La montanara - 01
LA MONTANARA
RACCONTO
DI
ANTON GIULIO BARRILI
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1886.
PROPRIETÀ LETTERARIA
RISERVATI TUTTI I DIRITTI.
Tip. Fratelli Treves.
LA MONTANARA
Capitolo Primo.
Mandato a confine.
«_Illustrissimo Signor Conte,_
«Con grave rincrescimento, ma non senza il conforto di vedere evitato
un male più grande, annunzio alla Signoria Vostra Illustrissima come
il governo di Sua Altezza Serenissima abbia posto gli occhi sui
diportamenti del signor conte Gino, _di Lei_ figlio primogenito. Le
sue relazioni con persone indegne e non convenienti al suo grado, i
viaggi frequenti, uno dei quali fu protratto, come consta a questo
ufficio, ben oltre i confini dei prossimi Stati di Parma e Piacenza, e
finalmente lo scandaloso episodio della scorsa domenica, nella villa
dove il predetto conte Gino _di Lei_ figlio ha osato trarre da un
mazzo di fiori sconvenientissime allusioni alla bandiera piemontese,
hanno costretto il governo di S. A. S. ad uscire da quei riguardi che
il cuore paterno del nostro augusto Signore avrebbe pur voluto
osservare.
«La severità delle disposizioni sarebbe stata più grande e meglio
proporzionata alla gravità dei trascorsi, se all'animo della prefata
Altezza Sua non fosse piaciuto di temperare i proprii e giusti rigori,
pensando ai meriti della S. V. Ill.ma, e ricordando com'Ella, da leale
e fedelissimo suddito, anche in tempi più sciolti, quali furono quelli
dell'infausto 1848, ricusasse costantemente di riconoscere il
sedicente governo dei rivoltosi. Egli è per ciò che la prefata Altezza
si è degnata di comandare che il conte Gino Malatesti vada a confine a
Querciuola, e più non ne esca fino a nuovo ordine, come correzione
sua, se è possibile, e come esempio salutare ad altri nobili, che
potessero derogare siffattamente al grado loro, e venir meno in tal
guisa alla benevolenza del Padrone, da dimenticare in qualche modo il
loro obbligo di fedeltà.
«La differenza fra il trattamento usato al predetto suo figlio e
quello che toccherà agli altri suoi complici, dimostrerà alla S. V.
Ill.ma quanta clemenza alberghi nell'animo del nostro venerato
Signore. Disponga Ella pertanto, appena ricevuta questa
confidenzialissima lettera, che il figlio suo conte Gino, senza
indugio di ore, senza tentar di comunicare con altre persone, o di
presenza, o per lettere, sia avviato alla sua destinazione. Non le
nascondo che questo ufficio dovrà vegliare dal canto suo
all'adempimento rigoroso dell'ordine e delle sue _modalità_, quali ho
avuto l'onore di significarle.
«Colgo l'occasione, illustrissimo signor Conte, per rassegnarle gli
atti della mia servitù, ecc., ecc.»
Così il direttore di polizia del duca di Modena, in un giorno del
1857, che non occorre di precisare. La lettera era diretta al conte
Jacopo Malatesti.
Il conta Jacopo era un fedel servitore del duca. La madre sua, una
Lanzoni, era stata dama d'onore di Maria Beatrice d'Este, ultimo
rampollo delle famiglie Cibo ed Estense. Il padre era morto
ciambellano del duca Francesco IV. Egli, poi, si era diportato
_stupendamente_ nel 1848, poichè aveva voluto accompagnare fino alla
frontiera il suo buon padrone Francesco V, quando questi, costretto ad
abbandonare la sua residenza ducale, era corso a ricoverarsi sotto le
grandi ali dell'aquila austriaca. Ragioni domestiche, prima tra le
quali la cura del suo patrimonio, non gli avevano consentito di andare
più in là, fino a Vienna; ma, anche ritornato in patria, il conte
Jacopo aveva dato un insigne esempio di fedeltà al suo padrone, poichè
si era chiuso nel suo palazzo, tenendone chiuse le finestre e le
persiane verso la strada, fino a tanto durò la baldoria dei liberali.
