La guerra del Vespro Siciliano vol. 2 - 10

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Carlo e la corte di Roma li esortassero e minacciassero, con chiuder
loro tutti soccorsi di Provenza, e farvi apparecchiar forze a lor
danno. Invano dunque il papa v’intromettea suoi fidati; invano Carlo
ad ogni intoppo accrescea il numero degli oratori[332], come se per
questo mancasse, e non perch’era Genova più forte e più destra. Aifin
Bonifazio, sdegnato, di novembre scagliò l’interdetto; l’anno appresso
fe’ romoreggiare le armi del Valois; nè pur asseguì l’intento ad altro
partito che la resa di Monaco[333], e, ciò che vinse ogni ostacolo in
popolo mercatante, larghi favori al commercio de’ grani, sì nel regno
di terraferma e sì in Sicilia nel caso del racquisto. Cattivato così il
pubblico, fu facil cosa al papa toglier al tutto i soccorsi de’ privati
a Federigo; chiedendone giuramento da’ magistrati di Genova, e domando
con insinuazioni e scomuniche i parmigiani più ostinati[334].
Mentre in tal modo praticava casa d’Angiò a scemare il nemico e
ingrassar sè d’aiuti di fuori, non meno studiavasi a far parte in
Sicilia, continuando le lusinghe all’universale, tentate con poco
frutto l’anno innanzi, e rincalzandole, che son le più efficaci, con
le pratiche particolari di perdonare, promettere, dar largamente ad
uomini e a cittadi. Raffermò a’ Catanesi le immunità lor concedute
poc’anzi da Roberto vicario[335]; alla terra di San Marco, che
si tenesse in demanio diretto dalla corona, gran favore in que’
tempi[336]; questo promesse a Camerata, disposta a tornar in fede, come
dicea la cancelleria angioina[337]; a’ cittadini di Naso, pronti a fare
il medesimo, profferse cinque anni di franchigia dalle collette[338];
diella, pria per anni dieci, poi infino a quindici, a que’ di Lipari
per tutti pesi fiscali[339]: e in Calabria adoperava le medesime arti
con le terre di parte siciliana; promesso a Geraci il perdono[340]; ad
Amantea quantunque con essa fermerebbe Goffredo Sclavello, devoto del
re[341]; a Tropea, come più importante, maggiori grazie, franchigia
di alcune gravezze per sei anni, e licenza larghissima a misfare
su le persone e robe de’ soldati nostri posti al presidio[342], a’
quali in van s’era profferto, in prezzo di tradimento, ritenerli
agli stipendi angioini[343]. Sparsersi pei novelli convertiti simili
allettamenti; a’ baroni, confermar loro i feudi[344]; agli uomini
mezzani, rimetter colpe, assicurar l’avere, redintegrarli nelle
dignità, e (dicono i diplomi) anche nell’onore[345]. Assai più liberale
usò Carlo con chi era stato tra i primi alla tradigione di Catania, o
d’altro luogo importante, ratificando tutte le concessioni feudali di
Roberto, e altre nuove aggiugnendone, con ufici e dignità: a Gualtier
di Pantaleone da Catania, data Biscari, e armato cavaliere; e a pro
di Virgilio Scordia non finivano le regie larghezze; creato inoltre
capitan della città di Catania, e comandante del castello[346]. Donde
si vede qual dura impresa si trovò alla prova il racquisto della
Sicilia; non fidandosi i nimici in sì grande soperchio di forza; e
gittandosi a comperar traditori, sì ardentemente, che non bastava la
terra a’ molti guiderdoni d’opere o buone o ree, e fu necessità dar
l’aspettativa, or concedendo il valor d’un tanto all’anno da investirsi
in beni feudali a misura che ne ricadessero alla corona[347], or dando,
in nome, ad alcun barone i poderi de’ baroni di Federigo[348]. Queste
ampolle di corruzione, lasciaronsi a ministrare in Sicilia stessa
a Roberto e all’ammiraglio; il quale ebbe facultà, onori, comando,
poco men che di principe. Alle continue concessioni feudali a pro
di lui, s’aggiunse in questo tempo Malta e ’l Gozzo, con titol di
conte[349]: chiamavalo poscia re Carlo, «fidatissimo quasi parte del
suo corpo medesimo»; e tra tante virtù ch’egli ebbe, gli dicea, che par
dileggio, purissimo nella fede; e armandolo d’autorità non minore dello
stesso vicario Roberto, diegli che, osteggiando con l’armata, potesse
rimetter colpe, debiti, pene qualunque a comuni, a privati[350];
che per richiamarli alla fede profferisse tutto che paressegli, e
ratificherebbe sempre il re[351]. Così quella smisurata potenza, che
Loria avea agognato invano nella siciliana corte, l’ebbe a corte di
Napoli; e fallì le speranze dell’una e dell’altra; con noi talvolta
per non volere; co’ nemici, volendo sempre, spesso non bastò.
