La montanara - 19

Polissena (_matre pulchra filia pulchrior_), la contessa Elena
Malatesti. La madre aveva la società più grave, oramai, la più
autorevole, e la più monumentale, senza rinunziare per altro a qualche
saggio della più gaia e della più elegante. Ma questa si raccoglieva
più volentieri intorno alla figliuola, e vi si aggiungeva altresì la
più risonante per tintinnìo di sproni e di sciabole. Cappa e spada,
una volta riunite, si dividevano allora; gli uomini di cappa si
volgevano naturalmente alla madre; gli uomini di spada alla figlia.
Ma per allora, essendo in principio di spettacolo, non si vedevano che
due cavalieri, nel palco della contessa Elena. Suo marito era in
visita, e di quei due che vi ho accennati uno era il marchese Emilio
Landi, che conosciamo per una sua lettera dai bagni di Lucca. In
verità, stando a quello che ve ne ho detto a suo tempo, il marchesino
Landi avrebbe dovuto esser piuttosto dalla marchesa Polissena. Ma
bisogna anche sapere che il regno di lui era durato poco, nel cuore
della Baldovini. L'orgoglio aveva vinta la tenerezza, e un ministro di
Stato, che si tingeva i capegli (molto bene per altro, e la cosa non
si riconosceva che alla luce del sole), era succeduto nel regno. La
maestà scoronata di Emilio Landi si era facilmente consolata di quel
piccolo guaio. Infine, non ci sono trionfi graditi che a patto di
durar poco. Anche il divo Cesare dovette annoiarsi parecchio, ad
averli così lunghi, col peso della corona sulla testa, il tintinnìo
de' trofei nelle orecchie, e il continuo sobbalzo di un cocchio senza
molle, sul maledetto selciato della Via Sacra, inerpicantesi per il
clivo Capitolino.
Emilio Landi era entrato allora allora nel palco, e prendeva, di
rincontro alla signora, il posto d'onore che l'altro personaggio gli
aveva ceduto, mettendosi con discreta familiarità al fianco di lei.
--Siete maravigliosa, stasera;--disse Emilio, incominciando.
La contessa Elena accolse il complimento ad occhi socchiusi e tirando
indietro la sua testina bionda. Era quello un atteggiamento che andava
stupendamente alla sua figura rosea, un tal po' irregolare nelle
fattezze, ma fine, e che di graziosa e piacevole la rendeva
affascinante senz'altro: un atteggiamento studiato se vogliamo, ma che
tra tanti artifizi a cui ci ha avvezzati la bellezza, poteva anche
sembrar naturale: un atteggiamento, insomma, che un pittor ritrattista
del secolo scorso avrebbe invidiato, se pure non è più giusto il dire
che ad un pittor ritrattista del secolo scorso la contessa Elena
Malatesti lo aveva audacemente rubato.
--Che ve ne importa a voi, Landi?--domandò la signora, dopo aver preso
quell'atteggiamento lezioso.
--A me? moltissimo;--rispose il giovanotto.--Si gode tutti, alla vista
di un bel fiore, o di un bel frutto dorato. Sia pure nell'orto delle
Esperidi, e custodito da un drago, è già grande fortuna ammirarlo da
lungi.
--Custodito! da un drago! Ma sapete, Landi, che siete antico, stasera!
E il drago sarebbe il nostro buon Lesarini?--
Così rispondeva la contessa Elena; e il Lesarini, che era per
l'appunto il personaggio seduto al fianco della signora, sorrise
beatamente, tra i due pizzi grigi, che gli vestivano con aristocratica
prolissità le guance scarne.
