La legge Oppia : commedia togata in tre atti - 3

nè i numi laziari, nè i laziari costumi. Grecheggiano! È la loro
manìa. Nulla distingue più i giovani romani educati in Roma, dai
giovani greci educati in Atene. E il vecchio spirito romano se ne va,
cede di contro all'alito di questa genìa, la più perversa e
intrattabile del mondo, la quale non ha dato, che cicaloni,
spaccamonti, acchiappanuvole.
VALERIO
Pure, ha dato Leonida!
CATONE
Ti concedo Leonida. Ma abbiam mestieri di andare per fuoco da loro,
noi che ci abbiamo il tempio di Vesta? Leonida! Leonida! Io ti oppongo
Quinzio Cedicio, tribuno militare nella prima guerra punica, che salvò
l'esercito romano, tratto in agguato, in una stretta di Sicilia.
Toccava alle nostre armi la sorte di Caudio, e con peggiore vergogna,
poichè, gl'inimici stavolta erano cartaginesi. Che fa Cedicio? Piglia
con sè pochi animosi, si tira addosso tutto l'impeto dei nemici, cade
crivellato di ferite sopra un monte di cadaveri; intanto, l'esercito
romano sfila e si salva. Ora, io lo dimando a te; che cosa ha fatto
Leonida, più di Cedicio? Rispondi!
PLAUTO
(piano a Valerio)
Io non lo so; ma so quello che hai fatto tu;.... una sciocchezza!
CATONE
Che cosa borbotti anche tu? Tu che vai sempre a cercarmi in Grecia gli
argomenti delle tue commedie?
PLAUTO
(da sè)
La burrasca si volge su me!
(a Catone)
Dei buoni! Ma i poeti, nelle commedie, fanno tutti così. Spacciano i
fatti loro come avvenuti ad Atene, acciò la favola paia più facile a
mandar giù.... Piace il greco? Diamo alla commedia il sapor greco; ma
sia romano l'amaro; questo è l'essenziale. Tu sai quel che dicono
gl'intendenti di me; che mi son gittato il pallio greco addosso, ma
alla scapestrata, così che di sotto mi scappa d'ogni parte la toga.
CATONE
Ed è più degna portatura, la toga! Ah, giuro a Saturno, e ad Opi,
vecchi dèi paesani; o ci casco sotto, o sradico fin le ultime barbe di
questi cialtroni da Roma.

SCENA IV.
LICINIA, FULVIA _e Detti_.
(Licinia e Fulvia sono vestite come nell'Atto primo, ma senza il
ricinio in capo.)
LICINIA
(a Valerio, che è andato incontro alle
donne, fino alla fauce)
Che è ciò? In collera forse? Abbiamo udito a gridare....
CATONE
Ah, siete qua, voi, maestre di greco?
LICINIA
Di greco? e chi lo sa, il greco?
CATONE
Eh, non lo si sa? ragione di più per cincischiarlo. È la lingua alla
moda; che importa non saperla? ci si prova ugualmente e si fa quanto
basta per disimparare la propria. E non è solo la lingua che si
perde; è il costume che si corrompe; è la fibra romana che
s'infiacchisce. O padre Quirino! Ancora non sono i cent'anni da che
Pirro minacciava di abbattere la giovine potenza romana; son forse
venti, che, dopo la strage di Canne, Maertale consigliava d'incalzare
alle porte di Roma; Cartagine è in piedi; Annibale è vivo ancora e
fremente vendetta; e già i romani credono di potere impunemente gittar
fra le ciarpe gli austeri costumi che furono la loro difesa, e diedero
loro la padronanza d'Italia!
PLAUTO
Marco, non sei tu troppo severo con essi?
