La guerra del Vespro Siciliano vol. 2 - 12

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tra i principali condottieri il cronista Ramondo Montaner. Tal gente
acquistò allora al re di Sicilia il titolo del ducato d’Atene e di
Neopatria[414].
Il papa fu l’ultimo ad assentire la pace. Venuto a lui il Valois,
nel ripigliò con sì agre rampogne, che ’l Francese fu per metter
mano alla spada[415]; esacerbato ancora dalla discordia accesa tra
il papa e casa di Francia per la disciplina ecclesiastica, di che
nacquer pochi anni appresso la scomunica di Filippo, la presura di
Bonifazio ad Anagni, e ’l disperato morir suo. Forse per cagion di
queste contese, s’ammorzò alquanto la superbia di Bonifazio contro
Federigo; e benignamente scriveagli: non poter ammettere senza disonor
della Chiesa l’accordo com’era, ma si accomoderebbe; egli intanto
preveniva Federigo nelle vie della pace; il ribenediva; non ricusava la
dispensagione per le nozze con Eleonora; del resto mandava in Sicilia,
a riformare i patti, i vescovi di Salerno e Bologna, con Giacomo di
Pisa famigliar suo. E ’l re di Sicilia, che incominciava a gustar
le delizie del viver tranquillo, piegossi a riconoscere per oratori
la feudal signoria di Roma, disdetta chiaro abbastanza nel trattato
di Caltabellotta, ed or voluta senza remissione da Bonifazio. Mandò
dunque a corte di Roma il conte Ugone degli Empuri, Federigo d’Incisa,
e Bartolomeo dell’Isola, promettendo e ’l giuramento ligio, e ’l
censo di tremila once d’oro all’anno, e il servigio di cento lance, o
vogliam dire trecento cavalli; imitazione de’ patti a’ quali Clemente
avea dato al conte d’Angiò i reami rapiti a Manfredi e a Corradino.
Ebbe Federigo il titolo di re di Trinacria; promesse a corte di Roma
la comodità di trarre grani dall’isola, e l’ampia redintegrazione de’
beni ecclesiastici. Nel qual modo, peggiorato per maneggi l’accordo che
onorevole s’era fatto con le armi in pugno, Bonifazio l’approvò per
costituzion pontificia del dì ventuno maggio milletrecentotrè, col voto
del sacro collegio, dissentendo un sol cardinale[416].
Fu questo fatto di Federigo, illegittimo e non obbligatorio per la
Sicilia, sì per virtù dei primitivi dritti di lei, e sì per la espressa
e fondamentale legge del milledugentonovantasei, che vietava qualunque
atto di politica esteriore senza assentimento della nazione. Perchè
non abbiamo, nè sappiamo essersi allegato giammai, documento di tal
approvazione nè alla pace di Caltabellotta, nè alle riforme di Roma.
