La montanara - 04

poteva dare di peggio? Ah, meglio, cento volte meglio, un fazzoletto
di seta rigirato intorno alle tempia!
--Vivaddio, se è una moda,--conchiuse Gino,--questa almeno si capisce.
Io intendo l'ornamento della persona, ma voglio che non sia tale da
aggravare, da trasformare la figura umana.
--Non è una moda, per altro; è una necessità del nostro
clima;--osservò Fiordispina.--Qui si è fuori di casa ad ogni momento,
e l'aria di questi monti è sottile.
--Ebbene, signorina,--riprese Gino, felicissimo di aver da disputare
un pochettino con lei,--veda come la necessità è stata più graziosa
della libera scelta. Ne è venuta fuori una foggia d'acconciatura, che
ha un solo difetto, quello di nasconder troppo i capegli, ma che
seconda benissimo i contorni della testa, non ne guasta le
proporzioni, non ne turba i rapporti con tutto il rimanente della
persona. Quel cappellino a cuffia, dalle ali larghe e tondeggianti,
che si usa laggiù, con tanta esposizione di erbaggi al posto degli
orecchi, e con quel gran fiocco di nastri sotto il mento, è una vera
iniquità. Le madonne bisantine non sono niente più goffe,
esteticamente parlando, dalle nostre signore, vestite all'ultima moda
di Parigi.--
Marchesa Polissena, e voi passavate per la Dea delle ultime mode,
nella città della Bonissima! La vostra immagine, aggravata
dall'aureola bisantina del cappellino a cuffia, coi grappoli d'uva
alle guance, col gran nastro diffuso in due larghe staffe sotto il
mento e in due non meno larghi capi pendenti sul petto, con la vasta
mantiglia di velluto, ornata di trine e di frange, scendente con ampio
giro sulla cerchia mostruosa di una veste che s'accostava al diametro
della campana maggiore della Ghirlandina, la vostra immagine, dico,
non si offerse in quel punto agli occhi di Gino Malatesti?
Pare di no. Il conte Gino, vivendo a Modena, nelle consuetudini
eleganti de' suoi pari, non aveva avuto mai occasione di meditare
sulle esagerazioni della moda. Solamente lassù, tra quei monti, dove
la bella natura regna sovrana e vuole ogni cosa accomodata,
proporzionata a sè, Gino Malatesti si accomodava, si proporzionava
all'ambiente anche lui; era perciò naturale che certe esorbitanze, non
vedute, o non osservate da prima, gli saltassero agli occhi, gli
strappassero dalle labbra una parola di critica. Le critiche, poi,
sono come le ciliegie; quistion di stagione per queste, e di momento
opportuno per le altre.
Era dunque dimenticata, per allora, la marchesa Polissena. Lo spirito
dell'uomo ha le sue interferenze come la luce del sole. E in quei
discorsi allegri parve anche dimenticata la storia del condannato
politico. I discorsi, finalmente, furono interrotti dall'arrivo del
prete, accolto a festa, mentre la bella Fiordispina preparava il
caffè.
--Don Pietro!--gridò il re della montagna.--A quest'ora si viene?
--Che dirle, signor Francesco? Sono stato chiamato in fretta, per il
mio ministero di pace.
--Ah!--disse il re della montagna, con accento di rammarico.--È stato
un caso grave?
--Speriamo ancora;--rispose il prete.--Ma siamo oltre i novanta.
--Si tratta del vecchio Lorini, dunque?
--Sì, e com'Ella vede, signor Francesco mio, i giorni possono dirsi
contati. _Morbus et ipsa senectus_. Ma non parliamo di cose tristi. Ho
fatta la mia corsa fin sotto a Monticelli, ed ecco la cagione del
ritardo.
--È venuto almeno in tempo per fare un brindisi;--disse il signor
Francesco.--Le presentiamo, caro Don Pietro, il signor conte Gino
Malatesti, di Modena. Egli ha voluto dirci il suo nome, ed abbiamo
saputo nel medesimo tempo che egli, per causa d'opinioni politiche, è
stato mandato a confine in Querciola.