«Baldoria» era il termine usato da lui. Il palazzo dei Malatesti
sorgeva sulla strada maggiore della città; le occasioni di ostentare
la chiusura delle finestre erano molte, e per conseguenza erano anche
molte quelle di far perdere la pazienza ai liberali. Ma nessuno lo
aveva molestato; si era riso alla prima circostanza, si seguitò a
ridere per le altre; e voi lo sapete, quando un popolo ride, è un
popolo che non rompe i vetri a nessuno. Il conte Jacopo raccolse i
benefizi di quelle risate, e potè vantarsi più tardi che i ribelli non
avessero osato. Nell'aprile del 1849, prostrate sui campi di Novara le
fortune d'Italia, Francesco V era ritornato tra i frementi suoi
sudditi, ma con le baionette austriache al fianco, e primo a muovergli
incontro, per dargli il benvenuto nei suoi felicissimi Stati, fu il
conte Jacopo Malatesti.
Come potesse educarsi tanto diverso da lui il conte Gino, in verità
non si riesce ad intendere. Ah, questi figliuoli, questi figliuoli!...
come girano nel manico! come vengono su diversi dai padri! Il conte
Gino era venuto su un fior di liberale, da una stufa sanfedista! E non
si contentava mica di essere un liberale dentro di sè, conservandosi
per tempi migliori; no, voleva dare anche scandalo alle turbe.
Figuratevi che sdegnava di presentarsi a Corte, quantunque vivesse con
uno sfoggio da gran signore, mettesse volentieri in mostra i suoi
cavalli e facesse regolarmente le follìe di tutti i suoi pari. Ma che
volete? In mezzo a tutte queste grandezze, il liberale a quando a
quando scattava fuori, e lo dimostrava sopra tutto una certa smania di
discendere, di stringer la mano a tutti, di darsi del tu con
avvocatuzzi e mediconzoli, magari anche con commessi di banco: gente
inferiore, non conveniente al suo grado, come diceva con sua
particolare eloquenza il signor direttore di polizia.
E poi, quel suo viaggiare continuo! Per Bologna, passi, che era negli
Stati pontificii; quantunque, avendo essa un certo numero di teste
esaltate, si sarebbe piuttosto gradito che il conte Gino si astenesse
dall'andarci. Parma e Piacenza, così così! Per che farci, del resto?
Veduti una volta a Parma i dipinti del Correggio, a Piacenza i cavalli
dei Farnesi, non si dovrebbe più sentire il bisogno di rifare la
strada. Già, qualunque sia il movente del viaggio, salvo quello di una
stretta necessità domestica commerciale, un suddito che viaggia è in
procinto di diventar meno «fedelissimo» d'un suddito che sta fermo. Si
prende tropp'aria; l'ossigeno della libertà è pericoloso, senza
contare il rischio di tingersi nel carbonio delle idee sovversive. Ma
il conte Gino Malatesti aveva fatto peggio che calare a Parma e
Piacenza; si era trafugato in Lomellina, e via via fino a Torino,
capite? a Torino, dove sventolavano i tre colori, quell'abominio, e
dove vivevano liberi, quasi rispettati, tutti i rompicolli d'Italia.