Ma resta in dubbio se Federigo lasciar volle quest’appicco a disdir
quando che fosse e ’l trattato e l’omaggio al papa, o se, mutando il
sostegno dell’amor dei popoli con la federazione de’ potentati, si
contentò meglio del magro accordo, che della gloriosa resistenza;
e prese a violar le sue medesime leggi, come prima il potè senza
pericolo. Certo egli è dall’un canto, che Federigo non pagò giammai
censo a Roma[417]; che non mandò le milizie; ch’indi a pochi anni
ruppe nuovamente la guerra; che ripigliato l’antico titol di re di
Sicilia, mandò in un fascio e trattato e papal costituzione[418];
che infine fe’ riconoscere dal parlamento la successione di Pietro
II, onde il legal voto della nazione dileguò del tutto i vestigi
di tali vergogne, se alcuno ne potea lasciare il fatto del solo
Federigo contrario alle leggi. Dall’altro canto è da considerare, che
la guerra l’avea stracco; che puzzavagli la licenza dei baroni e de’
soldati mercenari; che gl’increscean forse gli stretti limiti della
costituzione del novantasei; e sopra ogni altro, ch’ei non fu sì grande
come il presenta la istoria, che mal serba misura nel biasimo o nella
lode. Ebbe Federigo animo gentile, affabile, adorno dalle lettere,
dato agli amori, pieghevole alle amistà, ma troppo, sì che reggeasi a
consigli di favoriti: e ne nacque il turbolento patteggiar della sua
corte, che ’l portò ad estremo pericolo con la ribellione di Ruggier
Loria, e posate le armi di fuori, accese in Sicilia le dissenzioni
civili. Nei maneggi di stato non fu molto accorto o magnanimo, nè
coraggio politico ebbe, al paro che ’l soldatesco, questo principe,
che nel novantacinque si lasciò raggirar da Bonifazio, e per poco non
tradì i Siciliani, nè spegner seppe, nè accarezzare i suoi baroni; e
dopo questa pace, ripigliando le armi al tempo dell’imperadore Arrigo
di Luxembourg, troppo osò, poco mantenne; meritò nota, ancorchè troppo
severa, di avarizia e viltà, da quel Dante ch’a lui s’era volto, come
all’erede del grande animo di re Pietro. Tal sembra, su i più certi
riscontri istorici, Federigo, lodato a cielo da Speciale suo ministro,
da Montaner soldato di ventura catalano, e ammirato dalle età seguenti,
perchè a lui si è dato quanto oprarono ne’ primordi del suo regno i
Siciliani, esaltati ad eroiche virtù dalla rivoluzione del vespro. Ma
s’ei non levossi con la sua mente all’altezza di gran capitano o uom
di stato, avrà sempre una splendida pagina nelle istorie siciliane,
come franco e schietto, costante nelle avversità, solerte in guerra,
prode in battaglia, vigilante nel civil governo, umano co’ sudditi,
degnissimo di fama per le generose leggi politiche che ne restano col
suo nome, le quali s’ei non dettò, ebbe prudenza certo e magnanimità
da assentirle[419].


CAPITOLO XX.
Conchiusione. Qual era la Sicilia prima del vespro; qual ne divenne;
qual rimase.

La pace di Caltabellotta, che fece posar la prima volta le armi in
venti anni dalla sommossa dell’ottantadue, è il termine del mio lavoro,
avendo chiuso quella felice rivoluzione ch’io prendeva a narrare.
Perchè non solamente i potentati di fuori, i quali, bene o male,
vantavan ragioni su l’isola, s’acquetarono al reggimento di quella
per lo innanzi chiamata ribellione; ma anco dentro da noi dileguossi
la spinta del vespro; benchè dopo corto volger di tempo, si fosse
ripigliata la guerra con esempi dell’antica virtù, e disdetti i termini
del trattato di Caltabellotta, e sostenuta, in tutta la integrità,
l’independenza della nazione. Ma tuttociò ritraea come debole immagine
que’ primi tempi gloriosi; e sforzi del nimico men gagliardi, con
più fatica si rispinsero; e mancava il rigoglio d’attual movimento;
scopriasi il mal germe della feudalità rimbaldanzita; e ogni cosa
muovere da una corte fiacca e discorde, anzichè dalla volontà della
nazione. Del rimanente, prima ch’io lasci questo nobile subbietto, mi
par bene ricercare qual fosse la Sicilia innanzi il vespro, qual ne
divenisse, qual restasse poi.
