La guerra del Vespro Siciliano vol. 2 - 14

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Bartolomeo dunque, francamente dice (cap. 16) dell’antico disegno di
Pier d’Aragona sopra il reame di Sicilia, e delle armi apprestate in
Catalogna; ma venendo al fatto del vespro, il narra con semplicità,
in guisa da non far sospettare nè macchina celata in quel tumulto, nè
reticenza nella narrazione. D’altronde è da notare, com’ei non era
punto cortese verso Palermo, e scendea fino a vanti e finzion puerili
per esaltar Messina sulla città sorella; vizi reciproci allora e per
lungo tempo da poi, de’ quali le due città, rinsavite, or piangono e
con esse la Sicilia tutta. Talmentechè scrivendo il Neocastro sotto
gli auspici della rivoluzione vittoriosa, non avrebbe ei mancato,
se il fatto gliene avesse dato l’appicco, dal far partecipare anche
i Messinesi nella gloria del virile cominciamento; nè dal togliere
all’emula città l’onore d’una subita sollevazione a vendetta, più
nobile sempre di ogni pratica occulta. Se l’anonimo, lo Speciale e ’l
Neocastro tacquer dunque la congiura di Procida, è da conchiudere,
che o non fu, o non operò nella rivoluzione; la quale se fosse stata
effetto immediato di quella, nè lo avrebbero potuto ignorare, nè
avrebbero avuto la fronte di passarlo sotto silenzio.
Tengon lo stesso metro due altri contemporanei catalani, Ramondo
Montaner e Bernardo D’Esclot, dei cui scritti infino a qui non si è
fatto abbastanza tesoro nelle istorie di Sicilia; perciocchè il primo
da pochi dei nostri, in pochi luoghi fu citato; il D’Esclot è stato
ignorato più di lui, non ostantechè il Surita lo venga nominando di
tratto in tratto negli Annali d’Aragona. Montaner nacque in Peralada
nel 1265 o 1275 (chè ci ha una variante nel suo testo.—Barcellona,
1562); militò sotto Piero d’Aragona, Giacomo e Federigo di Sicilia;
e nel 1325 o 1335, tornato vecchio in patria, si die’ a stender la
Cronaca. Soldato di ventura, superstizioso, vantator di sua gente, e
soprattutto dei re, storpia nomi e fatti, massime favellando d’altri
paesi; e intorno i casi di Carlo d’Angiò e degli ultimi principi di
casa Sveva innanzi il 1282, reca strane favole, con stile talvolta
vivace, talvolta noioso per moralizzar troppo, sempre pien di
religione, di civil senno e di esperienza militare. Ondechè nei fatti
di questa Cronaca, (che spesso sembran tolti di peso dalle narrazioni
volgari de’ guerrieri e marinai, e spesso confusi nella memoria
dell’autore, che incominciò a scrivere nel sessantesim’anno dell’età
sua,) è da andare con assai riguardo di critica; massime ne’ primi
tempi della dominazione aragonese in Sicilia, ne’ quali non è certo se
Montaner venisse nell’isola. Questo autore fa parola (cap. 25 a 42) del
proponimento di Pietro a vendicare Manfredi e Corradino, ed Enzo (egli
aggiugne, chiamandolo Eus); e degli armamenti che preparava. Senz’altro
passa, nel cap. 43, a raccontare il tumulto di Palermo, nella festa a
una chiesa presso il ponte dell’Ammiraglio, che invero non è discosto
dalla chiesa di Santo Spirito. Dice delle ingiurie alle donne; e che i
Francesi col pretesto di frugare per l’arme los metian la ma (così in
suo catalanesco) e les pecigavan e per les mammelles, e poi zoppicando
continua a raccontar l’andata di Piero in Affrica; dove a magnifìcare
il suo re, fa venire, con vele negre alle galee e vestiti a gramaglie,
gli ambasciatori di Palermo e delle altre città; li fa parlar da
fanciulli e da schiavi; e sì via procede nella narrazione.
