La guerra del Vespro Siciliano vol. 2 - 08

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decretandogli ricca pensione sulla tratta de’ grani di Sicilia, a
misura che l’isola si racquistasse[261]; invano accordò privilegi
commerciali ai mercatanti catalani con lusinghevoli parole[262];
inflessibil trovò sempre il re d’Aragona, che il vedea affogare tra’
debiti, e tardavagli svilupparsi da lui. Tolta di Salerno la sposa
e l’afflitta madre, andò Giacomo a Napoli; ove freddamente accolto
dal re, fece breve soggiorno, e ripartì per Ispagna, scontento di
tutti, scontento di sè, lacerato da’ novelli amici che abbandonava, nè
maledetto manco da Federigo e da’ Siciliani. In vero fu manifesto che
il re d’Aragona, incalzando, avrebbe potuto desolare assai peggio il
paese[263]: ma pensavasi ai torti suoi passati, più ch’a nuovi danni
che oggi risparmiava; nè la sua partita si conobbe da moderazione o
carità. E come supporne nel vincitore che lasciò sparger dopo il caldo
della battaglia tanto generoso sicilian sangue al capo d’Orlando?
Intanto a Federigo l’avversità rendeva e prudenza e splendore.
Come prima rinvenne a’ sensi, vedendosi rapito dalla battaglia,
disperatamente chiedea la battaglia e la morte: gridava che mai non
tornerebbe vinto in Sicilia; ma cedè tosto a più forti consigli:
lottar ancora e regnare. Giunse a Messina, ingombra già di spaventoso
lutto, assordata a gemiti e ululati, al nunzio, certo della sconfitta,
confuso dei danni: che fosse caduto in battaglia il re; non campato
un sol uomo; nessun riparo allo sterminio della patria. Donde al
veder Federigo, pur fuggente sulla insanguinata nave, con le reliquie
della flotta, si voltò il popolo in gioia, scordando i lutti privati
nella speranza di salvar la cosa pubblica. Affollansi intorno a lui
ansiosamente i cittadini; dicono a gara che nulla han perduto,
quand’egli è salvo; prenda tutto il lor sangue, tutto l’avere per
difender la Sicilia. E Federigo rispondea con magnanime parole:
reggersi ogni cosa quaggiù ai cenni di Dio; la umana vita avvicendarsi
di prosperità e sventure; qual meraviglia se in diciassett’anni di
vittorie, toccavasi una sconfitta? nè perduta si tiene la guerra,
là dove avanzan uomini, arme, danari; con un po’ di costanza, si
rivolterebbe la fortuna; chè niuno mai domò la Sicilia unanime e
risoluta. Incontanente scrisse a Palermo, alle altre città, con uguale
costanza; appose la sconfitta alle nostre navi, avviluppatesi tra loro;
la perdita sminuì, come si suole: esortavale a tener fermo a’ primi
affronti de’ nemici; ed egli, saputo ove si drizzassero, là correrebbe
con nuove forze. Ma perchè dopo tal crollo, il tempo e la vittoria
soli eran rimedio, disegnò Federigo difendersi e temporeggiare;
lasciar che i nimici cavalcassero il paese a lor voglia; ma guardare
strettamente le terre murate; ei stesso con iscelta gente porsi in
Castrogiovanni, l’antica Enna, foltissima città in monte, che sta a
cavaliere nel centro dell’isola, comoda a sopraccorrere in ogni luogo.
Dondechè, ordinati Niccolò e Damiano Palizzi, fratelli di Vinciguerra,
a comandare la città e ’l castel di Messina, e posti fidati capitani
nelle altre piazze di maggior momento, disponeasi il re a pigliare
il cammino della costiera orientale, sopravvederla, e ridursi a
Castrogiovanni[264].