Nel secol duodecimo la veggiam noi fiorita d’industrie, civile e
potente, forse sopra la più parte degli stati d’Italia, domar quanti
piccioli principati stendeansi dal Faro al Garigliano; e per questa
nuova signoria, entrar nelle guerre civili d’Italia; e al medesimo
tempo avviarsi a più intima unione con quelle province d’oltre lo
stretto, e a reggimento più chiuso. Questo ebbe sotto casa Sveva, per
lungo tratto del secol decimoterzo, con grande soperchio di tasse:
ma l’alta mente de’ principi mitigò l’uno e l’altro con buone leggi
civili, gentilezza di costumi, cultura degl’ingegni, da avanzare nel
rinascimento delle lettere ogni altra provincia italiana; e insieme
die’ l’andare a forti opinioni contro la corte di Roma. L’avarizia e
severità, spiacendo più che non allettavano gli ornamenti, piegarono i
popoli alla repubblica del cinquantaquattro. Spenser questa i baroni;
e tornò la dominazione Sveva con que’ vizi e quelle virtù: onde poco
appresso ricadde, più per mala contentezza de’ popoli, che per forza
straniera.
Ma il governo angioino, invece di far senno da ciò, inebbriossi d’ogni
più insensato abuso; mutò non solamente le persone de’ feudatari, ma
di fatto anco innovò la feudalità; nel rimanente correndo al peggio
sulle tracce degli Svevi, e sforzandosi, direi quasi, a trar tutto
alla testa il sangue, per farsene più vigoroso alle ambizioni d’Italia
e d’Oriente. Sì duro ei tirò, che la ruppe. L’antagonismo delle
schiatte, il sentimento di nazione latina fece sentir più duramente
il governo tirannico; che anche antico e nazionale spinge i popoli a
ribellarsi come il possano. De’ due popoli si mosse anzi il Siciliano
che l’altro, o per l’indole più ardente, o per maggiore oppressione;
perchè la corte, tramutata in terraferma, era quivi compenso ai
mali comuni, e rispetto all’isola nuovo oltraggio politico, e danno
materiale; onde, dopo la rivoluzione, lo stesso Carlo I e Carlo II
si fecero a profferire special governamento alla Sicilia, e vicario
con larghissima autorità, e moderate leggi: rimedi che dati a tempo
avrebbero forse distornato i tremendi fatti del vespro, ma sì tardi non
trovarono chi li ascoltasse. La congiura o non operò nel movimento, o
poco l’affrettò. L’occasione al tumulto potea tardare; potea riuscir
male la prima, la seconda prova; non fallire la rivoluzione, in tal
disposizione de’ popoli, e assurda nimistà de’ governanti.
Come per forza d’incanto, al primo esempio che lor balenò innanzi
agli occhi, si rifecer uomini quegli imbestiati in vil gregge.
Tremavano a un guardo; sospettosi tra loro; selvatichi e fieri, pur
senza saper levare un pensiero al resistere; incalliti alla povertà,
alla ingiustizia, al disprezzo, al disonor nelle famiglie, alle
battiture sulle persone; sol ritraenti dell’umana dignità nell’odio
che chiudevano in petto: e chi in cotesti avrebbe riconosciuto il
legnaggio d’Empedocle, Dione, Archimede; de’ compagni di Timoleone,
dei vincitor d’Imera? E pure un attimo d’esempio bastò. Quell’ignoto
uccisor di Droetto, con un sol colpo, rese la greca virtù al popolo
di Palermo; questo a tutta l’isola. Nacque la rivoluzione dal volgo;
ed ebbe nei primi tempi sembianti popolani: frammischiatisi i
nobili, la tirarono alla monarchia ristoratrìce delle antiche leggi.
Allora tutta la nazione unita si adoperò al nuovo ordin di cose; non
guardandosi le minuzie di pochi nobili parteggianti per gli Angioini,
e pochi più spenti, per ingratitudine o sospetto, dal nuovo principe.