Ben altra gravita istorica s’ammira nel D’Esclot, cavalier catalano,
che scrisse nel 1300 (D’Esclot, tradotto in casigliano da Raffaele
Cervera.—– Barcellona 1616, Pref. del traduttore; e Notizia del
Buchon, innanti la ed. del genuino testo catalano.—– Parigi 1840).
Questo autore non è scevro di tale spirito nazionale che trascende alla
vanità; ma il veggiamo benissimo informato de’ fatti, penetrante nelle
cagioni, pregevole per ordine nella narrazione e dignità di stile.
Porta in compendio parecchi documenti, che con molta fedeltà rispondono
agli originali pubblicati gran tempo appresso in altri paesi.
Nondimeno pende troppo a parte regia, ma senza viltà. Costui tace al
tutto i disegni del re d’Aragona; degli armamenti dice che fossero
apparecchiati per la impresa d’Affrica, che assai minutamente descrive.
In Affrica, fa venire a Pietro gli ambasciatori di Sicilia; e da lui
accettar il reame, confermando tutte le leggi, privilegi, e costumi del
tempo di Guglielmo II. Descrive il fatto del vespro, come gli altri
contemporanei di maggiore autorità, cagionato dagl’insopportabili
aggravi, e nato per le ingiurie alle donne, e le percosse agli uomini
che sen querelavano. Tutti questi casi, non affastellati, nè discorsi
sbadatamente, ma con estrema diligenza e nesso d’idee (lib. 1, cap. 17,
della traduz. spagnuola; o cap. 77 e seg. del testo catalano).
Ma posti da canto gli scrittori di parte nostra, noi troviamo il vespro
nella stessa guisa rappresentato dagl’indifferenti e dagli stessi
avversari. L’autore della Cronaca intitolata: _Praeclara Francorum
facinora_, che fu certo Francese, dice di _non modicum apparatum_
di Pier d’Aragona; e dei sospetti che destò in papa Martino e in re
Carlo. Indi narra come i Palermitani uccideano, _succensa rabie,
Gallicos qui morabantur ibidem..... Deinde regi Carolo tota Cicilia
fuit rebellans, et supra se Petrum regem Aragonum in suum defensorem
ac dominum vocaverant, etc_. (Duchesne, Hist franc. script., tom. V,
pag. 786, anno 1281)» Or che questo Francese, il quale non fa un secco
cenno del caso, nè se ne mostra male informato, parli dì preparamenti
di Pietro, e non di congiure, ma della sollevazione, è secondo me non
lieve argomento.
Degli scrittori italiani, vari d’umori e molti anco Guelfi, è lunga
la lista. Il Memoriale dei podestà di Reggio, scritto in questo tempo
da un Guelfo senza cervello, non risparmia i Siciliani, nè Pietro;
scrive (in Muratori, R. I. S., tom. VIII, p, 1155) che si trattava
di matrimonio tra un figlio di Pietro e una figliuola di Carlo; che
l’Aragonese s’infinse di andar sopra gl’infedeli, e: _sub specie pacis
et parentelae abstulit fraudolenter, etc_. il regno di Sicilia. Questo
fraudolenter non si riferisce ad altro che alle sembianze di pace,
perchè la Cronaca narra del vespro (ibid., p. 1151) che i Siciliani
_rebelles fuerunt regi Karolo_, e uccisero i Francesi. Nulla di
congiura coi baroni siciliani; anzi aggiugne, che Pietro fe’ l’impresa
di Sicilia aiutato dal re di Castiglia e dal Paleologo.
La Cronaca di Parma, contemporanea anch’essa, narra il caso un po’
diversamente dagli altri. Un Francese percosse del piè un Palermitano;
indi la rissa, il grido universale, e la strage; _et Siculi miserunt
pro dicto regi Aragonae_; e continua una breve narrazione degli
avvenimenti (in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 801, anno 1282). Non
vi è traccia di accordi nè di trame.
Fra Tolomeo da Lucca, pure contemporaneo, particolareggia le pratiche
di Pier d’Aragona col Paleologo, e afferma aver visto il trattato.
