La guerra del Vespro Siciliano vol. 2 - 11

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di re, ai miseri spatrianti si fe’ compagno. Questo periodo fu il più
glorioso della vita di Federigo; perchè le due virtù ch’egli ebbe sopra
ogni altra, umanità e coraggio, bastavano allora a far l’eroe. «Per
monti, per pendici (traduco a parola a parola lo Speciale), per burroni
e dirupi con tal familiarità condusse i derelitti, con tanta carità ne
prese cura, che per via toglieva or questo or quel pargoletto dalle
mani delle spossate madri, recavaselo sulle braccia, o in groppa al
cavallo; a mensa gli si aggreggiavano intorno i fanciulli, ed ei di
propria mano spezzava loro il suo pane.» Così infino a grasse e sicure
contrade li accompagnò. Drizzandosi a Randazzo con là misera plebe,
per la via tra Francavilla e Castiglione, avvenne che un suo fedele,
prigion de’ nemici in Castiglione, infintosi dover chiedere al re certe
spese, e ottenuto di mandargli un uomo, l’avvertì occultamente trovarsi
senza presidio la rocca. Nol ridisse Federigo a persona. Giunto a
Randazzo, dando a vedere d’andarne a riposo, accomiata ognuno: e a
mezza notte fe’ cavalcar chetamente gli uomini d’arme, e portosseli
dietro senza dir dove. Fu la mattina a dì a Castiglione; occupò la
terra e il castel disottano; i terrazzani, rifuggitisi in quel di
sopra, astrinsero il presidio ad arrendersi. Così ritolse il feudo a
Ruggier Loria. E alleggerita Messina, ripigliate forze per ogni luogo,
mostrava a’ nemici assai più duro che non credeano, il soggiogamento
dell’isola[377]. Per la qual cosa Roberto, veggendo che il blocco
era nulla a’ Messinesi, e che anzi la carestia era trapassata nel
proprio suo campo, e aspettando di fuori la novella oste di Carlo di
Valois, levatosi dalla Catona, lasciò Messina gloriosa e vincente nella
seconda prova: e per salvar le apparenze e aver agio da ristorarsi,
trattò di tregua. Iolanda, fuor di sè per l’allegrezza, condusse questa
pratica tra ’l marito e ’l fratello, dapprima per legati; e fermossi
uno abboccamento a Siracusa. Venutovi il re, e con l’armata il duca,
recando seco due compagni di oppostissima indole, Ruggier Loria e
Iolanda; costei prima sbarcò al castel di Maniaci, a riabbracciar salvo
e glorioso, dopo cinque lunghissimi anni, quel fratello che sopra ogni
altro amò dall’infanzia. La dimane, tornata col duca, vidersi per la
prima volta Roberto e Federigo, salutaronsi contegnosi; e trattato tre
dì, con intendimento di raggirarsi a vicenda, e trovar tanto respitto
che bastasse a ciascuno a ripigliar forze, fermarono per pochi mesi la
tregua[378].


CAPITOLO XIX.
Carlo di Valois a Firenze, indi in Sicilia. Deboli effetti delle
sue armi. Assedio di Sciacca. Postura e disposizioni di Federigo.
L’esercito nemico si consuma sotto Sciacca. Proposte di pace e
preliminari di Caltavuturo; abboccamento tra i principi; trattato di
Caltabellotta. Esecuzione di quello. Convito del Valois a Messina.
Riforma de’ capitoli della pace, per voler di Bonifazio. Federigo,
rimaso re di Trinacria, sposa Eleonora figlia di re Carlo. Principi
della Compagnia di Romania.—Settembre 1301, alla primavera del 1303.

