Si vede proprio che ha buon cuore. Dia dunque
il danaro a me; le dirò io donde viene.--
All'Ariberti non pareva vero di cavarsela in quel modo. E alleggerito
di dodici lire, ma contento di avere aiutato quella povera figliuola,
che non ci aveva lì per lì un benefattore a darle una mano, se ne andò
in traccia di Filippo Bertone.
Per altro, egli non doveva sfuggire alla gratitudine della signora
Giuseppina Giumella. Il bene che si fa, non si perde. Anche il nostro
Nicolino Ariberti se lo avrà a ritrovare tra' piedi. Seguitiamolo
frattanto in via di Santa Teresa.
Filippo Bertone era andato ad abitare laggiù. La rondine, al suo
ritorno da quelle parti, aveva trovato occupato il vecchio nido ed era
andata più lungi a fabbricarsene un altro. L'altezza di questo era a
un dipresso la medesima, cioè sotto le travi del tetto. E non è questa
forse la postura più acconcia pei nidi? Dopo tutto, il primo nido di
Filippo Bertone dava sopra una sequela, anzi una confusione, di tetti
più bassi; laddove il secondo dava in una corte abbastanza spaziosa,
dov'erano certe scuderie, e vedeva le spalle d'una gran casa, che
poteva, dall'altra banda, pretendere al nome e alla dignità di
palazzo.
A tutta prima, quel luogo gli era parso un po' troppo signorile e da
farlo stare in soggezione col vicinato. Ciò pel di fuori. Quanto
all'interno, la camera era più stretta, e Filippo Bertone pensava con
raccapriccio che non avrebbe potuto scaldarcisi nell'inverno, come
nell'altra in via degli Argentieri.
Il nostro Bertone ci aveva un metodo suo per riscaldarsi d'inverno.
Andava in volta su e giù per la camera, imprimendo alle braccia
penzoloni un moto isocronico che le faceva combinare ad ogni tratto in
croce di Sant'Andrea, mentre le palme andavano regolarmente a battere
sotto le ascelle. S'intende che a queste nozze non era invitato il
giubbone color di tabacco. Poverino! Un altro poco di strofinio, e se
n'andava in isbrendoli.
Filippo Bertone aveva ingegno, e il lettore ha già capito, da una
certa stoccata del Balestra all'amico Ferrero, che egli in iscuola
faceva qualche volta il lavoro suo e quello degli altri. Ma la sua
valentìa non si fermava lì; che a volte, trattandosi di broda
scolastica, anche uno sgobbone ci riesce. Filippo non era solamente un
giovine studioso; aveva, come suol dirsi, due corde al suo arco, la
svegliatezza e la costanza, due cose che vanno così raramente di
conserva nei giovani.
Come mai questo miracolo di ragazzo era nato da un umile maniscalco e
da una povera massaia di villaggio? Arcani impenetrabili
dell'esistenza, i quali, bisogna pur dirlo, sono spesso mirabilmente
aiutati dalla mancanza di svaghi d'una casa tapina e dalla fortunata
presenza d'una buona scuola di provincia.
Dopo tutto, gli è per l'appunto in provincia che si vedono di questi
prodigi. Nelle capitali (e un italiano può aggiungere eziandio nelle
metropoli) le buone scuole sono molto più rade; forse per la ragione
che il maestro non può darsi intieramente alla cattedra, essere _totus
in illa_, come direbbe Orazio, tanti sono i sopraccapi che lo
frastornano, gli svaghi che lo trattengono, le ambizioni che lo tirano
in alto. I mediocri, e spesso anche i bisognosi, ci aggiungono la cura
delle ripetizioni a casa, conseguenza e cagione a sua volta delle
distrazioni in iscuola.
Guardate in quella vece il collegio d'una città di provincia. Le voci,
i rumori, le vanità profane del mondo, o non giungono laggiù, o vi
mandano a mala pena un'eco affievolita, cioè a dire quanto basta
perchè laggiù non si credano a dirittura segregati dal mondo. E fermi
lì; il maestro non pensa che alla scuola; ci si distende, dirò meglio,
ci si sprofonda; può darsi che ci si dimentichi, può darsi anco che ci
si adiri; ma non dubitate, c'è tutto. Spesso è una vittima del cieco
caso; frate, chierico, o secolare che sia, è un ingegno che in altri
tempi avrebbe potuto dar frutti per sè, e in quella vece s'è ridotto a
far fruttificare l'ingegno degli altri. Lo si direbbe un albero che
s'adatta a far da palo, e si lascia coprir tutto dai pampini della
vite che gli s'intreccia ai rami, e si sostiene, s'innalza, si
soleggia per lui. E tuttavia, dura in quell'uomo il sentimento della
sua forza, comunque rimasta inoperosa e latente. Sansone dai capegli
recisi, aquila a cui furono tronche le penne maestre medita le grandi
intraprese, anela agli spazi lontani; e questa sua bramosìa, questo
bisogno d'altro, si apprendono allo scolaro. Un maestro cosiffatto ama
espandersi, mettere in comune co' suoi discepoli ciò che ha studiato e
ciò che viene man mano leggendo. Con chi altri potrebbe parlarne,
chetare i bollori della sua mente, avida da un tempo e riboccante di
nuovi tesori? Donde avviene che, imbevuti di quella pioggia assidua e
benefica, i giovani alunni escano dal collegio più colti e meglio
compresi della vita nuova, che non i loro compagni delle grandi città,
dove pure questa vita è pane quotidiano, aria respirabile... e chi più
n'ha ne metta.
Bisogna dire altresì che lo scolaro ha meno svaghi in provincia. La
famiglia, se egli è nato colà, il convitto, se egli c'è giunto da
fuori, hanno consuetudini patriarcali. Non feste, non teatri, non
allegri ritrovi; qualche sagra tutt'al più; riposo, non turbamento
dello spirito. Però la sua vita si raccoglie tutta in iscuola;
anch'egli è _totus in illa_. In tal guisa s'incarna il concetto degli
antichi spartani; che certo non volevano la vita chiusa del ginnasio,
se non perchè l'adolescente vi si foggiasse il suo mondo. E là i
fanciulli s'innamorano sul sodo di quello che studiano, dei greci, dei
romani, dei cavalieri e dei bardi, tutta brava gente che, usciti di
là, non troveranno più alla prima tappa, ma con cui fa bene aver
vissuto un pochino e con una certa dimestichezza fraterna. Credete che
tutte quelle larve del passato serviranno poco nel futuro? Sia pure; a
noi basta che abbiano svegliato, aperto l'animo giovanile ai concetti
del bello e del grande. E badate; se cova in quelle tenere menti una
scintilla del fuoco sacro «che il figlio addusse di Giapeto in terra»
quella salda, intensa ed amorosa preparazione della scuola di
provincia, la nutrirà, la sprigionerà, la farà divampare in incendio.
A Mondovì il giovinetto Filippo Bertone era citato come un genio
nascente. Suo padre, facendo sforzi inauditi per metter d'accordo
volere e potere, lo avea mandato agli studi in Torino. E il nostro
adolescente, che amava svisceratamente suo padre ed era al fatto dei
sacrifizi della famiglia per lui, aveva vissuto otto mesi a Torino,
cioè a dire tutto l'anno scolastico, senza oltrepassare le
quattrocento lire di spesa, tra alloggio, vitto e quel po' di bucato.