Papa Martino, a sollecitazione di Carlo, scomunicò l’imperator greco;
questi mandò a Pier d’Aragona, Giovanni di Procida e Benedetto Zaccaria
da Genova, con moneta; l’Aragonese allestiva l’armata; domandato dal
papa, rispondea: taglierebbesi la lingua anzi che dir lo scopo. Dietro
ciò viene il tumulto di Palermo, scoppiato per le molte ingiurie che si
soffrivano; e seguon minutamente i fatti. Una sola vaga parola ci ha
da notare, che la rivoluzione seguì, _fovente_ il re Pietro, per le
sollecitazioni della moglie. Ma tra tanti minuti ragguagli, nulla di
venuta del Procida in Sicilia, di congiura co’ baroni; e quel _fovente_
si riferisce senza dubbio al favor che poi diè alla rivoluzione, o a
qualche vago incoraggiamento prima (Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib.
24, cap. 3, 4, 5, in Muratori, R. I. S., tom. XI, pag. 1186, 1187; e lo
stesso negli Annali, ibid., pag. 1293).
Ferreto Vicentino, autor d’una Cronaca dal 1250 al 1318, nel qual tempo
probabilmente ei visse, reca similmente le pratiche dell’imperator
greco e del re d’Aragona; le esortazioni fatte a questi da Giovanni
di Procida; il danaro dato, e gli armamenti. Del resto è poco esatto;
porta l’andata di Pietro, di Catalogna a Messina direttamente; e
fa pattuire il duello nel tempo dell’assedio di quella città, per
evitare la strage. Non parla de’ Siciliani senza biasimo; e notevol è
ch’ei dice chiamato Pietro dai maggiori del regno, che, ammazzati i
Francesi, avean preso iniquamente lo stato; il che esclude ogn’idea di
cospirazione antecedente di costoro col re (in Muratori, R. I. S., tom.
IX, pag. 952, 953).
In un’antica Cronaca napolitana (Raccolta di Croniche, Diarii ec,
Napoli 1780, presso Bernardo Perger, tom. II, pag. 30) leggiamo: «1282.
_L’isola de Sicilia se rebellò contro re Carlo I e donasse a re D.
Pietro de Aragona; quale rivoltazione fo per violentia che un Francese
volse fare a una donna_.»
Giordano, nel Ms. Vaticano, non altrimenti narra il vespro, che con le
parole: _Succensa est primo stupenda rabies, propter enim enormitates
Gallicorum_ (in Raynald, Ann. ecc., 1282. §. 12).
Paolino di Pietro, contemporaneo, mercatante fiorentino, e scevro, per
quanto si ritrae, da studio di parte in queste nostre vicende, racconta
la sollevazione in queste parole, che per la grazia della lingua e
semplicità antica ci piace trascrivere: _E incominciosse in Palermo,
perchè andando ad una festa per mare, alquanti di Palermo fecero lor
segnore, e levaro un’insegna per gabbo ed a sollazzo; ed alquanti
Francesi per orgoglio la volsero abbattere; e quelli non lasciando
e difendendola, vennero alle mani; e i Palermitani non curandoli
in mare, ed i Franceschi non credendo ch’elli avessero l’ardire,
combattero ed ucciserli. Per la qual cosa la terra fu sotto l’arme; e
li Franceschi combattendo con li Palermitani, per paura di non morire
tutti, si difesero, ed ucciserli tutti, e grandi e piccioli, e buoni
e rei. E poi alla sommossa di Palermo, che parve opera divina ovvero
diabolica, tutte le terre di Sicilia fecero il somigliante; sicchè in
meno d’otto dì in tutta la Sicilia non rimase, niuno Francesco. Il
re di Raona, sentendo questo, fece ambasciatori, profferendo avere e
persona, e ritornò diqua, non avendo sopra Saracinì acquistato niente;
ed arrivò in Sardegna; ed ivi stando ebbe dai Siciliani ambasciadori
e sindachi con pien mandato; e andò in Sicilia; e di volere si fece
loro re_ (Muratori, R. I. S., Aggiunta, tom. XXVI, pag. 73). La quale
narrazione, ancorchè diversa dal vero, prova che in Italia s’incominciò
a raccontare diversamente il fatto del vespro, errando talor nelle
circostanze, e più sovente nelle cagioni, perchè più facile è; ma che
Paolino di Pietro s’imbattè solamente negli errori dei fatti.
