La guerra del Vespro Siciliano vol. 2 - 13

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vero, comparando ed esaminando sottilmente tutte le autorità istoriche
de’ tempi; ho delineato il ragionamento, che alla mia conchiusione
conduce. In questa appendice, ne vengo ai particolari. Torno a mente
al leggitore, che per autorità istoriche intendo: 1º. gli scrittori
contemporanei, messi a riscontro tra loro, e valutati secondo le parti
che ciascun tenne, la postura in cui si trovò a sapere i fatti, la
critica e la esattezza che da a vedere: 2º. i documenti, che pongo
in secondo luogo, perchè nel presente caso pochi se ne trovan di tali
da stabilir fuori contrasto la verità, ma sol possono rischiarare le
testimonianze degl’istorici, e aggiugnere o scemar fede a loro detti:
3º. la tradizione, in quanto valga dopo cinque secoli e mezzo di viver
civile: 4º. la necessità di cagioni d’alcuni fatti seguenti, che non
cadono in dubbio.
E cominciando dagli scrittori contemporanei o molto vicini a que’
tempi, è da notar che sono Francesi, Catalani, Siciliani o d’altre
parti d’Italia, e questi ultimi o Guelfi o Ghibellini; ondechè i più
scrissero da spirito di parte, pochissimi ne furono scevri, o meglio
che le parti amarono il vero. Pertanto di questa rivoluzione alcuni,
senza toccar le cagioni, dicon l’uccisione dei Francesi in Sicilia, con
qualche circostanza isolata ovvero oziosa, e nulla più. Altri intessono
sottilmente una cospirazione; e ne fanno effetto immediato e palpabile
il tumulto del vespro. Altri infine, accennando qual più qual meno
gli apparecchiamenti e i desideri di Pietro d’Aragona, raccontano il
tumulto di Palermo, senz’altrimenti connetterlo con quelli; com’effetto
dell’odio alla tirannia angioina, scoppiato a un tratto, per ingiuria,
in una festa popolare. Secondo queste tre classi divideremo le
testimonianze istoriche poste qui a disamina.
Nella prima si noverano Ricobaldo Ferrarese (Muratori, R. I. S., tom.
IX); i frammenti d’Istorie Pisane (ibidem); le due biografie di papa
Martino IV (ibidem, tom. III, parte 1ª, pag. 608 e 609, parte 2ª,
pag. 430); il nostro fra Corrado, che, inorridito delle fiere vicende
passate sotto gli occhi suoi, rifuggiva dal particolareggiarle (ibidem,
tom. I, pag. 729); il frate Catalano autor delle Geste de’ conti di
Barcellona (Marca Hispanica, per Baluzio, capit. 28), che dice della
chiamata di Pietro, dell’assedio di Messina, e dell’obbedienza negata
a Carlo in Sicilia, ma non della sanguinosa rivoluzione che die’
principio a questi fatti; il Cantinelli (Chronicon, in Mittarelli, Rer.
Faventinarum script., Venezia, 1771, pag. 276); un anonimo fiorentino
(pubblicato dal Baluzio, Miscellanea, tom. IV, pag. 104, ed. Lucca),
breve ma esatto, il quale narra, senza dir di congiura «che nel 1289 in
calende d’aprile si ribellò Palermo, e poi a sommossa de’ Palermitani
tutta la Sicilia;» e altri scrittori che inutile sarebbe a noverare,
perchè nessuna luce sen trae. Stretta investigazione meritano gli
scrittori Francesi, cioè l’autore del Ms. della vittoria di Carlo
d’Angiò, Guglielmo Nangis, l’autore della Cronaca del monastero di
San Bertino; e i fabbri Italiani della congiura, Ricordano Malespini,
Giovanni Villani, l’autore della Storia anonima della cospirazione
di Procida, e con essi frate Francesco Pipino, l’autor della Cronaca
d’Asti, il Boccaccio, il Petrarca.