L’ultima prova di Bonifazio fu di chiamar altre armi straniere. Voleva
a un tempo soggiogar l’isola e rendere in terraferma d’Italia la
riputazione a parte guelfa, abbassata in qualche provincia, rimasa
in Toscana a primeggiar nel solo nome, per esser nata la divisione
dei Neri e Bianchi; gli uni immansueti dal troppo favor del papa, gli
altri mal celanti l’umor ghibellino. Perciò Bonifazio, che dopo la
sconfitta del principe di Taranto s’era nuovamente rivolto ad implorare
aiuti dalla casa di Francia, e vi avea mandato oratori suoi e di re
Carlo[379], quando vide la Sicilia sempre più indomabile, e spregiarsi
da’ Bianchi di Toscana e legati e scomuniche[380], prese a sollecitare
più caldamente Roberto conte d’Artois, che ritornasse in Italia con
forze, dandogli a ciò per tre anni le decime ecclesiastiche di sue
possessioni, e i danari di mal tolto[381]; e maggiore assegnamento
fece su Carlo di Valois, educato da fanciullo dalla romana corte a
regie ambizioni. Costui, dopo il baratto, che si narrò, del titolo di
re di Aragona con una figliuola di Carlo secondo e la contea d’Angiò
in dote, si rese chiaro in arme nelle guerre d’oltremonti; e mortagli
appena la moglie, pensò ritentar la via del trono, chiedendo la
Caterina di Courtenay, pretendente all’impero greco, offerta una
volta a Federigo, poi solennemente promessa innanzi tutta la corte di
Francia a Giacomo, figlio del re di Maiorca, ch’indi a poco si fece
de’ frati minori, non sappiamo se per vocazione, o per dispetto dei
disegni politici di Filippo e di papa Bonifazio che attraversassero
il matrimonio[382]. Il papa adesso allettava Carlo di Valois con
profferta di stipendio, comando d’eserciti, uficio di senator di Roma,
e altre dignità: gli promettea Caterina, quand’egli muovesse alla
guerra contro Federigo; e chiaramente scrivea a’ vescovi di Vicenda,
Amiens e Auxerre che accordassero la dispensa, vedendo preparata
l’impresa entro un dato termine, che più volte fu prorogato[383]: gli
facea sperare il Conquisto dell’impero d’Oriente, con le medesime
armi con cui combatterebbe in Sicilia: e parlò ancora d’elezione
all’impero occidentale. A questi sogni aggiunse la realtà delle decime
ecclesiastiche in Francia, Italia, isole del Mediterraneo, principato
d’Acaia, ducato d’Atene, e fin d’Inghilterra; e la metà de crediti
della corte di Roma per decime su le chiese di Francia. Con tali
sussidi assolderebbe il Valois cinquemila cavalli, per condurli in
Italia. Il papa esortò Filippo il Bello e ’l clero di Francia a favorir
l’impresa; prolungò a questo medesimo fine la tregua, che procacciato
avea tra Filippo e ’l re d’Inghilterra[384].
Per tal modo, di settembre milletrecentouno, Carlo di Valois trovossi
a corte del papa in Anagni, con re Carlo e’ figliuoli; e fu chiamato
capitan generale in tutti gli stati ecclesiastici, e rettore di
Romagna, Marca d’Ancona, ducato di Spoleto e altre province, con larga
autorità negli affari temporali[385]. Non mancaron frasi a Bonifazio
per mandarlo in Toscana, con titolo di conservator della pace, e vero
uficio di tradimento e di violenza: cominciando la bolla con parlare
de’ Magi, di Salomone, della saviezza, della pace; ed esagerando i
disordini, gli scandali, la disubbidienza, e anche la ingratitudine de’
popoli di Toscana alle paterne cure del pontefice, che volea mantenervi
la pace, e n’avea dritto, com’era noto ad ognuno, massime nella
vacanza dell’impero[386]. Si stabilì in questi consigli d’Anagni,
che differita a primavera la guerra di Sicilia, svernasse il Valois
in Toscana. Ito dunque di novembre a Firenze, ei fe’ quanto vollero i
Guelfi; cacciò i Bianchi, e tra essi quel sovran poeta, che stampava
d’obbrobrio, fino alla consumazione de’ secoli della presente civiltà,
il nome del falso principe senza terreno. Resa tal tranquillità alla