Non era nobile, il signor Lesarini, che debbo ora descrivervi; era
abbastanza ricco per vivere ozioso, e amava consumare i suoi ozi fuori
del ceto in cui l'aveva fatto nascere il caso. Tra i suoi pari sarebbe
stato un signore; ma ognuno ha i suoi gusti, ed egli preferiva stare
coi nobili, facendo il servitore. Uomo maturo, si atteggiava a
giovanotto, accettando seriamente il titolo di «molto pericoloso» che
gli davano tutti per celia, lasciandolo volentieri accanto alle loro
metà, compiacente amico, accompagnatore discreto, drago senza rostro e
senza artigli, animale innocuo e felice, che stava accanto all'arrosto
e si pasceva di fumo. Anche le signore lo avevano accettato per quello
che amava di essere, e se lo contendevano, figuratevi, se lo
strappavano a gara. Lesarini di qua, Lesarini di là, era il cucco
delle dame, che ci si divertivano un mondo, lo mettevano a tutte le
salse e lo incaricavano ancora delle loro piccole commissioni.
Il Lesarini sorrise beatamente, come vi ho detto. L'uffizio di drago,
e nell'orto, non gli dispiaceva niente affatto.
--Sicuro;--replicò Emilio alla dama;--e armato fino ai denti.
--Si capisce;--rispose il Lesarini.--Io qui rappresento l'autorità di
Gino.--
Di Gino, capite? e non del conte Gino Malatesti. È usanza dei Lesarini
di non chiamar mai i loro nobili amici per il casato, nè per il titolo
che li distingue. Non altrimenti usano con le dame, chiamandole
semplicemente, familiarmente, per il loro nome di battesimo, e
preferendo il vezzeggiativo, se c'è. Così, quando si degnano di
ragionare delle loro imprese col volgo profano, sogliono attaccare dei
discorsi come questi:--«Sapete? ieri Corinna mi ha ricordato.... Gino
mi rispondeva.... Elena mi pregava iersera.... Ho incontrato stamane
Polissena e mi ha detto: ah bravo, Pippo! vi trovo in buon punto;
dovreste accompagnarmi dal dentista....» Raccontando queste maraviglie,
i Lesarini trionfano, fanno la ruota come i pavoni, o, se vi piace
meglio, come i tacchini. Che si fa celia? Darsi del voi con la gente
titolata! Essere i confidenti delle dame più cospicue della città!
Avere un posticino nel piccolo Olimpo mandamentale! No, per tutti gli
Dei che lo costituiscono, non c'è fortuna più grande per un signor
Lesarini.
Un'altra specie di Lesarini è quella che fa la corte ai grandi uomini.
Il piccolo personaggio vi conosce, vi onora del suo saluto ed anche, a
ore avanzate, della sua conversazione. Vedendovi da lunge, scende dal
marciapiede, attraversa la strada per muovervi incontro. Voi lo
aspettate, credendo che voglia stringervi la mano, chiedervi notizie
della vostra salute. Ma che? Il Lesarini vi abborda e vi dice, come se
continuasse un discorso:--«Vengo da Muller, ma inutilmente, e adesso
vado da Bauer. Sai? il senatore non può far la bocca alla birra di
Chiavenna, ed io mi son preso l'incarico di trovarne dell'altra, o di
Gratz, o di Baviera.»--A voi non importa un fico secco che il senatore
non gradisca la birra di Chiavenna. Lo stimate per il suo carattere,
lo ammirate per la sua parsimonia di parole in Senato, lo amate, lo
venerate per i capolavori che ha dati alla patria. Ma no; il Lesarini
vi ha da raccontare quel che egli mangia e quel ch'egli beve; e mentre
voi, per convenienza, gli rispondete un «ah!» che vuol dire e non
dire, egli vi guizza di mano.--«Lasciami, perchè ho fretta; debbo
andare da Bauer.»--E vada pure; ma non senza fermarsi otto dieci volte
per via, raccontando a tutti la medesima storia.
--Vi ha incaricato di ciò, Lesarini?--chiese Emilio Landi al vecchio
cavaliere, al drago della contessa Elena.--Siete un uomo fortunato, voi!
Ma ecco....--soggiunse, con un risolino arguto il giovanotto,--ecco un
suon d'armi, che annunzia un cambiamento di guardia.