Nel Ms. della vittoria di Carlo (Duchesne, Hist. franc. script.,
tom. V, pag. 850), si legge che Pier d’Aragona, apparecchiando un
navilio contro Carlo re di Sicilia, Siculorum monitu et uxoris, mandò
ambasciadori al papa, infingendosi voler andare con grande oste sopra
i barbari d’Affrica. Poi narrasi, che di febbraio (1282), un leon
marino portato ad Orvieto prognosticasse co’ suoi pianti le calamità
che sovrastavano; e qui finisce la cronaca. In essa è notevol solo il
Siculorum monitu, che si potrebbe per altro interpretare per consigli
degli usciti Siciliani rifuggitisi in corte d’Aragona.
Più espresso il Nangis. Secondo lui Pier di Aragona, ingrato ai re
di Francia, stigato dalla moglie, co’ Siciliani, _qui jam contra
regem Siciliae Carolum conspiraverant, confoederatus est. Nam missi
Siculorum, Panormitanorum maxime et Messanensium, ad ipsum tum
convenerant, dicentes quod si contra regem Carolum vellet cum ipsis
insorgere et eosdem tueri, de caetero ipsam in regem et dominum
reciperent et haberent..... Circa idem tempus_ (1281) Petrus Arragoniae
rex assensum dedit Siculis qui contra dominum suum regem Siciliae
Carolum conspiraverant, etc. Indi, toccando l’impresa preparata
da Carlo contro l’imperadore di Costantinopoli, che si ritrae
da tutti gli altri istorici, ne parla il Nangis come di novella
crociata al racquisto di Gerusalemme. Soggiugne che, tornati appena
gli ambasciatori siciliani dalla corte di Pietro, i Palermitani
e’ Messinesi ribellaronsi; Pietro uditolo s’armò ad aiutarli; ma
infìnse andar sopra i barbari in Affrica, e per messaggi confortava
i Siciliani. Di Giovanni di Procida ei non parla; ma senza dubbio
ne’ riferiti luoghi si contien l’accusa della congiura di Pietro coi
notabili di Sicilia (Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 537,
538, 539). Prendendo dunque ad esaminare l’autorità del Nangis, diremo
che, lette alla distesa le biografie dei re di Francia di quei tempi,
ch’ei compilò, ognuno il vede lodator larghissimo de’ suoi signori,
come frate e scrittor di corte; e comprendasi di leggieri come dovesse
narrare sol ciò che passava per vero nella corte di Francia. Così nei
fatti della guerra portata sopra Aragona l’anno 1285 e in altri, il
biografo dissimula, ingrandisce, rimpicciolisce, guasta, com’ei crede
maggior gloria de’ reali di Francia. A ciò s’aggiunga che dopo quella
crudele strage de’ Francesi in Sicilia, l’esacerbata opinione pubblica
in Francia non dovea accreditare altro, che il maggior biasimo dei
Siciliani e di re Pietro d’Aragona; dovea aggravar l’eccidio con la
premeditazione e col tradimento; denigrare la esaltazione del nuovo re
con una macchia di congiura; così anche onestar la caduta dominazione
di Carlo: perchè congiurar si può contro tutti i governi, ma di una
rivoluzione disperata dei popoli, il governo solo ha la colpa. Di più,
scrisse il Nangis dopo la ricordata guerra d’Aragona, ingiustissima
sempre, ma che men parea, quanti più neri misfatti si addossassero a
Piero. Per queste ragioni la testimonianza sua, di per sè sola, è men
degna di fede. Nulla le aggiugne o toglie l’antica versione francese
che sen trova nelle cronache di San Dionigi, e recentemente è stata
ripubblicata a fronte del testo latino del Nangis (Rer. gallic. et
franc. script., tom. XX. Paris, 1840); nè anco io ne farei parola, se
questa versione, che per lo più tralascia molti squarci del testo, qui
non sopprimesse la diceria su i dritti di Pietro d’Aragona al trono
di Sicilia, e aggiugnesse al testo, che Pietro mandò due cavalieri
in Sicilia per vedere se la regina Costanza gli avesse detto il vero
su le disposizioni de’ Siciliani; e che fattosen certo e stabilita
la rivoluzione, _ceulz de Palernes et de Meschines et de toutes les