Non così il grave scrittore degli Annali di Genova. Fu questi Giacomo
d’Auria, o Doria, che gli Annali, principiati da Caffari, continuò dal
1280 al 1293. Uomo d’alta affare nella repubblica, per carico pubblico
ei scrisse le cose de’ suoi stessi tempi, viste con gli occhi propri,
o ritratte da testimoni degni di fede, nel popol di Genova, mercatante
e navigante, che avea commerci frequentissimi con Sicilia e anche con
Napoli; tantochè alcune galee genovesi vennero ad osteggiar Messina a’
soldi di re Carlo; e Genovesi eran anco entro Messina e in altri luoghi
di Sicilia nel tempo della rivoluzione; e più numero nè militarono
nelle armate nostre e nemiche nelle guerre seguenti. Donde ognun vede
se abbian questi annali pregio di esattezza, sano giudizio, e anco,
fino a un certo punto, imparzialità; non vedendosi piegare a nessun
lato la narrazione dei fatti; e potendosi francamente conchiudere, che
lo scrittore tenesse più al dover d’istorico, che agli umori della
propria famiglia ghibellina. O lo scrittore premette espressamente, che
furono causa del tumulto le oppressioni e aggravi de’ Francesi; che
furono occasione gl’insulti che fean essi alle donne, _eas inhoneste
alloquentes et tangentes. Sicque subito tumulto surrexit in populo_;
nè parla punto di macchinazioni; ma con grande esattezza nota i fatti;
ed espressamente porta chiamato re Pietro dai Siciliani, mentr’era in
Affrica, e non avea nulla operato d’importanza (Muratori, R. I. S.,
tom. VI, pag. 576, 577). Quanto valga questa testimonianza degli Annali
di Genova non occorre dimostrarlo.
Più forte sarà quella di Saba Malaspina. Le istorie del quale si han
divise in due parti: la prima che giugne infino al 1275, pubblicata,
tra gli altri, dal Muratori (R. I. S. tom. VIII); la continuazione
infino al 1285, per noi importantissima, data in luce dal di Gregorio
(Bibl. arag., tom. II). Questi dotti nelle prefazioni notavano la
gran fede che si debba all’istorico, prestantissimo secondo i suoi
tempi. Ei fu Romano (_de urbe_, leggesi nel fin della istoria, in di
Gregorio, loc. cit., pag. 423), decano di Malta, e segretario di papa
Martino IV; e scrisse negli anni 1284 e 1285, con fresca memoria de’
narrati avvenimenti. Nel principio del libro protesta: _nec ambages
inserere, aut incredibilia immiscere, sed vera, vel similia; quae aut
vidi, aut videre potui, vel audivi communibus divulgata sermonibus_:
e ben potea tener la parola stando appresso Martino, quando la corte
di Roma era centro della politica di tutta cristianità e governava
al tutto il regno di Napoli nei pericoli della siciliana rivoluzione;
talmentechè è probabilissimo, che lo stesso Malaspina scrivesse molte
delle sentenze e bolle di Martino, e trattasse gli affarì più gravi; è
certo ch’ei ne fu appieno sciente. Infatti la narrazione sua, quando
tocca i processi della corte di Roma contro Pier d’Aragona, s’accorda
perfettamente con gli originali al presente pubblicati; quando scorre
i vizi del governo angioino, si riscontra con le leggi di quello, o le
contrarie promulgate appresso il vespro; e vi si legge: _frequentissime
vidi ... vidique occasione custodiæ ... vidi quoque gravius ... vidi
plus_, ec., con che si dichiara espressamente testimone oculare.