--Dite un rinforzo!--notò la contessa, che aveva udito anch'ella un
tintinnìo di sciabola nel corridoio.
L'uscio del palchetto si aperse e comparve nel vano il bel
luogotenente De Wincsel; biondo, dagli occhi glauchi e dalle guance
rosate; a farvela breve, un angelo vestito da ufficiale di cavalleria.
Il barone De Wincsel era un fiore esotico trapiantato in Italia come i
suoi riveriti padroni della imperial casa di Asburgo Lorena. Nella sua
bellezza bionda e rosea spiccava il tipo conosciuto degli oppressori,
un tal po' dilavato nella tinta, ma grazioso per la finezza dei
lineamenti, che poi, col crescer degli anni, per quella medesima
finezza, fors'anche per le basette ispide e folte sotto un naso troppo
piccolo, prende qualche volta un aspetto felino.
La contessa Elena accolse il nuovo visitatore con atto di familiare
amabilità, mostrando così al marchese Emilio di non dar nessun peso ai
suoi frizzi. Già, se ella avesse dovuto badare a tutte le punture di
spilla del Landi, le sarebbe mancato il tempo per meritarne delle
altre. Elena Malatesti era tuttavia nel primo anno del suo matrimonio,
e già gli arguti Modenesi le avevano appiccicato il suo nomignolo di
Generala. Infatti, ella non si vedeva mai senza l'accompagnamento di
«un brillante stato maggiore.» Aiutanti, ufficiali d'ordinanza,
ufficiali stranieri in missione temporanea, si davano la muta nel
salotto della contessa, nel suo palco a teatro, allo sportello della
sua carrozza sulla pubblica passeggiata. Infine, quando si è detto la
Generala, non occorrono spiegazioni; la contessa Elena aveva il suo
soprannome, e mostrava di averlo guadagnato.
Che diceva il conte Gino? Credo che non dicesse nulla. Il nobile,
l'intelligente, l'arguto Gino Malatesti era diventato un altr'uomo da
quello di prima. Il panno appariva sempre quello, ma era un panno
stinto. Del resto, anche così ridotto alla condizione di ombra, anzi
perchè diventato ombra, adempieva con garbo al suo uffizio di signore
e padrone alla moderna, cioè di compagno, di associato, di tutore, di
tutto quel che vorrete, fuorchè padrone e signore. Per lui, dopo
tutto, era sempre lì pronta una parolina gentile della moglie; a lui
andavano di pien diritto, e non mancavano mai, gli ossequiosi saluti e
gli atti di amichevole deferenza di tutto lo stato maggiore di sua
moglie. Godeva infine di una società che avrebbe potuto far felice
Ulisse, nella sua reggia d'Itaca, in mezzo all'assiduità complimentosa
dei Proci, se il fiero marito di Penelope, nascendo con le idee di
tremil'anni dopo, avesse voluto rinunziare al gusto di spiccare il suo
grand'arco dalla parete e di fare un'ecatombe, non consentita dal
codice penale e disapprovata da tutti i ben pensanti del giorno.
E il conte Gino si contentava di quella vita? Ci si adattava? I ben
pensanti del tempo suo, che sarebbero stati tutti d'accordo per
disapprovare un suo atto d'insofferenza, non sapevano capacitarsi di
tanta sua dabbenaggine.--Ma è cieco?--dicevano.--O piuttosto ama di
parerlo?--
I più furbi, i più sottili, argomentavano che lasciasse così libera la
figlia, perchè amava sempre la madre. Ma poteva reggere, quella
supposizione? E il marchesino Landi che gli era succeduto? e sua
Eccellenza il ministro di Stato, che era succeduto a tutt'e due? Del
resto, il conte Gino si vedeva poco nel salotto della marchesa
Polissena; pochi minuti nel suo palchetto a teatro, e a passeggio mai.