autres bonnes villes seignerent les huis des François par nuit, et
quand il vint au point du jour qu’ils pourrent entour eulz voir,
si occistrent tous ceulz qu’ils pourrent trouver_, etc. Or questo
racconto, che muta il vespro Siciliano in alba Siciliana, dice de’
Palermitani, de Messinesi, e della più parte degli altri Siciliani,
come se in una medesima città, la notte avessero segnato le porte dei
Francesi, e, allo schiarire del giorno, cominciato la strage, appena
potettero distinguere da’ segni, le case ch’essi medesimi avean saputo
riconoscere e segnare la notte. Si vede chiarissima in tal racconto
la favola della uccisione contemporanea, con una inverìsimiglianza di
più. Gli eruditi sono in dubbio se questa traduzione debba attribuirsi
allo stesso Nangis. Io penso che un contemporaneo il quale scrisse con
esattezza, se non la cagione, almeno il fatto, non abbia potuto poi
guastare il fatto con sì grossolane favole: e però non saprei trarne
argomento a indebolire vieppiù l’autorità del Nangis; ma suppongo
piuttosto che la traduzione, o fu fatta, o almeno in questo luogo
interpolata da altra mano, in tempo posteriore.
La Cronaca infine del monastero di San Bertino, più vagamente del
Nangis dice della macchinazione (in Martene e Durand, Thes, Nov.
Anecd., tom. III, pag. 762 e seg.). Scrive che Pier d’Aragona,
pretendendo la Sicilia pel dritto della moglie, si adoprava, _nunc
commotiones, nunc seditiones excitans, nunc amicos sibi secrete
concilians; semper, in quantum poterat, laborans ad finem intentum_;
tantochè commosse i barbari di Tunis contro i cristiani; cosa non
vera, nè utile ad alcuno intento di Pietro; come non vere sono quelle
sommosse e sedizioni prima del vespro, che anzi durò pienissima infino
a quel dì la calma del servaggio. _Per suam etiam astutiam_, segue il
cronista, _commotionem excitavit in regno Siciliae. Mandatus tandem
ab eis, in Siciliam venit, dominium sibi usurpavit, et se in regem
Siciliae coronari fecit_; e del resto narra avvenuto in Palermo il
primo tumulto, e il progresso della rivoluzione nell’isola. Io non
avrei qui noverato questa cronaca, se tutta fosse scritta da Giovanni
Iperio, vissuto un secolo dopo il vespro. Ma perchè gli eruditi editori
nelle prefazioni, op. cit., pag 441 a 444, han creduto la prima parte
opera d’uno scrittore del secol xiii, non l’ho voluto passar qui sotto
silenzio. A chiunque appartenga lo squarcio risguardante il vespro
siciliano, è da notare che i particolari sono più minuti che nel
Nangis, e per lo contrario molto più vaghe le allusioni alle trame de’
Siciliani con Pier d’Aragona.
Passando agl’Italiani noi troviamo la tradizione della congiura in
Ricordano Malespini, e ’l suo continuatore Giachetto Malespini, e in
Giovanni Villani (Muratori, R. I. S., tom. VIII e XIII), che sono
propriamente gli autori della fama di Giovanni di Procida, e da loro
tutti gli altri han copiato il racconto. Ma prima si rifletta che
queste tre autorità si riducono a una sola; quella cioè di Giachetto.
Le trame della congiura non poteano esser manifeste in una città guelfa
d’Italia prima del fatto del vespro. Ora Ricordano, che minutamente le
racconta prima del vespro, cioè sotto l’anno 1281, per lo meno cessò
di scrivere in quel tempo, anche dandogli il privilegio di vivere e di
conservar tutte le sue facoltà fino a cento anni: perch’ei medesimo
assicura essere andato giovanetto in Roma l’anno milledugento. È chiaro
dunque che Ricordano non potè dettare quegli ultimi capitoli della sua
cronica; e ch’essi son opera di Giachetto suo continuatore, o almeno
interpolati da lui, perchè narrando il fatto del vespro, e apponendolo
alla congiura, volle inserire il racconto della congiura nella Cronaca
di Ricordano che correa fino al 1281.