Gli angioini all’incontro, apprestavansi a usar la vittoria di
Giacomo. Riebbero entro tre settimane Capri, Ischia, Procida, con
romoreggiare appresti di guerra[265], e più per la detta pratica di
Pier Salvacossa da Ischia; il quale per cagion della provata virtù in
arme, e del novello tradimento, fu fatto protontino d’Ischio, o, noi
diremmo, vice ammiraglio, secondo al solo Raggier Loria nel comando
dell’armata; ed ebbe lodi del re, e feudi in Sicilia[266], ma non andò
guari che meglio nel pagava la spada d’un sicilian soldato. Ma quanto
alla Sicilia, che allora non si risguardava com’Ischia, compresero i
governanti che, oltre la rapacità e crudeltà dell’amministrazione,
quei fatti di Carlo I pe’ quali distruggeansi gli antichi privilegi,
erano stati grande incentivo al vespro e alla ostinata nimistade a
lor nome. E però tornando al ripiego, che pur tentò quel superbo
nell’impresa dell’ottantaquattro, re Carlo II a dì ventiquattro luglio
del novantanove, lodandosi molto del proprio pensamento, che insieme
dividesse e non dividesse la corona, creava Roberto vicario generale
perpetuo nell’isola, con maneggio larghissimo delle faccende civili,
e potestà sopra il sangue, sì che fosse nell’isola, dice il diploma,
perfetta immagine della regia persona[267]. Insieme con tai pergamene,
sforzossi a mandare in Sicilia a tutta possa genti, vittuaglie, moneta
per gli stipendi[268]; accortosi della dura fatica che restava, e che
per lungo tempo non trarebbe nulla del paese.
E per vero lentissimo progredì dapprima Roberto. Arrendeansi, a lui
no ma a Ruggiero, gli antichi suoi feudi, Castiglione, Roccella e
Placa; Francavilla seguivali se non era per timor della rocca, tenuta
da Corrado Doria. Ma innoltrandosi dalla settentrional costiera per
riuscire sulla orientale, Randazzo, principal città in val Demone
dopo Messina, die’ prima a vedere, scrive Speciale, che per la rotta
di capo d’Orlando, non era vinta, no, la Sicilia. Perchè assaliti da
Roberto, dato orribil guasto al contado, i cittadini tenner saldo in
molti scontri, soprattutto in uno che durissimo si appiccò alla fonte
di Roccaro; dove caduto alcun de’ più feroci Francesi, il duca si
ritrasse; e a capo a pochi dì, per consiglio di Ruggier Loria, lasciò
anco l’assedio, tardandogli di trovar vittuaglie. Affrettatosi dunque
vergo il fertil paese dell’Etna, si rinfrescò alquanto occupando senza
contesa Adernò, terra espugnabile; e tosto tramutò il campo sotto la
munita fortezza di Paternò. Teneala il vecchio conte Manfredi Maletta,
gran camerario del regno, di nobil sangue, carissimo agli Svevi e a’
principi aragonesi, ma uom di toga, uso a viver dilicato; onde tra
tedio e paura dell’assedio, al secondo giorno s’arrese. Ciò fu salute
dell’oste di Roberto, che per diffalta di vivanda, già era stretta in
pochi dì a partirsi o cader nelle mani di Federigo. E più che questo,
nocque l’esempio: perocchè gli uomini soglion l’altrui viltà maledire,
e maledicendo seguirla, come pretesto a cessar da una pericolosa
costanza. Maletta poi trasse la vita pochi più anni in terra di nemici,
sovvenuto o insultato da essi con meschini favori; e infame e mendico
morì: ma non ha il pondo nè premi nè pene da pagar ciò che sovente fa a
una intera nazione un sol uomo[269]!