--Brutto paese!--esclamò Don Pietro.--Perchè non alle Vaie?
--Ma sì!--ribattè il signor Francesco.--Glielo domandi un po' Lei.
Perchè non alle Vaie?
--Signori miei,--rispose Gino, sospirando,--se il nostro venerato
governo avesse saputo che Querciola era ad un'ora di cammino dalle
Vaie, mi avrebbe mandato anche più in là. Il confine che lor signori
avrebbero voluto per me, non sarebbe stato un castigo, ma un premio.
--Non gli faremo dunque saper noi quello che ignora;--rispose il
signor Francesco, ridendo.--E deve ignorarlo, sicuramente, se pensiamo
al conto che fa di noi montanari. Ma c'è anche il suo lato buono, in
questa sua ignoranza. Qui il governo si sente meno, ed anche ce n'è
meno bisogno. Qualche strada di più sarebbe desiderata, non lo nego;
qualche argine, qualche ponte, non tornerebbero inutili. Ma infine,
quel che occorre a noi, bene o male, lo facciamo coi nostri denari, e,
non chiedendo nulla, ci avvezziamo a non aver bisogno di nessuno. Ma
ritorniamo al nostro ospite. Don Pietro, Lei è oratore; faccia un
brindisi Lei, uno di quei brindisi che sono discorsi, e di cui Ella ha
il segreto.
--Perchè no? perchè no?--disse il prete, che non era insensibile alla
lode.
--Bravo!--gridarono le signore.--Ci faccia il discorso. Don Pietro!--
Fiordispina, presso alla quale si era seduto il vecchio ministro
dell'altare, gli versò il vino nel bicchiere. Don Pietro alzò il
calice, osservò attraverso il cristallo la bella tinta di topazio del
suo vino, lo fiutò da conoscitore provetto; poi, levatosi in piedi,
parlò in questa forma:
--Vin santo! O ben nomato, poichè mi reca una buona ispirazione!
Veramente, miei signori, il brindisi, usanza pagana, disdirebbe a un
sacerdote. Ma come è santo questo vino, non sono santi forse tutti i
doni della terra? E non è memoria nelle Sacre Carte che delle loro
primizie si facesse offerta nei luoghi eccelsi all'Altissimo? Anch'io
offrirò a Dio il liquore ch'egli ha infuso nel tralcio delle nostre
colline, e pregherò (si può infatti pregare da per tutto) e pregherò
al vostro ospite tutte le benedizioni del cielo. Sia salva la sua
casa; sia prospera la sua famiglia; siano adempiuti tutti i suoi voti.
--Tutti?--mormorò Gino, mentre s'inchinava all'augurio.
--Tutti, certamente!--rispose Don Pietro.--Non sono essi onesti e
nobili? E può il conte Malatesti averne di altra ragione? Possiamo noi
immaginare che ne abbia altri, conoscendo la cagione per cui egli è
venuto pellegrino quassù? Mi confido adunque nella rettitudine
dell'animo suo, ed offro i suoi voti, e domando e prego che siano
esauditi da Dio, nel suo gran giorno di giustizia e di pace. Non ha
egli fatto alleanza col suo popolo? Così possa esser vicino quel
giorno! Così possiamo anche noi vedere il nuovo Israele posar libero e
felice nelle sue sedi, da Dan fino in Betsèba!
--Ah!--esclamò Gino, che aveva capito... l'ebraico.
--Sì,--riprese Don Pietro, commentando la sua frase nella forma della
ripetizione,--dico il nuovo Israele. Non c'è qui una immagine di
popolo eletto? E non ce ne affida questo doppio raggio di gloria e di
sventura che illumina la fronte della patria? E l'aver tanto sofferto
non è segno di aver bene meritato da Dio? Esaudite, Signore, i voti
dell'ospite! Rivolgete i vostri occhi all'Italia!--
In quel momento, col suo calice levato, Don Pietro Toschi, parroco
delle Vaie, sembrava Melchisedec, il re sacerdote, quando offriva
l'olocausto all'Altissimo sovra il poggio di Salem.