CATONE
Non sono severo. Amo ciò che facevano i nostri padri; vorrei che i
figli fossero di quella tempra su cui si fiaccarono i ferri di tante
nazioni congiurate ai danni di Roma. Si traligna, te lo dico io, si
traligna. Ami le citazioni greche? Eccotene una. Noi siamo
infemminiti; non sapremmo più tendere l'arco di Ulisse; i nervi
intorpidiscono nel braccio. Ah, i nostri padri non conoscevano mica
tante delicature, e non erano meno felici per questo! Una casa comoda,
senza sfoggio di marmi, di arredi e di vasellame d'argento; il rame
luccicava alla parete e la sobrietà negli occhi; servi erano quanti
bastavano a lavorare la terra, non già per accudire agli svariati
uffizi di portinaio, cameriere, valletto, arricciator di capegli,
coppiere, scalco, cantiniere, cuoco, sguattero e va dicendo. Allora i
padroni faticavano in compagnia dei servi, davano loro l'esempio de'
gravi travagli e de' pasti frugali, sotto il pergolato domestico. Io
mi glorio di queste mani, che hanno seminato esse il mio grano e
potato le mie viti; me ne glorio assai più che di vederle impugnare
questo bastoncello d'avorio. Austere erano le nostre madri, perchè
traevano la vita nel loro santuario, preparando il pasto, intendendo
alla nettezza della casa, o torcendo il fuso, mentre venian ragionando
d'antiche storie e di fortissimi esempi alla famiglia raunata. I
giovani, allora, succinti, abbronzati dal sole, crescevano saldi alla
fatica, destri ai giuochi del Marte sabino, non già alle amorose
follie del Marte greco. Anch'essi concedevano un'ora alla gioia, si
sollazzavano anch'essi, ma di gaie favole campestri, piene di sale
paesano, che davano il riso facile e largo.
PLAUTO
Riso che tu hai dimenticato stamane, tornando da Tuscolo.
CATONE
Ah, gli è vero, Tito Maccio, e tu mi riprendi a ragione di questa mia
sfuriata. Ma se mi fanno uscire ad ogni tratto dai gangheri! Basta,
siam gravi e pacati; non è egli vero, Erennio? Qui non bisogna
avvilire la dignità dell'ufficio.
ERENNIO
Quando il Console tuona contro i molli costumi, egli è sempre nella
dignità dell'ufficio.
CATONE
Ah, ah! Bravo, Erennio! Tu almeno non citi dal greco. Andiamo, via;
l'ora è tarda, e questa benedetta dignità dell'uffizio ci chiama al
campo di Marte.
LICINIA
Sei giunto pur dianzi!...
CATONE
Ci ho le mie legioni da passare in rassegna. Cara mia, a giorni si
parte. Sarei già in viaggio per questa impresa di Spagna, se Marco
Fundanio non m'avesse gittato quella sua proposta tra' piedi. Cassare
la legge Oppia! Una legge che, se non la ci fosse, bisognerebbe
proporla! O dove è andato a pigliar l'imbeccata, quel ragazzaccio di
Fundanio? Già si capisce; me lo avran sobillato le belle patrizie!
Queste poppatole non pensano ad altro che a lisciarsi, a razzimarsi, a
coprirsi d'oro e di porpora, come di gualdrappe e sonagli si cuoprono
i cavalli alla fiera.... Mettimele in qualche commedia, Tito Maccio, e
ci faremo un po' di buon sangue.
LICINIA
Marito mio.... poichè ti vedo di buon umore.
CATONE
Anzi buonissimo. Di' su! Non ti amo io sempre anche quando alzo un
pochino la voce?
LICINIA
Epperò ardisco parlare. Tu l'hai col tribuno Fundanio. Ma che c'è egli
di male, se le donne chiedono di potersi ornare un tal poco, per
piacer meglio ai mariti?
PLAUTO
(da sè)
Ai mariti! ben detto!
CATONE
Che c'è? Che c'è? che siete sciocche e sguaiate. Ohè, dico, non mi
mettete la casa a soqquadro! Poc'anzi il servo che pizzica di greco;
adesso la ribellione alle leggi. Ah, volete lo sfarzo! Vi darò tutto
io! Avrete porpora ed oro a staia, ancelle, staffieri e donzelli e
carrozze da scarrozzare! All'uscio non picchieranno che visitatori a
modo! il ricamatore, l'orefice, il lanaiuolo; trecconi, merciai di
frange d'oro, di tuniche, di camicette; tintori, vuoi in color di
fiamma, vuoi di violetto, o di cera; sartori d'abiti, colle maniche
alla foggia asiatica; rigattieri, tessitori, profumieri, e più sorte
di calzolai, che vi calzino, ora alla greca ed ora alla romana. Ve li
darò io, i fronzoli; ve lo darò io lo sfoggio, da piacer meglio ai
mariti. Vedrete che larghezza di console! Roma è guasta; bisogna
correggerla, risanarla col ferro e col fuoco, incominciando di qua.