E chi guardi i Siciliani in questo periodo, entro il medesimo anno
ottantadue che li avea veduto marcire nella non curanza della servitù,
li troverà franchi al combattere, pronti ed accorti al deliberare,
devoti alla patria, affratellati tra loro, pieni di costanza, nè
spogli di generosità tra lo stesso disunan costume de’ tempi: e dopo
breve tratto, li scorgerà fatti provati guerrieri e marinai; pratichi
negoziatori nelle faccende di stato; fermi oppositori alla corte di
Roma, e pur tenaci nella religion del vangelo; e legislatori sorger tra
loro, che i nomi ignoriamo, ma ne restano, irrefragabil testimonio,
le savie leggi; e coltivarsi le lettere, prevalendo, com’è naturale
in un movimento politico, gli studi della storia, su la poesia che
fioriva nella corte Sveva; e Guido delle Colonne ne’ primi tempi della
rivoluzione dettare in Messina una storia Troiana[420]; il Neocastro
una nazionale e contemporanea, lasciando belli esempi allo Speciale,
allo Anonimo, Simon di Lentini, Michele di Piazza e altri; e lo stile
vivace e biblico, ritrarre il sollevamento dei pensieri; e quel che più
è meraviglioso, tra ’l romor delle armi prosperare anco le industrie.
Tanto egli è vero, che non v’ha parte alcuna degli esercizi degli
uomini, che non prenda novella vita alle boglienti passioni d’un
mutamento politico!
I quali effetti nascon talvolta da trascendente ingegno d’uno o pochi
uomini, che rapisce la moltitudine là dove ei vuole; talvolta da felice
talento de’ popoli, per la necessità e forza degli eventi, onde flnanco
i mediocri compion dassè grandissimi fatti, senza la virtù d’una mente
straordinaria che li governi. E il secondo caso parmi di scernere nella
rivoluzione del vespro. Perchè, messe da canto le favole di Giovanni
di Procida, le quali pur abbandonano il protagonista al cominciamento
della rivoluzione, nessun uomo di quell’altezza ch’io dico, si trova
infino al primo assedio di Messina; e questa diffalta forse fece
dileguar la repubblica. In Messina poi Alaimo di Lentini meritò nome
immortale; come a lui si deve e ai Messinesi, che la Sicilia non fosse
soggiogata da quel possente esercito di Carlo. Re Pietro e Ruggier
Loria spensero Alaimo; ma insieme educarono i nostri alla guerra, ed
egregiamente usarono le virtù degli Spagnuoli e dei Siciliani unite
insieme, a prostrare i nemici in Ispagna, sconfonderli in Italia: e
lungo tempo dopo la morte del primo, dopo la tradigione dell’altro,
durò la virtù loro, e notevoli uomini produsse.
Questi elementi sostenner Giacomo, glorioso e sicuro, sul trono; questi
v’innalzaron Federigo, quando Giacomo fallì alla rivoluzione; questi,
crescendo di vigore ne’ contrasti, fronteggiaron soli mezz’Europa,
quando quegli stessi Spagnuoli ch’eran venuti ne’ primi tempi ad
aiutarne per loro interesse, per loro interesse ci si volser contro:
antichissima usanza, che mostra esser la generosità di nazione a
nazione o sogno, o foco di paglia, e l’interesse tale infaticabil
consigliero, che piega alfine a sue voglie e principi e popoli.
La esaltazione di Federigo, rinnovamento o conferma della rivoluzione,
è al veder mio più gloriosa del primo principio stesso. Perchè non la
portò disperazione, o caso, ma l’accorgimento e ’l coraggio politico
de’ nostri padri; operata senza disordini, senza fatti di sangue, con
dignità d’universale concordia, con maestà di nazione che medita,
e si propone, e fa, contro potenze cento volte maggiori di lei. Al
considerar, quanti nomini di stato e d’armi, quanti prodi oratori,
quanti incorrotti cittadini risplendettero nel regno di Giacomo e ne’
primi tempi di quel di Federigo, si troverà manifesto l’effetto del
mutamento dell’ottantadue; la nazione rigenerata si troverà adulta in
tutte le sue forze. Donde, se Federigo non fu un uomo straordinario, la
Sicilia ridondava di tanta virtù, che bastò a resistere, e a fiaccar
l’ultimo sforzo de’ collegati.