Gli astanti erano commossi; Gino Malatesti aveva le ciglia umide. Si
levò tuttavia e rispose:
--L'augurio muove da un pensiero che non mi giunge nuovo in questa
nobile casa, quantunque io ci sia ospite da poche ore soltanto.
Ricorderò che il signor Francesco Guerri ha cortesemente raddrizzata
una mia storta opinione, dicendomi: «Se sui monti è aria libera, come
sfuggirne il contatto? come evitar la politica?» Mando un saluto a
quest'aria libera, dove non sono o non si conoscono tiranni, ed auguro
al mio paese di liberarsi dai suoi.
--E di non meritarne degli altri!--soggiunse Don Pietro.--Sia questa
la seconda parte del voto!
--Certamente!--rispose Gino.--Le ricadute son gravi, e noi ne abbiamo
fatta una triste esperienza. Speriamo che questa abbia insegnato
qualche cosa agli afflitti di quindici secoli. Ed ora, o signori,
permettete che io beva alla salute vostra, alla prosperità di questa
casa ospitale, che ho trovata sul mio cammino, come un'oasi benedetta
in mezzo al deserto. Signor Guerri,--conchiuse Gino, volgendo il
discorso al suo ospite, ma tosto mandando gli occhi in giro, fino ai
suoi figli,--poichè siamo nell'oasi, Dio prosperi le vostre giovani
palme.--
Una stretta di mano, ma vigorosa, fu il discorso del re della
montagna, in risposta alle parole affettuose di Gino Malatesti.
--Ella è un amico di casa, se ne ricordi.
--Ahimè!--disse Gino....--Che è ciò? Son sceso di grado?
--Perchè?--domandò il re della montagna, non intendendo lì per lì
l'allusione del suo ospite.
--Perchè, signor Francesco mio, dianzi era stato adottato per figlio.
--Ah, sì;--rispose il vecchio, sorridendo;--quando ignoravamo ancora
l'esser suo e non vedevamo in lei che la sua qualità d'ospite. Ma Lei
ha voluto farsi conoscere, ed ora sappiamo il suo nome e il suo
titolo.
--E per questo che Ella sa,--ribattè Gino Malatesti,--mi leva quello
che mi aveva accordato? Io me ne lagno, e chiedo alla regale
ospitalità delle Vaie di non mutar nulla dai suoi cominciamenti per
me.
--Sia pur come vuole!--rispose il signor Francesco.--Non è sua, la
casa? Prenda il posto che le piace, al focolare domestico dei
Guerri.--
La sala era vasta, e mentre i commensali, alzatisi da tavola, stavano
chiacchierando in un angolo, quattro fantesche, giovani e forti
montanine, sparecchiarono in un batter d'occhio. Gino si avvide del
cambiamento di scena, quando ogni cosa era fatta. Lasciato il signor
Francesco a discorrere col vecchio parroco, si accostò allora a
Fiordispina, e le chiese in grazia di far sentire qualche cosa sul
pianoforte, se, come aveva immaginato, era lei la musicista di casa.
La bella figlia dei monti arrossì un pochettino, ma non istette a
farsi pregare, come fanno le dilettanti della pianura; non si scusò
neanche con la solita ragione del non ricordare che musica vecchia,
ben sapendo che la vecchia è molto spesso la buona, e andò di buon
grado a sedersi davanti al suo Erard, di cui il conte Gino sollevò
prontamente il coperchio. Si fece silenzio nella comitiva, quando la
fanciulla dei Guerri alzò la ribalta e posò le dita sulla tastiera,
traendone i primi accordi, un po' timidi, ma precisi.