Per lettere di questo vile, Buccheri, sua terra fortissima, venne
in man de’ nemici. L’ammiraglio, portata una punta dell’esercito
sopra Vizzini, con sè recando Giovanni Callaro, Tommaso Lalia e
Giovan Landolina, presi al capo d’Orlando, l’ebbe per tradimento del
Callaro; il quale mostratosi a’ cittadini, che virilmente avean preso
a combattere, fu accolto con gioia, com’uomo d’assai riputazione, ed
empiamente l’usò a far aprire le porte all’ammiraglio. Tornò questi
allora a Palagonia; ove accozzatosi con Roberto, assalgon Chiaramonte,
negano i patti che il popol chiedea, dopo le prime scaramucce,
sentendosi non bastare alla difesa; e irrompono ostilmente nella
città. La prima che in questa guerra del vespro, i nimici occupassero
di forza; onde tutta sfogaronvi la ferità de’ tempi: passati gli
uomini a fil di spada; sfracellati a’ sassi i bambini; sparato il
corpo alle incinte; dopo il sangue e gli oltraggi, adunata una misera
torma di donne, solo avanzo del popol di Chiaramonte, fu cacciata e
sparsa pe’ luoghi vicini. In questa vendetta le genti angioine fur
sole; nella rapina fur prime: spigolarono dietro a loro i saccardi
di Vizzini, seguenti con vergogna le armi straniere. Di qui voltasi
l’oste a Catania, s’attendò nelle vigne dell’Arena; e dopo tre dì
si ritrasse inaspettatamente, fidando in una pratica, più che nella
forza, contro città sì grossa, comandata da Blasco Alagona. Per dar
tempo al tradimento, assaltava Aidone; respinta dapprima per la
virtù di Giovenco degli Uberti, capitan della città, intromessa il
dì seguente per accordo. Ma posto il campo a Piazza, trovò riscontro
assai duro. Perchè Guglielmo Calcerando e Palmiero Abate, con un nodo
di sessanta cavalli, trapassarono folgorando per mezzo gli assedianti;
e serratisi nella città, rafforzaronla col nome, con la virtù, con
la riputazione di quel fresco prodigio. Indi il duca dal pian di San
Giorgio, l’ammiraglio dalla fonte di Vico, invano entrambi strinser la
terra, mandarono ad offrir patti, mossero assalti. I cittadin di Piazza
rispondeano alle parole: avere fermato, già gran tempo, i lor cuori;
morrebbero, non arrenderebbersi mai. Sostennero il detto con una virile
difesa. Onde Roberto, perdutavi assai gente, si levò dall’assedio;
sfogò con guastar le campagne; e avviossi a Paternò[270].
In questo tempo Federigo, sapendo minacciata Catania, v’era sopraccorso
da Messina, nè avea trovato il nemico; donde tutto lieto, convocati
i cittadini a parlamento, fece loro assai belle parole; e per tutti
risposegli Virgilio Scordia, tenuto uom di virtù romana[271], per
seguito e riputazione primo nella città. «Chi avrebbe mutato, arringava
focoso costui, la libertà sotto tal principe con la tirannide
straniera? Di questa non s’era dileguata, no, la memoria; vedeansi
ancor tinti di sangue francese i sassi e le mura, per ammonire ogni
Siciliano a guardarsi dalla vendetta; nè era chi non fosse pronto a dar
la vita per Federigo, cresciuto tra le lor braccia, fatto re e stato
lor padre. Se un insensato qui vive con animo a te maligno, s’apra la
terra sotto a’ suoi passi, e l’inceneriscan le folgori!» Così parlava
il traditore, indettatosi poc’anzi a dar Catania a’ nemici. E Federigo,
preso da quei fedeli sembianti, ripensava tra sè come rendergli merito;
fatto or sì cieco al fidarsi, quanto fu lieve altre volte a sospicare:
talchè or tenne raccoglitor di calunnie Blasco Alagona, che gli svelava
gravi indizi delle pratiche di Virgilio. Seguì dunque a chiamar padre
costui della patria; a Blasco rispose, amerebbe anzi perder Catania
che macchiare con un solo sospetto la fama di tal grande: al che
Blasco, accorto o sdegnato, risegnava il comando della città; e il re
commettealo al conte Ugone degli Empuri, buon guerriero e non altro;
facendo maggior assegnamento sull’aura popolare di Virgilio Scordia.
Così andò via sicuro a Lentini, Siracusa, e altre grosse terre del
val di Noto, e infine a Castrogiovanni[272]; ove fe’ lunga dimora, e
diede o raffermò privilegi alla città di Caltagirone, che mostrano
la sollecitudine del re a far parte per sè co’ favori speciali, come
usavan contro lui studiosamente i nemici[273].