Era un miracolo di risparmio, per verità. E non si è detto ancora ogni
cosa. Su quella somma il povero studente di filosofia ci aveva fatto
anche le male spese. Verbigrazia, era andato una volta al teatro Regio
per sentire il Mosè, ed aveva pagato dieci lire un'opera di
entomologia, scompleta, se vogliamo, ma corredata di molte tavole in
rame. Imperocchè, bisogna sapere che la storia naturale era il debole
di Filippo Bertone.
Ma intanto, e con tutta la sua assegnatezza di quell'anno passato a
Torino, egli doveva accorgersi che anche quattrocento lire erano un
troppo grave sdruscio nelle entrate d'una famiglia che campava col
lavoro quotidiano e che ci aveva per giunta due fanciulle da accasare.
Ne aveva a ferrare dei muli, il povero babbo! Ne aveva a cavare del
sangue, nella sua sussidiaria qualità di flebotomo!
Pure, tanto era nel figlio l'amore allo studio, tanta era la onesta
ambizione nel padre, che questi al finire delle vacanze, gli aveva
posto in mano dugento lire, strappate a fatica da tutti i capi del
bilancio domestico, e lo aveva rimandato a Torino.
--Ci caveremo la fame coll'appetito;--aveva detto il vecchio con una
fermezza da stoico;--ma tu diventerai un gran medico.--
Il lettore di certo avrà capito che la storia naturale portava la
medicina. Del resto, il figlio d'un flebotomo doveva diventar medico,
essere il complemento del padre.
Ed era tornato a Torino, mesto nel cuore, ma pieno di buona volontà e
di coraggio. Il suo giubbone di color tabacco non gli faceva vergogna.
Gli scaffali delle biblioteche, amicissimi suoi, nel rivederlo con
quell'eterno giubbone, non glielo avrebbero mica apposto a delitto.
Quanto al sogghigno della scolaresca, non gliene importava un bel
nulla. Dopo tutto, egli era sempre così contegnoso e stava così poco
in orecchio, che le risa dei compagni non giungevano a lui.
Entrato nella capitale, che non contava più di rivedere, e presa la
sua iscrizione pel primo anno di medicina, Filippo Bertone era andato
ad ossequiare i suoi futuri professori. Si usava poco di farlo; epperò
la sua visita tornava tanto più grata a quei parrucconi, in quanto se
l'aspettavano meno. Uno di essi, buon vecchio e gran luminare
dell'arte, lo aveva squadrato ben bene dal capo alle piante, e,
vistolo così male in arnese, gli si era affezionato alla bella prima.
Anche lui, il vecchio Esculapio, venuto a' suoi tempi dalla montagna,
aveva cominciato così, e amava ricordarsene.
--Studiate;--gli disse, con un suo accento tra burbero ed
amorevole;--i poveri debbono insegnare questa virtù ai ricchi. Alla
vostra età io vivevo di pane e cacio, e il cacio me lo portavo da
casa. Per poter studiare di sera, avevo preso a pigione un sottoscala
da un ciabattino, e la lucerna posata sul suo bischetto mi dava modo
di leggere. Avete libri? No, me lo imagino. Guardate nella mia
libreria; se ci trovate il fatto vostro, servitevi pure.
Filippo Bertone, commosso da quella ruvida e schietta bontà,
balbettava alcune parole di ringraziamento.
--No, lasciate andare;--ripigliò il vecchio professore.--Farete lo
stesso voi, quando verrà la vostra volta coi giovani, e tutti pari.
Un'altra cosa; son solo, e la domenica pranzo, anzi no, desino alle
tre. Una minestra e due piatti caldi; il convento non passa che
questo. Ma anche la scuola di Salerno raccomanda la temperanza, mio
caro.
«_Coena levis vel coena brevis, fit raro molesta; Magna nocet,
medicina docet, res est manifesta_».
Quelle paterne accoglienze avevano un po' consolato il giovinetto. E
lo avevano anche ammaestrato a fare un risparmio più grande nelle
spese dello stomaco. La domenica era l'unico giorno in cui egli
mangiasse. Gli altri giorni, una coppia di pani, con due soldi di
cacio, era tutto il suo scialo. Se il Ferrero lo avesse saputo, egli
che toscaneggiava volentieri, avrebbe potuto dire che Filippo Bertone
viveva di buio, come le piattole.
Ed ecco anche la ragione per cui Filippo Bertone era pallido e punto
in carne. Figurarsi! Pane e cacio! E di quest'ultimo, a mala pena due
soldi! È vero bensì che la non mai abbastanza lodata scuola di
Salerno, tra tutte le altre belle sentenze, ha lasciato questa sul
cacio:
«_Caseus est sanus quem dat avara manus_».
Ma è vero altresì che in nessun luogo del _Regimen sanitatis_ si legge
che non s'abbia a mangiare altro che cacio, per companatico; e ciò per
sei giorni alla fila.
Per fortuna, il nostro Filippo non aveva spinto l'imitazione fino ad
allogarsi in un sottoscala. Se lo avesse trovato lì per lì, forse! Ma
non lo aveva trovato; e fu bene per lui. Il suo bugigattolo a tetto
pigliava almeno un po' d'aria sana. La finestra vedeva, come ho già
detto, in un ampio cortile, sul di dietro di un palazzo, che era
ancora per lui senza nome. Ci aveva a stare della gente titolata, in
quel luogo, o almeno dei pezzi grossi, perchè ogni mattina si vedevano
alla ringhiera del ballatoio due o tre servitori, intenti a spolverare
abiti, o a sciorinare tappeti. Filippo Bertone non aveva vedute mai
cose più belle. È vero che non ne aveva veduto neppure di somiglianti,
o giù di lì.
Poi, sulla gronda del tetto, a tocca e non tocca dal suo davanzale,
crescevano tra le commettiture degli embrici, alcuni cespi di
semprevivo e d'altre erbe di facile contentatura. Il botanico ci aveva
la sua occupazione. E quella finestra gli piacque, e fece proponimento
di passare le sue ore di svago piuttosto lassù, che per le vie di
Torino. Già, con quel suo giubbone addosso, non c'era da godersela
troppo in istrada. Così, salvo le ore di università e di biblioteca,
che lo tenevano fuori di casa, il suo spasso era questo, di starsene
qualche ora al balcone, a veder crescere le sue pianticelle, seminate
dal caso, e a guardare i servitori del palazzo che davano le loro
ripulite.
E non era soltanto la gente di servizio che si facesse vedere laggiù.
La seconda mattina che Filippo Bertone s'era affacciato al suo abbaino
(perchè così e non altrimenti bisogna chiamarlo), da una di quelle
finestre dei palazzo, che in tutto il rimanente della giornata soleva
esser chiusa, gli era apparsa una bella signora, alta della persona,
dal volto sereno, e di regolari fattezze; bianca come un giglio, o, se
vi torna meglio, come una gardenia, di cui la sua carnagione aveva
infatti i soavi riflessi perlati. L'aspetto a tutta prima poteva dirsi
altero; ma il cuore doveva esser buono, e l'animo gentile, poichè ella
si era fermata un tratto a guardare con affettuosa cura alcune
pianticelle fiorite che ornavano il suo davanzale, e venuta poi nel
vano della porta finestra che metteva sul ballatoio, aveva parlato con
garbo amorevole ai servi, che stavano ad udirla con rispettosa
attenzione. La bontà e la gentilezza non si nascondono; spirano dal
volto, trapelano da ogni atto più lieve, e non è mestieri che si
manifestino colle parole.