Il pianoforte è molesto nelle città, come tutte le cose delle quali si
abusa. C'è un modo di far soffrire il mio amico Arnaldo Vassallo:
basta suonargli la _Stella confidente_. Il pianoforte, strimpellato in
ogni luogo e a tutte le ore del giorno, è una vera afflizione
dell'umanità, e non si capisce come Mosè, che era profeta e poteva
prevederlo, non lo abbia fatto figurare tra le piaghe d'Egitto. Ma
questo istrumento, che è di tortura in città, può riescir di piacere
_in montibus altis_, dove manca ogni musica, anche quella dei grilli,
e dove infine, a mente fresca e serena, osservando le cose di questo
mondo da una sommità ragguardevole, sareste capace di riconciliarvi
col peggiore dei vostri nemici.
E le campane, del resto? Non succede lo stesso con le campane? Questo
sacro ma uggioso bronzo, che co' suoi rintocchi medievali urta i nervi
alle nostre generazioni ammalate d'emicrania, è piacevole in villa,
dove il suono si diffonde all'aperto, risvegliando pensieri di festa;
è giocondo, poi, è divino sulla vetta di un'Alpe, dove il suono vi
giunge affievolito, ma sempre argentino all'orecchio, senza che pur
vediate la chiesa e il campanile, perduti nella nebbia luminosa della
valle sottoposta.
Ritornando al pianoforte, non sarà mai considerato nemico un
istrumento come quello, se ne traggono suoni le dita di una bella
ragazza. Il pensiero melodico sarà di Chopin, o di Mendelssohn; ma
esso è passato nella mente di lei, dove vorreste regnar voi; ha
vibrato per tutti i suoi nervi, prima di tradursi in quella pioggia di
note.
Gino Malatesti, seduto accanto al piano, guardava. Guardava lei, si
capisce, e ad un certo punto la fanciulla se ne avvide, si confuse,
perdette il filo, e fece, come si dice volgarmente, un pasticcio.
--Ebbene, signorina?--diss'egli, vedendo che la suonatrice rimaneva in
tronco.
--Ah, non so più!--mormorò Fiordispina.--Non sono avvezza....
--No, continui, la prego!--
E c'era tanto arder di preghiera in quelle poche parole, che
Fiordispina ripigliò la suonata, andando fino alle ultime note senza
fermarsi.
Poi venne Don Pietro, che volle un motivo del Verdi, il coro famoso
dei _Lombardi_, e poi l'altro, non meno famoso, del _Nabucco_. Voi già
capite dove s'andasse a finire: con gli inni del Quarantotto. Don
Pietro Toschi era un quarantottista travestito.
Ora paiono cose dell'altro mondo; ma allora, nel periodo acuto dei
dolori italiani, era così, come io vi racconto. Tutti li avevano in
mente, gli inni del riscatto, e li canticchiavano tutti tra i denti.
Anche quando si diceva male del Quarantotto, de' suoi canti, delle sue
piume, delle sue coccarde e dei suoi discorsi in piazza, era facile
sentire nell'amaro della critica il dolce dell'amore profondo,
indimenticabile, eterno. Infine, si erano commessi errori su errori,
ma si era vissuti, si era allargato il cuore alle divine speranze, e
tutti i ceti, tutti gli uffici sociali, si erano fusi in quel sacro
entusiasmo. Anche Don Pietro Toschi, si era riscaldato il cervello;
aveva veduto molti giovani passare da Fiumalbo, per correre alla
Guerra Santa, e aveva gridato: «bravi! che Iddio vi benedica!» Poi
erano venute le disgrazie; ma la reazione, che aveva dilagato al
piano, non si era potuta spingere fino a quei monti, dove i cuori
erano uniti e le labbra chiuse. Qualche commissario, capitato lassù,
era stato affogato nel lambrusco dell'ospitalità.--«Brava
gente!--aveva dovuto riferire ai superiori.--Pensano ai fatti loro,
amano il vin buono, e lo fanno bere agli amici.»