Sicuramente, il giovinotto avrebbe potuto invocare per questa scappata
più che le circostanze attenuanti: avrebbe potuto addurre a sua scusa
lo aver seguita la marchesa Baldovini, quella bella matta, che aveva
una figlia già grandicella, la quale prometteva di diventar così bella
anche lei, tanto da parer sua gemella. Era uno dei fiori della
generazione passata, la signora marchesa Baldovini, Polissena di nome,
e molti vecchi la ricorderanno ancora con un palpito. Nata intorno al
1820, era del 1857 una bellezza matura e stupenda, citata a Piacenza
come a Bologna, a Torino come a Firenze, nota insomma a tutta l'Italia
superiore per la sua alta galanteria, per il suo matto spendere, per
le teste che aveva fatte girare. E giovane sempre, ad onta di tante
avventure, che facevano argomentare più anni dei suoi trentasette; e
un certo modo di vestire, e un garbo, una baldanza, nel far sue le più
stravaganti novità parigine, che non si poteva andare più in là, nè
immaginar niente di meglio.
Molti avevano fatto pazzie, o semplicemente sciocchezze, per la
marchesa Polissena. Doveva il conte Gino astenersi da quella di
accompagnarla fino a Torino, dove la chiamavano alcuni interessi di
famiglia? Ella, in fondo, lo aveva quasi rapito. Da principio si era
parlato di giungere fino alla frontiera parmense, donde la marchesa
avrebbe proseguito da sola il viaggio. Ma là, dopo Piacenza, la
capricciosa signora aveva detto a Gino:--Sarebbe bella, se voi veniste
fino a Torino.--Ed egli aveva risposto:--Sarebbe anzi bellissima.--E
senza permesso era andato oltre, ed era rimasto due settimane, nella
capitale dell'aborrito Piemonte. Si possono fare molte cose, in due
settimane. Perciò immaginate come fosse pedinato, osservato,
invigilato, quando fu di ritorno sotto la giurisdizione della
Bonissima!
Colpa sua, questa volta, e non più della marchesa Baldovini: una
domenica, essendo andato in villa, presso Reggio, con certi
avvocatuzzi e mediconzoli (professionacce, come vedete!) aveva
salutato sul finir d'un banchetto i tre colori d'Italia. Quello era lo
scandaloso episodio, a cui alludeva nella sua lettera il direttore di
polizia. Il brindisi, ispirato da un mazzo di fiori che sorgeva in
mezzo alla tavola, includeva i soliti voti di distruzione dell'ordine
stabilito. I diritti degli Este e dei Cibo, passati per il matrimonio
di Maria Beatrice nella augusta casa di Lorena, erano audacemente
negati; la felicità dei ducati di Modena, Massa, Carrara e Guastalla,
la sicurezza di Parma e Piacenza, e degli altri Stati contèrmini, la
stessa pace d'Europa, tutto era turbato, minacciato da quel brindisi.
Un esempio voleva essere, e pronto. Gli avvocatuzzi e i mediconzoli
sarebbero andati a meditare nuove combinazioni di colori in fortezza.
Gran mercè per il conte Gino, figlio al conte Jacopo, che era figlio
di ciambellani e di dame d'onore, personaggio di pura fede e degno di
tutti i riguardi, esser mandato semplicemente a confine.
Il nostro giovinotto non ebbe che il tempo strettamente necessario a
far le valigie. L'ordine della polizia ducale era chiaro e non
ammetteva eccezioni. Ma perchè le valigie le facevano i servitori, il
conte Gino ebbe il tempo di ricevere una solenne ramanzina dal conte
padre, in presenza della famiglia, radunata nella camera di giustizia,
dov'era dipinto, in mezzo a tutti gli stemmi di parentela, lo scudo
dei Malatesti. I Malatesti di Modena, come quelli di Rimini, di cui
erano una diramazione, portavano lo scudo inquartato: il primo e il
quarto di verde, con tre teste di donne, di carnagione, crinite d'oro:
il secondo e il terzo d'argento, con tre sbarre scaccate di nero e
d'oro, di due file: il tutto con la bordura inchiavata d'argento e di
nero.
Quanto a salutare la bella marchesa Baldovini, non c'era neanche da
pensarci. Le valigie erano fatte; la carrozza era pronta nel cortile
del palazzo; bisognava partire, e subito. Tra le persone di servizio
ci potevano essere, c'erano sicuramente, le spie; anche per via la
carrozza sarebbe stata invigilata dalle guardie ducali travestite.