La leggiadra apparizione era durata pochi minuti, troppo pochi pel
giovane studente, che la contemplava ammirato, e con quella trepidanza
inesplicabile, che cela qualche volta il presentimento.--Oh, se ella
guardasse in alto!--pensava Filippo tra sè.--Darei non so che cosa,
perchè ella guardasse in alto e mi lasciasse vedere i suoi occhi.
E tuttavia, poco stante, per una di quelle contraddizioni così
frequenti nelle anime timide, egli avrebbe voluto essere lontano,
molto lontano, dal suo modesto davanzale. La signora aveva alzato gli
occhi a guardare il cielo. Niente di più naturale, ma nel guardare il
cielo i suoi occhi s'erano incontrati nell'abbaino e s'erano posati un
istante sulla pallida faccia di Filippo Bertone.
L'antichità, immaginosa e proclive a stampare in forme sensibili tutto
ciò che le passava per la mente, ha significato in parecchi modi
l'impressione fatta, anzi, per dire più veramente, il suggello
lasciato sul volto da qualche aspetto gradito, o spiacevole, invocato
o temuto. Questi a guardare una bella faccia, senz'altro difetto che i
capegli un pochino arruffati (e azzuffati) sul fronte, ci rimaneva di
sasso, laddove noi, gente più agguerrita, rimarremmo a mala pena di
stucco; quegli, a vederne troppo da vicino un'altra, ne riportava per
tutta la vita incomodi segni sul capo; un terzo ne usciva trasfigurato
e faceva anco la sua volatina a mezz'aria.
Io non dico come uscisse Filippo Bertone da quello incontro dei più
begli occhi che ancora gli fosse toccato di vedere in questa valle di
lacrime. Certo, il suo abbaino gli dovette parere un po' stretto e un
po' basso, per contenere tanta felicità. E notate, anche la
trasfigurazione ci fu; quella del sullodato abbaino, che dopo quel
giorno apparve agli abitanti _in excelsis_, incoronato di fiori.
Filippo Bertone avrebbe voluto metter là tutto il meglio della flora a
lui nota, come a dire argirèe, ipomèe, ed altri stupendi esemplari
della famiglia delle convolvulacee; nè avrebbe indietreggiato davanti
al sacrifizio di qualche lira di più, per adornare le imposte del suo
finestrino coi tralci rampicanti d'una bignonia, che facesse ricadere
leggiadramente a grappoli i suoi fiori d'un bel roseo di porpora. Ma
il giovine botanico non istette molto a ricordarsi che si era in
novembre, a Torino, e che il suo tetto non era una stufa; laonde, si
contentò di alcune piante più umili e meno costose, che tuttavia
riuscirono ad abbellire il suo nido.
--Quando ella tornerà alla sua finestra e guarderà in alto,--pensava
lo studente,--non le dispiacerà questo poco di verde.--
Ma la signora, il giorno dopo, non era più comparsa a quella finestra
del secondo piano, nè ad altra del palazzo senza nome. E nemmeno
comparve i giorni seguenti, con grande rammarico di lui, che era
rimasto più del solito in casa.
--Che cosa vorrà dire?--domandava egli a sè stesso.--Già, capisco, da
questa parte son tutte camere di servizio, e non ci avrà occasione di
venirci di sovente. Basta, aspetteremo. È comparsa di sabato, e
quest'oggi è martedì; chi sa che sabato non torni?--
Egli dunque aveva ancora tre giorni buoni da aspettare, quando
Nicolino Ariberti si inerpicò sulla vetta del piccolo Sinai. Filippo
stava seduto presso la finestra, con un trattato d'osteologia tra le
mani, per studiarvi la interna struttura di questo bel mobile che è
l'uomo. Sul davanzale aveva un quaderno, nel quale veniva man mano
facendo le sue annotazioni, compendio e ricordo di ciò che leggeva. Ho
già detto che i libri non erano suoi. Del resto, quegli appunti
quotidiani erano un ottimo espediente per fissar meglio in capo le
cose lette, e all'uopo per rinfrescar la memoria.
Ariberti fece un'entrata chiassosa, anzi una vera irruzione, in quel
nuovo domicilio dell'amico. Per fermo il nostro Nicolino mirava a far
dimenticare il suo tradimento di quella mattina. Ma Filippo, o non ci
aveva badato più che tanto, o era magnanimo d'indole e perdonava
cosiffatte debolezze agli amici; fatto sta che accolse il nuovo venuto
con un sorriso, quantunque gli capitasse ad un'ora un po' incomoda e
lo distogliesse dal suo osservatorio.
--Ma sai che si sta bene qui?--gridò l'Ariberti, dopo aver abbracciato
con uno sguardo la camera, dal pavimento al soffitto.
--Sì, ne sono abbastanza contento.
--E, come dunque hai potuto dire alla signora Paolina che rimpiangevi
il tuo vecchio canile della via Argentieri? Già, capisco; lo avrai
fatto per politica.... per complimento....
--No, ti giuro;--disse Filippo arrossendo;--sulle prime la mi piaceva
poco.
--Ed ora....
--Ora mi ci sono avvezzato.
--Avvezzato? Oh, oh! Tu ne parli come faresti d'una prigione. Vediamo
un po' la inferriata. Non ce n'è; tu sei libero, padrone padronissimo
di allungare il collo fuori del tuo abbaino, a contemplare gli amori
dei gatti. Ah, ecco un paese di cristiani! Una corte spaziosa, con
scuderia! Ci abita della gente per la quale. Bene, bene, Tu mi diventi
un aristocratico, Filippo.
--Vieni; ti fo vedere i miei libri;--entrò a dire quell'altro,
cercando di tirarlo via dalla finestra.
--Sì, vengo; lasciami dare un'occhiata a questi fiori. Chi si occupa
del tuo orto botanico? La padrona o la serva?
--Io stesso,--rispose Filippo,--che era sulle spine.
--Come sai, studio medicina, e la botanica...
--Ah sì, è vero; ma perchè diamine non studiar legge?
--Caro mio, se tutti gli uomini dovessero averci i medesimi gusti,
povero mondo! Del resto, quello dell'avvocato è un mestiere da
signori. Io sono un Giovanni Senzaterra, e poco o molto che sia, debbo
cercare di guadagnar subito il pane quotidiano.
--Ah, povero Filippo, non ci pensavo; perdonami.
--Non c'è bisogno;--soggiunse egli, sorridendo malinconicamente.--Io
non arrossisco mica d'esser povero. Penso spesso alla mia condizione,
è vero; ma credimi, se non fosse che in questi anni di studi io
costerò troppo gravi sacrifizi a mio padre, il pensiero della mia
povertà non sarebbe senza una certa allegrezza.
--Oh, questo, poi....