Prendendo poi a guardar tutta insieme la lunga guerra del vespro, io
non so qual nazione possa vantare maggior fortuna. Carlo d’Angiò con
un picciolo esercito debellava quel valente Manfredi, signore di due
regni; e poco appresso le forze de’ Ghibellini adunate sotto Corradino:
ma per macchina di guerra poderosissima e maravigliosa, non bastò a
domar la sola Sicilia, nè egli nè i suoi successori, con ostinati
sforzi. La Sicilia in venti anni guadagnava quattro battaglie navali;
tre giuste giornate in campo; con moltissimi combattimenti di mare e
di terra; fortezze espugnate; occupate entrambe le Calabrie e Val di
Crati; dileguati di Sicilia tre eserciti nemici; sciolti due assedi di
Messina, due di Siracusa, e altri molti di minore importanza. Non fu
interrotto questo lungo corso di vittorie, se non che da due sconfitte
in mare, e da tre anni d’infestagione dell’isola; dove i nemici non
riportarono alcun avvantaggio di conflitto, ma ciò che presero fu
a patti, o per tradimento. Questi disastri toccaronsi per la virtù
soldatesca, le pratiche, la riputazione di Giacomo, di Ruggier Loria,
de’ venturieri spagnuoli: ma risanati che furono i nostri dal delirio
di combatter in mare senz’ammiraglio, vinsero in campo; tagliarono
a pezzi gli stanziali francesi e italiani nella guerra guerriata,
per cui è fatta la Sicilia; sgararono nella lunga prova il reame di
Napoli, maggiore tre tanti di popolazione[421]. Ed esso non bastò
a domar l’isola, ancorchè, insieme col suo sangue e la sua moneta,
si sperperassero contro Sicilia le decime ecclesiastiche di tutta
l’Europa, i sussidi delle città guelfe d’Italia, oltre il danaro che
die’ in presto la corte di Roma, che passò le trecentomila once d’oro,
e al dir del Villani[422], il papa ne acquetò Roberto al tempo del suo
coronamento. E non bastò, ancorchè la Francia fornisse braccia ed armi
alla guerra, e poi l’Aragona con essa, e la misera Italia sempre; e la
sede di Roma votasse la faretra degli anatemi, in una età, non che di
religione, ma di superstizione; e si facesser giocare tutte le arti di
quella corte, sapiente e destra, e avvezza a maneggiar le relazioni
politiche della intera cristianità. E la Sicilia, che non era aiutata
di danari da alcuno, d’uomini una volta dalle Spagne, poi sol da pochi
avventurier catalani e ghibellini di Genova, finì la guerra mantenendo
l’alto suo intento. Tali furono, o Siciliani, le geste dei vostri padri
nel secol decimoterzo! Ripigliaron così la independenza di nazione, la
dignità d’uomini: e detterne esempio alla Scozia, alla Fiandra, alla
Svizzera, che scuoteano, a un di presso in quel tempo, la dominazione
straniera.
Volgendoci alla riforma civile, la medesima ammirazione convien che
ci prenda. Gli sforzi che i popoli fanno a libertà, per loro natura
non durano, se non giungono a porre buoni e durevoli ordini nello
stato, e a spegnere i malvagi uomini, che ne guasterebbero i frutti.