Anche quella supposizione fu dunque abbandonata. Che altro pensare dei
fatti suoi? Un osservatore moralista sentenziò brevemente:--È la
penitenza. Casa Malatesti avrà presto un gran santo.--
Il barone de Wincsel, entrato nel palco e sedutosi accanto al marchese
Landi, che restava ancora per tutto l'atto al posto d'onore, parlava
poco e guardava molto. Era ancora nel periodo delle occhiate e dei
sospiri, l'angelo vestito da luogotenente, e aspettava la dolce parola
che gli permettesse di spiccare un volo più ardito. E poi, egli non
era un parlatore, un chiacchierone, come il marchesino Landi; faceva
assai più rumore con gli sproni e con la sciabola, che non con la
lingua. Non dimenticate che quello era il tempo in cui si sentivano
saltellare le durlindane sui selciati delle città, con gran noia dei
viandanti pacifici; nè i generali pensavano a reprimere questo mal
vezzo nordico, nè i pronipoti del cavaliere Bajardo avevano ancora
insegnato col loro gentile esempio che si può essere valorosi soldati
anche portando per via un bastoncello di nocciolo, o una mazza di
giunco.
Il De Wincsel guardava e sospirava. La contessa Elena credette
conveniente di sviare con qualche discorso l'attenzione di Emilio
Landi. Quanto al Lesarini, in verità, non occorrevano tanti artifizi,
poichè egli non capiva nulla e non si accorgeva di nulla. Il discorso
della contessa Elena si aggirò sulle dame che erano quella sera in
teatro. Lei esponendo, Emilio facendo le chiose, si passarono in
rassegna tutti i palchetti. La Randoni, sempre nobile, sempre severa,
un tipo di matrona antica; come mai aveva potuto mettere al mondo una
figliuola così pallida e scarna? E poi, perchè quell'abbigliatura
verde? Nessuno per consigliarle un altro colore, che l'abbattesse
meno? Un po' meglio la Frassinori; ma che pretensioni, Dio buono! Si
credeva una Giunone, o poco meno. A proposito, e perchè non si vedeva
l'avvocatino? Dov'era Giunone non doveva mancare il pavone, l'animale
a lei sacro.
E la Dal Pozzo Farnese, sempre bella, sempre rigogliosa e fresca come
un fior di stagione! Di quella si diceva bene, non potendo fare
altrimenti. La Dal Pozzo Farnese era una sorella di Emilio Landi. Tra
presenti si usano di queste cortesie! Ma quelle due borghesucce
arricchite delle Fantuzzi, che volevano gareggiare di eleganza con le
nobili dame, com'erano spietatamente conciate dalla critica di Elena
Malatesti e dalla vena compiacente del Landi! Ah, una novità, quella
sera! Anche la Campolonghi in teatro; e tutta in fronzoli, e coi
brillanti agli orecchi. Naturalissimo; era sposa. E chi era il
fortunato mortale? Uno delle parti di Reggio; sicuramente quel
giovinotto alto e biondo, un po' timido, impacciato nei modi, ma
bello, che si vedeva spuntare dal fondo del palco. Ma chi era
quell'altra donna, dal viso bianco e dai capegli nerissimi, che sedeva
di rincontro alla sposa? Una fanciulla, certamente, com'era dimostrato
dalla giovinezza dell'aspetto e dalla semplicità dell'abbigliatura. Ma
non doveva essere modenese, poichè Elena Malatesti non si ricordava di
averla veduta mai, e il marchese Landi nemmeno. E aveva guardato
Elena, la bella sconosciuta; e la guardava ancora con molta
attenzione.--Chi sarà costei?--La parentela dei Campolonghi si
conosceva tutta, e il viso di quella sconosciuta non rispondeva a
nessuno dei nomi che Emilio Landi poteva citare, tessendo la
genealogia di un'intera tribù.--Chi sarà costei?--Neanche il sapiente
Lesarini poteva appagare su questo punto la curiosità di Elena
Malatesti.
--Chiunque sia, è molto bella;--conchiuse Emilio Landi.