Così la tirannide si spegneva, o rimetteva della sua ferocia in quegli
alpestri confini. Il monte Cimone non conosceva impiegati ducali, e i
suoi echi potevano liberamente ripetere le note degli inni
patriottici. Il conte Gino gustò molto quella musica. Conosceva quegli
inni, uditi da giovinetto; sentì che erano ricordati in onor suo, e
non si dolse davvero di una disgrazia che gli meritava quella
dimostrazione di stima affettuosa. Gran serata, che egli non si
aspettava certamente nel mattino, muovendo da Pievepelago! Il nostro
giovanotto aveva il cuore pieno, riboccante di affetto, di poesia e di
gloria.
Quella notte, nel letto ospitale dei Guerri, il conte Gino Malatesti
sognò grandi cose. Il duca di Modena era fuggito; la sua città natale
era libera, e giurava una lega con tutte le altre città italiane. Egli
poi, montato a cavallo, inseguiva il tiranno, fuggente come Serse a
Salamina, o come il Barbarossa a Legnano. Il conte Gino non era solo;
molti venivano con lui, tra gli altri suo fratello Aminta. E al fianco
gli galoppava Minerva galeata; ma l'elmo della Dea somigliava molto ad
uno di seta, che il conte Gino aveva ammirato il giorno prima alle
Vaie.


Capitolo IV.
La vita alle Vaie.

Venne il mattino, tiepido e fragrante mattino, uno di quelli che fanno
così grato il muoversi, quando non si sta bene in un luogo, o si spera
di trovar meglio, ma che per contro fanno così dolce il restare dove
il soggiorno è piacevole. E il conte Gino Malatesti doveva andare a
Querciola. Era l'obbligo suo, e lo aveva accennato ai signori Guerri,
prima di ritirarsi nella camera ospitale.
Perciò, all'alba del giorno seguente, erano già pronti due cavalli nel
cortile: i due cavalli che Gino conosceva, il suo del giorno avanti e
quello del signor Aminta, o, se piace meglio a voi, come piaceva al
conte Malatesti, di suo fratello Aminta.
Il signor Francesco, alzato anch'egli per tempo, diede il buon viaggio
al suo ospite. Ed anche il felice ritorno, come potrete immaginare,
poichè queste cose si dicono sempre. Le signore non si erano
presentate nel salotto, ma il conte Gino, come fu in sella, ebbe il
piacere di vederle apparire sopra un terrazzo scoperto, a fianco della
casa, e di mandar loro un rispettoso saluto. Tra esse, naturalmente, e
quasi sarebbe inutile il dirlo, era anche Minerva galeata.
I nostri due cavalieri, fatta una breve salita, andarono costeggiando
la montagna per un sentiero sassoso, all'ombra dei soliti cerri;
guadarono due o tre torrentelli, e dopo mezz'ora di cammino scopersero
le prime case di Querciola.
Veramente, il nostro Gino Malatesti non aveva scoperto nulla.
Querciola aveva i tetti di legno o di falde di pietra; e falde e
tavole, essendo tutte coperte di musco, si confondevano facilmente col
verde grigio della costiera. La scoperse Aminta e la indicò al suo
compagno di viaggio, che la distinse a sua volta ed intese non
trattarsi d'altro che d'una doppia fila di casipole, mezzo nascoste in
una piega del monte.
--Quella,--disse Aminta,--è Querciola sottana, e ci arriveremo in un
quarto d'ora.
--Come'?--esclamò Gino.--C'è ancora una Querciola soprana?
--Sì, un quarto d'ora di cammino più su, dietro quella macchia di
roveri.
--In verità,--disse Gino, ridendo,--non avrei creduto necessario che
ci fossero due Querciole. Una bastava, se non era d'avanzo.
--E dobbiamo andare a quell'altra,--rispose Aminta,--se Ella vuol
trovare un alloggio meno orribile degli altri, nella casa dei Paoli.