--Orbene, e perchè no? Povertà il più delle volte è libertà. Non
intendo già che si abbia a morire di fame; che allora si è schiavi del
capriccio di tutti. Parlo della povertà di uno che vive lavorando, che
non può vivere altrimenti, che ha da passare ogni giorno coll'arte sua
per le mani. Qual'è libertà migliore di questa, che ti rende padrone
dell'anima tua contro le passioni e contro i vizi, perchè non ti dà
tempo per le une e non ti offre materia per gli altri? E poi, dove
metti tu la felicità di non aver sopraccapi per le tue rendite, poste
in forse da una cattiva annata, o da un diluvio di fallimenti, e
insidiate da una o più categorie di persone, che farebbero volentieri
a spartire? Vedi; sei tu il tuo cassiere, e non c'è pericolo che tu
pigli il volo per Francia o Svizzera; sei anche il proprio intendente,
e non ti rubi a man salva; il tuo portiere, e dormi magari coll'uscio
aperto, senza paura dei ladri. Metti pure che la tua nave dia nelle
secche; se scampi dal naufragio, sei ricco come prima, avevi tutto con
te.
--Scusami;--disse l'Ariberti, che aveva fatto, durante quell'apologia
dell'amico, i più brutti versacci del mondo;--ma la tua retorica non
mi persuade. La vita è una bella cosa; ma per viverla ci vogliono
quattrini. Che cos'è vivere? Essere. Ora, per essere, a questo mondo,
bisogna parere.
--L'accidente prima della sostanza!--esclamò facetamente Filippo
Bertone, seguitando l'amico nel campo della filosofia.--Io direi anzi
il contrario.
--Sì, cambia pure a tuo modo,--rispose l'Ariberti, purchè in fondo io
--abbia ragione. L'uomo, ti dirò io, non vive solamente di pane. Lo
--dice anche un passo delle Scritture. Vedi che ho le autorità dalla
--mia. E come si potrebbe vivere di solo pane, con tante belle cose,
--create a posta e messe al mondo per noi? E non è un disprezzare
--l'opera di Dio, questo non desiderarsi che il pane? Intendo per pane
--la vita materiale, la vita vegetativa, mi capisci?
--Certo;--replicò Filippo Bertone--ma assicurata questa, non hai
libera anche la vita contemplativa? Non ti è forse consentito di
startene coi tuoi libri, od anche co' tuoi pensieri, a goderti un'ora
di pace?
--E crepi l'avarizia; non è egli vero?--soggiunse ironicamente
l'Ariberti.--Come si vede, Filippo mio, che non sei innamorato!
--Io!... No, certo;--rispose Filippo, reprimendo un sospiro;--non ho
ancora avuto tempo.
--Eh via! Di' piuttosto che non hai avuto l'occasione. Ma incontra una
donna come l'ho incontrata io...
--Quale? La bionda di Dogliani, o la signora Ber...
--Che! Ti parlo dell'ultima.
--Ah, c'è dunque un'ultima? A Dogliani o qui?
--Qui, per l'appunto; non ti ricordi? Ah, è vero, nello scorso inverno
ci vedevamo di rado. Ma è colpa tua, sai. Tu vivi sempre nel tuo
guscio, come la chiocciola, e allora non c'era caso di vederti mai a
teatro.--
Filippo Bertone diede un'occhiata malinconica al chiodo da cui pendeva
il suo venerando giubbone; indi un'occhiata al cielo, come se volesse
fare un'offerta a Dio di quel suo capo di vestiario.
---Ma sai,--diss'egli poscia, sviando modestamente il discorso,--che
tu mi sembri un nuovo Don Giovanni Tenorio! Se la va di questo passo,
giungerai presto alle mille e tre.
--No, questa è proprio l'ultima;--esclamò l'Ariberti con accento di
convinzione profonda;--oramai lo sento, non amerò più altra donna.
Figurati, amico mio, una vera Giunone.
--Ah, questa volta abbiamo dato la scalata all'Olimpo.--Conosci
Giove?--sei forse entrato nelle sue grazie?
--No, lo conosco appena, e forse non lo conosco nemmeno. Potrebbe
esser lui e non esserlo. Ce ne vedevo tanti, nel palchetto.
--Ho capito; l'Olimpo era a teatro;--notò Filippo, con quel suo fare
--Sì; mi hanno detto che è giunto a Torino e venivo a salutarlo.
Credevo che fosse tornato nella sua cameretta, che gli piaceva
tanto...
--Oh, per questo ci aveva ragione;--soggiunse la vecchia.--Una camera
come quella, non fo per dire, ma non si trova in tutta la via degli
Argentieri. E difatti è venuto l'altro giorno da me per riaverla; ma
che vuole? Io già l'avevo appigionata. Colpa sua, perchè, quando è
partito l'estate scorsa, mi ha lasciato nel dubbio del suo ritorno a
Torino. È un bravo giovane, quantunque stia male a contanti, e mi è
rincresciuto di perderlo. Ma non potevo mica sacrificarmi... Capirà,
signor Ariberti: dodici lire al mese sono poco e son molto, secondo i
casi.
--Eh, capisco, dodici lire... già... sono una somma.
--Almeno per me;--proseguì la signora Paolina, Ah, se si fosse
--trattato di Lei, signor Ariberti, che ci ha i denari a palate...
--Non tanto, signora Paolina, non tanto;--gridò Nicolino Ariberti
ridendo.--Son figlio di famiglia, non lo dimentichi.
--Sicuro, e un bravo giovane, come ce n'è pochi. La non dubiti; il
signor Filippo le rendeva giustizia. Egli mi diceva sempre: veda,
signora Paolina; di tutti i miei compagni, il migliore, il più
sincero, il più studioso, è l'Ariberti.
--Caro Filippo!--esclamò egli, mentre il rimorso, di cui sanno i
lettori, gli dava un'altra e poderosa stretta.--E sa Lei almeno, dove
sia andato a mettere il nido?
--Oh, La non dubiti; appena lo ha trovato è corso ad avvisarmene.
Aspetti, ora mi raccapezzo. Santa Teresa... No, San Francesco di
Paola... Nemmeno! Di San Francesco me ne ha parlato, ma là c'era un
quartierino di tre camere, un po' caro per la sua borsa. Ecco, ora mi
ricordo; è andato proprio a stare in via Santa Teresa, la seconda casa
a sinistra; e mi pare che abbia detto il numero 4.
--Ultimo piano, m'immagino.
--Per l'appunto. Sui tetti c'è l'aria buona. Ma dopo tutto il signor
Filippo non è parso molto contento del suo nuovo alloggio. La camera è
brutta e piccola. Si figuri; un terzo della mia, e non ci ha neanche
la stufa.
--Non è poi un gran male;--pensò l'Ariberti;--avercela guasta o non
averne è tutt'uno.--
Il lettore discreto capirà che quel suo pensiero il nostro adolescente
se lo tenne gelosamente per sè. La signora Paolina credeva nella bontà
della sua stufa e a screditargliela le si sarebbe data una stilettata
nel cuore.
--Grazie, signora Paolina;--diss'egli in quella vece.--Mi sa mill'anni
di vedere Filippo. Corro in via Santa Teresa.