--Vi pare?--disse Elena, che non voleva persuadersene.--Ma già,
dimenticavo che voialtri uomini prendete fuoco come l'esca. Guardate
almeno com'è tutta affagottata!
--Affagottata, poi, non mi sembra. È messa con molta semplicità.
--Alla moda di cent'anni addietro!--ribattè la contessa.
--Cento son troppi, via! Diciamo di cinque;--volle correggere Emilio
Landi.
--E siano anche cinque;--replicò la contessa.--Cinque è come cento, in
materia di moda.--
Intanto, quelle guardate della sconosciuta le davano noia. Perchè? Non
guardava anche lei, forse? Ma quella sconosciuta era bella, e quelle
guardate così lunghe, venendo da una bella persona, così semplice
negli abiti, così composta negli atti, avevano l'aria di un giudizio
in corso. Finalmente, che vi dirò? la contessa Elena era molto
curiosa, voleva saper tutto, e le dava noia di ignorare chi fosse
quella giovane donna, non mai veduta fino allora, e sicuramente la più
bella tra quante erano allora in teatro.
--Lesarini, voi dunque non ne sapete nulla?--gridò la contessa.--Ma
che uomo siete voi? Discendete un pochino e domandate a qualcheduno
che sia meglio informato.
--È permesso di ignorare qualche cosa, a questo mondo;--osservò il
Lesarini, alzandosi di scatto;--ma è obbligo sempre d'istruirsi, per
servizio delle belle signore.--
Si mosse, così dicendo, per discendere in platea.
--Ah Lesarini!--esclamò la signora, mandando a lui la parola e
l'accento appassionato, ma l'occhiata furtiva al barone De Wincsel.--È
doloroso, sapete, questo vostro plurale!--
Il vecchio cavaliere sorrise beatamente, fece la ruota, ma non rispose
verbo. Quando sono accusati di galanteria con molte, e di galanteria
fortunata, s'intende, i Lesarini non rispondono mai. Confermare non
possono; negare non vogliono; perciò lasciano correre, felici
abbastanza che, in mancanza di storia, una leggenda si formi.
Andato il Lesarini a prender lingua, la contessa Elena seguitò la
rassegna col Landi, e il giuoco innocente delle occhiate col De
Wincsel. Ma tratto tratto guardava anche verso il palchetto della
sposa Campolonghi, e quante volte puntava da quella parte il binocolo,
tante vedeva lo sguardo della sconosciuta rivolto su lei.
--Andiamo via!--diss'ella finalmente in cuor suo.--È una provinciale
di certo, e non sa ancora come son fatte le gran dame.--
Con questo ragionamento, che appagava la sua superbia e che aveva
anche una certa apparenza di vero, la contessa Elena mise lo spirito
in pace e si lasciò guardare dell'altro, come una dea dell'Olimpo,
Giunone, ad esempio, scesa per gran degnazione in mezzo agli Etiopi.
Infine, ad un uomo può dispiacere di esser guardato con una certa
insistenza da un altro; ad una donna non può spiacer mai d'essere
argomento di curiosità femminile, o di ammirazione mascolina, quando
ella crede di esser bella, o sa di essere abbigliata all'ultima moda.
Si badava poco alla musica, come vedete. La musica è il linguaggio dei
Numi, non c'è che dire; la musica piace anche molto alle signore, per
questa ragione semplicissima, che il linguaggio dei Numi copre le voci
dei mortali e permette loro di chiacchierare comodamente nei palchi.
Quando si recita un dramma o una commedia, la cosa è molto difficile.
Altre voci umane si alternano sul palcoscenico, l'uditorio della
platea vuol sentir tutto, e zittisce spietatamente le dee che fanno
chiasso sui lati. Viva dunque la musica! Quando si è prestata una
mezza attenzione alla cavatina del tenore, o al duetto amoroso fra
tenore e soprano, o all'aria del baritono, se questi è un bell'uomo e
fraseggia con gusto, o al pizzicato degli strumenti a corde, o alla
grande uscita delle trombe, per dare anche la parte sua all'orchestra,
il rimanente non fa che aiutare il discorso, e le due o tre file di
palchi son tutto un cinguettìo, come la frappa di un olmo sull'ora del
vespero, quando ci son calate a riposo le passere.