--Che! Non occorre;--disse Gino.--Orribile più, orribile meno,
sceglierò il più vicino.
--Ma badi!--osservò Aminta.--L'orribile più sarà orribile troppo.
--Ebbene,--replicò Gino,--che importa? Sia pure il peggio dei peggi.
Non debbo io anche interpetrare degnamente le intenzioni del governo
ducale? Mi vuol confinato a Querciola, in punizione de' miei peccati;
sarà edificato di sapermi ad alloggio nella Querciola peggiore. Anzi,
se non le dispiace, Aminta, la chiameremo sempre così: Querciola
peggiore, per non far onta ad un grazioso indumento di cui la
Querciola sottana è ben lungi dal ricordare la bianchezza.--
Si rise, a quella trovata, e l'allegria fece parere meno lunga la
salita. Quindici minuti dopo, come aveva detto il signor Aminta, i
cavalli giungevano trottando davanti alle prime case di Querciola
peggiore.
Il giovane Guerri conosceva tutti i capi di famiglia delle due
Querciole e non gli era difficile di trovare un alloggio per il conte
Malatesti, poichè tutti erano cattivi ad un modo, e non sarebbe stato
neanche il caso di scegliere. Si fermò pertanto alla prima del
villaggio, con grande soddisfazione del suo compagno, il quale promise
a se stesso che per sua propria elezione non avrebbe mai fatta la
traversata del paese. E questo si capisce benissimo, non essendo
bisogno di traversare Querciola, per uno che volesse andare alle Vaie.
La casa Mandelli, poichè questo era il suo nome, poteva chiamarsi
egualmente una catapecchia. Buono, per chi doveva abitarci, che la
scala era di fuori, tutta a lume di sole, poichè altrimenti non si
sarebbero veduti gli scalini, così rotti e sconnessi com'erano, e uno
meno pratico avrebbe potuto fiaccarcisi il collo. Gli usci
sgangherati, l'impiantito logoro, le mura con certe crepe lunghe fino
al tetto, raffidavano poco, facevano pensare che la vita dell'uomo è
sospesa pur troppo ad un filo. Pure, vedete, tanta è l'abitudine di
star lì, quelle case si tengon ritte. È vero altresì che quando
cascano, son mucchi di rottami, tra cui cerchereste inutilmente, tra
legno o pietra, due palmi di buono.
Casa Mandelli poteva appigionare una camera. C'era un letto, in quella
camera, e largo abbastanza; ma Gino Malatesti fremette involontariamente,
guardandolo. Ci sono dei letti terribili, anche senza pensare al romanzo
inglese che da uno di questi s'intitola; letti assassini, dove si
appiatta una banda sitibonda e famelica, banda invisibile nel giorno, ma
operante, e come! nel cuor della notte. Son là, i nemici striscianti e i
nemici saltanti; non sono lontani quegli altri che caleranno dal cielo
con la tromba, ma non a guisa d'angeli che debbano risvegliarvi per l'ora
solenne del giudizio, bensì di tormentatori esimii, che v'impediscano di
prender sonno, e vi lascino, vittima consapevole e invano repugnante, in
balia dei loro amici e commensali, dopo avervi succhiato essi medesimi
qualche oncia di sangue.
Il signor Aminta aveva tirato in disparte il padrone di casa e gli
stava facendo sottovoce un lungo discorso. Il conte Gino capì che egli
raccomandava al contadino qualche utile novità, per rendere abitabile
quel bugigattolo, e discretamente si tenne lontano; anzi andò verso la
finestra, da cui si aveva una veduta ristretta di cielo, ma per contro
abbastanza bella, per il verde intenso della montagna.
Poco stante, il suo compagno gli venne accanto, poichè aveva finito di
ragionare con quell'altro.