La prima cosa fecer quegli antichi nostri egregiamente; l’altra non
seppero, o non poterono. Come le leggi esprimon l’interesse di chi è
più forte, così dettaronle a vantaggio pari de’ baroni e del popolo
i principi aragonesi, che per virtù di quelli regnavano. Allargati
i termini della costituzione del Buon Guglielmo, ebbe il general
parlamento la ragion di pace e di guerra, e quasi al tutto quella di
dar leggi; furono rese ordinarie e annuali le adunanze di esso; datagli
la censura su i ministri e uficiali pubblici; fondata o ristorata
un’alta corte di pari: componeasi il parlamento, come ognun sa, dei
prelati, dei baroni, e de’ rappresentanti o sindichi delle città; e
sembra fuor di dubbio che di que’ primi tempi, in un sol corpo, o
vogliam dire camera, deliberasse: veemente forma, che poi dileguossi
sotto i monarchi spagnuoli. Tanto per la signoria dello stato. L’altra
principalissima parte, ch’è l’entrata pubblica, fu ordinata con più
sottile accorgimento. Limitati per legge fondamentale i casi e la somma
delle collette; richiesta a levarle l’autorità del parlamento, sì che
poi, con molta significanza, appellaronsi donativi. Si fe’ più largo
il reggimento municipale, la cui importanza stava nell’adunata, o come
diceasi, parlamento, in cui tutti conveniano, o almeno in larghissimo
numero, i cittadini; e ne fu escluso per espressa legge l’ordine de’
nobili. Questi parlamenti popolareschi, e in qualche luogo, secondo
le particolari consuetudini, i consiglieri eletti a rappresentarli,
maneggiavano tutti i negozi del comune, cioè la tassazione pe’ bisogni
municipali, lo scompartimento delle collette generali, l’armamento
delle milizie a richiesta del re, la elezione de’ sindichi al
parlamento, e de’ magistrati del comune. La istituzione de’ giurati fu
tribunato, o, come or diremmo, ministero pubblico, che esercitavasi
in ciascun comune, a compiere il sistema di censura, alla cui sommità
stava il parlamento. Il maneggio dell’alta giurisdizion civile e penale
restò presso i magistrati regi: ma furono accresciuti, e avvicinati
alle popolazioni; si provvide il meglio che si potea a contenerli da
superbia e rapacità. Così uscissi dalla rivoluzione siciliana del secol
decimoterzo, con un ordinamento politico, che le più incivilite nazioni
del secol decimonono appena attingono. Notevole egli è, che un tal
congegno di monarchia, l’ebbe tra tutte le province italiane la Sicilia
sola; perchè nelle altre, di Venezia in fuori, non eran che repubbliche
mal ferme o signori assoluti; e nel reame di Napoli non tardò il potere
regio a trapassare i limiti delle costituzioni d’Onorio, e dileguarne
fin la memoria, stimolato, più che ritenuto, dalle frequenti ribellioni.
In tutto il rimanente del regno di Federigo, o in que’ de’ fiacchi
suoi successori, non dettavasi poi in Sicilia alcun’altra legge di
ordine pubblico, ma particolari statuti, più atti a manifestare che a
riparare i crescenti disordini dello stato. Dei quali fu sola radice
l’aristocrazia, che tenne in Sicilia un corso difforme dagli altri
reami d’Europa, dove nacque nelle età più barbare, piena d’abusi, e
poi l’interesse unito dei monarchi e del popolo, a poco a poco, la
raffrenò. Ma appo noi, come fondata al tempo delle prime crociate
e dalla mano d’un principe, fu moderata nel cominciamento; e se
tendea per sua natura all’usurpare, la ritirarono a que’ termini i
monarchi, e il romor del vespro la fe’ stare; finchè ripigliando
nel corso di quella lunga guerra e riputazione e facultà, e indi
cupidigia e baldanza, divenne l’ordine più possente dello stato:
per soperchio di rigoglio recossi in parte tra sè medesima; rapì in
quelle discordie e la corte e i popoli; e lacerò la Sicilia negli
ultimi tempi del regno di Federigo. Precipitò indi al peggio, non
raffrenandola le deboli mani dell’altro Pietro e dell’altro Federigo;
venne alfine ad aperta anarchia feudale. E allora si smarrì la cosa
pubblica nelle izze di parti; non si udì più il nome di Sicilia, ma
di Palermo, di Messina e di questa e quell’altra terra; il nome di
parzialità, come chiamavanle, l’una italiana, l’altra catalana; il
nome di famiglie, Palizzi, Alagona, Ventimiglia, Chiaramonte e altri
superbi, nemici di sè stessi e della patria: entravano a’ soldi de’
baroni coloro che, prese le armi nelle guerre della rivoluzione, non
sapean divezzarsi dall’ozio e dalla militare licenza; incominciavano i
liberi borghesi a far parte co’ baroni, sotto il nome di raccomandati
e affidati. Nondimeno questa piaga penò oltre un secolo a consumar
la potenza creata dalla rivoluzione del vespro. La istoria di quel
periodo tuttavia ci presenta, come innanzi dicemmo, una immagine
della prima virtù; e veggiamo nel milletrecentotredici, alla passata
dell’imperatore Arrigo, il re di Sicilia levarsi per esso contro quel
di Napoli; armare poderosissima forza; occupar nuovamente le Calabrie:
e poichè escì vano nell’Italia di sopra quello sforzo ghibellino,
e la potenza guelfa si aggravò tutta sopra la Sicilia, veggiamo i
nostri difendersi virilmente; il sicilian parlamento stracciare i
patti di Caltabellotta; chiamare alla successione Pietro figliuol
di Federigo; e Palermo, assediata da innumerevol oste di Napolitani
e Genovesi, rinnovellar le glorie di Messina dell’ottantadue, del
trecentouno: e in tutta la guerra, i nemici che veniano in Sicilia a
rubacchiar villaggi, arder messi, guastare i campi, assediar città,
veniano in Sicilia a perire; donde sempre le reliquie degli eserciti,
a fronte bassa, tornaronsi di là dal mare; sempre la Sicilia restò
vincente, ancorchè i suoi stessi baroni, nel cieco furor delle parti,
chiamassero contro la patria i nemici. Onta e rabbia egli è da questo
tempo in poi a legger le istorie nostre, come d’ogni altra monarchia
feudale; a veder le nimistà municipali modellarsi su quelle de’
baroni; rinvelenir tanto più, quanto presentavano le sembianze d’amor
di patria. Tra questa infernale discordia, per maggior danno, mancò
la schiatta dei re aragonesi di Sicilia; sottentrò quella di Spagna,
e si spense; e cadde la indipendenza politica della Sicilia, perchè
l’abitudine richiedeva il governo monarchico, e le pessime divisioni
rendeano impossibil cosa a’ Siciliani di accordarsi nella elezione
di un re. Ne messe il partito Messina, tuttavia grande e vigorosa,
nel parlamento del millequattrocentodieci; e nol potè vincere, nei
contrasti de’ baroni di legnaggio catalano, che aveano in sè tutti i
vizi di faziosi, di ottimati e di stranieri. Indi la Sicilia sofferse
la dominazione spagnuola, col magro compenso del nome e forma di reame,
e della integrità delle antiche sue leggi nell’amministrazione delle
entrate pubbliche, della giustizia, e degli altri negozi civili. Fu
accoppiata sotto la medesima dominazione straniera col reame di Napoli,
come due servi a una catena. S’impicciolirono gli animi, crebbe la
superstizione, si offuscarono, dirò così, gl’intelletti, imbarbarirono
i popoli, lasciati a contender di cose deboli e puerili; e ogni cosa
andò al peggio sino all’esaltazione di re Carlo terzo, quando furono
ristorati entrambi i reami, e l’incivilimento dell’Europa sforzavasi
nella faticosissim’opera di ritirare all’uguaglianza i figliuoli
d’Adamo.