Il terz'atto dell'opera era finito, e il marchese Landi si alzava già,
per andarsene a vedere il ballo da un palco di giovanotti, più vicino
al proscenio, quando capitò il conte Gino Malatesti. Sebbene
fisicamente fosse sempre quello di prima, il conte Gino non pareva più
lui, tanto può sull'aspetto di un uomo l'abbattimento dello spirito.
Levate il sole ad una bella scena campestre, e non riconoscerete più
nemmen quella. Sfiaccolato, cascante, senza brio nello sguardo, senza
vivacità nel discorso, il conte Gino Malatesti era invecchiato di
dieci anni in sei mesi. Entrò lento, con la sua aria d'uomo rifinito,
stese lentamente la mano al De Wincsel, più lentamente rattenne col
gesto l'amico Landi al suo posto, e si assise nel fondo del palco,
rispondendo breve a ciò che quei due gli dicevano. Poco stante,
essendo ripresa la conversazione tra essi e sua moglie, si ecclissò,
rimanendo sul posto, e non si seppe neanche più che ci fosse.
--Vedete mio marito;--disse dopo qualche minuto la contessa Elena.--È
capace di dormire.
--Non dormo;--riprese Gino;--ascolto ciò che dite voi altri.
--Ecco, se dovessi dire, non ne hai proprio l'aria;--osservò Emilio
Landi, mettendosi galantemente dalla parte della signora.
--Se almeno tu volessi raccontarci le visite che hai fatte!--ripigliò
la contessa.
--Mi avrai veduto;--rispose Gino.--Sono stato da mamma....
--Cinque minuti!--interruppe ella.--E poi?
--E poi dalla Pallavicino, dalla Borsi, dalla Frassinori.
--Che dice la divina Giulia?--domandò la contessa.--È sempre nemica
della musica del nostro Verdi?
--Ah, non so.... non ne ha parlato.
--Di che parlava, dunque? Ella non ha quasi altro tema.
--Non saprei dirti;--replicò Gino, confuso.--Si parlò di cose da
nulla....
--Vedete, Emilio?--esclamò la contessa, rivolgendosi al Landi.--Mio
marito va a far visite, e non sa nemmeno di che cosa gli abbiano
parlato.--
Il conte Gino si seccava, e sorrideva tacitamente, a labbra chiuse,
come l'uomo che si secca. A levarlo di pena giunse il vecchio
Lesarini, glorioso e trionfante. Quella volta il marchese Landi fu per
andarsene davvero; ma anche stando in piedi volle rimanere un istante,
per sentire le novelle del messaggero.
--Nunzio, che rechi?--diss'egli con piglio alfieresco al nuovo venuto.
--Ho trovato, finalmente;--rispose il Lesarini.--Ho faticato un
pochino, chiedendo di qua e di là; ma ora so tutto, so tutto.
--Che cosa?--domandò la contessa, che aveva l'aria di non ricordarsi
più della sua grande curiosità di mezz'ora prima.
--Il nome di quella signora....--replicò il vecchio Ganimede,--anzi di
quella signorina, del numero quindici.
--A mano manca!--riprese il Landi, con accento rossiniano.
--Sicuro;--disse quell'altro.--Infatti, è proprio a mano manca.
--Ma finitela con queste chiacchiere;--gridò la contessa,
spazientita.--Come si chiama questa signorina?
--Per cui tanto reo tempo si volse!--soggiunse, come se volesse
compier la frase, l'impenitente marchese Emilio.