Che te ne sembra, Valerio? Saremo noi così sori, da lasciarci
soverchiare dalla ambizione e dalla follia delle donne? Suvvia, che
pensi?
VALERIO
Ah, io?... Penso che le donne son pure inesplicabili, coi loro
capricci.
(Fulvia, che fino ad ora è stata arcigna
con Valerio, si muove per andarsene, verso
la fauce)
CATONE
E bisogna frenarle!... Dove vai tu?
(a Fulvia)
Fèrmati, e fa tuo pro' dei consigli! Oh, vedete qua, che cosa mi tocca
di udire in casa mia? contro il diritto e la maestà maritale? Da
brave, bandite il vecchio costume e mettetevi le leggi sotto i piedi!
Oramai, non vi mancherà più che di ber vino e di costituirvi in
repubblica di Amazzoni.
ERENNIO
(da sè, in disparte)
La donna che berrà vino, sia flagellata dal marito e poi ripudiata. È
legge di Romolo.
CATONE
Andiamo via, se no, perdo il mio buon umore e Plauto mi riprenderà di
bel nuovo. Venite?
(a Plauto e a Valerio)
Erennio, precedimi e raduna gli altri littori. Piglierete i fasci
colle scuri, poichè si va fuor del Pomerio, al campo di Marte.
(Erennio esce)
A voi altre il buon dì, e non mi preparate altre molestie;
intendiamoci!
(Catone esce. Valerio si accosta a Fulvia,
che non lo degna pur d'uno sguardo; indi,
inchinatosi a Licinia, si allontana, in
atto disperato)
PLAUTO
(accompagnandosi a Valerio)
Amico mio, quest'oggi, non fai che sciocchezze. Da prima citi Leonida
al fratello; adesso dài della capricciosa alla sorella.
VALERIO
Ah! darei del capo ne' muri.
PLAUTO
Senti, fa meglio ancora; dà un giro in piazza; lascia il Console pe'
fatti suoi e torna qua, ad implorare il tuo perdono.
(Plauto e Valerio escono)

SCENA V.
FULVIA e LICINIA, _sole_.
FULVIA
Finalmente, sono andati. Ah! non ne potevo già più.
LICINIA
Hai udito tuo fratello, che tantafera?
FULVIA
Ho udito Valerio che gli teneva bordone, io! Tutto a modo suo, che
pare il suo eco!
LICINIA
Confessa, per altro, che sei stata troppo in contegno con lui.
Poverino! Egli soffriva, come se fosse alla tortura.
FULVIA
Ti pare? Ne godo; soffra un pochino anche lui. Oh, io non amo gli
uomini così umili ed obbedienti...
LICINIA
Cogli altri uomini?
FULVIA
Ci s'intende. Ed egli imparerà a volersi mettere sulle pedate di mio
fratello, a chinar la testa, come se parlasse un oracolo, a dirgli
così sia, in tutto e per tutto. Dimmi, cognata; come ti è parso che se
ne andasse?
LICINIA
Colle mani ne' capegli. Non vorrei che se li strappasse, povero
giovinotto!
FULVIA
Oh, imparerà, imparerà a disprezzare le donne! Lascia che strappi!
LICINIA
Purchè non pigli i tuoi rigori sul sodo e non si allontani per sempre!
FULVIA
Mi spaventi, cognata! Credi che davvero non tornerà? Oh, se non
tornasse, se non tornasse subito, sento che l'odierei.
LICINIA
Ih, che furia! Non avrai da odiare; il tuo scongiuro fa effetto. Hanno
aperto l'uscio di casa. Mi par lui, nell'androne.
FULVIA
Sì, è lui. Che cosa viene a fare? Io me ne vado.
LICINIA
Eh via, fanciullona! Andrò io e farete la pace. Questo qua non è così
intrattabile come il Console.
(esce dalla fauce)
FULVIA
Te ne vai? Ah, eccolo sotto l'atrio!
(siede in fretta e piglia un pezzo di
stoffa, per mettersi a cucire)

SCENA VI.
FULVIA e VALERIO
VALERIO
(avanzandosi peritoso verso di lei)
Fulvia!
FULVIA
(alzando gli occhi in atto di meraviglia)
Sei tu? Hai dimenticato qualche cosa?
VALERIO
Oh, nulla.