Tutto ciò che il conte Gino ottenne, fu di passare per il Corso,
l'antica via Emilia, dove alloggiava la marchesa, quantunque il Corso
mettesse a porta Sant'Agostino, verso Reggio, mentre, per escire da
porta San Francesco, sulla via di Toscana, bisognava fare un più lungo
giro, con una voltata ad angolo acuto.
Il palazzo Baldovini, nobilissima costruzione del Cinquecento, resa
pesante e goffa da certi restauri ed intonachi del Settecento, era
muto d'ogni luce, quantunque fossero a mala pena le nove di sera. Non
era giorno di conversazione, del resto, e le finestre del salottino,
dove Polissena aspettava i più intimi visitatori, guardavano dalla
parte del giardino. Il nostro povero eroe sentì uno schianto al cuore,
pensando che a quell'ora egli era aspettato lassù. Ma la carrozza tirò
via, e il conte Gino aveva ventisei anni: un'età in cui gli schianti
del cuore non sono niente più pericolosi dei raffreddori.
Sospirò, nondimeno, uscendo dalla città della Bonissima e
allontanandosi Dio sa per quanto tempo dall'ombra materna della sua
Ghirlandina, una delle sette più alte torri d'Italia. E il suo sospiro
fu così forte, da muovere il servitore che gli faceva compagnia nel
viaggio.
--Soffre, illustrissimo?--domandò questi rispettosamente, ma con
quell'accento affettuoso e quasi familiare dei servitori del vecchio
stampo.
--Sì, Giuseppe, e molto;--rispose il conte Gino.
--È dolorosa,--ripigliò allora il servitore,--dover lasciare da un
momento all'altro la sua città, la sua famiglia... gli amici! Perchè
Lei, illustrissimo, non avrà avuto tempo a vederne nessuno.
--Figurati! Due ore fa pensavo a questo viaggio, come ci pensavi tu
stesso, che non ne sapevi un bel nulla. Ma tu ritornerai domani o
doman l'altro; ed io, invece... chi sa quando rivedrò la mia Modena!
--E i suoi amici!--soggiunse Giuseppe.--Se crede, signor conte... se
vuole avere un po' di confidenza in me... Ella mi conosce poco, perchè
son sempre stato più accanto al signor conte Jacopo che a Lei; ma sono
un uomo fidato, e se posso servirla... se ha commissioni da darmi, non
dubiti, farò ogni cosa a dovere. La penso come Lei, sa? come Lei, e mi
strapperebbero la lingua, piuttosto che cavarmi di bocca un segreto
che Ella mi avesse confidato,--
Il conte Gino mise una mano sulla spalla del servitore.
--Bravo, Giuseppe!--gli disse.--E grazie; se occorrerà, metterò la tua
amicizia alla prova.--
Ma egli non aveva veramente da confidargli nulla. Con gli amici suoi
non c'era ombra di combinazioni politiche. A quei tempi non occorreva
neanche cospirare; la rivoluzione era nell'aria; i giovani e i maturi
si riconoscevano per via a cert'aspetto più ilare, più baldanzoso di
prima, si stringevano la mano con forza, anche quando si vedevano per
la prima volta, e non c'era più altro da aggiungere, nè concerti da
prendere, nè parole d'ordine da far correre intorno.
Otto anni prima era stata una triste caduta delle speranze italiane.
Ma a quella caduta era seguito più dolore che abbattimento di spirito.