E fatte altre poche parole di commiato, il nostro Nicolino infilò le
scale, dopo aver risposto con una scappellata al gentile saluto e al
profondo inchino della signora Giuseppina Giumella, fiorista in
Doragrossa, a cui certe parole della padrona di casa avevano dato un
gran concetto delle ricchezze di quel timido visitatore.
Per altro, Nicolino Ariberti non la passò così liscia, come potrebbe
argomentarsi da questo commiato. A mezzo le scale fu ancora trattenuto
da una chiamata della signora Paolina, che aveva dell'altro ancora da
dirgli. Laonde si fermò ossequente al suono delle venerande ciabatte,
ed aspettò che avessero fornita tutta la distanza che già era tra lui
e l'ultimo piano.
--Scusi, sa;--gli disse la megèra, abbassando la voce con aria di
mistero, quando fu giunta sul pianerottolo dov'egli era rimasto
inchiodato;--vorrei pregarla di un'imbasciata pel signor Filippo. La
camera che gli piace tanto, un giorno o l'altro sarà libera. La
ragazza che Lei ha veduto non vuol rimanerci più molto. Si figuri che
siamo al venti, e non ha ancora pagato l'affitto di questo mese. Già,
se non pensa a trovarsi un benefattore, poverina, come ha da fare, con
quel gramo mestiere che ha per le mani?
--Un benefattore!--esclamò Ariberti, a cui l'età non dava di capire
alle prime.--Se posso far io qualche cosa....---
E metteva mano, così dicendo, alla borsa.
--Oh, non a me, non a me!--rispose frettolosa a quel gesto la signora
Paolina, come se si fosse scandalezzata all'idea di dover intascare la
somma di prima mano.--Se vuol fare una carità fiorita a quella povera
ragazza, ci vada lei; quanto a me, Dio mi guardi; potrebbe parere che
avessi cantato.--
Nicolino Ariberti nicchiava. Con che fronte si sarebb'egli presentato
a quella Flora cittadina, che aveva veduta a mala pena sul suo uscio,
e come avrebbe potuto dicevolmente consegnarle la tenue moneta di
dodici lire?
--In verità, non ardisco;--diss'egli, dopo essere stato un poco
perplesso.
E fu per rimettere la borsa in tasca. Ma qui la signora Paolina si
avvide di aver fatto una papera.
--Già, capisco;--ripigliò prontamente.--Lei vuol fare il bene e non
averne i ringraziamenti. Si vede proprio che ha buon cuore. Dia dunque
il danaro a me; le dirò io donde viene.--
All'Ariberti non pareva vero di cavarsela in quel modo. E alleggerito
di dodici lire, ma contento di avere aiutato quella povera figliuola,
che non ci aveva lì per lì un benefattore a darle una mano, se ne andò
in traccia di Filippo Bertone.
Per altro, egli non doveva sfuggire alla gratitudine della signora
Giuseppina Giumella. Il bene che si fa, non si perde. Anche il nostro
Nicolino Ariberti se lo avrà a ritrovare tra' piedi. Seguitiamolo
frattanto in via di Santa Teresa.
Filippo Bertone era andato ad abitare laggiù. La rondine, al suo
ritorno da quelle parti, aveva trovato occupato il vecchio nido ed era
andata più lungi a fabbricarsene un altro. L'altezza di questo era a
un dipresso la medesima, cioè sotto le travi del tetto. E non è questa
forse la postura più acconcia pei nidi? Dopo tutto, il primo nido di
Filippo Bertone dava sopra una sequela, anzi una confusione, di tetti
più bassi; laddove il secondo dava in una corte abbastanza spaziosa,
dov'erano certe scuderie, e vedeva le spalle d'una gran casa, che
poteva, dall'altra banda, pretendere al nome e alla dignità di
palazzo.
A tutta prima, quel luogo gli era parso un po' troppo signorile e da
farlo stare in soggezione col vicinato. Ciò pel di fuori. Quanto
all'interno, la camera era più stretta, e Filippo Bertone pensava con
raccapriccio che non avrebbe potuto scaldarcisi nell'inverno, come
nell'altra in via degli Argentieri.
Il nostro Bertone ci aveva un metodo suo per riscaldarsi d'inverno.
Andava in volta su e giù per la camera, imprimendo alle braccia
penzoloni un moto isocronico che le faceva combinare ad ogni tratto in
croce di Sant'Andrea, mentre le palme andavano regolarmente a battere
sotto le ascelle. S'intende che a queste nozze non era invitato il
giubbone color di tabacco. Poverino! Un altro poco di strofinio, e se
n'andava in isbrendoli.
Filippo Bertone aveva ingegno, e il lettore ha già capito, da una
certa stoccata del Balestra all'amico Ferrero, che egli in iscuola
faceva qualche volta il lavoro suo e quello degli altri. Ma la sua
valentìa non si fermava lì; che a volte, trattandosi di broda
scolastica, anche uno sgobbone ci riesce. Filippo non era solamente un
giovine studioso; aveva, come suol dirsi, due corde al suo arco, la
svegliatezza e la costanza, due cose che vanno così raramente di
conserva nei giovani.
Come mai questo miracolo di ragazzo era nato da un umile maniscalco e
da una povera massaia di villaggio? Arcani impenetrabili
dell'esistenza, i quali, bisogna pur dirlo, sono spesso mirabilmente
aiutati dalla mancanza di svaghi d'una casa tapina e dalla fortunata
presenza d'una buona scuola di provincia.
Dopo tutto, gli è per l'appunto in provincia che si vedono di questi
prodigi. Nelle capitali (e un italiano può aggiungere eziandio nelle
metropoli) le buone scuole sono molto più rade; forse per la ragione
che il maestro non può darsi intieramente alla cattedra, essere _totus
in illa_, come direbbe Orazio, tanti sono i sopraccapi che lo
frastornano, gli svaghi che lo trattengono, le ambizioni che lo tirano
in alto. I mediocri, e spesso anche i bisognosi, ci aggiungono la cura
delle ripetizioni a casa, conseguenza e cagione a sua volta delle
distrazioni in iscuola.
Guardate in quella vece il collegio d'una città di provincia. Le voci,
i rumori, le vanità profane del mondo, o non giungono laggiù, o vi
mandano a mala pena un'eco affievolita, cioè a dire quanto basta
perchè laggiù non si credano a dirittura segregati dal mondo. E fermi
lì; il maestro non pensa che alla scuola; ci si distende, dirò meglio,
ci si sprofonda; può darsi che ci si dimentichi, può darsi anco che ci
si adiri; ma non dubitate, c'è tutto. Spesso è una vittima del cieco
caso; frate, chierico, o secolare che sia, è un ingegno che in altri
tempi avrebbe potuto dar frutti per sè, e in quella vece s'è ridotto a
far fruttificare l'ingegno degli altri. Lo si direbbe un albero che
s'adatta a far da palo, e si lascia coprir tutto dai pampini della
vite che gli s'intreccia ai rami, e si sostiene, s'innalza, si
soleggia per lui. E tuttavia, dura in quell'uomo il sentimento della
sua forza, comunque rimasta inoperosa e latente. Sansone dai capegli
recisi, aquila a cui furono tronche le penne maestre medita le grandi
intraprese, anela agli spazi lontani; e questa sua bramosìa, questo
bisogno d'altro, si apprendono allo scolaro. Un maestro cosiffatto ama
espandersi, mettere in comune co' suoi discepoli ciò che ha studiato e
ciò che viene man mano leggendo. Con chi altri potrebbe parlarne,
chetare i bollori della sua mente, avida da un tempo e riboccante di
nuovi tesori? Donde avviene che, imbevuti di quella pioggia assidua e
benefica, i giovani alunni escano dal collegio più colti e meglio
compresi della vita nuova, che non i loro compagni delle grandi città,
dove pure questa vita è pane quotidiano, aria respirabile... e chi più
n'ha ne metta.