Facendone or indietro a ripigliare i casi della guerra, vedremo come
infino alla uscita di primavera del trecento, nissun’altra notevole
fazione seguì in Sicilia: e in Calabria i combattenti giunsero a far
tregua tra loro, non volente il governo angioino[352]; il quale,
se riebbe qualche terra, la comperò dal presidio per moneta, o da’
cittadini per pratiche[353]. Intanto con gli aiuti detti, rinforzava
l’esercito in Sicilia, allestiva l’armata; e i nostri nell’armata sola
affidavansi, lasciando in mal punto, così li biasima Speciale, la
guerra di lor casa per cercarne altra fuori. Confortovveli l’ardire di
Peregrin da Patti, quell’eroe del ponte di Brindisi, il quale, forniti
di macchine pochi legni, abbattendosi con dodici galee pugliesi,
le avea investito, messo in fuga, rincacciato fin sotto le mura di
Catania, veggente Roberto; nè si stette dall’insultar co’ tiri la
stessa città[354].
Armate dunque ne’ nostri porti venzette galee, con cinque più de’
Ghibellini di Genova, vi montavano Giovanni Chiaramonte, Palmiero
Abate, Arrigo d’Incisa, Peregrino da Patti, Benincasa d’Eustasio,
Ruggier di Martino e altri molti, fior della nobiltà siciliana; il
supremo comando tenea Corrado Doria, genovese. Navigaron depredando e
guastando la riviera infino a Napoli, ove Ruggier Loria mettea in punto
da quaranta galee del regno e spagnuole. Mandarono un legno a portargli
la sfida: ed ei, ch’aspettava le dodici galee testè rifuggite in
Catania, freddo rispondea, non esser pronto per anco a battaglia. Indi
la nostra flotta, per vanto di chiudere in porto un tal ammiraglio,
soprastette tra le isole del golfo; bravando, senza assalire, nè
strignere il nemico, che rinforzavasi. Scorsero i Siciliani una scura
notte infino a Ponza; e le dodici galee di Catania a vele gonfie
presero il golfo: giunsevi nel medesimo tempo inatteso aiuto di sette
galee genovesi de’ Grimaldi, anelanti di bagnarsi nel sangue de’ Doria.
Con cinquantotto galee allora uscì Ruggier Loria, contro la nostra
flotta di trentadue.
A tal disparità di numero, i baroni dell’armata siciliana, consultavano
in fretta sulla nave dell’ammiraglio, per onestare, non la brama
di ritrarsi, ma la temerità che accendeali a combattere. Perciò
fu vana la saviezza di Palmiero Abate, uomo di gran cuore e nome,
invecchiato nelle guerre del vespro[355], il quale scongiuravali: che
di soverchio non tentassero la fortuna; non mettessero a certissima
perdita quest’armata, e con essa le speranze tutte della patria; niun
rossore, diceva, al ritrarsi con forze sì disuguali; si specchiassero
nel gran Loria, che testè n’avea maggiori, e pur non tenne l’invito,
ma combatter volle a suo comodo. Questa sentenza di Palmiero tutti
approvavano in sè medesimi, con le parole il contrario, per parere più
bravi. Ma Benincasa d’Eustasio, disensato oltre tutti, proruppe: non
per isguizzar come delfini innanti il navilio nemico, averli mandato la
patria e il re: il mare che solcavano vide già due splendide vittorie
de’ Siciliani, sopra numero di nemici doppio del loro; ed or da questi
mezzi uomini[356] fuggirebbero? «No, si combatta, finì, e i tralignanti
Siciliani che tremano, fuggan pur ora; non ci rovinino con l’esempio,
ingaggiata che sarà la battaglia!» E Palmiero con ferocissimo sguardo:
«A me, gli disse, a me, Benincasa, accenni! Or tempo non è di parole,
perchè incalzano i fatti, e mostreranno tra noi chi fugga e chi stia.