Toscana, tutta la benignità si rivolse alla Sicilia. Si rividero a
Roma di marzo del trecentodue quei medesimi principi; ove Carlo II e
Roberto prometteano al Valois d’aiutarlo all’impresa di Costantinopoli,
ne’ termini fermati tra Carlo I e Baldovino, e di non far pace
con Andronico Paleologo[387]. Allor mosse il Valois alla volta di
Napoli, nel mese d’aprile. Alle armi preparate il papa aggiunse nuove
scomuniche contro Federigo; la piena autorità del vescovo di Salerno
legato pontificio[388]; l’assoluzion de’ peccati, come in crociata di
Terrasanta, a tutti coloro che morissero ne’ combattimenti di Sicilia,
o combattessero fino alla compiuta vittoria[389]. I soldati del Valois
ebbon guarentigia da Carlo II, che venendo a morte nel territorio
del regno, non si toccherebbero i loro beni, com’era voce che usasse
la corte di Napoli verso gli stranieri; ma si disdicea e si chiamava
aggravio ed abuso[390]. Al medesimo tempo il re creava Carlo di Valois
suo capitan generale nell’isola di Sicilia[391]; gli conferiva pien
potere di render la grazia regia a que’ ribelli; di redintegrarli in
tutte le facoltà, dignità, onori; di conceder feudi; perdonare a’
rei di misfatti privati, ai ladri del danaro pubblico; assolvere i
debiti de’ comuni e degl’individui: largamente spaziandosi nelle lodi
della propria clemenza verso quel popolo, che a punirlo secondo suoi
meriti, avrebbe potuto spegnerlo di fame e di ferro, e diroccare le
sue case[392]. Finalmente prevedendo l’esito di tanto romore; e poco
fidandosi agli auguri di gloria trionfante, con cui principiava le
sue lettere al Valois, diegli di poter fermare la pace con Federigo
d’Aragona, entro alcuni termini che non sappiamo; e anco promesse ch’ei
non la farebbe senza saputa del Valois[393]. In Napoli eran pronti, con
le bandiere apostoliche, un’armata di più di cento legni grossi, torme
numerose di cavalli, Roberto e Ramondo Berengario, figliuoli di re
Carlo, baroni francesi moltissimi. Ed era il quinto o sesto formidabile
sforzo, che i medesimi potentati, con gli stessi mezzi, movean contro
Sicilia, contandosi già l’anno ventesimo della guerra del vespro[394].
L’avea affrettato Roberto, il quale, appena sottoscritta la tregua
con Federigo, adunava in parlamento a Catania i capitani dell’oste,
col cardinal Ghepardo e’ Siciliani di sua parte; e facea vanti in
iscusa de’ non lieti successi della guerra: tornerebbe immantinenti
con forze potentissime; lasciar intanto in Catania, vicario il pro
Guglielmo Palotta, e pegni dell’amor suo la Iolanda e Lodovico, da lei
partoritogli poc’anzi in Catania. A Napoli l’accolser gioiosamente,
come per vittorie, il re, gli ottimati, la plebe; ma stringendosi a
consiglio, con parlare men gonfio, ei mostrava la necessità di nuovi
sforzi estremi. I Siciliani allo incontro, ammaestrati dalle due
sconfitte navali, e non potendo adunare un giusto esercito nell’isola
occupata da varie bande, s’apprestavano a rifar guerra gurrriata.
Coosigliavali ancora la sperienza del primo passaggio di Giacomo,
fors’anco della guerra di Catalogna pell’ottantacinque, de’ prodigi che
operan poche bande agguerrite e risolute, in regioni montuose, tra siti
forti, e universal simpatia de’ popoli, che a te fornisce, toglie al
nemico tutti i comodi della guerra, e finisce sempre con vittoria su la
superbia soldatesca degli stranieri. Con tali disegni, Federigo girava
per l’isola; sopravvedea le castella; iva esortando e infiammando le
popolazioni delle città, che assaltate dal nemico, tenesser fermo, e
non fallirebbe il re d’aiutarle; chiamate all’oste, pronte corressero.
Spirata la tregua, Federigo nel cuor del verno, espugnò Aidone;
Manfredi Chiaramonte gli racquistò Ragusa e con maggiore costanza per
ogni luogo si ripigliavan le armi[395].