Inoltre, narrando i fatti del vespro, ci apprende e ordini pubblici, e
nomi, e aneddoti lasciati indietro fin dagl’istorici nazionali, come
sarebbe la immediata federazione de’ Corleonesi co’ Palermitani, che si
riscontra appunto col diploma del 3 aprile 1282; ond’è manifesto che
Malaspina vantaggia per informazione ogni altro scrittor di que’ tempi.
Nè della veracità sua sarebbe da dubitare, fuorchè quando biasima Pier
d’Aragona e i Siciliani, in ciò che torni a lode o scusa loro non mai;
perchè Malaspina fu perdutamente guelfo; e guelfamente scrive; acerbo
contro noi, contro re Pietro, cui chiama lione e serpente; lodatore di
re Carlo, se non che amichevolmente si duole che per negligenza non
raffrenasse le ribalderie de’ suoi, delle quali scrive con maggior
ira, per due cagioni: risentimento di animo giusto al veder così fatti
soprusi; rammarico d’un guelfo, che sapea sol per questi levata sì
fiera tempesta contro la sua parte. Malaspina conduce così questo
periodo.
Discorre le angherie degli oficiali di re Carlo; indi alcuni
avvenimenti d’Italia pria della morte di Niccolò III; e qui incomincia
a parlare di Pier d’Aragona. Porta come Giovanni di Procida e Ruggier
Loria lo confortavano a venire al conquisto di Sicilia; com’ei si
armava; quali sospetti destò in Carlo, nel re di Francia, negli
stati Barbareschi. Ripiglia poi le cose d’Italia dopo la morte di
Niccolò; passa ai preparamenti di Carlo contro il Paleologo alla mala
contentezza che accrebbero ne’ suoi sudditi; al mal governo dei vicari
di Carlo in Roma. E con un’apostrofe lunghissima a quel re, gli torna
a mente averlo lodato a cielo per tutta Italia, e avere commendato
la sua dominazione; ma non sapergli perdonare due colpe: avarizia
e negligenza. «Tante battaglie, sclama, hai vinto e vinceresti; e
inespugnabili stanno questi due vizi!» Salta di qui al fatto del
vespro (Bibl. aragonese, tom. II, pag. 331 a 354); il quale appone
agli oltraggi recati alle donne e non ingozzati dagl’indocili nostri
bravi: il progresso della rivoluzione ritrae in guisa da non lasciar
sospetto d’una trama che si sviluppi, ma dar evidenza lucidissima d’una
sedizione, che inonda di sangue la capitale, e, fatta gigante, invade
tutta l’isola. Malaspina non fa parola, nè prima nè poi, di congiura,
d’intesa qualunque tra re Pietro e i baroni o le città siciliane
(ibid., pag. 354 a 360); nè in tutta la sua narrazione se ne vede orma.
Nè questo egli aggiugne a’ rimbrotti che mette in bocca a re Carlo
nell’accettare il duello (ibid., pag. 388); nè altro appone a Pietro,
che essersi armato prima; e aver, dopo lo sbarco in Affrica, domandato
a papa Martino aiuti che non poteva ottenere, per trarne pretesto
a voltarsi all’impresa di Sicilia, ove i popoli, già ordinati in
repubblica, lo chiamavano al trono. Questo è dunque il peggio, che un
focoso partigiano della corte di Roma e di re Carlo, ma verace e inteso
dei fatti, sapesse scrivere della siciliana rivoluzione! niuno mi dirà
che Malaspina non potesse saper la congiura; che, saputala, avesse
ritegno a bandirla a tutto il mondo! Dante in tre versi ritrasse
compiutamente il vespro:
Quella sinistra riva che si lava
Di Rodano, poich’è misto con Sorga,
Per suo signore a tempo m’aspettava;
E quel corno d’Ausonia che s’imborga
Di Bari, di Gaeta e di Crotona,
Da onde Tronto e Verde in mare sgorga.
Fulgeami già in fronte la corona
Di quella terra che il Danubio riga
Poi che le ripe tedesche abbandona;
E la bella Trinacria che caliga
Tra Pachino e Peloro, sopra il golfo
Che riceve da Euro maggior briga
Non per Tifeo, ma per nascente solfo,
Attesi avrebbe li suoi regi ancora
Nati per me di Carlo e di Ridolfo,
_Se mala signoria, che sempre accora
I popoli soggetti, non avesse
Mosso Palermo a gridar: Mora, mora._
_Parad_., c. 8.