--Che cosa le avevo detto io?--incominciò.--Non si sta bene, a
Querciola. Ma oramai, sia bene o male, l'alloggio lo abbiamo, ed ogni
commissario che il governo ducale può mandare quassù ad accertarsi
della osservanza dei suoi precetti, troverà il condannato nel suo
carcere. Ma per ora, siccome Ella non è condannato a morire di fame,
venga a far colazione.
--Andiamo;--rispose Gino.--C'è un oste a Querciola?
--No,--disse Aminta,--ma Ella ha qui il suo cavallo.--
Il conte Gino sorrise, e solamente le buone creanze lo trattennero dal
fare una matta risata. La risposta del signor Aminta gli richiamava
alla mente gli esercizi del tedesco, insegnati col metodo
dell'Ollendorf.--«Avete voi veduto il mio caro zio?--No, ma io ho
trovato il vostro buon temperino.»
--Che c'entra il cavallo?--domandò egli allora.
--C'entra,--rispose Aminta,--per escire da Querciola e ritornare alle
Vaie. In un'ora siamo venuti quassù; in tre quarti d'ora saremo di
ritorno a casa.
--Ma, veramente....--balbettò Gino.--Non sarà un abusare della loro
cortesia?
--Che!--disse Aminta,--In primo luogo ci aspettano. In secondo luogo,
la farebbe magra, a star qui fin d'oggi, ed è già molto che venga a
dormirci stasera. In terzo luogo, spero bene che accetterà di venire
tutti i giorni a desinare da noi. È il desiderio di mio padre, che
aspettava per l'appunto a dirglielo quest'oggi.
--Tutti i giorni, poi!--esclamò Gino, confuso.
--Ebbene? Che difficoltà ci trova? Il cavallo sarà sempre a sua
disposizione qui sotto. Mi sono inteso col bravo Mandelli, perchè
faccia subito un po' di pulizia nella stalla, e credo,--soggiunse
Aminta, ridendo,--che la cosa gli riesca molto più facile dell'altra,
di mettere in assetto questa camera. Ella dunque non avrà che due
corse da fare ogni giorno: una per aguzzar l'appetito, e l'altra per
avviare la digestione. Badi a me, signor conte: in questi luoghi
bisogna andare, andar sempre; è l'unico rimedio per non morire di
noia, e per non diventar scimuniti.
--Capisco;--disse Gino.--Se non incontravo ieri la provvidenza dei
Guerri, povero a me! finivo male, con questa bella alternativa.--
E rimontò a cavallo e si avviò per la discesa, col suo gentilissimo
ospite, a cui propose subito di lasciare da banda le cerimonie,
passando dal noiosissimo _lei_ al grato e italianissimo _tu_. Del
resto, non era egli stato accolto come figlio, nella casa dei Guerri?
E non doveva trattare Aminta come un fratello?
Vi ho detto dianzi, quando eravamo nella casa Mandelli, che la veduta
era molto ristretta. Ma la prospettiva oramai si allargava, per il
conte Gino Malatesti. Di lassù, anche tra i cerri e gli abeti, vedeva
già tante cose in lontananza! La bella Minerva galeata, per esempio; e
mi pare che basti.
Così sempre avviene, del resto, e non c'è da maravigliare per questo
fenomeno di ottica, che è la cosa più naturale del mondo. Non sono
soltanto i colori, che hanno la loro sede nel nostro occhio, come
vogliono i fisici. Noi facciamo spesso la nostra prospettiva aerea nel
profondo del cuore, e non abbiamo mestieri dell'azzurro dei cieli,
quando il sereno è nell'anima nostra.
Gino fu accolto con gran festa alle Vaie. Come aveva trovato il
soggiorno di Querciola? Brutto, naturalmente; ma tanto meglio per i
Guerri, che avrebbero avuto la fortuna di vedere il loro ospite più
spesso. Si capisce che tornò in campo la proposta già fatta da Aminta,
e che il conte Malatesti credette obbligo di piccola cortesia
schermirsi un pochino, ma obbligo di vera riconoscenza accettarla. Per
intanto, volendo adattarsi agli usi della famiglia, ricusava di far
colazione. I Guerri pranzavano a mezzodì, e cenavano alle sette Erano
allora le dieci, ma Gino non aveva fame, poteva aspettare, sarebbe
stato felicissimo di aspettare il mezzodì. Per la cena, s'intende,
avrebbe dovuto contentarsi di farla a Querciola.