Era in Catania un Napoleone Caputo, cittadino di minor seguito che
Virgilio, di pari ambizione; gareggianti amendue nel favor del popolo,
nella munificenza del re; e perciò da gran tempo nimici. Ed or nello
scellerato proposito s’affratellarono; perchè Virgilio, non potendo
far senza i più ribaldi, inchinossi a richieder Napoleone; questi,
com’uom da meno, lietamente gli corse nelle braccia; e l’interesse fe’
perdonar dall’una e dall’altra parte le offese. Congiurati dunque tra
lor due, o con pochissimi più, taccion ogni cosa a’ loro partigiani
medesimi; finchè nacque l’occasione che Federigo, proponendosi uscire
alla campagna contro il nimico, scarso di vittuaglie e ributtato
da’ più importanti luoghi; chiamava i popoli alle armi; chiedea da
Catania settecento uomini. Scrissene il re ad Ugone; questi consultò
con Virgilio come ottener tal sussidio dalla città; e Virgilio il
promettea, sol che si chiamasse il popolo a parlamento nel duomo il dì
appresso; egli farebbe il rimanente. E insieme con Napoleone, cominciò
e compiè la macchina della sommossa, in quanto avanzava di quel giorno’
e nella notte appresso; per toglier tempo a pentirsi o scoprire, per
usar l’agitamento degli animi che vogliono il ben pubblico senza lor
disagio, e per nascondere sotto l’util della città il tradimento alla
nazione. Talchè la trama, stata segretissima tra’ pochi, in un attimo
si distese ai molti senza pericolo: congiunti, amici, clienti, sgherri
furo indettati e assegnato luogo ed uficio ad ognuno.
Nel medesimo tempio di Sant’Agata, che cinque anni innanzi suonò di
liete voci, gridando i rappresentanti della nazione re di Sicilia
Federigo, assembravasi quel giorno il popolo di Catania; entravano
alla sfilata Napoleone e i cospiratori armati: Virgilio in abito e
sembianti di pace, ito alle case d’Ugone, accompagnollo al tempio.
Fatto silenzio, esponeva il conte i voleri di Federigo. E non avea
finito il suo dire che un Florio, nom dell’infima plebe, sguainata la
spada, grida pace, e gli dà un fendente in viso; gli altri con l’arme
songli intorno; e insignorisconsi della sua persona; indi irrompono
per le strade gridando pace; e chi tarda a risponder pace, sforzavi
con minacciose parole: talchè una picciola fazione strascinò e rivolse
tutta l’attonita città. Nè la stettero a pensare che gittassero sopra
tre barche, apparecchiate a questo, il conte co’ suoi seguaci, instando
con feroce volto Virgilio e Napoleone: e Ugone li chiamava a nome;
scongiuravali che s’alcuna offesa ebber unque da lui, sfogassero nel
suo sangue, non si voltassero contro il re. Gli fer cenno a star zitto
e navigare per Taormina: e il popolazzo intanto saccheggiava le sue
case; se non che rimandò senza offesa alcuni altri uficiali del re,
con tutto il lor avere. Incontanente i congiurati chiaman Roberto,
che, dubbioso e in travaglio, ritraeasi a Paternò; dangli la città; il
raccolgono con empia gioia; e chieggongli ed hanno, scrive Speciale, in
premio di tanta virtù, terre, casali, castella, ch’ei più volentieri
largiva perch’erano in man de’ nemici, nè pareagli vero comperar sì
poco la sua salvezza. Certo la diffalta di Catania impedì l’estremo
sforzo a cui s’apprestava Federigo, contro il nemico sprovveduto
e vagante; certo fu cagione degli infiniti mali che succedettero,
e del gran travaglio che si durò a scacciar dal nostro suolo gli
stranieri[274].