L’oste de’ collegati, per disegno di Ruggier Loria, si drizzò contro
val di Mazzara, prova mal tornata al principe di Taranto; ma parve da
ritentar il paese, abbondante, fin allora queto, piano, agevole a’
cavalli. Approdano dunque in sull’uscir di maggio a Termini, città a
ventiquattro miglia dalla capitale; e se ne insignoriscono alla prima
perchè il popolo non fece difesa, ascoltando un Simone Alderisio,
traditore o codardo. S’accampò ne’ dintorni, questo, dicono i nostri
scrittori, innumerevole esercito[396], sì mal ordinato, che in certe
feste, rissatisi tra loro Francesi ed Italeani, ne rimaser morti
duemila[397]; e fu mestieri appettar di Puglia un sussidio di ventidue
navi di grano, perchè si potesse muovere il pie’ dagli alloggiamenti.
Ma spargendosi per lo paese, altro acquisto non riportaron che di
greggi e rustiche prede; perchè Federigo avea munito ottimamente ogni
luogo; era venuto ei medesimo a porsi a Polizzi, non molto discosto da
Termini, con provvedigione da durar tutto assedio. Perciò, andati i
nimici a Caccamo, ne tornaron col peggio; per la fortezza del luogo e
la virtù di Giovanni Chiaramonte. Voltisi a Polizzi, e mandato a sfidar
il re, presentando battaglia nella pianura, n’ebbero accorta risposta:
che aspettassero, e sì a tempo il vedrebbero. Non osando assediarlo in
Polizzi, e volendo insignorirsi della città più importante nel gruppo
dei monti occidentali dell’isola, mutarono il campo a Corleone. Ma
prevennerli i nostri sì accortamente, che una man di cavalli, sotto
Ugone degli Empuri e Berengario degli Intensi, era entrata già in
Corleone quando mostrossi l’oste angioina; eran pronte le armi, i
cittadini sulle bastite: e ricordavansi essere stati in tutta l’isola i
primi a seguire il movimento del vespro di Palermo. Con questo animo,
schiudono una porta al nemico movente all’assalto; entrato, lo tagliano
a pezzi; nella quale zuffa il fratello del duca Bramante, mentre
confortava i suoi alla carica, sul limitare della porta, fu morto d’un
sasso scagliatogli da una donna. Dopo diciotto giorni d’asseto, con
onta e perdita Valois si ritrasse[398].
E non guardate pur da lungi Palermo, Trapani, Mazzara, trapassò alla
costiera meridionale dell’isola; e pose il campo a Sciacca, non per
la importanza, ma per la facilità, dell’acquisto; potendosi insieme
osteggiar con la flotta. Ma a Sciacca l’annunzio dell’assedio non
avea punto sbigottito i cittadini, capitanati dal lor pro Federigo
d’Incisa[399], che si rallegraron anzi di tal destro a spiegare,
innanzi la Sicilia tutta, la loro virtù; stamparon bastioni e fossi;
rabberciaron mangani e altri ingegni; in tutti i modi apprestaronsi al
combattere. Con pari ardore veniano i nemici; ingaggiandosi i capitani
tra loro, a non levarsi di Sciacca che non l’avessero espugnato: perchè
parea agevole; e vergognavano che in cinquanta dì dallo sbarco, non
avesser ferito un sol colpo con avvantaggio. L’armata angioina fece
vela da Termini; occupò, non si vede a qual fine, la picciola terra
di Castellamare; e senz’altra fazione surse alla spiaggia di Sciacca.
Cominciato dunque l’assedio di mezzo luglio, si combattea vivamente
ogni dì; gli assedianti facean giocare lor macchine, davano spessi
assalti: ed era nulla ai difenditori, confortati dalla vicinanza del
re, venutosi a porre co’ suoi stanziali a Caltabellotta, discosto
nove miglia da Sciacca. Mandovvi poi Simone Valguarnera, con dugento
uomini d’arme e più numero di fanti: il quale entrato di notte, a randa
a randa la spiaggia, tra le poste nemiche, aggiunse tal franchezza
agli animi de’ cittadini, che molti duri colpi indi n’ebbero le genti
collegate.