Quanto al Villani, ei dovea essere o bambino o fanciullo nel 1282, e
certo cominciò a scrivere molti anni appresso; e il suo racconto della
congiura e il fatto del vespro, sono non presi ma trascritti di parola
in parola, il primo dalla Cronaca attribuita a Ricordano, l’altro dalla
continuazione di Giachetto, con qualche lieve circostanza di più o
di meno, che non toglie la evidenza del plagio, riconosciuto ben dal
Muratori nelle sue prefazioni a’ Malespini e al Villani. Prendendo
dunque a esaminare insieme i racconti del Villani e di Giachetto,
che per la perfetta coincidenza si riducono a un solo, veggiam che
costoro come Fiorentini, vivuti mentre la città reggeasi del tutto a
parte Guelfa e si rafforzava della riputazione dei re di Napoli contro
le rivali città di Toscana, senza pudore parteggiano, più che gli
scrittori francesi; perchè la vicinanza rinfoca tutte le passioni. Indi
ad ogni parola scopron gli animi Guelfi, e nimicissìmi a’ Siciliani.
Del Villani, così il Muratori nota nella prefazione citata di sopra,
doverglisi prestar poca fede nelle vicende di parti guelfa e ghibellina
dopo i tempi dell’imperador Federigo secondo. S’aggiunga, ch’egli era
forse più ingiusto per umor di famiglia; poichè ne’ diplomi del duello
fermato tra re Pietro e re Carlo, si legge tra i nomi de’ mallevadori
di Carlo (veggasi il capit. IX, voi 1, pag. 210) un Giovanni Villani,
forse parente dello storico. Non son pochi gli errori in cui caddero
cotesti scrittori, ch’eran per altro lontani dalla Sicilia, e disposti
a colorire la narrazione come paresse peggiore pe’ loro nemici; che
così sempre si è fatto e si farà anche senza il proponimento di
calunniare. E lasceremo, perchè si può apporre ai copisti, l’errore di
Giachetto, che porta il tumulto del vespro a tre marzo. Ricordano e
Villani raccontan quella improbabilissima corruzione di Niccolò III,
comperato da Procida col danaro del Paleologo; suppongon che re Pietro
d’Aragona pe’ suoi preparamenti domandasse un sussidio di moneta al
re di Francia, quando si sa che una delle ragioni principali, con
cui difendeva il suo segreto intorno lo scopo dell’impresa, era di
prepararla senza alcun aiuto d’altrui. Giachetto e Villani portano,
con errore evidente, il tumulto del vespro incominciato a Morreale,
poichè s’erano adunati in Palermo «a pasquare, i baroni e’ caporali
che teneano mano al tradimento;» dicono come nella festa un Francese
prendesse una donna per farle oltraggio; e indi nascesse la briga,
incalzata da’ congiurati; i quali nella zuffa ebber la peggio, poi
uccisero tutti i Francesi in Palermo, e andando alle lor terre,
commossero tutta l’isola. Nell’assedio di Messina i due cronisti non
son più esatti; recando una lettera di Martino, apocrifa e foggiata
senza riscontro alcuno con le idee che scernonsi nelle bolle messe
fuori in quell’incontro (V. il cap. VII). Essi di più, raggirando
su Procida sempre la lor macchina, il fanno mandare ambasciadore
da’ Siciliani a Pietro, per offrirgli la corona, quando gl’istorici
Siciliani e Catalani, che non poteano nè ignorare, nè tacere nome
sì grande, dicono incaricati tutt’altri dell’importante messaggio.
In questi e in tanti simili fatti, che notiamo nel corso del nostro
lavoro, si scernon sempre i ridetti istorici male informati, fallaci,
parziali.