Ma poichè voglion questo i Cieli, o compagni, d’altro omai non si
parli; alla battaglia apprestiamci con l’usato coraggio.» Saltò sul
palischermo, picciolo e lesto; e montata la sua galea, armossi da capo
a piè. Alacremente tutti correano alla prova disperata. Corrado Doria,
ammiraglio, che non ebbe principal parte nel consultare, la cercò bene
al combattere, drizzandosi risolutamente a ferir di costa, al primo
scontro, la capitana nemica.
Fu combattuta il quattordici giugno del trecento questa infelice
battaglia, in cui le cinque galee genovesi ch’eran per noi, si trasser
da canto, e venzette sole siciliane affrontarono tutta la flotta
nemica, con molta strage scambievole; finchè accerchiate, soverchiate
e peste s’accorser tardi di loro temerità. Benincasa d’Eustasio,
ch’alla prima avea preso una galea nemica, ne tolse bottino quanto
seppe, e die’ l’esempio della fuga. Sei galee il seguirono; le
altre, dopo ferocissima lotta, furono prese co’ baroni, i guerrieri,
i marinai, tutti carichi di ferite. E Doria solo pur non calava
stendardo, ancorchè trovatosi nel più fitto de’ nemici dal principio
della battaglia, quando il nocchier di Loria destro cansò l’urto del
genovese; e tutti allor gli furono intorno, gli squarciavan co’ rostri
i fianchi della galea, salivano all’abbordo, ed erano rincacciati in
mare, inchiodati da’ valentissimi balestrieri genovesi. Loria alla
fine, tirate indietro tutte le galee, gli spiccò addosso un brulotto.
Così avuto prigione Corrado, onorò questa bella virtù con aggravar lui
di catene; e a’ balestrieri die’ peggio cento volte che morte, fatto
lor cavare gli occhi e mozzar le mani.
Fu a corte di Napoli e per la città e per tutto il reame, grande
allegrezza di questa vittoria, di cui festeggiossi nelle città guelfe
d’Italia, parendo l’ultima pinta alla rovina di Federigo[357]. Sopra
ogni altra cosa, ne sperava re Carlo aver di queto le terre di quei
baroni in Sicilia. Fattili venire quindi a Napoli, sbrancare in
diverse carceri, e ad uno ad uno addur dinanzi a sè, li tastava or
a trattamenti miti, carezze, promesse, or a minacce e stretture; nè
mai potè spuntarne alcuno che gli facesse omaggio. Allora, con nuovo
argomento, serbandone altri a Napoli in catene[358], altri mandava
in catene in Sicilia, a fin di tentare i prigioni con la vista della
patria, le cittadi con la carità di questi lor valenti; e affidolli
a Loria, vegnente a girar l’isola con la flotta, col terror della
recente battaglia, co’ pien poteri, che innanzi dicemmo, de’ quali fu
armato appunto in questo tempo, per usarsi con sommo sforzo d’arti
e d’armi la vittoria di Ponza. In tal viaggio morì Palmiero Abate.