Più atroce danno patirono dallo stare in maremma scoperta, sotto
l’arsura del sollione, in faccia all’Affrica; onde furiosamente
s’apprese nel campo la mortalità de’ cavalli, che allor travagliava
molte parti d’Europa; e nacque anco una malattia che repente percotea
gli uomini, e n’era a tale già il campo, da poter montare appena
cinquecento cavalli. Federigo già ripensava alla vittoria del padre,
allo scempio delle formidabili schiere di Francia sotto Girona.
Montaner, con pueril zelo, qui scrive che il conte degli Empuri,
Ruggiero de Flor, Matteo di Termini e gli altri capitani, stigassero
Federigo a dar dentro, e sdrucire quello scheletro di esercito; e ch’ei
negasse di portare tal onta a casa di Francia. Il vero è, che volea
lasciarlo struggere tuttavia dassè; e comandava l’adunata di tutte
le milizie feudali e cittadinesche a Corleone, per condurle a sicura
vittoria[400].
Ma il Valois, come ciò intese, e vedea menomare di dì in dì le sue
genti, parendogli vergognosa fuga se lasciato l’assedio si rimbarcasse,
e inevitabil danno se aspettasse l’assalto delle nostre genti, pensò
trarsen fuori con una pace; diffidando inoltre di Bonifazio, che l’avea
frustrato nella speranza del governamento di Roma; e tardandogli di
fornir bene o male l’impresa di Sicilia, sì che restasse libero a
tentar acquisti per sè nell’impero di Oriente. Ristrettosi dunque
con Roberto, che mal si piegava, come giovane e feroce, a lasciar sì
bella parte del retaggio paterno, ricordavagli tutte le vicende della
siciliana guerra; quant’oro, quanto sangue si fosse sparso senza poter
mai ridurre quest’isola; e ch’or peggio dileguavansi le speranze,
per essere stracco il reame di Napoli, esausto l’erario pontificio,
caduta la riputazione di lor armi, e rinnalzata quella di Federigo,
che saprebbe riassaltar le Calabrie, conturbare il regno, accender
fuoco nell’Italia di sopra, col favor dei Ghibellini. Le quali parole
non persuasero Roberto; ma il vinse la necessità dell’esercito, e
l’autorità del Valois. Fors’anche era il caso assegnato per la pace
nelle dette istruzioni del re. E certamente, o in Napoli quando si
deliberarono le istruzioni, o a Sciacca, quando si usarono, per
assentir tal subito fine della guerra, tal inopinato esito de’
disegni della lega francese e guelfa, non solamente si risguardò alle
condizioni dell’esercito, ma anco si conobbe troppo arduo partito
il continuare l’impresa contro la Sicilia, pronta sempre a quella
maniera di guerra, poco dispendiosa a lei, poco rischiosa; non così
a’ collegati che avrebbero avuto a rifare altro esercito, armar altra
flotta, adunar altri tesori, mentre gli elementi della lega, come alla
lunga avviene, tendeano a disciogliersi. Deliberato dunque l’accordo,
Carlo mandava Amerigo de Sus, e Teobaldo de Cippòio, oratori suoi, a
Federigo, che s’era tirato indietro a Castronovo per mettere insieme
le sue genti[401]. Federigo assentì il diciannove agosto i preliminari
della pace, e che, ad ultimarla, venissero ad abboccamento con essolui
Valois e Roberto; intanto si cessasse dalle armi.
E il dì ventiquattro, tra Caltabellotta e Sciacca, in certe capanne
di bifolchi, vennero, con cento cavalli ciascuno, Federigo e Carlo di
Valois; favellaron soli gran pezza; poi fu chiamato Roberto[402]. Nè
forse senza pianto si incontraron questa fiata Roberto e ’l siciliano
re, per la perdita di Iolanda, amorevolissima ad entrambi, giovane,
bella, di santi costumi, genio di pace tra lo sposo e ’l fratello;
e morta sola a Termini, mentre stava l’uno allo assedio di Sciacca,
l’altro pronto a piombargli addosso[403]. Non guari dopo, e in dolor
pari, trapassò in Ispagna la regina Costanza, che nella pietà religiosa
perdè quasi la carità di madre, non onorando nel testamento il suo
glorioso Federigo, perchè era percosso dagli anatemi di Roma[404].