Maravigliosa è la uniformità del lor dettato con quel d’una Cronaca
anonima in antica lingua siciliana, che corre dal 1279 infino ad
ottobre 1282 (di Gregorio, Bibl. arag., tom. I, pag. 243 e seg.).
Questa coincidenza, creduta argomento di veracità della Cronaca, e il
sapore antico della lingua e dello stile, persuasero al di Gregorio,
che contemporaneo fosse questo scritto, del quale s’ignora del tutto
l’autore, ma ce n’ha un Ms. in carta di bambagia, posseduto al presente
dall’erudito e gentile uomo, il principe di San Giorgio Spinelli di
Napoli, che per l’ortografia e la forma de’ caratteri con lettere
iniziali azzurre o vermiglie e vestigia di dorature, appartiene senza
dubbio al secol xiv. Questo antico Ms. pervenuto al presente possessore
forse da Messina, era del tutto ignoto in Sicilia nel secol passato;
talmentechè di Gregorio pubblicò la Cronaca nella sua Biblioteca
Aragonese sopra una copia del secolo xvii, con ortografia diversissima
dal Ms. del San Giorgio, e queste altre differenze, che innanzi il Ms.
di San Giorgio si legge; _Quistu esti lu Rebellamentu di Sichilia lu
quali hordinau effichi fari Misser iohanni di prochita contra lu re_
CARLU P., e che il luogo della lezione del Gregorio (pag. 264), _et
incalzaru la briga cantra li francischi cu li palermitani, e li homini
a rimuri di petri e di armi gridandu «moranu li franzisi;» et intraru
dintra la gitati cu grandi rumuri lu capitanu che era tardu pri lu re
Carlu, etc_.; ha nel Ms. del San Giorgio la bella variante: _Incalzaru
la briga contra li franchischi et livaru A rimuri efforo a li armi li
franchischi cum li palermitani et li homini a rimuri di petti e di armi
gridandu moranu li franchischi et Intrara in la chitati cum grandi
rimuri et foru per li plazi et quanti franchischi trouavanu tutti li
auchidianu Infra quilli rimuri lu capitanu chi era tandu per lu Re
Carlu, etc_.
Tuttavia nè l’antichità di questo Ms. nè quella dello stile e della
lingua, alla quale s’appigliò il di Gregorio, non avendo per le mani
altra copia che del secolo xvii, e volendo ad ogni modo raccomandare
la Cronaca come contemporanea, nè l’una nè l’altra, io dico, posson
portare a un’approssimazione sì stretta, da giudicare precisamente
se l’autore fiorisse in fin del secolo xiii o nei principî, o nel
fine del xiv; e indi se contemporaneo fosse al vespro, o quanto
discosto. L’altro argomento, ch’è la coincidenza col Villani, o meglio
diremo Malespini, proverebbe il contrario, cioè che l’autor della
Cronaca siciliana avesse avuto per le mani quella de’ Fiorentini;
perchè si riscontrano con picciol divario la disposizione dei fatti,
gl’incidenti, spesso le parole, più spesso gli errori; il che mai non
avviene quando due scrittori, senza conoscersi l’un l’altro, dettino il
medesimo avvenimento, foss’anco brevissimo e semplice. Le differenze
poi son queste: che la parte aneddotica e drammatica è molto più ampia
nella Cronaca siciliana, e che qualche data o nome di luogo è diverso,
or con maggiore esattezza o probabilità dalla parte del Siciliano, or
il contrario. Per esempio, il Siciliano scrive che Procida nel 1279
si trovasse in Sicilia (nè il dice proscritto e nascoso); quando da’
diplomi allegati da noi nel cap. V, vol. 1. p. 92, si vede chiarito
ribelle e uscito infin dal 1270; e si sa che riparò a corte del re
d’Aragona. Ma, quel ch’è più, il veggiamo incerto ed erroneo sul
giorno della sollevazione di Palermo: _Eccu chi fu vinuto lu misi di
aprili, l’annu di li milliducentaottantadui, la martedì di la Pasqua
di la Resurrezioni_; quando e’ si vede certamente che quel martedì
cadde il 31 marzo. Or che un Siciliano, vivuto di que’ tempi, avesse
potuto errare o dimenticar questo giorno, io nol so comprendere; e da
ciò potrebbe argomentarsi l’antichità men rimota di questa Cronaca,
perchè sendo avvenuta nel corso d’aprile la strage in tutte le altre
città di Sicilia, molti anni appresso si ricordava aprile come il tempo
del riscatto; e l’autor siciliano, avute per le mani le cronache de’
Fiorentini, vi corresse a suo modo l’epoca; come fece del coronamento
di re Pietro, asserito da quelli, negato da lui; e sì del luogo della
prima sollevazione, portata da quelli in Morreale, da lui, e qui con
esattezza, _in un locu lu quali si chiama Santo Spirito_, ch’era il
nome della chiesa, non della campagna. Le quali correzioni portano
a credere che il Siciliano dopo i Fiorentini, non questi dopo lui
avessero scritto; perchè i primi non sarebbero inciampati nell’errore
del luogo della prima rissa, o avrebbero seguito il Siciliano
nell’errore del tempo.