Tutte queste cose furono presto discusse e concertate. Poi il signor
Francesco e suo figlio Aminta si ritirarono, avendo qualche negozio da
sbrigare, e il conte Malatesti se ne andò in giardino, anche per
lasciar libere le signore di attendere alle faccende domestiche da
quelle buone massaie che erano certamente, e desiderose di dar occhio
a tutto nel governo della casa.
Poca cosa, il giardino, non essendo la stagione ancora molto
inoltrata. Quella primavera, il Cimone aveva raccorciato, ma non
buttato via, il suo mantello di neve, e le notti delle Vaie erano
ancora freddine, ma accanto al giardino scarno si vedeva la stufa, e
questa era piena di vasi d'ogni grandezza, disposti in ordine, a
scaglioni, tra cui si poteva passare comodamente, ammirando una bella
varietà di piante, anche delle specie più rare. Gino Malatesti ammirò
una graziosa raccolta di eriche, coi fiorellini fitti fitti, foggiati
a campanule bianche e vermiglie.
Mentre stava osservando quelle eriche, non sapendone il nome e la
provenienza, ma indovinandone il pregio, gli baluginò davanti agli
occhi la fanciulla dei Guerri, escita allora dal porticato della casa
alla luce aperta del giardino. Lasciò subito di guardare le piante e
si avanzò verso l'invetriata della stufa, per veder meglio la gloriosa
apparizione, che incedeva snella e leggiera tra le aiuole deserte di
fiori. Era essa il fiore del giardino, il giglio delle convalli, e la
sua bellezza verginale si accordava maravigliosamente con quella
dell'agreste natura.
--Bella ragazza, in fede mia!--disse Gino tra sè.--Chi sarà il felice
mortale che la sposerà? Mi pare che abbia l'età da marito, oramai. Ma
qui ci saranno partiti per lei? Questi re della montagna son ricchi,
sicuramente; ma le loro pretese, dato il luogo, non possono mica
essere troppo alte, o lo saranno solamente... sul livello del mare.--
Quella scappata del suo pensiero lo fece sorridere; ma non s'indugiò,
il pensatore, e riprese subito il filo del suo ragionamento.
--Bella ragazza, in fede mia!--ripetè egli, come per pigliar la
rincorsa.--L'uomo che la sposerà può dirsi fortunato fin d'ora. Ma
forse, come troppo spesso avviene, sarà un uomo che non intenderà la
propria fortuna. Questa fanciulla è un fiore alpino, ma cresciuto in
una stufa, come queste eriche maravigliose. Suona con grazia e
sentimento; conosce parecchie lingue; ha avuto certamente una
educazione inferiore a questo livello barometrico, ma superiore a
questo livello sociale. Dove sarà stata in conservatorio? A Modena, o
a Reggio; fors'anche da quest'altra parte, in una città di Toscana. Mi
pare d'indovinarlo da una certa rotondità di pronunzia, da una certa
scioltezza di frase. Questi fiori umani, educati con gran cura per la
vita elegante di una città, vengono ad avvizzir qua, tra boscaiuoli e
caprai. Povere fanciulle! Vivono in un ambiente che non dovrebbe più
essere il loro; risplendono inutilmente, nella delicatezza delle loro
forme, ad occhi che vedono grosso come quelli de' buoi; spandono
soavità di profumi per nari disavvezzate nel grave odore della terra
smossa. E qui, care angiole, fanno delle torte, come la Carlotta del
_Werther_, quando non lavano i pannilini al torrente, come la Nausicaa
dell'Odissèa. Sì, ma poi fanno anche dei figliuoli robusti e belli