(si aggira irresoluto qua là; indi si
accosta alla scranna di lei)
Lavori?
FULVIA
Lo vedi.
VALERIO
(accennando il drappo che ella ha sulle
ginocchia)
Che è ciò?
FULVIA
Lana.
VALERIO
Che risposta!
FULVIA
E qual altra, se è lana? Non hai tu occhi?
VALERIO
Ah, così non li avessi....
(Fulvia alza le spalle in atto
d'impazienza)
che non sarei venuto in tanta pena!
FULVIA
Ti senti male! Chiamo Licinia, che è dotta di farmachi....
(in atto di smettere il lavoro)
VALERIO
No, gli è inutile; Licinia non ha farmachi per me.
FULVIA
E tu va da un medico.
VALERIO
Non valgono i medici, per questo mio male!
FULVIA
Un male insanabile, adunque?
VALERIO
Ben dici, insanabile!
(accosta uno scanno davanti alla tavola, e
fa per sedersi)
FULVIA
Fatti più in là; mi togli la luce.
VALERIO
Ma, la vien di lassù, la luce, e non da questa parte.
FULVIA
Io non la penso così.
VALERIO
E sia; eccoti servita!
(ritira lo scanno dall'altro lato della
tavola: ripiglia il codice di Plauto, e
leggicchia a caso)
«Il rimproverare un amico, quando ei se lo meriti, per qualche suo
mancamento, è cosa increscevole, ma utile assai, nella vita». Hai tu a
riprendermi d'alcuna cosa? Dimmi, te ne prego.
FULVIA
Parli con me? Credevo che tu leggessi.
VALERIO
Sì, ho letto una massima di Plauto. Non ti par giusta?
FULVIA
Chi ha da pentirsi di qualche suo mancamento, può giudicarne. Io non
so nulla.
VALERIO
Ah! Fulvia!... Se tu me lo consenti.... vorrei dire una cosa.
FULVIA
E tu dilla.
VALERIO
Ma temo che tu vada in collera....
FULVIA
E tu non la dire.
VALERIO
Infine.... la gente dice....
FULVIA
Che cosa dice la gente?
VALERIO
Che io.... ti amo.
FULVIA
Ah, dice, questo? Ma tu avrai risposto....
VALERIO
Che è vero.
FULVIA
Cortese bugia! Ma io non ne avevo bisogno, perchè non m'importa
nulla.... di quanto dice la gente.
VALERIO
Bugia! E perchè?
FULVIA
Perchè io sono una donna, e le donne, tu non le ami, le stimi soltanto
per quel poco che valgono; stare in casa, filare, tessere e
distribuire il còmpito alle fantesche.
VALERIO
Io?
FULVIA
E dici che bisogna tenerle a freno, rintuzzarne l'orgoglio....
VALERIO
Io?
FULVIA
E le chiami superbamente: questo sesso arrogante.... questo indomito
animale....
VALERIO
Io, Fulvia? Ma io non ho detto ciò?
FULVIA
Fundanio t'ha udito.
VALERIO
Fundanio!... il tribuno?
FULVIA
Lui, sì, lui! Non sei tu del resto contrario alla sua proposta?
VALERIO
Ma non ne viene di conseguenza che io abbia detto queste parole. Ah!
Marco Fundanio avrà da fare con me!
FULVIA
Sì, bravo! un litigio tra voi! Vi sgozzerete nel Foro....
VALERIO
Al Campidoglio, nel tempio di Giove, dovunque lo troverò, dovrà
rendermi conto....
FULVIA
Di ciò che non potresti negare. Fundanio avrà male udito; a me non fa
mestieri la testimonianza di Fundanio. Io t'ho udito, e basta. Ah, noi
siamo inesplicabili, coi nostri capricci? Siam capricciose, adunque?
Siam pazze?
VALERIO
Non ho inteso dir ciò. Non sapevo spiegare a me stesso i tuoi
inaspettati rigori. Te ne chiedo perdono.
FULVIA
Gli è comodo assai! Ma, se tale non era l'animo tuo, chè non hai
risposto al Console?
VALERIO
A tuo fratello? Al grande Catone?
FULVIA
Ah, in fede mia, bella scelta ha fatto la plebe romana! Un tribuno,
che ha paura di dire il fatto suo ad un Console!