Fu preso a Ponza combattendo, tutto lacero e sanguinoso; il gittaron
prima in un carcere, poi in un fondo di galea; ove ammalignatesi le
ferite per disagio e niuna cura, struggendoglisi l’animo dal rammarico
di vedersi in tal essere, dinanzi quella patria per cui avea speso la
sua vita perigliando venti anni tra le armi e’ maneggi di stato, e ora
nel maggior uopo non poteala aiutare, a vista di Catania, col nome
di Sicilia sulle labbra, spirò. Fe’ onorare Roberto, con esequie e
sepoltura nel duomo di Catania, il cadavere di quel grande[359].
Arrigo d’Incisa, cittadin di Sciacca, portato a zimbello del pari, ebbe
libertà dal caso, che fe’ sdimenticarlo in un carcere a Catania, quando
Loria ripartì con l’armata per iscorrer le costiere di mezzogiorno.
Donde l’ammiraglio, volendo mostrarlo a’ concittadini, mandava un
legno sottile a torlo, con una grossa somma di danaro pe’ bisogni
dell’armata; e il legno avveniasi con un di Sicilia, che il combattè e
vinse; sì che Arrigo n’andò sciolto non solamente, ma gittò ancor le
mani sulla moneta angioina[360]. Corrado Doria intanto tra li artigli
di Ruggiero, emulo e avaro e però di tanto più crudele, era stretto in
catene, abbruciato di sete, nudrito appena di quanto bastasse a tenerlo
vivo, minacciato e macerato in mille guise, perchè rendesse a Loria la
terra di Francavilla. Ei durò questo martirio gran tempo; poi scrissene
a re Federigo, e assentendol questi, risegnò il feudo. Ma Francavilla
fu il solo acquisto, che tornò a parte angioina dallo strazio disonesto
de’ prigioni di Ponza.
Poche altre terre guadagnò in questo tempo, tutte senz’arme: Asaro,
data da due omicidi per fuggir la vendetta delle leggi, e incontrarono
in brev’ora quella del popolo, che li vergheggiò a morte, mentre
ordiano nuova prodizione[361]; Racalgiovanni[362] per tradigione del
signore del luogo; Taba[363] d’un vil soldato, che aprì una porta a’
nemici, e nel trambusto fu ucciso, innanzi che imborsasse i danari del
tradimento; Delia per maggior viluppo di iniquità di Giobbe e Roberto
Martorana. Eran costoro amicissimi del signor della terra, ma presi
di rea passione per la moglie e la figliuola del castellano, che il
signore posto avea in Delia, nè potendo ottenerle per minore misfatto,
il castellano trucidarono, fecero violenza alle donne, e, sperando
che così n’andrebbero impuni, detter la rocca a Roberto. Ma innanzi
ch’ei mandassevi maggior forza, Berengario degl’Intensi, condottier di
Federigo[364], riprese Delia, intromesso occultamente da un cittadino;
e i due scellerati, tratti a coda di cavallo, spirarono sulle forche.
Racalgiovanni, assediata da Federigo, non soccorsa da’ nemici, in pochi
dì si arrese[365].
L’ammiraglio in questo mentre girava l’isola intorno intorno, recando
sulla flotta il cardinal Gherardo, senza fare alcun frutto con le
arti; e la fortuna delle armi, che aveagli fatto fuggir di mano Arrigo
d’Incisa, non l’aiutò in alcun luogo delle costiere di mezzogiorno e
ponente, munite egregiamente da’ nostri; e per poco non perde a Termini
lui stesso. Tentò Ruggiero lo sbarco per non vedervi forze; e non sapea
che Manfredi Chiaramonte e Ugon degli Empuri v’erano entrati la notte
innanzi, e chetamente armata una torma di cavalli, aspettavanlo. Datesi
dunque le ciurme a predar la città bassa, i nostri cavalli le caricano;
le pestano, taglian la ritirata alle navi, gli sbaragliati fanno in
pezzi o recan prigioni. L’ammiraglio, che non fuggì mai rischio, era
sbarcato co’ suoi; ma non potendoli rannodare in tal contrattempo,
si nascose in un cantuccio d’osteria, finchè, ritiratisi i siciliani
cavalli, trovò un palischermo, e tornossi alla flotta, ove il piangean
morto. Passò il Faro poi, senza tentar Messina; die’ un assalto a
Taormina; nè altro ne riportò che il vanto di aver superato quegli
ardui luoghi, e fattovi pochissima preda[366].