Bisogna dire altresì che lo scolaro ha meno svaghi in provincia. La
famiglia, se egli è nato colà, il convitto, se egli c'è giunto da
fuori, hanno consuetudini patriarcali. Non feste, non teatri, non
allegri ritrovi; qualche sagra tutt'al più; riposo, non turbamento
dello spirito. Però la sua vita si raccoglie tutta in iscuola;
anch'egli è _totus in illa_. In tal guisa s'incarna il concetto degli
antichi spartani; che certo non volevano la vita chiusa del ginnasio,
se non perchè l'adolescente vi si foggiasse il suo mondo. E là i
fanciulli s'innamorano sul sodo di quello che studiano, dei greci, dei
romani, dei cavalieri e dei bardi, tutta brava gente che, usciti di
là, non troveranno più alla prima tappa, ma con cui fa bene aver
vissuto un pochino e con una certa dimestichezza fraterna. Credete che
tutte quelle larve del passato serviranno poco nel futuro? Sia pure; a
noi basta che abbiano svegliato, aperto l'animo giovanile ai concetti
del bello e del grande. E badate; se cova in quelle tenere menti una
scintilla del fuoco sacro «che il figlio addusse di Giapeto in terra»
quella salda, intensa ed amorosa preparazione della scuola di
provincia, la nutrirà, la sprigionerà, la farà divampare in incendio.
A Mondovì il giovinetto Filippo Bertone era citato come un genio
nascente. Suo padre, facendo sforzi inauditi per metter d'accordo
volere e potere, lo avea mandato agli studi in Torino. E il nostro
adolescente, che amava svisceratamente suo padre ed era al fatto dei
sacrifizi della famiglia per lui, aveva vissuto otto mesi a Torino,
cioè a dire tutto l'anno scolastico, senza oltrepassare le
quattrocento lire di spesa, tra alloggio, vitto e quel po' di bucato.
Era un miracolo di risparmio, per verità. E non si è detto ancora ogni
cosa. Su quella somma il povero studente di filosofia ci aveva fatto
anche le male spese. Verbigrazia, era andato una volta al teatro Regio
per sentire il Mosè, ed aveva pagato dieci lire un'opera di
entomologia, scompleta, se vogliamo, ma corredata di molte tavole in
rame. Imperocchè, bisogna sapere che la storia naturale era il debole
di Filippo Bertone.
Ma intanto, e con tutta la sua assegnatezza di quell'anno passato a
Torino, egli doveva accorgersi che anche quattrocento lire erano un
troppo grave sdruscio nelle entrate d'una famiglia che campava col
lavoro quotidiano e che ci aveva per giunta due fanciulle da accasare.
Ne aveva a ferrare dei muli, il povero babbo! Ne aveva a cavare del
sangue, nella sua sussidiaria qualità di flebotomo!
Pure, tanto era nel figlio l'amore allo studio, tanta era la onesta
ambizione nel padre, che questi al finire delle vacanze, gli aveva
posto in mano dugento lire, strappate a fatica da tutti i capi del
bilancio domestico, e lo aveva rimandato a Torino.
--Ci caveremo la fame coll'appetito;--aveva detto il vecchio con una
fermezza da stoico;--ma tu diventerai un gran medico.--
Il lettore di certo avrà capito che la storia naturale portava la
medicina. Del resto, il figlio d'un flebotomo doveva diventar medico,
essere il complemento del padre.
Ed era tornato a Torino, mesto nel cuore, ma pieno di buona volontà e
di coraggio. Il suo giubbone di color tabacco non gli faceva vergogna.
Gli scaffali delle biblioteche, amicissimi suoi, nel rivederlo con
quell'eterno giubbone, non glielo avrebbero mica apposto a delitto.
Quanto al sogghigno della scolaresca, non gliene importava un bel
nulla. Dopo tutto, egli era sempre così contegnoso e stava così poco
in orecchio, che le risa dei compagni non giungevano a lui.
Entrato nella capitale, che non contava più di rivedere, e presa la
sua iscrizione pel primo anno di medicina, Filippo Bertone era andato
ad ossequiare i suoi futuri professori. Si usava poco di farlo; epperò
la sua visita tornava tanto più grata a quei parrucconi, in quanto se
l'aspettavano meno. Uno di essi, buon vecchio e gran luminare
dell'arte, lo aveva squadrato ben bene dal capo alle piante, e,
vistolo così male in arnese, gli si era affezionato alla bella prima.
Anche lui, il vecchio Esculapio, venuto a' suoi tempi dalla montagna,
aveva cominciato così, e amava ricordarsene.
--Studiate;--gli disse, con un suo accento tra burbero ed
amorevole;--i poveri debbono insegnare questa virtù ai ricchi. Alla
vostra età io vivevo di pane e cacio, e il cacio me lo portavo da
casa. Per poter studiare di sera, avevo preso a pigione un sottoscala
da un ciabattino, e la lucerna posata sul suo bischetto mi dava modo
di leggere. Avete libri? No, me lo imagino. Guardate nella mia
libreria; se ci trovate il fatto vostro, servitevi pure.
Filippo Bertone, commosso da quella ruvida e schietta bontà,
balbettava alcune parole di ringraziamento.
--No, lasciate andare;--ripigliò il vecchio professore.--Farete lo
stesso voi, quando verrà la vostra volta coi giovani, e tutti pari.
Un'altra cosa; son solo, e la domenica pranzo, anzi no, desino alle
tre. Una minestra e due piatti caldi; il convento non passa che
questo. Ma anche la scuola di Salerno raccomanda la temperanza, mio
caro.
«_Coena levis vel coena brevis, fit raro molesta; Magna nocet,
medicina docet, res est manifesta_».
Quelle paterne accoglienze avevano un po' consolato il giovinetto. E
lo avevano anche ammaestrato a fare un risparmio più grande nelle
spese dello stomaco. La domenica era l'unico giorno in cui egli
mangiasse. Gli altri giorni, una coppia di pani, con due soldi di
cacio, era tutto il suo scialo. Se il Ferrero lo avesse saputo, egli
che toscaneggiava volentieri, avrebbe potuto dire che Filippo Bertone
viveva di buio, come le piattole.
Ed ecco anche la ragione per cui Filippo Bertone era pallido e punto
in carne. Figurarsi! Pane e cacio! E di quest'ultimo, a mala pena due
soldi! È vero bensì che la non mai abbastanza lodata scuola di
Salerno, tra tutte le altre belle sentenze, ha lasciato questa sul
cacio:
«_Caseus est sanus quem dat avara manus_».
Ma è vero altresì che in nessun luogo del _Regimen sanitatis_ si legge
che non s'abbia a mangiare altro che cacio, per companatico; e ciò per
sei giorni alla fila.