Anche i principi, i tirannelli, rientrando nei loro dominî sotto la
scorta delle baionette austriache, non potevano esser peggio ispirati,
poichè gli stranieri, abbastanza tranquilli da prima, erano ritornati
burbanzosi e tracotanti; nè solamente trattavano con soldatesca
arroganza i ribelli, coloro che avevano osato prender le armi per la
«guerra santa», ma anche i pacifici e timorosissimi sudditi, che
avevano tremato per le incertezze dei nuovi tempi e veduto con una
certa soddisfazione il ritorno degli antichi padroni. Ahimè! Qual
compagnia rumorosa e molesta conducevano quei cari padroni con sè! Non
era per le vie che un batter di sproni, e un saltellar di sciabole sul
ciottolato. I caffè invasi; i quadrivii occupati, contesi al passaggio
dei cittadini; da per tutto un vocìo di ordine ristabilito, di armi
vittoriose, di birbanti italiani rimessi al dovere. Anche quei
pacifici e timorosissimi sudditi erano Italiani, e l'offesa toccava
anche loro. Nè il caro ed amato principe si prendeva la briga di
reprimere la burbanza de' suoi alleati, quando nei caffè insolentivano
con gli uomini, o per le vie mancavano di rispetto con le donne, o
nelle botteghe pagavano quel che volevano, se pure non pagavano
affatto. Si narra del ritorno degli Austriaci a Milano (veramente,
dopo la caduta dell'effimero regno di Eugenio Beauharnais), che un
caldo amico dei vecchi oppressori andò incontro ai soldati delle
uniformi bianche, e, vedute entrare le artiglierie in città, preso da
un impeto di passione, si fece avanti per toccare con le sue dita un
cannone. Tanto amore doveva avere il suo premio, e l'ebbe subito dalla
bacchetta di nocciuolo di un caporale, che gli levò dal dorso della
mano due centimetri almeno di pelle. Bravi caporali, che picchiavate
così sodo; bravissimi tenenti, che facevate suonar così bene gli
sproni e saltellare le sciabole sui selciati italiani; eccellenti
principi, che non facevate rispettare i vostri fedelissimi sudditi, e
lasciavate che i vostri felicissimi Stati fossero trattati come
territorio di conquista; grazie a voi tutti, dal profondo dei cuori!
Così erano alienati dalla restaurazione gli animi di quei medesimi che
l'avevano invocata. Frattanto, il giovane Piemonte reggeva contro le
esortazioni e perfino contro le minacce dei consiglieri
settentrionali. Generalmente, non s'intendeva come fosse spalleggiato,
incuorato a resistere, e pareva strano quell'ardimento di un piccolo
Stato che manteneva, unico in Italia, la sua costituzione liberale ed
ospitava i fuorusciti, i naufraghi di tutte le rivoluzioni della
penisola. Ma già tutti intendevano come da quella diseguaglianza di
forme e d'indirizzi, che era visibile tra esso e gli altri Stati
italiani, dovessero nascere attriti, malumori, quistioni grosse, e un
giorno o l'altro ragioni di guerra.
E poi, quel piccolo Piemonte, che pochi anni addietro aveva dovuto
rimettere la spada nel fodero, che aveva dovuto ricevere entro le mura
di Alessandria un presidio nemico, sentendo suonare dalla sua musica
schernitrice l'inno dei _Fratelli d'Italia_, quel piccolo Piemonte
aveva sollecitamente provveduto a riordinare l'esercito. Un bel
giorno, che è, che non è, quel piccolo Piemonte osava mandare
ventimila uomini a combattere nella Crimea, accanto agli eserciti di
Francia e d'Inghilterra. Le condizioni d'Europa incominciavano a
chiarirsi: Francia e Inghilterra da un lato; Austria e Stati minori
della Germania dall'altro. Si metteva da questo anche la Russia?
Dall'altro si aggiungeva la Turchia. Erano ancora tre contro tre, e il
Piemonte nel mezzo, il Piemonte, che, vincendo al ponte di Traktir,
accennava di voler crescere ancora, e chi sa, di rifar esso l'Italia.
Questi i fatti d'allora; queste le ragioni per cui non era mestieri di
cospirare, la rivoluzione essendo nell'aria, come l'ossigeno.