Così andando in lungo la guerra, l’anno trecento e gran tratto del
seguente, passarono senz’altre fazioni, in vane parole di pace per
oratori di Federigo a Carlo, pratiche di scambio de’ prigioni[367], e
altre mene di parte d’Angiò, delle quali appena scopriam le vestigia
nelle tenebre del tempo[368]. Eran deboli i due eserciti, per le
cagioni che innanzi toccammo, e più per la carestia, che obbligò Loria
a tornarsi con l’armata in terra di Napoli, per tor vittuaglie da
provvederne Catania e le castella prese in val di Noto. Ciò fatto,
vedendo uscire scarsi tutti i partiti, nella state del trecentouno,
l’ammiraglio consultavane con Roberto di farsi veder, se non altro, ai
nemici: e scelsero la via del mare, perchè Federigo avea oste e non
armata. Spartita dunque la loro, sciolgono di Catania, Roberto per la
costiera di mezzogiorno col grosso delle navi, Loria per settentrione
con le rimagnenti. Osteggiava l’un Siracusa, forte di sito, avvezza
a maggiori turbini di guerra, onde questo agevolmente sostenne;
assaltava Scicli, e n’era ributtato del pari: ma Loria sol vettovagliò
le castella di val Demone. Ed erano, l’uno presso li Scoglitti sulle
rive di Camerina, ove un fiumicello serba ancor l’antico nome, l’altro
alla marina di Brolo, del mese di luglio, pensando a tutto fuorchè
ai rischi del mare, quando lo stesso dì scatenaronsi due opposti
venti, che spingevan del pari i nemici navigli a farsi in pezzi su
le nostre spiagge, assaliti, quel di Roberto da un forzato libeccio,
l’altro dagli aquiloni. Gittarono l’ancora i nocchieri di Roberto; e
si spezzavan le gomone, e cominciavan le galee a rompere sulli scogli,
nè forza di remeggio valea; talchè tutte perivano, se il pilota della
capitana non avvisava dar le vele al medesimo vento, stremandosi a più
potere lungi dalla riva. Così, preso capo Pachino, furon salvi i più;
lasciando su quelle rive miserabile strage di ventidue navi e grande
numero d’uomini; e quei che vivi giunsero a terra, ignudi e inermi,
fuggendo il miglior sentiero per sospetto de’ nostri, inerpicandosi
tra le spine, per luoghi più alpestri, alfin semivivi si ridussero
a Ragusa, che tenea per parte d’Angiò. L’ammiraglio, perdute sol
cinque galee, compier volle il giro dell’isola. Giunto a Camerina,
fermossi a ripescar le ancore della flotta di Roberto, raccorre gli
avanzi del naufragio; e saputo ov’era in fondo la galea di Guglielmo
Gudur, vescovo eletto di Salerno, cancelliere del duca, tant’oprò
con ramponi e altri ingegni, che levonne una gran cassa di moneta,
e tutto appropriossi, facendo a sè guadagno del danno de’ suoi. Ma
prima, soprastato innanzi Palermo, ebbe segreto abboccamento con Blasco
Alagona, dicendo spossati al paro Siciliani e Angioini; agli uni e agli
altri necessaria la pace[369]: e chi dir potrebbe se Loria, mentre
con tal parlare intrattenea il fedel Blasco, non annodò i fili d’un
attentato che indi a poco scoprissi?