A’ lettori italiani, o nati in qualunque altra terra ove s’estenda
la presente civiltà europea, io non ricorderò la rigorosa esattezza
istorica della Divina Commedia intorno i fatti d’Italia; la possanza
di quella mente a scrutar le cagioni delle cose, e stamparle ne’ pochi
tratti co’ quali suol delineare un gran quadro, sì che nulla vi resti
a desiderare; l’autorità infine dell’Alighieri, come contemporaneo al
vespro. E a chi noi sente con evidenza, non dimostrerò io, che quelle
parole, in bocca di Carlo Martello, tolgano affatto il supposto di
congiura baronale. Noterò bene che Dante, qui non solo tratteggiò la
causa, ma ancora una delle circostanze più segnalate del tumulto, che
fu il perpetuo grido: «Muoiano i Francesi, muoiano i Francesi!» Onde
que’ tre versi resteranno per sempre come la più forte, precisa e
fedele dipintura, che ingegno d’uomo far potesse del vespro siciliano.
E, secondo me, vanno errati quei commentatori i quali, seguendo il
racconto tenuto finora per vero, veggon l’oro bizantino recato da
Giovanni di Procida a Niccolò III, nello:
E guarda ben la mal tolta moneta,
Ch’esser ti fece contro Carlo ardito.
_Inf_., c. 19.
Il cenno che nel cap. V abbiam fatto del pontificato di Niccolò,
basterà a mostrare, ch’ei fu ben ardito contro Carlo pria del 1280,
quando si suppone, sulla testimonianza del Villani, questa corruzione.
L’avea spogliato delle dignità di vicario in Toscana e senator di
Roma, battuto e attraversato in mille guise Niccolò, dal primo istante
che pose il piè sulla cattedra di san Pietro (Murat. Ann. d’Italia,
an. 1278); onde l’ardimento contro Carlo, più tosto si deve intendere
di questi fatti certi, che del supposto disegno della congiura, che
per certo non ebbe effetto dalla parte di Niccolò, trapassato nel
1280. E le parole, mal tolta moneta, meglio stanno alla non dubbia
appropriazione delle decime ecclesiastiche e del ritratto degli stati
della Chiesa (Veg. Francesco Pipino, op. cit., lib. IV, c. 20), che
alla baratteria di cui vogliono accagionare l’alto animo dell’Orsino.
Del resto, tinto o no che sia stato il papa nella cospirazione, ciò non
proverebbe che la cospirazione partorisse il vespro; anzi, se Dante
quella conobbe, e al vespro die’ un’altra cagione, più forte argomento
è dalla mia parte. Nè è da lasciare inosservato il silenzio del poeta
su questo Giovanni di Procida, morto nel 1299, il quale se fosse stato
autor della ribellione di Sicilia, Dante non avrebbe pretermesso di
locarlo tra i grandi, o buoni o ribaldi; ma egli nol giudicò degno
dell’uno nè dell’altro.
Passando dalle tradizioni scritte ai diplomi, si potrebbe credere
che la corte di Roma, entrata in sospetto di re Pietro, sol per gli
armamenti che si vedean fare ne’ porti della Spagna pensasse a lui più
fortemente, quando ebbe l’annunzio della sollevazione siciliana. Così
nella bolla data il dì dell’Ascensione del 1282, cioè 37 giorni dopo
il vespro di Palermo, querelasi il papa (Raynald, Ann. ecc., 1282, §§.
13 a 15), che molti protervi intenti a molestare re Carlo e la Chiesa,
si sforzassero a raccendere in Sicilia la fiamma della discordia;
_ad id sua stadia inique congerunt; ad id suarum virium potentiam
coacervant, manus presumptuosas apponunt, et etiam occulti favoris
auxilium largiuntur_.... onde ammonisce i re, feudatari, cittadini e
uomini qualunque (ibid. §§. 16 e 17), che non si colleghino con le
comunità di Sicilia ribelli, nè lor diano consiglio, aiuto, o favore.