Quind'innanzi non sarebbe più bisognato dare il proprio nome ad una
società segreta, ordire focosi disegni di rivolta a giorno fisso,
farsi spiare, correr pericolo di tradimenti e d'insidie. Una parola
colta a volo, un'occhiata, una stretta di mano e un sorriso, dicendo
le comuni speranze, affratellavano i cuori. Che bisogno c'era egli di
dire il giorno e l'ora, se l'uno e l'altra erano vicini? Poteva
battere da un anno, poteva battere da due; ma a chi aveva tanto
sofferto, a chi ricordava tanti secoli di servitù e di vergogna, due
anni, tre anni, anche quattro, si potevano aspettare, maturando i
propositi della riscossa. Ormai questa non doveva mancare; i giovani
di quella generazione sentivano istintivamente che ne sarebbero stati
essi i soldati.
Il conte Gino era uno di questi cospiratori, senza giuramento e senza
parola d'ordine. A Torino, dove la polizia s'immaginava ch'egli avesse
preso accordi con qualcheduno, a Torino egli non aveva fatto altro che
respirare un po' d'aria libera. Neanche s'era avvicinato a fuorusciti
modenesi o parmensi, che egli, figlio di cortigiani ducali, conosceva
solamente di nome. Per altro, aveva passeggiato sotto i portici di Po,
dove si confondevano tutte le parlate d'Italia, quasi prenunziando
l'unità della patria intorno all'aula del palazzo Carignano; aveva
incontrato Giovanni Prati e Giuseppe Revere, i due poeti, i Diòscuri
della nuova êra italiana, amati, seguiti, acclamati dalla gioventù
pensante e volente; aveva udita la tribunizia eloquenza del Brofferio,
e la diplomatica parola, qualche volta impacciata, ma sempre piena di
pensiero, del conte di Cavour; aveva veduto per via, riverito
universalmente, un re soldato, un re galantuomo, che pareva col mobile
sguardo prometter sempre un'alzata di scudi per il giorno vegnente; a
farvela breve, nei passeggi, nei ritrovi, nei parlamenti, nelle
rassegne militari, dovunque, aveva indovinata la cura operosa dei
tempi grossi; sentito quasi l'odor della polvere.
E questo, ritornando a Modena, questo aveva comunicato, senz'aria di
mistero, come senz'ombra di millanteria, a giovani della sua età,
sebbene, come diceva il direttore di polizia, «non convenienti al suo
grado.» Dèi buoni! Quelli erano stati i suoi compagni di studio, i
suoi colleghi d'università. Come mai avrebbe potuto egli non
considerare uguali coloro che erano stati seduti con lui sulla
medesima panca, a sentire le medesime lezioni? Più saggi dei moderni,
quantunque niente più fortunati, i tiranni antichi avevano lavorato a
rendere la nobiltà ignorante. L'istruzione, a tutti egualmente
impartita, accomuna le classi, colma gli abissi e sopprime i confini.
Che conti e che marchesi? Queste distinzioni, quando non sono una
giunta particolare e naturalissima al nome di famiglie veramente
storiche (nel qual caso si potrebbero anche ommettere, senza toglier
lustro a que' nomi), non hanno più valore che per le dame, essendo
dimostrato che una corona di tre fioroni, o di nove perle, fa ancora
un bel vedere sui biglietti di visita e sugli sportelli delle
carrozze. Povera feudalità, ridotta ad un semplice ufficio decorativo!
Ma siamo giusti, perbacco, e non dimentichiamo che la corona sullodata
sta anche bene sulla biancheria, come a dire sui capi delle tovaglie e
dei fazzoletti da naso.
Ai suoi buoni amici plebei, compagni d'università e fratelli di fede,
il conte Gino Malatesti non aveva nulla da scrivere. L'offerta di
Giuseppe non poteva dunque favorire la politica. Ma il pensiero di
Gino, svegliato da quella offerta inaspettata, corse subito ad altro.