Una congiura contro la vita di Federigo, tramata da tre cittadini di
Palermo, di grande riputazione in tutta l’isola, per nome Pietro di
Caltagirone; Gualtier dì Bellando e Guidone Filingeri; i quali ebber
complice Pier Frumentino[370], marito d’una Toda, sorella di latte del
re, cresciuta dall’infanzia con Federigo, e nota a corte; ond’anco
potrebbesi pensare, che vergogna domestica stigasse alla congiura
costui. Era un ribaldo dappoco, che ripentito o tremante, flagellato
dal pensiero d’essersi ingaggiato sì profondo, non seppe chiuder occhio
una notte, non trovar posa sul letto; finchè la donna se n’accorse, e
lo strinse, e tutto gli strappò, congiura e congiurati e assentimento
che si svelassero al re. Ella innanzi dì, correva al palagio di
Palermo; instava co’ famigliar!, menarla nuova, gravissima faccenda, da
non tardarsi un istante; e portata alle stanze di Federigo, volle prima
l’impunità del marito, poi disse per ordine la trama. Il rimanente
andò ancor come suole. Presi i cospiratori e convinti; punito nel capo
Pier di Caltagirone, reo principale; e Federigo, ch’era magnanimo,
perdonò la vita a Bellando e Filingeri, cacciandoli solo dal reame.
Di quest’attentato, più nero di tanto, quanto avrebbe distrutto
insieme con la vita del re la libertà del paese, non possiamo penetrar
le cagioni; perchè seccamente il narra Speciale, forse per caderne
sospetti contro la corte angioina, ch’indi rappiccossi con Federigo, e
diegli una sposa che sedea sul trono di Sicilia, quando Speciale dettò
le sue istorie. A tal giudizio anco porta il dir dello Speciale, che si
scoprisse la congiura, mentre Federigo, vista due volte l’armata nemica
girar l’isola intorno intorno, temè nuova macchinazione, e con ogni
studio ne investigava[371].
In questo tempo rincrudì contro amendue gli eserciti, nuovo nimico,
la fame; più infesta al siciliano che allo straniero, il quale traea
vittuaglia di terraferma; ma i nostri campi in due anni d’invasione
steriliano, abbandonati, arsi, tagliati gli alberi, svelte le vigne,
rapiti gli armenti, messo a guasto ogni cosa per non picciola parte
dell’isola. Ne nacque la carestia; e prima la sentì Messina, per
esserle chiuso il mare dalle ostili flotte, onde a un tempo e mancavano
i commerci, vita della città, e montava il caro de’ grani sopra
l’universale di Sicilia, a cagione della difficoltà de’ trasporti per
luoghi montuosi, occupati o infestati dall’Angioino. Già cominciavan
cittadini a fuggirsene, chi per fame, chi per pretesto, passando
al nemico. Stigato da quelli, venne a campo Roberto sotto Messina;
pensando, per poco che aggravasse la carestia con la guerra, domare
quel popolo ch’avea già fiaccato l’orgoglio dell’avol suo.
Al par che nell’assedio dell’ottantadue, pone in terra a Roccamadore;
manda sullo stretto la flotta di cento galee; con le genti ei si avanza
infino al borgo di Santa Croce, mettendo tutto a fuoco ed a sangue: e
nell’arsenal di Messina bruciò due galee; e scaramucciava ogni dì per
terra e per mare, rispinto sempre da’ nostri e dagli stanziali regi,
tra’ quali capitanò una compagnia il cronista Ramondo Montaner. Ma,
inviati da Federigo a vittuagliar Messina settecento cavalli e duemila
almugaveri, con Blasco Alagona e ’l conte Calcerando, Roberto non
li aspettò; passò con tutte le forze in Calabria, la notte medesima
ch’ei seppe Blasco giunto a Tripi, e da lui mandato avviso a Messina
che la dimane facessero una sortita, mentr’ei, piombando da’ monti,
prenderebbe a rovescio il nemico. Raggiornato dunque, i nostri, gli uni
dalle porte, gli altri dalle creste de’ monti, s’apprestavano di gran
volontà a combattere, senza pensare al numero delle genti di Roberto,
quando le videro fuggite. Entrato Blasco in Messina, tra l’allegrezza
della ritirata e de’ rinfrescati viveri, si cominciò a braveggiare.