E questo lungo letargo della dominazione spagnuola, che guastava gli
uomini e conservava le forme, cercava danaro e ubbidienza, e del
resto non si curava, fe’ durare sì, ma poco fruttuosa, infino a’
primordi del secol decimonono, l’antichissima pianta della costituzione
normanna, riformata nella rivoluzione del vespro. Stava il parlamento,
ma diviso, come diceasi, in tre bracci, ecclesiastico, baronale ossia
militare, e demaniale; se non che i baroni non eran più guerrieri; la
rappresentanza popolare era ristretta alle poche città del dominio
o demanio regio; e queste tre camere, perchè fossero più docili,
spartitamente si assembravano, e deliberavano; la deliberazione di
tutte, o di due sopra una, era voto del generai parlamento. Non che
il dritto di pace e di guerra, ma perduto avea questo parlamento il
legislativo; se non che potea domandare alcuno statuto sotto il nome
di grazia. Per bizzarro contrasto, quasi gareggiandosi in cortesie, si
chiamavan presenti, e più comunemente donativi i sussidi della nazione
al principe: e più maraviglioso era un corpo permanente di dodici
eletti dal parlamento, quattro per ciascun braccio, che chiamavasi
deputazione del regno, e con autorità non minore del nome, avea uficio
di difendere le franchige del parlamento e della nazione, di maneggiar
le tasse accordate dal parlamento, e, secondo i decreti di quello,
porger il danaro al re, o investirlo negli usi pubblici: augusto
magistrato, che nacque dall’antica corte de’ baroni, o fu imitato
dagli ordini aragonesi; e che nelle costituzioni d’altri popoli si
vide temporaneo e per abuso, nella nostra saldissimo. Il parlamento
ordinario adunavasi ogni quattro anni; era sopra ogni altra cosa geloso
delle tasse; e assai parcamente porgea danaro alla corona, la quale non
violò giammai questo privilegio; e ne nacque l’effetto che infino ai
principî della guerra della rivoluzione francese del secol decimottavo,
tutta la entrata pubblica di Sicilia non sommò a settecentomila once
annuali. Mentre l’autorità regia si era ristretta da un lato, avea
libero comando sopra le persone de’ cittadini; mettea fuori statuti
e leggi, sol che non trovassero ostacolo nella deputazione del regno,
facile per altro a piegarsi; non doveano i ministri e oficiali render
conto di lor fatti ad altri che alla corona. Questo potere regio in
gran parte esercitavasi, col consiglio de’ nostri magistrati primari,
dal vicerè; ch’era insieme gran bene e gran male: il primo per la
utilità dei provvedimenti pronti, vicini, meno sbadati, men ciechi;
il male era la rapacità e superbia proconsolare. I nobili e il clero
stavan tra ’l popolo e il potere regio, come baluardo, ch’aduggia e
soffoca, mille volte più che non difende. Delle forme municipali non
parlo, ch’eran le antiche, rappezzate di privilegi, di forme speciali
diverse, ma pure ordinate assai largamente, quanto al maneggio de’ lor
propri danari. Gli altri magistrati, posti su la giustizia e la civile
amministrazione, eran macchina un po’ gotica, ma buona perchè semplice.
Le leggi civili e criminali, al contrario, spaventavan per l’immenso
viluppo. Questo fu il governamento della Sicilia infino al principio
del secolo in cui viviamo.
La dominazione spagnuola snervò gli uomini che doveano por mano a
queste leggi: e indi la Sicilia, che nella fondazione della monarchia
normanna l’ebbe a un di presso comuni con l’Inghilterra; che nella
memorabile rivoluzione del vespro le ristorò ed accrebbe, e lascionne
retaggio alle generazioni avvenire; decadendo dal secol decimoquarto
infino al diciottesimo, si trovò poco lontana nelle forme, ma di
gran lunga nella sostanza, al dritto pubblico inglese, che poi venne
sì in moda. E quando il turbine della rivoluzione di Francia crollò
quest’antica macchina, la nazione, da pochi valentuomini in fuori,
trovossi tale, da non saperla nè apprezzare, nè correggere.


APPENDICE.

Esposizione ed esame di tutte le autorità istoriche sul fatto del
vespro.

Questa rivoluzione, ricordata da tutti gli storici che toccan
quell’epoca, in cui fu maravigliosissimo avvenimento, è stata di
ciascuno figurata a suo modo; e copiandosi a vicenda gli scrittori, si
è alterato dall’uno all’altro il fatto, si son confuse e smarrite le
cagioni. Ne’ cap. V e VI io n’ho scritto quanto mi par si ritragga di
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