--Tu, dunque,--diss'egli, dopo un istante di pausa,--mi servirai
fedelmente? Ad ogni rischio? E mio padre non saprà nulla?--
Ad ognuna di quelle domande aveva risposto con bella progressione di
calore un sì del suo compagno di viaggio.
--Bene;--ripigliò il conte Gino;--tu puoi rendermi un servizio
maraviglioso. Non mi hanno permesso di fare neanche un saluto, temendo
forse che il saluto nascondesse Dio sa che cosa! Tu dunque andrai
domani, o doman l'altro, al palazzo Baldovini, con un pretesto
qualunque.... Potresti, per esempio, riportare un libro, che mi è
stato imprestato: il _Mauprat_, di Giorgio Sand, che è per l'appunto
rimasto sul mio tavolino. Con questa scusa cercherai di vedere la
marchesa Polissena, e potrai consegnarle il biglietto che io ti
scriverò alla prima fermata.
--Non dubiti, illustrissimo;--rispose Giuseppe;--farò la commissione a
dovere. Anche la signora marchesa,--soggiunse poscia, abbassando la
voce,--è della buona causa?--
Gino trattenne in tempo una risata, che già gli faceva impeto alla
gola. Ma era buio fitto, e Giuseppe non vide neanche la contrazione
dei muscoli.
--Ah!--disse Gino.--È una dama di alto sentire. Tu le darai notizie di
me, del modo in cui son dovuto partire da Modena. Forse domani la cosa
sarà conosciuta; ma la marchesa deve sapere che io avevo tentato di
vederla. Il biglietto, poi, come farglielo giungere?... Se ti frugano,
alle porte?... Capirai che un sospetto può nascere....
--Sospetti su me, illustrissimo? Non ne hanno.
--Bravo! E come lo sai?
--Ne ho avuta la prova;--rispose Giuseppe, sospirando.--Si figuri che
m'hanno domandato di fare... la spia. Ed io ho ricacciata la mia
rabbia in corpo, ed ho lasciato credere che al bisogno avrei anche
traditi i miei padroni. Volevano sapere chi bazzica in casa, che
discorsi si fanno.... Ed io ho detto tutto; s'immagini; non c'è niente
da nascondere.
--Lo credo bene!--esclamò Gino.--Ma è strano, sai! È strano che non si
fidino neanche di mio padre.
--Che vuole, illustrissimo? Così è;--rispose il servitore.--Ma io li
ho serviti bene, da vecchio carbonaro.
--Carbonaro, tu, Giuseppe?
--A quei tempi, sì.
--E in casa di mio padre?
--Ho sempre fatto il mio dovere, signor conte.
--Lo so, e non parlavo per questo;--disse Gino.--Ti esprimevo la mia
meraviglia e nient'altro. Chi lo avrebbe mai immaginato che ci fosse
un carbonaro, in casa Malatesti!... E nel Quarantotto, poi, come hai
fatto a tenerti in corpo il tuo segreto?
--Amavo la casa, illustrissimo; amavo i figli del mio padrone, che
erano cresciuti così belli e fiorenti sotto i miei occhi. Ma anche
tenendomi il segreto in corpo, come Ella dice, ho fatto quanto era in
me, per servizio della buona causa. Fu bene che avessi nascoste con
tanta cura le mie opinioni, perchè, quando venne la restaurazione,
nessuno dubitava del vecchio servitore di casa Malatesti, ed ho potuto
rendere qualche grosso servizio ai patrioti.
--Bravo Giuseppe! Tu mi parli con una confidenza!
--Signor conte, Ella è dei nostri;--rispose Giuseppe.--Non la mandano
in esilio, per questo?
--È vero;--disse Gino, che a quella parola «esilio» si sentiva
crescere di qualche cubito nella propria estimazione.--Tu dunque sei
per me l'inviato della provvidenza. E mi porterai il biglietto. Ma se
ti frugano, laggiù?