VALERIO
Che parli tu di paura? Di' rispetto, amore, venerazione, per quel
nobile uomo, le cui virtù io mi propongo ad esemplare in ogni atto
della mia vita.
FULVIA
Orbene, imitalo e non se ne parli più.
VALERIO
(dopo una breve pausa)
Non adirarti, Fulvia. Che debbo io fare per....
FULVIA
Lasciare in pace questi aghi.... e questa matassa, che mi si arruffa.
VALERIO
Ti aiuto a dipanarla?
FULVIA
No. Il tuo esemplare potrebbe coglierti sul fatto e trovarti bene
infemminito, o forte romano! Dove andrebbero gli austeri costumi, che
debbono essere la forza e il presidio di Roma?
VALERIO
(passeggia a passi concitati per la sala;
indi si accosta da capo)
Che cosa fai?
FULVIA
Me l'hai già chiesto una volta.
VALERIO
E tu non m'hai risposto.
FULVIA
Segno che non credevo necessario di dirtelo.
VALERIO
È lunga assai; mi pareva una veste nuziale.
FULVIA
E so lo fosse? Che cos'ha da importartene, a te?...
VALERIO
Ah, gli è che ho fatto un sogno.... ad occhi aperti. Avevo chiesto una
fanciulla in isposa.... bella, oh, bella, come....
FULVIA
Lascia i paragoni.
VALERIO
Sì, perchè nessuna cosa al mondo può paragonarsi a lei. Il capo di
casa me l'aveva concessa, ed ella portava il mio anello di ferro,
emblema della nostra fede, là, nel quarto dito della mano manca, dove
ci hai la vena che corrisponde al cuore.
FULVIA
Che c'entro io?
VALERIO
Ah, dicevo così per dire. Tu eri.... cioè, ella era la mia _sperata_.
Poco dopo, con gran cortèo di congiunti, di amici, e di pronubi,
andavamo al Pontefice massimo, per la cerimonia nuziale. Era bella,
nella sua lunga veste di candida lana, colla cintura stretta alla vita
dal nodo d'Ercole, colla sua corona di fiori e verbene sul capo,
ravvolta nel flammèo, meno splendido delle sue guance, suffuse del
colore della modestia.... come le tue in questo punto. Ed ella veniva
a casa mia, toccava l'acqua e il fuoco, preparati sul mio limitare;
nè io diventavo il suo signore, ma essa la signora mia, per tutta la
vita. E fui felice allora..... e lo ero ancora stamane, pensando che
avrei chiesta la mano di quella donna a suo fratello....
FULVIA
Ah, non ha più padre?
VALERIO
No, ella è sotto la potestà d'un suo fratello maggiore.
FULVIA
E non l'hai chiesta?
VALERIO
No, perchè ella non m'ama.... ed io perderò la ragione.
FULVIA
(alzandosi da sedere)
Sarebbe un gran male! Una mente così salda, formata a così buona
scuola, ornata di così savie massime!.... Non potresti più fare il tuo
discorso per la legge Oppia, tuonare anche tu dai rostri, contro la
vanità di questo sesso arrogante.... di questo indomito animale.
VALERIO
Ah, non temere! Tacerò, lo giuro al tuo genio tutelare, tacerò!
FULVIA
(con accento ironico, passeggiando lungo la
scena)
Ma parlerà il Console per noi, e giungeremo egualmente ai nostri fini.
VALERIO
Ma che debbo io fare? Mettermi contro di lui?
FULVIA
(fermandosi con piglio risoluto davanti a
Valerio)
Se veramente ami la donna di cui sognavi, gli è il meno che tu possa
fare per lei. Ti dicono eloquente, l'unico in Roma che possa
contendere al Console la palma del Foro. Perchè starti addietro,
quando puoi procedere a pari? Farti eco umilissimo altrui, quando puoi
dir cose nuove e ben tue? Ah, siete, stolti, voi, colla vostra manìa
di metter freni da per tutto, di far camminare il mondo a ritroso, di
tener noi sotto un'eterna tutela! Non ci fate villanìa di parole; ma i
fatti, i fatti vostri, ci offendono. Roma, Roma, voi dite! Anch'io
l'amo, ma non di questo cieco amore, che soffoca i suoi cari, e, a
tutto volendo provvedere, diventa una nuova maniera di supplizio.