Ma queste pratiche accennate dalla corte di Roma, tutte presenti e non
passate, quand’anche si riferissero a Pietro, sarebber quelle presso la
repubblica siciliana per farsi chiamare al trono, non le macchinazioni
che produssero il vespro.
Ma poichè re Pietro venne in Sicilia, apertamente il papa a 18 novembre
1282, il dichiarava involto nelle pene minacciate con questa prima
bolla (Raynald, Ann. ecc. 1282, §§, 13 a 18): e fermato in questo
tempo il duello tra i due re, s’ingegnava a distorne l’Angioino
con più ragioni; tra le quali è, che temesse sempre le frodi di
quel nimico, che la Sicilia, _non in sui fortitudine brachii, sed
in papali rebellione detestanda siculi, occupavit; quin verius, de
ipsorum rebelliunm ipsam occupatam jam tenentium manibus, clandestinus
insidiator et furtivus usurpator accepit_ (Raynald, Ann. ecc., 1283, §.
8). Così privatamente a Carlo. Colorì più scure, e pur sempre vaghe,
le accuse nel processo indi messo fuori per depor Pietro dal regno di
Aragona, ch’è dato d’Orvieto a 19 marzo 1283 (Raynald, Ann. ecc., 1283,
§§. 15 a 23; Duchesne, Hist. franc. script, tom. V, pag. 875 ad 882).
Ivi si legge che la tempesta, _quod execranda Panormitanae rebellionis
audacia inchoavit, et reliquorum Siculorum malitia, Panormitanam
imitata, rosequitur, non cessava; sed per insidias Petri regis
Aragonum.... invalescere potius videbatur_.... poichè Pietro, _dictorum
rebellium se ducem constituit et aurigam_. Perchè vantando il dritto
della moglie, si adoperava con frodi e insidie, _machinatis ab olim,
prout communis quasi tenebat opinio, et subexecutorum consideratio
satis indicabat et indicat evidenter._ Indi, _quaesito colore_ di
osteggiare in Affrica, venne in Sicilia, concitando sempre più i popoli
contro la Chiesa; e con le città e ville si strinse in confederazioni,
patti e convenzioni, o piuttosto cospirazioni e scellerate fazioni;
sicchè già usurpava il nome di re, e confermava nella ribellione,
non solo i Palermitani, ma sì gli altri Siciliani, e in particolare
i Messinesi, che già stavano in forse di tornare alla ubbidienza.
Sciorinati poi i supposti dritti della romana corte sul reame
d’Aragona, onde Pietro avea anche violato la fedeltà feudale, torna a
quella burla, che il papa non sapea ingozzare, dell’impresa d’Affrica,
che il fatto mostra, ei dicea, macchinata apposta, ut_, opportunitate
captata, commodius iniquitatem quam conceperat parturiret. Maxime
cum per suos nuncios missos exinde, pluries eosdem Panormitanos
sollicitasse, ac ipsis in presumpta malitia obtulisse consilium et
auxilium diceretur_. E così per tutti i versi mostrando re Pietro
caduto nelle scomuniche, e aggressor della Chiesa, dalla quale tenea
il regno d’Aragona, scioglie i sudditi dal giuramento di fedeltà, si
riserba a concedere ad altri il regno, ec. Non è da pretermettere, che
in questo processo medesimo il papa accusa il Paleologo, già d’altronde
scomunicato, di _exibito_, a Piero, _consilio, auxilio ac favore; nec
non pactis confoederationibus conventionibus initis cum eodem_, come
allora argomenti di verosimiglianza persuadeano, e portava la voce
pubblica; ma nondimeno non parla giammai di cospirazione d’entrambi co’
Siciliani. Nè punto ne parla nell’altra bolla indirizzata a’ prelati di
Francia il 5 maggio 1284, narrando i motivi della concessione delle
decime ecclesiastiche per la guerra d’Aragona; ove le accuse sono la
finta partenza per l’Affrica, e la occupazione della Sicilia, nulla
_diffidatione premissa, quod proditionis non caret nota_ (Archivi del
reame di Francia, J. 714, 6; citata ma non pubblicata dal Raynald).