Xiver de Josa, alfier di Calcerando, inviò in Calabria una bizzarra
sfida in rima, per un ministriere che la cantasse; e la canzone
invitava i nimici a tornar pure in Sicilia, che non si difenderebbe
lo sbarco, ma all’asciutto, in bella pianura, sariano aspettati a
combattere. Montaner la dà a paura che Roberto andò via da Messina, nè
fece ritorno alla sfida. Altri porta più sottil ragione di guerra: che
non potea giovare a Messina quantunque salmeria di vivanda condotta per
terra, consumandosi da’ cavalli della scorta più ch’e’ non fornivano;
e che Roberto, tenendo lo stretto e stando in Calabria, senza rischiar
giornata, toglieva a Messina gli aiuti di Reggio; e l’una e l’altra
insieme avrebbe affamato, minacciato e percosso improvvisamente. Prima
pose il campo a Reggio; poi con la medesima prudenza si ritirò alla
Catona, per la valida difesa di Ugon degli Empuri; e ostinato stette al
blocco, onde ad orribil pressura crescea la fame in Messina.
Respirovvisi un poco per lo gran valore di frate Ruggiero de Flor,
oriundo tedesco, nato a Brindisi in povero stato, gittatosi fanciullo
sur una barca de’ Templari, e fatto in pochi anni espertissimo
navigatore, frate del Tempio, uom d’arme, formidabil corsaro.
S’arricchì tra lo scempio de’ cristiani ad Acri; per invidia
perseguitollo il gran maestro de’ Templari, e ’l fe’ mettere al bando
di cristianità; ma tra i romori delle nostre guerre gli fu nulla. Con
una galea genovese, venne costui in Catania ad offrirsi a Roberto;
funne rifiutato; e passò incontanente ai soldi di Federigo, al quale
non restava a temere scomunica. Allora con siciliani legni, pur dopo le
nostre sconfitte navali, rifece le prime dovizie, corseggiando sopra
nimici ed amici; con questo divario, ch’ai secondi lasciava cedole
del valsente da rimborsar i alla pace: talchè, smisurato di pensieri
all’imprendere, d’audacia all’oprare, e rapace ma non crudele, e largo
donatore, anzi prodigo del mal acquistato, pei vizi al paro che per
le virtù era salito in gran nome in tutta l’oste di Federigo[372].
All’intendere il misero travaglio di Messina, presentavasi Ruggiero
al re, dicendo sentirsi spinto e flagellato da un gran pensiero: o
vittovagliar Messina per mare, o perdersi nelle onde, o, che peggio
era, tra le man di Roberto e de’ frati del Tempio. Assentendolo il re,
apparecchiava dodici galee; le empiea di grano a Sciacca; e con esse
stava pronto nel porto di Siracusa.
Com’ei vide gonfiarsi il mare da ostro, piano senz’onda, rosseggiante
come per sangue[373], s’appose che metteasi uno scirocco fortunale;
e confortò le ciurme all’impresa, in cui il vento, dicea, non li
abbandonerebbe in balìa de’ nemici, perchè di verno non cala sì tosto.
La notte dà le vele alta tempesta; e con essa si trova a dì innanzi
lo stretto. Loria scoprendolo, facea rabbiosamente escir le galee,
forzar ne’ remi; ma indarno lottavano contro que’ gran cavalloni e
corrente del Faro; e il templario, beffandosi de’ vani sforzi, a vele
gonfie entrava in porto. Incontanente rinvilì il grano a metà del
pregio; sfamò l’afflitto popolo, e ’l rafforzò in sua costanza. Ma non
i campi Leontini, sclama Speciale, potean mietere, non tutti i granai
d’Agrigento, rinserrar tanto, che bastasse in quell’uopo a Messina[374]!
Mentre nel blocco di Messina si disputava ostinatamente l’importanza
dell’impresa, Blasco Alagona, fulmine di questa guerra, amico
amantissimo di Federigo, fedelissimo alla Sicilia, non vinto unque in
battaglia, ammalò in Messina, come probabil è, dalla malsania degli
alimenti; e in breve trapassò, non pianto in Sicilia, a sommo biasimo
de’ nostri progenitori invidianti il glorioso nome, non pianto in
Sicilia, fuorchè da Federigo. Ruppe in lagrime questi, per amore e
interesse, alla perdita di tant’uomo; vestì a duolo; in piena corte
lodò il valore, la fede, le chiare geste di Blasco. Del resto, poco
tempo lasciavano allora a privato cordoglio le calamità pubbliche[375].