Per fortuna, il nostro Filippo non aveva spinto l'imitazione fino ad
allogarsi in un sottoscala. Se lo avesse trovato lì per lì, forse! Ma
non lo aveva trovato; e fu bene per lui. Il suo bugigattolo a tetto
pigliava almeno un po' d'aria sana. La finestra vedeva, come ho già
detto, in un ampio cortile, sul di dietro di un palazzo, che era
ancora per lui senza nome. Ci aveva a stare della gente titolata, in
quel luogo, o almeno dei pezzi grossi, perchè ogni mattina si vedevano
alla ringhiera del ballatoio due o tre servitori, intenti a spolverare
abiti, o a sciorinare tappeti. Filippo Bertone non aveva vedute mai
cose più belle. È vero che non ne aveva veduto neppure di somiglianti,
o giù di lì.
Poi, sulla gronda del tetto, a tocca e non tocca dal suo davanzale,
crescevano tra le commettiture degli embrici, alcuni cespi di
semprevivo e d'altre erbe di facile contentatura. Il botanico ci aveva
la sua occupazione. E quella finestra gli piacque, e fece proponimento
di passare le sue ore di svago piuttosto lassù, che per le vie di
Torino. Già, con quel suo giubbone addosso, non c'era da godersela
troppo in istrada. Così, salvo le ore di università e di biblioteca,
che lo tenevano fuori di casa, il suo spasso era questo, di starsene
qualche ora al balcone, a veder crescere le sue pianticelle, seminate
dal caso, e a guardare i servitori del palazzo che davano le loro
ripulite.
E non era soltanto la gente di servizio che si facesse vedere laggiù.
La seconda mattina che Filippo Bertone s'era affacciato al suo abbaino
(perchè così e non altrimenti bisogna chiamarlo), da una di quelle
finestre dei palazzo, che in tutto il rimanente della giornata soleva
esser chiusa, gli era apparsa una bella signora, alta della persona,
dal volto sereno, e di regolari fattezze; bianca come un giglio, o, se
vi torna meglio, come una gardenia, di cui la sua carnagione aveva
infatti i soavi riflessi perlati. L'aspetto a tutta prima poteva dirsi
altero; ma il cuore doveva esser buono, e l'animo gentile, poichè ella
si era fermata un tratto a guardare con affettuosa cura alcune
pianticelle fiorite che ornavano il suo davanzale, e venuta poi nel
vano della porta finestra che metteva sul ballatoio, aveva parlato con
garbo amorevole ai servi, che stavano ad udirla con rispettosa
attenzione. La bontà e la gentilezza non si nascondono; spirano dal
volto, trapelano da ogni atto più lieve, e non è mestieri che si
manifestino colle parole.
La leggiadra apparizione era durata pochi minuti, troppo pochi pel
giovane studente, che la contemplava ammirato, e con quella trepidanza
inesplicabile, che cela qualche volta il presentimento.--Oh, se ella
guardasse in alto!--pensava Filippo tra sè.--Darei non so che cosa,
perchè ella guardasse in alto e mi lasciasse vedere i suoi occhi.
E tuttavia, poco stante, per una di quelle contraddizioni così
frequenti nelle anime timide, egli avrebbe voluto essere lontano,
molto lontano, dal suo modesto davanzale. La signora aveva alzato gli
occhi a guardare il cielo. Niente di più naturale, ma nel guardare il
cielo i suoi occhi s'erano incontrati nell'abbaino e s'erano posati un
istante sulla pallida faccia di Filippo Bertone.
L'antichità, immaginosa e proclive a stampare in forme sensibili tutto
ciò che le passava per la mente, ha significato in parecchi modi
l'impressione fatta, anzi, per dire più veramente, il suggello
lasciato sul volto da qualche aspetto gradito, o spiacevole, invocato
o temuto. Questi a guardare una bella faccia, senz'altro difetto che i
capegli un pochino arruffati (e azzuffati) sul fronte, ci rimaneva di
sasso, laddove noi, gente più agguerrita, rimarremmo a mala pena di
stucco; quegli, a vederne troppo da vicino un'altra, ne riportava per
tutta la vita incomodi segni sul capo; un terzo ne usciva trasfigurato
e faceva anco la sua volatina a mezz'aria.
Io non dico come uscisse Filippo Bertone da quello incontro dei più
begli occhi che ancora gli fosse toccato di vedere in questa valle di
lacrime. Certo, il suo abbaino gli dovette parere un po' stretto e un
po' basso, per contenere tanta felicità. E notate, anche la
trasfigurazione ci fu; quella del sullodato abbaino, che dopo quel
giorno apparve agli abitanti _in excelsis_, incoronato di fiori.
Filippo Bertone avrebbe voluto metter là tutto il meglio della flora a
lui nota, come a dire argirèe, ipomèe, ed altri stupendi esemplari
della famiglia delle convolvulacee; nè avrebbe indietreggiato davanti
al sacrifizio di qualche lira di più, per adornare le imposte del suo
finestrino coi tralci rampicanti d'una bignonia, che facesse ricadere
leggiadramente a grappoli i suoi fiori d'un bel roseo di porpora. Ma
il giovine botanico non istette molto a ricordarsi che si era in
novembre, a Torino, e che il suo tetto non era una stufa; laonde, si
contentò di alcune piante più umili e meno costose, che tuttavia
riuscirono ad abbellire il suo nido.
--Quando ella tornerà alla sua finestra e guarderà in alto,--pensava
lo studente,--non le dispiacerà questo poco di verde.--
Ma la signora, il giorno dopo, non era più comparsa a quella finestra
del secondo piano, nè ad altra del palazzo senza nome. E nemmeno
comparve i giorni seguenti, con grande rammarico di lui, che era
rimasto più del solito in casa.
--Che cosa vorrà dire?--domandava egli a sè stesso.--Già, capisco, da
questa parte son tutte camere di servizio, e non ci avrà occasione di
venirci di sovente. Basta, aspetteremo. È comparsa di sabato, e
quest'oggi è martedì; chi sa che sabato non torni?--
Egli dunque aveva ancora tre giorni buoni da aspettare, quando
Nicolino Ariberti si inerpicò sulla vetta del piccolo Sinai. Filippo
stava seduto presso la finestra, con un trattato d'osteologia tra le
mani, per studiarvi la interna struttura di questo bel mobile che è
l'uomo. Sul davanzale aveva un quaderno, nel quale veniva man mano
facendo le sue annotazioni, compendio e ricordo di ciò che leggeva. Ho
già detto che i libri non erano suoi. Del resto, quegli appunti
quotidiani erano un ottimo espediente per fissar meglio in capo le
cose lette, e all'uopo per rinfrescar la memoria.
Ariberti fece un'entrata chiassosa, anzi una vera irruzione, in quel
nuovo domicilio dell'amico. Per fermo il nostro Nicolino mirava a far
dimenticare il suo tradimento di quella mattina. Ma Filippo, o non ci
aveva badato più che tanto, o era magnanimo d'indole e perdonava
cosiffatte debolezze agli amici; fatto sta che accolse il nuovo venuto
con un sorriso, quantunque gli capitasse ad un'ora un po' incomoda e
lo distogliesse dal suo osservatorio.