--Una Guerri;--disse il Lesarini.--Sapete, e se non lo sapete ve lo
dico io, che la Campolonghi sposa un Guerri, del Reggiano. Gente
ricca, questi Guerri, ma vivono quasi sempre in montagna. Orbene,
quella ragazza è una Guerri, di Fiumalbo, cugina dello sposo, e venuta
a Modena, per assistere alle nozze.--
Il conte Gino, sulle prime, non aveva badato al discorso del Lesarini.
Non avea neanche udito il nome dei Guerri; udì invece il nome di
Fiumalbo, e si scosse.
--Che c'è?--domandò egli.--Che dite di Fiumalbo?
--Ah sì!--esclamò il Landi.--Tu ci sei stato, da quelle parti, e
dovresti anche conoscerla, quella bellezza rara.
--Che bellezza? Dove?--riprese Gino, turbato.
--Laggiù, al numero quindici. Prendi il binocolo, se vuoi vederla
meglio. È una Guerri, di Fiumalbo.--
Gino aveva preso il cannocchiale, ma lo lasciò tosto cadere, e fu bene
che il Landi non lo avesse ancora abbandonato del tutto, se no, povera
madreperla, e povere lenti! Guardava frattanto, il povero Gino,
guardava là, dove il Landi gli aveva indicato, e donde oramai non
poteva più sviar l'occhio; ma intravvide appena, e una nube gli
offuscò la pupilla.
--Guerri! di Fiumalbo!--diceva frattanto la contessa
Elena.--Sicuramente tu dovresti conoscerla, se ci sei stato sei mesi.
Anche a me pare di aver sentito nominare questa famiglia. Da chi mai?
Ah, ricordo, da mia madre, otto o nove mesi fa, quando ebbe le prime
notizie tue dal ministro.--
Guardava intanto suo marito, quella diavola di contessa, così giovane
e già così diavola! Gino si era fatto bianco nel viso, come un cencio
lavato. Balbettò poche parole, che nessuno intese, poi si volse
all'uscio del palchetto, barcollando.
--Che hai?--gridò Emilio Landi, cercando di trattenerlo..
--Nulla, nulla; un semplice capogiro. Prendo un po' d'aria nel
corridoio.
--Lesarini, Landi, seguite mio marito;--disse la
contessa.--Sorreggetelo, che non caschi. Ah, ah! Venuto a tempo,
questo capogiro!--
E rise, la bella signora. Poi, volgendosi dall'altra parte, puntò il
cannocchiale verso la sconosciuta, non più sconosciuta, che in quel
momento si ritirava anch'essa in fondo al suo palco.
--Scena doppia, a quel che sembra!--mormorò la signora.
--Che dite, contessa?--domandò il De Wincsel, udendo il suono, ma non
cogliendo il senso delle parole.
--Nulla, barone. Guardavo una ragazza, che il Landi mi diceva tanto
bella.
--Dove?
--Laggiù, al numero quindici. Ma ora non è più in vista. Voi per altro
non avete perduto nulla. È un tipo di contadina.
--Sapete bene, contessa,--susurrò in tono di madrigale il De
Wincsel,--che io non me ne lagnerò. Non guardo che una donna, io.
--Fate bene, De Wincsel;--rispose la contessa.--E sia sempre una sola.
Un uomo ci si trova male, fra due donne. Il minor male che gli tocchi
è di perder l'una senza aver l'altra.--
La bella signora che faceva queste savie riflessioni avrebbe potuto
illuminare, non solamente il barone De Wincsel, ma anche noi, povero
volgo ignaro, soggiungendo qualche altra considerazione intorno alla
donna che si trova fra parecchi uomini, e ci vive tranquilla, come nel
suo elemento. Ma di questo ella non si curò più che tanto, la nervosa
contessa, e noi ci abbiamo perduto una cognizione che per l'autorità
della persona sarebbe stata importantissima. E non è a dire che si
trattenesse per difetto di sincerità. Figuratevi che dentro di sè la
contessa Elena rendeva perfino giustizia a Fiordispina Guerri, di cui
dianzi aveva pur fatto un così acerbo giudizio.