Perchè Messina, consumato il soccorso di Ruggiero de Flor, tornava alle
stretture di prima e peggio; manicandosi, come dilicato cibo, non che
de’ giumenti, ma cani, gatti, topi; e queste stomachevoli carni pur
si aveano a sminuzzo; a comperare un po’ di pane non bastavan ricche
suppellettili, arredi, gioielli. Narro non parti d’immaginativa, ma
orribilità certe, che i nostri antichi durarono a salvamento della
siciliana libertà, per lasciarne retaggio, mal guardato da poi. Allo
scurar della notte crescea l’orrore in Messina, cresceano i lamenti;
usciano a gridar pane, non i mendici, ma gli agiati, pelle ed ossa,
scrive lo Speciale, vergognanti a mostrare il dì quelle spunte
sembianze; e molti la dimane si trovavan per vie e piazze morti,
qual di fame, qual dalla malignità degli scarsi e schifi alimenti.
Talchè uno strazio, un compianto era per tutto il paese; caduta ogni
baldanza agli uomini più valenti; le leggiadre donne, non attendendo
ad ornamento e cura della persona, squallide mostravansi; e pargoletti
si vider morire in braccio alle madri, poppando senza trarre una
goccia dal seno inaridito. Niccolò Palizzi, cittadino e governador di
Messina, meritò in questo frangente somma lode di coraggio, umanità,
antiveggenza, inespugnabil costanza; tra tanti pericoli e inevitabil
balenare della popolazione, fu infaticabile e grande nel provvedere,
con tal giusta misura, che si assicurasse la città dagli attentati de’
male contenti, e si risparmiasse il sangue pur de’ colpevoli. Da pochi
all’infuori, ugual virtù ebbe il popol tutto di Messina, due volte
salvator della Sicilia nella guerra del vespro; il prim’anno, con quel
memorabil valore contro la forza viva di Carlo; e l’ultimo, con questa
più maravigliosa perseveranza contro lo strazio della fame, lento,
inesorato, inglorioso, fiaccante corpi ed animi insieme[376].
Federigo dunque, dolente com’egli era della perdita dì Blasco, fa
spigolar quanta vittuaglia poteasi in val di Mazzara, e montando a
cavallo, vien ei medesimo alla scorta, senza pensare a sè, ma solo al
popolo; talchè sostando alquanto a Tripi, dopo lungo cammino, due pan
d’orzo e un fiasco di vino, che a caso si trovò un de’ famigliali,
furono la sola imbandigione del re; e sfamatosi, gittossi a terra,
facendo guancial dello scudo; e riposato qualche ora, rimontò per
fornire la via. Giunto presso alla città, manda i viveri, e torna
indietro a raccorre nuovo sussidio, perchè bastavano appena a tirar
innanzi pochi dì. Tosto rivenne dunque con altri grani, altri armenti:
e allora entrò in città; allora gli occhi asciutti tra lo scempio del
capo d’Orlando, sgorgaron lagrime al veder il popolo macerato, che
sforzavasi a gridargli evviva.
Donde consultando con Palizzi, deliberossi a rimedio, crudo, ma men
del male. Perchè i soccorsi di vittuaglie non si dileguino in un
baleno, bandisce che la gente più mendica e invalida alla difesa,
esca di Messina con lui, e sarà condotta in luogo ov’è cibo. Allora
l’irresistibil talento della conservazione di sè stesso, portò casi
che da lungi s’estimano spietati: abbandonar patria, parenti, quanto
v’ha di più caro; e lagrimando, scrive Speciale, ma non aspettando
i figli il padre, la sposa il marito, una squallida moltitudine
incominciò a poggiare su per la via dei colli: e Federigo, raccomandata
la città al forte Palizzi, spogliatosi nel duro incontro ogni fasto
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