--Se mi frugano, non troveranno un bel nulla. Ci son tanti modi di
nascondere un pezzettino di carta! Lasci fare a me, signor conte; e
nella rivolta della giacca, o nella fodera delle maniche....
--Bene, bene!--interruppe Gino.--Ne parleremo a Paullo. L'essenziale è
di far sapere ciò che mi è occorso alla marchesa Polissena.--
L'idea di poter mandare un biglietto alla bella Baldovini calmò gli
spiriti esacerbati del conte Gino, il quale finì con pigliar sonno.
Quando si svegliò, la carrozza entrava a Paullo.
Il servitore avrebbe potuto accompagnarlo fino a Pievepèlago ed anche
fino a Fiumalbo, dove, per andare a Querciola, sarebbe bisognato
abbandonare la strada maestra. Ma il conte Gino preferì che Giuseppe
ritornasse a Modena, tanto gli premeva di mandar sue notizie alla
marchesa Polissena. E là, nell'osteria di Paullo, sopra un foglietto
di carta, strappato dal suo taccuino, scrisse pochi versi a punta di
matita. Avrebbe potuto scrivere una lettera; ma sarebbe riescita
troppo voluminosa, e il vecchio carbonaro non avrebbe saputo dove
nasconderla, mentre un bigliettino, convenientemente arrotolato,
poteva celarsi da per tutto, anche in una cucitura ribattuta degli
abiti.
Il biglietto del conte Gino alla marchesa Polissena diceva brevemente
così:
«Saprete il caso che mi è toccato. Mi mandano a confine in Querciola,
alle falde del Cimone, fuor del consorzio dei viventi... peggio
ancora, lontano da Voi. Ne perderò la ragione; non mi parrà di vivere,
fino a tanto non riceverò una vostra lettera. Il portatore di questo
foglio mi è affezionato, e in qualunque modo mi farà avere i vostri
caratteri. Addio! Mi si spezza il cuore, nel dover scrivere questa
triste parola. Speriamo di mutarla in un arrivederci, e presto! Vi
amo.»
Suggellò il biglietto, dopo averlo piegato più stretto che potè, e lo
consegnò al fido Giuseppe.
--E dimmi,--gli soggiunse,--potrai farmi avere ad ogni modo la
risposta?
--Non dubiti, illustrissimo; se una risposta ci sarà, gliela manderò
certamente.
--Troverai persona fidata e sicura?
--Troverò tutto; Ella non si dia pensiero di ciò.
--Ad ogni modo, mi scriverai anche tu?
--Sì, illustrissimo; purchè Ella non rida della mia mano di scritto e
dei miei errori d'italiano.
--Va là!--disse Gino.--Tu pensi da buon italiano, e questo è
l'essenziale.--
Dopo di che, il giovanotto abbracciò il servitore e s'incamminò per la
via dell'esilio. Erano le cinque dopo il meriggio, quando egli giunse
a Fiumalbo, e salutò la petrosa balza del Cimone, tinta di rosso dai
raggi obliqui del sole, che andava a nascondersi dietro l'Alpe di San
Pellegrino.
Capitolo II.
I re della montagna.
Il Monte Cimone, alle cui falde era confinato il conte Gino Malatesti,
è la più alta vetta dell'Appennino centrale. Duemila centocinquantasei
metri sul livello del mare non sono ancora l'altezza del Monte Bianco;
eppure il Cimone è debitore a questa sua elevatezza metrica di esser
chiamato il Monte Bianco degli Appennini; modesto e generoso Monte
Bianco, che per uno o due mesi dell'anno si lascia togliere dalla
calva cervice il suo berretto di neve.
Alpestre, poco agevole ai piedini d'una bella signora delle nostre
città, è il fianco del vecchio Cimone; ma la sua salita non offre
difficoltà all'alpinista che all'ultimo passo, quando occorre, per
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