Nell’abboccamento dei tre principi furon indi chiamati, dall’una parte
Ruggier Loria, dall’altra Vinciguerra Palizzi, e poi più altri nobili
e capitani. Trattarono alquanti dì; poco mutossi da’ preliminari: e fu
fermata il ventinove agosto, giurata il trentuno la pace.
Per la quale restava a Federigo la Sicilia con le isole attigue, da
tenerla, finch’ei vivesse, da sovrano assoluto, independente da Napoli
e dal papa, con titol di re dell’isola di Sicilia, o re di Trinacria,
quel più fosse a grado a Carlo II. Darebbe costui la figliuola
Eleonora, in moglie a Federigo: a lor prole si procaccerebbe il reame
di Sardegna o di Cipro, o si pagherebber centomila once d’oro: e allor
dovrebbero lasciar l’isola di Sicilia. Renderebbersi da Federigo
le terre occupate di là dallo stretto; dagli Angioini quelle prese
in Sicilia; e similmente, senza riscatto, il principe di Taranto,
e da amendue le parti tutti gli altri prigioni: perdonerebbesi ai
sudditi datisi al nemico; ma i feudatari perderebbero tutti feudi dal
principe da cui si fossero ribellati. Da questo andarono eccettuati
solamente, come avviene, i due più potenti, Ruggier Loria e Vinciguerra
Palizzi; fatta ad essi abilità di tenere, il primo il castel d’Aci
in Sicilia, l’altro Calanna, Motta di Mori, e Messa in Calabria.
Sarebbero reintegrati, continuava il trattato, i beni ecclesiastici
in Sicilia, allo stato innanti la rivoluzione dell’ottantadue. Il
Valois si adoprerebbe a ottener la ratificazione di re Carlo e del
papa[405]. Fu questo il trattato di Caltabellotta, o, come il chiaman
anco, di Castronovo, per esservisi fermati i preliminari. Molto
onore n’ebbero per tutto il mondo re Federigo e la Sicilia. E in vero
la nazione, dopo venti anni, usciva gloriosa e vincente da guerra
sì disuguale; Federigo, contro tal soperchio di forze collegate, si
mantenea la corona sul capo: nè all’una ed all’altro tornava minor
lode, dall’aver condotto a tal estremo, in tre mesi, il Valois,
Roberto, Loria, tant’oste, tal armata; e piegato a lor volontà il
superbissimo Bonifazio. Nè si dica che non seppero i nostri usar la
fortuna contro quel diradato esercito. Dovean essi negar bene una breve
tregua, avvantaggiosa solo all’Angioino; era il contrario una pace,
nella quale si asseguisse l’importanza di sgombrar via il nemico, e
tener libera e tranquilla la Sicilia, foss’anco per pochi anni. Perchè
gli Angioini, pur volti in fuga e sconfitti a Sciacca, tenendo molte
cittadi e castella, avrebbero potuto continuare a lungo l’infestagione
dell’isola; e la pace, ancorchè pregna de’ semi di nuova guerra, dava
comodo a’ nostri a rassettar le entrate pubbliche, ordinar le milizie,
ristorar le città, racchetare i baroni, prepararsi a ripigliar le
armi, quando che fosse, freschi e gagliardi; mentre le forze de’
nemici, come collegate, menomar doveano di necessità col tempo, che
muta interessi, occasioni, umori dei potentati. Donde niuno fu che
non vedesse futile e vano, il patto del rendersi l’isola alla morte
di Federigo; parole da salvar le apparenze: e ciò vuoi significare il
Villani, chiamando questa una dissimulata pace; malcontento, come ogni
altro guelfo, per la riputazione che ne perdea lor parte, la forza che