Perilchè mi è venuto in mente un supposto intorno questa Cronaca. Io
penso che l’autore scrisse verso la metà del secolo xiv e fu della
famiglia Procida, o attenente ed amico a quella; che nel regno dì
Federigo d’Aragona, come si è veduto nel capitolo XV, Giovanni di
Procida voltò a parte angioina, e con lui alcuni della famiglia.
Quest’anonimo dunque, cliente o partigiano dei figliuoli di Procida,
pieno d’umori guelfi, vivendo fuori dalla patria, s’imbattè nella
cronaca de’ Malespini o del Villani; alla quale aggiunse or qualche
verità, or qualche errore cavato dalla tradizione e tendente ad esaltar
Giovanni di Procida; e ne dette quel che in oggi chiameremmo romanzo
storico, o una istoria frammischiata di finzioni e novelle; come son
di certo la debolezza, la paura, i pianti di tutti que’ grandi che si
suppose trattasser la congiura con Procida. Certo egli è che parecchi
Siciliani sotto Pietro, Giacomo e Federigo d’Aragona, or a ragione or
a torto, furon puniti, o uscirono come ribelli, e ben potè avvenire
che alcun d’essi o de’ loro figliuoli restassero fuori di Sicilia
anche dopo la pace; certo che un germe, ancorchè debolissimo, di parte
francese o guelfa o, come appo noi chiamavasi, di Ferracani, restò in
Sicilia; certo che questa Cronaca, difforme dalle altre nostre di que’
tempi, si riscontra nelle parti più essenziali con quella de’ Guelfi
Malespini e Villani. Di essa l’autore non si sa; il tempo non si sa; e
assai debole testimonianza ne sembra. Il di Gregorio, pubblicandola per
lo primo, mutila del principio, che poi si è dato alla luce (Buscemi,
Vita di Giovanni di Procida, docum. 4), notò con allegrezza molti
luoghi in cui risponde al Surita, senza riflettere che il Surita,
autor del secolo XVI, togliea que’ fatti da essa appunto e dal Villani.
Seguono nella medesima classe gli scrittori che primi aggiunsero alla
cospirazione la favola della uccision dei Francesi per tutta l’isola
in un dì. Frate Francesco Pipino, che fiorì ai tempi di re Roberto
(Francesco Pipino, lib. 3, cap. 19, in Muratori, R. I. S., tom. IX,
p. 695), cioè nei principi del secol xiv, ma al dir di Muratori
(ibid., Prefazione) poco diligente e spesso rapportator di favole e
maraviglie, narra ancor questa, ma assai timidamente. Dapprima descrive
le oppressioni e violenze de’ Francesi, donde nacque una sedizione in
Palermo, e la chiamata di Pier d’Aragona ch’era ad oste in Affrica.