Nulla di troppo, o censori! La corda troppo tesa si spezza. Anch'io
m'attenterò di tuonar le mie massime. Una repubblica che non può
reggersi, se non facendo violenza a tutti gli istinti di natura, non è
degna di vivere. Sparta è caduta sotto il suo medesimo peso. Vada
anche Roma, se ha da essere quale la vorreste voi, indietreggiando
cent'anni, e così vadano tutti gli Stati, dove è pregio di cittadini
la ruvidità, virtù la ferocia, e le catene simbolo dell'unità e della
forza.
VALERIO
Hai ragione; che dirti? hai ragione. Ma andar contro a lui?... Sarebbe
un tradimento. Impossibile! impossibile! E come ardirei io guardarlo
in faccia? come rimetter piede in questa casa? Via, Fulvia, mia
diletta Fulvia, che te ne giova, a te, di questi vani ornamenti?...
Non sei tu bellissima tra le belle? Te ne supplico, non mi mettere a
contrasto col console; io non sono da tanto.
FULVIA
Ah, tu vuoi l'amor facile? Il mio è a prezzo d'un sacrifizio.
Guadagnalo.
VALERIO
Fulvia, te ne scongiuro....
FULVIA
Non una parola di più!
VALERIO
Dimmi, almeno.... Mi ami tu?
FULVIA
(dopo essere rimasta alquanto perplessa)
No!
(si libera da lui, e fugge per la fauce)
VALERIO
Ah! fermati, Fulvia!... Partita! Che farò io? Austerità romana, tu
corri oggi un gran risico!
(si allontana precipitoso)

FINE DELL'ATTO SECONDO


IL PROLOGO
A sipario calato, si avanza sul proscenio il Còrago. Egli porta
una lunga sottana, di colore amaranto, che giunge fino a'
piedi, con un paio di lunghissime e larghe maniche, le quali
coprono l'intero braccio, fino ai polsi. Ha in mano una verga
nera.

Signori, io sono il Còrago.... non vi spaventi il vocabolo!... sono
colui che nei teatri romani forniva le decorazioni, i vestiti, le
macchine e tutti gli apparati scenici, raccogliendo in sè i moderni
uffici di vestiarista, attrezzista e trovarobe. Non son nuovo alle
chiacchiere in pubblico; i comici antichi mi usarono spesso la
cortesia di farmi venire sul proscenio, per chiarire l'intreccio e
dire tutte quelle cose che all'autore mettesse conto di far sapere
alla gente. E questa cicalata era il Prologo.
Il Prologo dopo il second'atto! E perchè no? Plauto l'ha messo qualche
volta dopo il terzo, facendogli anche tener le veci di quarto, per
riempire una tela, che gli riuscìa troppo smilza. Al quale proposito,
l'autore m'incarica di dirvi che, s'egli non è andato oltre i tre
atti, così fece per guadagnarsi la vostra benevolenza. Si ascoltano
più volentieri i supplicanti che parlano meno. D'altra parte, i
cinque atti non sono di regola fissa; l'essenziale è di vedere, in
ogni azione drammatica, la pròtasi, che espone, l'epìtasi, che
rannoda, e la catastrofe, che scioglie l'intreccio.
La sua commedia è in prosa, sebbene di tempi che oramai non si sa più
scompagnare da un certo chè di poetico. Ma i latini avevano per la
commedia un verso fatto a posta, che arieggiava la prosa; tanto che
Cicerone istesso, orecchiante de' primi, non sapeva distinguerlo da
questa. De' versi italiani, il martelliano sarebbe piaciuto
all'autore; senonchè, gli parve troppo sdolcinato per una commedia di
toga ciò che si attaglia ad una commedia di gala e di cipria.
L'endecasillabo è troppo nobile; o dà un tuffo nel grave, o piglia un
volo nel lirico; ad ogni modo, mirabilmente adatto alle cose
patetiche, non riesce mai in commedia così spezzato, da dissimular la
cadenza e il suo bazzicare co' tragici. La prosa è più spicciativa; e
poi a sudar versi che sembrino prosa, che sugo?