crescea a’ Ghibellini, tenendosi la Sicilia da Federigo. Indi tutte
le fazioni d’Italia, per contrari umori, diersi a lacerare il nome
di Valois, motteggiando: esser venuto in Toscana a metter pace, in
Sicilia a far guerra; e aver lasciato guerra in Toscana, vergognosa
pace in Sicilia[406]. E meritò maggior biasimo, di baratteria contro
la corte di Roma e casa d’Angiò e tutta lor amistade, per un altro
accordo fermato in questo tempo con Federigo, che l’aiutasse d’uomini
e navi alla impresa di Costantinopoli, e non fermasse pace altrimenti
con l’imperadore Andronico Paleologo[407]. Promulgata da Federigo, lo
stesso dì ultimo d’agosto, l’importanza del trattato, senza dir de’
patti disfavorevoli, rivocossi il comando dell’adunamento in arme a
Corleone; e si sciolse, dopo quarantatrè giorni, con somma gloria di
Federigo d’Incisa e de’ cittadini, l’assedio di Sciacca: ma la pace de’
principi non tolse sì tosto la ruggine dagli altri animi: e terrazzani
è soldati, scrive Speciale, mescolati vagavan ora per la città, ora per
gli alloggiamenti, ma sospettosi e guardigni, per abitudine inveterata
all’offendersi. In breve tempo si rimbarcò l’esercito francese
per Catania: ebbe rinfreschi per ogni luogo: radendo le spiagge,
n’ammiravano, massime i soldati gregari, l’amenità; e con la gaiezza e
facilità di lor sangue a’ sentimenti generosi, ripentiansi dell’esser
qui venuti a recare e riportar tante afflizioni. Intanto da Termini
sciogliea per Napoli una galea, per nome l’Angiolina, col cadavere
di Iolanda. Federigo, da Caltabellotta n’andò a Sutera, a liberare
il principe di Taranto, tramutatovi, come in più sicuro luogo, alla
passata del Valois; e tutti gli altri prigioni fe’ recare in Lentini, e
reseli, insieme con Filippo, al duca di Calabria, venutovi da Catania.
Quivi Roberto e Federigo, per simpatia di gioventù, di valore, e
del comun cordoglio di Iolanda, strinsersi a tal dimestichezza, che
come fratelli sollazzavansi, insieme; e dopo una caccia dormirono in
un letto, come di que’ tempi si usava per dimostrazione d’amistà.
Di Lentini stessa i legati pontifici sciogliean la Sicilia dalle
scomuniche[408]. Andavano i principi insieme a Catania; dove Federigo
perdonò largamente a’ cittadini; fece qualche dimora con essi, in
segno di renduta grazia; e fuvvi sembianza di spegnersi odio assai
più atroce, quando Ruggier Loria, per la prima volta dopo lo scoppio
de’ loro sdegni nella reggia di Messina, gli s’inginocchiò dinanzi,
a render omaggio per la signoria del castel d’Aci. S’erano sgombrati
intanto da’ nemici gli altri luoghi di Sicilia; e apprestandosi lor
gente a tornarsene in terra di Napoli, Loria fe’ vela con l’armata; i
principi francesi, per tedio del mare, cavalcarono, permettendolo re
Federigo, da Catania a Messina[409].
E in Messina mostrossi anco tra le allegrezze della pace, quella virtù
che s’era provata in durissimi incontri; perchè gli uomini son così
fatti, che i grandi eccitamenti delle passioni pubbliche, li rendono
a un medesimo tempo audaci nell’arme, pronti e accorti nei consigli,
arguti e forti nelle parole, e generosi ne’ tratti, e in ogni cosa
di gran lunga più dignitosi e alti che nel mediocre viver di prima.