Ma parendogli poco, soggiugne: _Hujus autem rei novitatem tractasse
ac procurasse fertur multis periculis, sudoribus, oc dispendiis,
magister Joannes de Procida, olim notarius, phisicus, et logotheta
regis Manfredi_ (ibid., pag. 686 e seg.); e discorre minutamente la
cospirazione, i soccorsi di danaro dati a re Pietro dal Paleologo, e
da papa Niccolò (qui pagante e non pagato); fa ordinare da Procida che
in un giorno assegnato tutti i Siciliani si levassero, e nel medesimo
dì Pietro si partisse con la flotta: le quali due cose, ei soggiugne,
riuscirono appunto; quindi Pietro venne in Messina, e incoronossi nelle
feste di Pasqua del 1282. Fascio di anacronismi, errori e grossolane
inverosimiglianze, che non è uopo confutare, quand’ei medesimo, che
affastellar solea alla cieca, le porta col salvaguardia del _fertur_; e
narra il medesimo fatto in due modi, l’uno della sollevazione casuale
in Palermo, propagata nell’isola, l’altro della uccisione contemporanea
in tutta l’isola. Nel capitolo che contien la prima narrazione ei mette
l’intitolazione: _De Carolo seniore Siciliae Rege, ex chronicis_;
onde si vede che la prima trasse da croniche, quella seconda dalla
voce popolare, senza dire qual delle due credesse la vera, chè ben il
dovea, trattandosi di un fatto sì grande, e sì diverso secondo che
all’una o all’altra si prestasse fede.
Peggio la cronaca d’Asti, la quale fa durare sol tre mesi le pratiche
del Procida, che gli altri portano condotte in tre anni; e racconta
quel miracoloso eccidio per tutta Sicilia in un dì; e manda ad
assaltare l’Aragona, col re di Francia, lo stesso re Carlo, ch’era
morto parecchi mesi innanzi. Perciò della cronaca d’Asti non ci
impacceremo più a lungo.
Finalmente la stessa favola di una strage universale al tocco del
vespro, fu scritta da Giovanni Boccaccio, ne’ Casi degli uomini
illustri (lib. 9, cap. 19); nè è da maravigliare, che meglio di
sessant’anni appresso il fatto, il novellatore toscano, dimorato
a lungo in Napoli, e amante d’una figliuola di re Roberto, abbia
spacciato il racconto che piaceva più nella corte angioina, e l’abbia
scritto così di volo, non in istoria giusta, ma in una tal maniera di
biografie, tendente a mostrare le strane vicende della fortuna.
Il Petrarca, contemporaneo del Boccaccio e non del vespro siciliano,
nell’Itinerario siriaco, tiene ancor l’opinione che Giovanni di Procida
fosse autor principale della rivoluzione di Sicilia, per privato
risentimento. Del rimanente nè dice della cospirazione, nè accenna
altri particolari; e si mostra anco poco informato della patria di
Giovanni, che scambia col titol della signoria. La sue parole son
queste:_ Vicina hic Prochita est, parva insula, sed unde nuper magnus
quidam vir surrexit, Johannes ille qui formidatum Karoli diadema non
veritus, et gravis memor iniuriae, et majora si licuisset ausurus,
ultionis loco huic regi Siciliam abstulisse, etc_. (tom. 1, pag. 620).
Non è fuor di proposito qui aggiugnere, che il Petrarca fu attenente
alla corte di Napoli; e ricordare un diploma di re Roberto, dato il
2 aprile 1331, che lo eleggea suo cappellano, citato dal Vivenzio,
Istoria del regno di Napoli, tom. II, pag. 358.
Prendendo adesso a dir degl’istorici, strettamente contemporanei
tutti, che o non parlano di pratiche antecedenti al vespro, o non
attribuiscono a quelle il vespro, io mi sento ripetere, che ai
Siciliani e agli Spagnuoli poco sia da attendere, perchè vollero per
amor di nazione passar sotto silenzio la congiura. E io ammetto questa
diffidenza; e mi guardo dalle reticenze e dalle esagerazioni che si
debbon trovare negli scrittori di questa parte; ma niuno dirà, che i
fatti debban piuttosto cercarsi in quelli delle altre genti, lontane
di luogo o di commerci; e che tra due classi di partigiani, se pur si
voglia, meritino maggior fede gli avversi a noi, che i nostri. Indi è
bene degli uni e degli altri dubitare, e starcene a più sode autorità:
e così m’ingegnerò di fare; fidandomi di me in questo, che l’amor
della patria grandissimo, mi conforta anzi a onorarla col vero; che a
pargoleggiare con poveri inorpellamenti.