--Ma sai che si sta bene qui?--gridò l'Ariberti, dopo aver abbracciato
con uno sguardo la camera, dal pavimento al soffitto.
--Sì, ne sono abbastanza contento.
--E, come dunque hai potuto dire alla signora Paolina che rimpiangevi
il tuo vecchio canile della via Argentieri? Già, capisco; lo avrai
fatto per politica.... per complimento....
--No, ti giuro;--disse Filippo arrossendo;--sulle prime la mi piaceva
poco.
--Ed ora....
--Ora mi ci sono avvezzato.
--Avvezzato? Oh, oh! Tu ne parli come faresti d'una prigione. Vediamo
un po' la inferriata. Non ce n'è; tu sei libero, padrone padronissimo
di allungare il collo fuori del tuo abbaino, a contemplare gli amori
dei gatti. Ah, ecco un paese di cristiani! Una corte spaziosa, con
scuderia! Ci abita della gente per la quale. Bene, bene, Tu mi diventi
un aristocratico, Filippo.
--Vieni; ti fo vedere i miei libri;--entrò a dire quell'altro,
cercando di tirarlo via dalla finestra.
--Sì, vengo; lasciami dare un'occhiata a questi fiori. Chi si occupa
del tuo orto botanico? La padrona o la serva?
--Io stesso,--rispose Filippo,--che era sulle spine.
--Come sai, studio medicina, e la botanica...
--Ah sì, è vero; ma perchè diamine non studiar legge?
--Caro mio, se tutti gli uomini dovessero averci i medesimi gusti,
povero mondo! Del resto, quello dell'avvocato è un mestiere da
signori. Io sono un Giovanni Senzaterra, e poco o molto che sia, debbo
cercare di guadagnar subito il pane quotidiano.
--Ah, povero Filippo, non ci pensavo; perdonami.
--Non c'è bisogno;--soggiunse egli, sorridendo malinconicamente.--Io
non arrossisco mica d'esser povero. Penso spesso alla mia condizione,
è vero; ma credimi, se non fosse che in questi anni di studi io
costerò troppo gravi sacrifizi a mio padre, il pensiero della mia
povertà non sarebbe senza una certa allegrezza.
--Oh, questo, poi....
--Orbene, e perchè no? Povertà il più delle volte è libertà. Non
intendo già che si abbia a morire di fame; che allora si è schiavi del
capriccio di tutti. Parlo della povertà di uno che vive lavorando, che
non può vivere altrimenti, che ha da passare ogni giorno coll'arte sua
per le mani. Qual'è libertà migliore di questa, che ti rende padrone
dell'anima tua contro le passioni e contro i vizi, perchè non ti dà
tempo per le une e non ti offre materia per gli altri? E poi, dove
metti tu la felicità di non aver sopraccapi per le tue rendite, poste
in forse da una cattiva annata, o da un diluvio di fallimenti, e
insidiate da una o più categorie di persone, che farebbero volentieri
a spartire? Vedi; sei tu il tuo cassiere, e non c'è pericolo che tu
pigli il volo per Francia o Svizzera; sei anche il proprio intendente,
e non ti rubi a man salva; il tuo portiere, e dormi magari coll'uscio
aperto, senza paura dei ladri. Metti pure che la tua nave dia nelle
secche; se scampi dal naufragio, sei ricco come prima, avevi tutto con
te.
--Scusami;--disse l'Ariberti, che aveva fatto, durante quell'apologia
dell'amico, i più brutti versacci del mondo;--ma la tua retorica non
mi persuade. La vita è una bella cosa; ma per viverla ci vogliono
quattrini. Che cos'è vivere? Essere. Ora, per essere, a questo mondo,
bisogna parere.
--L'accidente prima della sostanza!--esclamò facetamente Filippo
Bertone, seguitando l'amico nel campo della filosofia.--Io direi anzi
il contrario.
--Sì, cambia pure a tuo modo,--rispose l'Ariberti, purchè in fondo io
--abbia ragione. L'uomo, ti dirò io, non vive solamente di pane. Lo
--dice anche un passo delle Scritture. Vedi che ho le autorità dalla
--mia. E come si potrebbe vivere di solo pane, con tante belle cose,
--create a posta e messe al mondo per noi? E non è un disprezzare
--l'opera di Dio, questo non desiderarsi che il pane? Intendo per pane
--la vita materiale, la vita vegetativa, mi capisci?
--Certo;--replicò Filippo Bertone--ma assicurata questa, non hai
libera anche la vita contemplativa? Non ti è forse consentito di
startene coi tuoi libri, od anche co' tuoi pensieri, a goderti un'ora
di pace?
--E crepi l'avarizia; non è egli vero?--soggiunse ironicamente
l'Ariberti.--Come si vede, Filippo mio, che non sei innamorato!
--Io!... No, certo;--rispose Filippo, reprimendo un sospiro;--non ho
ancora avuto tempo.
--Eh via! Di' piuttosto che non hai avuto l'occasione. Ma incontra una
donna come l'ho incontrata io...
--Quale? La bionda di Dogliani, o la signora Ber...
--Che! Ti parlo dell'ultima.
--Ah, c'è dunque un'ultima? A Dogliani o qui?
--Qui, per l'appunto; non ti ricordi? Ah, è vero, nello scorso inverno
ci vedevamo di rado. Ma è colpa tua, sai. Tu vivi sempre nel tuo
guscio, come la chiocciola, e allora non c'era caso di vederti mai a
teatro.--
Filippo Bertone diede un'occhiata malinconica al chiodo da cui pendeva
il suo venerando giubbone; indi un'occhiata al cielo, come se volesse
fare un'offerta a Dio di quel suo capo di vestiario.
---Ma sai,--diss'egli poscia, sviando modestamente il discorso,--che
tu mi sembri un nuovo Don Giovanni Tenorio! Se la va di questo passo,
giungerai presto alle mille e tre.
--No, questa è proprio l'ultima;--esclamò l'Ariberti con accento di
convinzione profonda;--oramai lo sento, non amerò più altra donna.
Figurati, amico mio, una vera Giunone.
--Ah, questa volta abbiamo dato la scalata all'Olimpo.--Conosci
Giove?--sei forse entrato nelle sue grazie?
--No, lo conosco appena, e forse non lo conosco nemmeno. Potrebbe
esser lui e non esserlo. Ce ne vedevo tanti, nel palchetto.
--Ho capito; l'Olimpo era a teatro;--notò Filippo, con quel suo fare
- Parts
- La notte del Commendatore - 01
- La notte del Commendatore - 02
- La notte del Commendatore - 03
- La notte del Commendatore - 04
- La notte del Commendatore - 05
- La notte del Commendatore - 06
- La notte del Commendatore - 07
- La notte del Commendatore - 08
- La notte del Commendatore - 09
- La notte del Commendatore - 10
- La notte del Commendatore - 11
- La notte del Commendatore - 12
- La notte del Commendatore - 13
- La notte del Commendatore - 14
- La notte del Commendatore - 15
- La notte del Commendatore - 16
- La notte del Commendatore - 17
- La notte del Commendatore - 18
- La notte del Commendatore - 19
- La notte del Commendatore - 20
- La notte del Commendatore - 21
- La notte del Commendatore - 22
- La notte del Commendatore - 23
- La notte del Commendatore - 24