I nobili messinesi, in abbigliamenti di pace, si faceano incontro a’
principi; li conduceano a città; e sontuosamente albergavanli. Ma
convitando Valois i primi della città, e tra questi Niccolò e Damiano
Palizzi, che nel blocco di Roberto avean tenuto, l’un la città, l’altro
il castello, Niccolò, chiamato a sè il minor fratello, ricordavagli
quante fiate servì a tradigione l’allegria delle mense (nè Carlo di
Valois era Catone); essere in quel ritrovo il fior della città; gli
ospiti inimicissimi, fidanti nel favor del pontefice; l’occasione da
tentar coscienze anco men larghe, perchè, presa d’un colpo di mano
Messina, che sarebbe della Sicilia? e per tal acquisto qual peccato non
si rimetterebbe? Perciò ammoniva il fratello che restasse nella rocca,
e non s’arrendesse per quantunque caso atroce; non se vedesse lui
medesimo tra’ nemici, con la testa sul ceppo, e ’l manigoldo levar in
alto la scure. Damiano seguì il consiglio.
Qui lo Speciale si fa a descrivere il convito, il desco ricoperto
di bianchissimi lini, il vasellame d’oro e d’argento, i donzelli in
eleganti abiti, pronti a un girar d’occhio dello scalco; e altri dar
acqua alle mani, altri servir le vivande, girare i vini in tazze
sfolgoranti di gemme; e somiglianti sfoggi di lusso, contro i quali ei
si scaglia, lamentando che principi e cittadini, e fin que’ ch’avean
fatto voto d’imitare la povertà di Cristo, con tai vanità desser fondo
a loro sostanze. Ma dopo le prime imbandigioni, quando comincia il
favellìo, sedendo Niccolò Palizzi tra Roberto e il Valois, costui
domandavalo: nelle stretture estreme del blocco, quando vedeansi gli
uomini cader dalla fame, e fallir anco quei lor cibi pestilenziali,
qual mente fosse stata ne’ cittadini? E Niccolò, con un inchino:
«Signor, gli disse, sia fatto degli uomini, sia influenza de’ Cieli,
dal nome francese abborriam noi sì fieramente, che per serbare
quest’odio nostro, consumato l’ultimo boccon delle carni de’ giumenti e
de’ cani, avremmo ucciso le donne, i vecchi, i bambini; e ristrettici
chi nel palagio, e chi nella rocca, fitto avrem fuoco alla città,
per mostrar che non mancasse in Sicilia la tremenda virtù di Sagunto
e Perugia!» Carlo, crollando il capo, si volse a Roberto: «Vedi chi
son costoro! Ben si è fatta la pace!» Entro pochi dì valicarono in
terraferma; e restò la Sicilia libera e gloriosa con Federigo[410].
Mandava poi re Carlo la figliuola con un corteo nobilissimo a Messina;
e quivi splendidamente si celebravan le nozze, di primavera del
trecentotrè[411]. Già spariva ogni traccia della guerra, fuorchè la
gloria e i guiderdoni: che n’ebbe Messina nuove franchige da collette
qualunque, e giurisdizione su più vasto territorio[412]; Sciacca
immunità dalle dogane[413]. Ma il più salutare tra’ provvedimenti fatti
dopo questa pace, fu di sgombrar via i mercenari siciliani, calabresi,
genovesi, spagnuoli, che, finita la guerra, s’eran gittati in masnade
a infestar l’isola con ladronecci e violenze. Il più avventuroso tra’
lor condottieri, quel Ruggiero de Flor, che sdegnava tal poca rapina,
e per la pace si vedea ricader tra l’ugne del gran maestro del Tempio,
s’avvisò di portar quella feroce gente a’ soldi dell’imperator di
Costantinopoli, contro i Turchi che duramente travagliavano l’impero.
Gliel’assentì pronto Federigo, per torsi tal tristizia di casa; fornì
loro navi, armi, vittuaglie, e ogni cosa necessaria: e sì andarono
in Oriente; dove traendo a loro i mercenari degli Angioini, lor veri
fratelli, e quanti altri rotti e feroci uomini v’erano nimici del viver
civile sotto le leggi, fecero quel formidabil corpo, che si chiamò la
Compagnia catalana o di Romania, segnalatissimo per valore, infame per
fatti d’iniquità e di sangue, contro amici e nemici; nel quale videsi
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