Questa stessa frase leggasi nel breve del 9 gennaio 1284, pubblicato
qui appresso, docum. XIV. Similmente nella bolla data d’Orvieto il
10 maggio 1284, trascritta in un diploma del cardinal Giovanni di
Santa Cecilia, dato a Vaugirard, presso Parigi, il 7 luglio 1284, con
cui papa Martino commetteva al cardinale di predicar la croce contro
re Pietro, gli si appone che: _de procedendo in Africam pretento
colore, concinnatis dolis, et insidiis machinatis contra nos, eamdem
Ecclesiam et carissimum in Christo filium nostrum Carolum Sicilie
regem illustrem, nulla diffidatione premissa, quod proditionis non
caret nota, procedens, insulam Sicilie, terram peculiarem ipsius
ecclesie, licet iam memorato Sicilie regi rebellem, adhuc tamen eiusdem
ecclesie recognoscentem dominium et nomen publice invocantem, militum
et peditum caterva stipatus invadere ac occupare_, etc. (Archivi del
reame di Francia, J. 714, 6). In somma Martino, francese e papa, cieco
nel devoto amore a Carlo, più cieco nella rabbia contro la siciliana
rivoluzione, sforzavasi a mostrare, che Pietro avesse nudrito antichi
disegni, tenuto qualche pratica; e che, quando l’audacia palermitana
incominciò la rivoluzione, avesse usato questa opportunità per togliere
il regno a quei che l’avean tolto a Carlo, presentandosi armato in
Affrica, e sollecitando i Siciliani per messaggi, sì che il chiamarono.
E questo appunto scrivea Saba Malaspina, nè più. Il papa non dice il
re d’Aragona altrimenti traditore, che per esser venuto in Sicilia
ostilmente, senza prima sfidarlo. Ei rileva con molto studio tutte
le crudeltà del vespro; ma non accagiona nè punto nè poco del vespro
il re Pietro, al quale non lascia di trovar colpe, anche ne’ fatti
più lontani, e fin col mentire che senza la sua venuta i Messinesi
si sarebbero calati agli accordi. Quel medesimo fatto poi che nella
sentenza del 19 marzo 1283 è il capo principale dell’accusa, cioè
le sollecitazioni fatte d’Affrica a’ Siciliani per chiamarlo re,
toglie netto ogni accordo di congiura; perchè è evidente, che se la
esaltazione sua si trovava già da gran tempo fermata co’ Siciliani,
non era mestieri or procacciarla con brighe e messaggi. Se dunque
l’avversario più fiero che fosse al mondo contro il re d’Aragona e i
Siciliani, non trattenuto da riguardo alcuno, in un processo fondato
sopra fallacia di vecchi ricordi o romori che chiamava pubblica voce e
sopra motivi di probabilità, non die’ espressamente quella origine al
tumulto del vespro, mentre ammontava e supposti e calunnie, posso dire
che rinforzano il mio assunto le stesse parole di Martino IV.
Il conferman quelle di papa Onorio; il quale ne’ capitoli messi
fuori l’anno 1285 a riformazione del reame di Napoli (Raynald, Ann.
ecc., 1285, §. 30), ricordate le angherie che l’imperador Federigo
incominciò, e Carlo aggravò, continua: _reddiderunt etiam praedictorum
consequentium ad illa discriminum non prorsus expertum, prout Siculorum
rebellio, multis onusta periculis, aliorumque ipsam foventium
persecutio manifestant_, etc. Nè altramente ei scriveva al cardinal
Gherardo nello stesso tempo, attestando le gravezze, afflizioni e
persecuzioni del governo angioino, aver cagionato sì fieri turbamenti
(in Raynald, Ann. ecc., 1285, §. 11): e pur Onorio seguiva strettamente
la politica della corte di Roma contro la dominazione aragonese in
Sicilia!
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