Nè vi paiano troppo volgari i personaggi storici ch'egli ha posti in
iscena. E' ci sono, per necessità del soggetto; ci sono, colla lor
faccia di gente viva, non già colla pàtina che il tempo imprime sui
bronzi antichi e sulle antiche pitture. Per venire alle corte, la
festività un tantino plebea di Maccio Plauto ci è mostra dalle sue
commedie e da quel poco che si conosce de' fatti suoi; per farci
riviver Catone, le sue virtù e i suoi difetti, l'uomo intiero,
visibile da tutti i lati, abbiamo i suoi libri, i detti memorabili e
le testimonianze di gravissimi istorici. Il rigido moralista,
simpatico ai posteri perfino nelle sue sfuriate, fu molto ascoltato a'
suoi tempi, ma poco obbedito. Fu un bene od un male? Non è da
disputarne qui; solo e' mi pare di poter dire che il valent'uomo
esagerava alquanto la tesi. Progresso ce n'era prima di lui; doveva
essercene con lui e dopo di lui. Egli è un uomo per molti rispetti
esemplare, ma, quanto a novità, non sa sceverare il bene dal male.
Egli stesso, che, giovine ancora, erasi nutrito di greca filosofia,
egli stesso che avea condotto e fatto conoscere a Roma quel grande
Ennio, con cui s'inizia, per le lettere latine, l'imitazione de'
greci, non vuol vedere che nella civiltà greca è l'antidoto pe' suoi
stessi veleni; odia il greco Epicuro, che snerva la fiera indole
sabina, nè pensa al greco Zenone, le cui dottrine, sotto l'Impero,
rialzeranno i caratteri inviliti, e se, pur troppo non potranno più
dar norma al vivere, insegneranno almeno a morire. Ma basta; se no,
volgo alla predica.
Lascio l'autore colle sue fisime, e aggiungo invece una parolina per
me. Avrete notato la stretta osservanza dei tempi e costumi romani,
nelle decorazioni, nel vestiario e in tutto l'altro che io ci ho messo
del mio, perchè la commedia riuscisse proprio togata. Se più non si è
fatto, non ne incolpate noi, ma le condizioni del Teatro italiano. Se
Catone, verbigrazia, vi comparisse in un azione mimica, per
distribuire il premio di virtù ad un centinaio di ballerine, e' ci
avrebbe i suoi dodici littori, come la verità storica richiede, i
quali anzi eseguirebbero un passo di mezzo carattere, coi fasci e le
scuri. E le donne non verrebbero fuori per l'abolizione della legge
Oppia che in numero d'ottanta, o novanta, senza contar le comparse. Ma
non siamo nel caso, e la diversa fortuna del dramma e della pantomima
era già notata ai tempi d'Orazio. Il male c'è; consoliamoci pensando
che dura da diciotto secoli, e che durerà forse.... altri diciotto.


ATTO TERZO
La scena rappresenta un ampio colonnato d'ordine etrusco, sul
Campidoglio, colla veduta di Roma nel fondo. Fuori del
portico si vedono magistrati, apparitori e cittadini, che
vanno e vengono. È giorno comiziale, e molto popolo si
accalca lassù.--Di dentro è Erennio littore, che passeggia
lentamente col suo fascio sulla spalla. Poco stante entra
Catone dall'intercolonnio, colla toga a sghembo, di cui tenta
ravviare i lembi sugli òmeri.--Erennio lo saluta, abbassando
il fascio infino a terra.

SCENA PRIMA
CATONE _e_ ERENNIO
CATONE
Ma si può dar di peggio? Vedete come mi hanno stazzonato quelle
Megère. E mancò poco non mi facessero a brandelli la toga!
ERENNIO
(avvicinandosi)
Che hai, prestantissimo Console? La repubblica avrebbe ricevuto in te
alcun detrimento?
CATONE
Smetti le frasi e dammi una mano. Così! Queste maledette donne che
corrono le vie di Roma a guisa di cavalli sfrenati! Ma che siamo ai
baccanali di Grecia? A vederle, come si dànno moto di qua e di là, e
questo affrontano, e quell'altro tirano pel lembo della toga,
dimandandogli il suo voto contro la legge! Vergogna! Io, io, ho
dovuto arrossire per esse. E a mala pena m'hanno veduto a sboccare sul
Foro.... È lui; sì, no; ci ha i capei rossi; è lui, sì, è lui, il
Console! E in quattro salti mi son capitate ai fianchi, come una muta
di cani, sguinzagliati addosso al cignale. Che te ne pare, Erennio?
Non arrossisci anche tu?
ERENNIO