Di questo vizio in vero non so condannar l’anonimo che scrisse in
latino la Cronaca di Sicilia, pubblicata in varie collezioni, e più
correttamente dal di Gregorio (Bibl. arag., tom. II); la qual Cronaca
dai dotti (ibid., p. 109 e 119) si tiene contemporanea, e degna di
molta fede. Questo semplice cronista, sollecito di trascrivere i
documenti, e parco assai di parole proprie, se darebbe qualche ombra
col tacere il caso di Droetto, e narrar come nella piazza della chiesa
di SantoSpirito molti Palermitani cominciassero a gridare: «Morte ai
Francesi,» dilegua poco appresso ogni dubbio soggiungendo: «_Et sic
rebellantes subito, sicut Domino placati, contra ipsum Carolum, cum
nulla praeveniret exinde aliqua provisio, etc_. Si raccomanda inoltre
l’anonimo per molta diligenza ed esattezza nell’epoca di cui trattiamo.
In quella visse Niccolò Speciale, uom di alto stato e di molte
lettere, secondo i suoi tempi; ito nel 1334 ambasciadore di re Federigo
II di Sicilia a papa Benedetto XII (Prefazione del Muratori, ristampata
dal di Gregorio nel tom. I della Bibliot. arag,, p. 285), Indi abbiamo
per questo istorico un bene e un male; il bene, che fu in luoghi e in
tempi da conoscere appunto, e non da uom del volgo, ciò che scrisse,
veduto cogli occhi propri o ritratto da vicino; il male, che potè
peccar di prudenza cortigiana contro la verità. Infatti, riguardo ai
tempi di Federigo, non son senza questo studio alcuni luoghi della sua
istoria; e quanto al vespro, tace i disegni anteriori di re Pietro,
nè io mi terrei al suo silenzio della cospirazione, se altre autorità
non ne avessi. Narrando il caso di Droetto, lo Speciale segue: _Tunc
Panormitani omnes, quod diu concaperant, operi st accingunt, quasi
vocem illam coelitus accepissent_, che deve intendersi del proponimento
di vendetta e affranchimento che nudre ogni popolo oppresso, s’ei
non è schiavo vilissimo nel sangue; perchè tutt’altra spiegazione è
tolta dalle espresse parole che il tumulto avveniva: nullo comunicato
consilio (loc. cit., p. 301). Questa negazione precisa di trattato
precedente, dee far molto peso in un uomo come Speciale, che avrebbe
forse dissimulato tacendo, ma non mai asseverata una bugia, in un fatto
gravissimo e di necessità notissimo.
Crescon di forzna tali ragioni parlando di Bartolomeo de Neocastro,
messinese, giurista, magistrato repubblicano di Messina nella
rivoluzione (Carta del 10 maggio 1282, ne’ Mss. della Bibliot. com. di
Palermo, Q. q. H. 4, fog. 116), indi avvocato del fisco, e nel 1286
ambasciatore di Giacomo I di Sicilia a papa Onorio (nel di Gregorio,
Bibl. arag., tom. I, pag. 4, Prefaz. del Muratori). Perch’ei si trovò,
non che nel vigor dell’età, ma in mezzo a pubblici affari, in questi
tempi della rivoluzione; scrisse con fresca memoria, pria del 1295,
chiamando nel suo proemio ancora re di Sicilia Giacomo, e infante
Federigo l’Aragonese, e conducendo la narrazione infino all’anno
1293: nè da’ suoi scritti trasparisce arte alcuna cortigianesca, ma
candore e preoccupazione di patriotta messinese di que’ tempi. Il buon
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