--È bella, infine, e la gelosia non deve farmi travedere;--pensò ella,
mentre il De Wincsel stava ancora cercando il senso delle parole di
lei, come un avventor di caffè cerca il motto della sciarrada nel
giornale con cui ha fatto colazione.--Del resto, sono io proprio
gelosa? È bella, non c'è che dire, e capisco che il mio signor marito,
nell'ozio forzato del suo confine a Querciola, abbia potuto invaghirsi
di quel fiore di bosco. Che amori devono essere stati fra lor due!
Perchè poi, sapendo queste cose, la mia signora madre abbia voluto ad
ogni costo fare di me una Malatesti, in verità non arrivo a capirlo.
Intendo la vendetta, che è il piacere degli Dei. Ma c'era bisogno che
ne fossi io la vittima? Io, nel caso di mamma, gli avrei lasciato
sposare la sua montanara, con la certezza di esser meglio servita fra
un paio d'anni, dal pentimento e dalla noia del signor conte
Malatesti.--
Ah contessa, contessa! Ecco un ragionamento molto leggero, che non fa
onore alla vostra perspicacia. In primo luogo voi non potevate per
nessuna ragione esser la vittima, nella vendetta della marchesa
Polissena vostra madre, e la degna signora vi conosceva benissimo per
sangue suo, scegliendovi come istrumento. In secondo luogo, dato e non
concesso che il conte Malatesti potesse pentirsi fra due anni di un
matrimonio in casa Guerri, sarebbe sempre stata una vendetta troppo
lenta per la vostra signora madre. Non la serviva meglio, e in soli
sei mesi di tempo, un matrimonio del conte Gino in casa Baldovini?
Pensateci, nervosa contessa, e ci darete ragione, sincera come siete,
e spregiudicata parecchio.
Il grazioso Lesarini interruppe quel sapiente monologo, ritornando nel
palco.
--Ebbene?--gli chiese la contessa.
--Nulla,--rispose egli.--Un semplice capogiro; forse effetto del
caldo.
--E dov'è, ora?
--Qui nel corridoio col Landi; ritorna subito.--Alla contessa
importava poco che suo marito ritornasse, o restasse fuori dell'altro.
Rispose tuttavia con un gesto di soddisfazione, che poteva essere di
ringraziamento per le notizie del Lesarini, ed anche di chiusura al
discorso.
Il ballo stava per incominciare, quando riapparve il conte Gino,
ancora seguito da Emilio Landi.
--Come?--esclamò la signora.--Siete ritornato? Credevo che foste
andato a far visita.... laggiù.--
Il conte Gino le rivolse un'occhiata severa, che, per esser la prima,
non doveva turbarla molto; poi freddamente soggiunse:
--Son venuto a prendervi, per ritornare a casa.
--Che novità è questa, Gino?--domandò ella, facendo un gesto di
stupore.
--Non è una novità, che io vi accompagni;--replicò Gino, con studiata
lentezza di frase.--Spero bene che non mi lascerete andar solo, e non
incomoderete il barone De Wincsel per ricondurvi, quando io ci sono.
--Egli.... o un altro! Ce ne son tre, di cavalieri e di
amici;--mormorò ella, che aveva indovinato il valore dell'argomento.
Si alzò, nondimeno, e accettò la mantellina che era pronto ad offrirle
il più vecchio dei tre.
Ed egli e gli altri due capirono poco in quella scena coniugale, nata
lì per lì, senza cagione apparente. Nei palchi, poi, fu una grande
maraviglia; nessuno capì perchè la contessa Elena Malatesti se ne
andasse sul bel principio del ballo. Ma già, era tanto capricciosa e
strana, la contessa Elena! Tutta sua madre, infine, quando sua madre
aveva vent'anni. Il povero marchese Baldovini ne sapeva qualche cosa!
E ciò lo compensava, il brav'uomo, di tutto l'altro che doveva
ignorare, in processo di tempo.