Il che mi conduce a considerare come negli ordini feudali non erano
i governi sì incapaci a reggersi contro i sudditi, come in oggi si è
detto, non vedendo in essi unito e gagliardo quanto a’ tempi nostri
il poter dello stato. Ma parmi che, s’e’ non poteano frenar sì pronti
una ribellione; aveano assai meglio da spegnerla con le concessioni
feudali di quantunque venissero a perdere i ribelli; tra i quali,
chi per conservare i propri beni e chi per occupare quelli dei più
ostinati, moltissimi si trovavan disposti, non che a tornar essi alla
ubbidienza, ma con forza, ambito, frode, domare i compagni; e gli
stessi leali da somiglianti cupidigie erano sospinti a sforzi, che il
semplice zelo non può. Una parte della nazione così armavasi contro
l’altra, più rabbiosamente ch’oggi non avverrebbe, per gli ordini
stabili della proprietà; sendo assai minor massa di premi le pensioni
e gli ufici, che a’ governanti restano a dispensare. E però veggiamo
larghissime le concessioni feudali, che Roberto, usando il potere di
re, facea da Catania in quel tempo, e Carlo ratificava da Napoli, non
che ai complici di Virgilio nella tradigione, ma ai nobili che in
appresso voltaronsi a parte angioina; e veggiamo tra costoro grandi
nomi, o di tali che dovean tutto lor essere a Federigo; e molte terre
di val di Nòto darsi a parte nemica, dietro la occupazione di Catania,
che parea il crollo a’ nostri destini. Noto, per briga d’Ugolino
Callaro[275], uomo di gran nome e compare del re; Buscemi, Feria,
Palazzolo, Cassaroe, tratte da’ mali esempi, diersi al nemico; Ragusa
ancora, ove un prete Omodeo, sotto specie di confessione, tramò con
parecchi cittadini, e costoro non attentandosi al misfatto senza un
valente uomo per nome Francesco Balena, van di notte alle sue case
armati, minaccianlo della vita, ed egli infingendosi d’assentir per
timore, audacissimo poi operò al reo intento, e asseguillo, cacciato
il vicario di Manfredi Chiaramonte che tenea la terra, e chiamato da
Vizzini Guglielmo l’Estendard[276]. Virgilio Scordia e’ consorti,
in questo tempo non se ne stavano al proprio tradimento, che non si
affannassero a tirarvi altri uomini, altre terre, tutta l’isola se
possibil fosse[277]. E per tali condizioni de’ tempi e principî di
corruzione della morale politica in Sicilia, è tanto più mirabil cosa
come, dopo la sconfitta del capo d’Orlando, con quei grandi appresti di
guerra, e la presenza di Ruggier Loria, e nerbo di fortissimi Francesi
e Catalani, la corte angioina se guadagnò con le pratiche da trenta
città, terre o castella[278], niuna n’ebbe con le armi, da Chiaramonte
in fuori; e come Federigo, o piuttosto la parte della rivoluzione
siciliana che operava con esso, non ostanti le raccontate tradigioni,
manteneva in faccia al nemico tutto il rimanente dell’isola, e non poca
parte alsì di Calabria.
Fu quest’anno a papa Bonifazio il più lieto di tutto il turbolento
suo regno. Vide l’odiata casa Colonna prostrata per ogni luogo
dalle armi della croce; riparatene le ultime reliquie nella rocca di
Palestrina; e questa, inespugnabil di forza, vide aprirsi alle larghe
promesse, ond’ei l’ebbe, e sperdè i ribelli, la città fe’ spianare,
arare il suolo, seminarvi sale, con dimostrazione vana ed atroce[279].
Nè esultò manco alle stragi del capo d’Orlando, principio, com’ei
diceva, al racquisto di Terrasanta; e certo pareagli al soggiogamento
dell’isola di Sicilia, al predominio per tutta la terraferma d’Italia,
fors’anco fino in Lamagna[280]. Allor fu che, chiedendogli Alberto
re dei Romani, la imperial corona, Bonifazio sedente in trono, col
diadema di Costantino, la spada al fianco, e la mano sull’elsa, negava
agli ambasciadori il dritto d’Alberto, e: «Non son io, lor disse, il
pontefice sommo? Non è questa la cattedra di san Pietro? Non basto
a difender io i dritti dell’impero? Io Cesare sono, io imperadore!»
e brusco li accomiatava[281]. Ma tal concetto di sè, non tolse al
pratichissimo nelle cose di stato, che attendesse con maggiore solerzia
all’impresa di Sicilia, che sì gli stava a cuore, e ben altro gli
parea che ultimata. In luogo del primo legato, poco giovevole per
non avere riputazione nell’isola, mandava a Catania, con pien potere
di scagliare e ritrattar gli anatemi, il cardinal Gherardo da Parma,
venuto appo noi in odore di santità[282]. Esortava al medesimo tempo
Carlo e’ figliuoli a osar la fortuna in Sicilia; mandava a ciò lettere
sopra lettere; e di sì gran vedere egli era Bonifazio, che nondimeno
pose ogni sforzo a distoglier Filippo principe di Taranto dal meditato
assalto sulle regioni occidentali dell’isola, dove temea che Federigo
di leggieri non l’opprimesse[283]. Ma ammonimento alcuno non valse al
principe, vago di militar gloria, nè a Carlo, debol co’ figliuoli, o
impaziente di uscir da’ travagli della guerra.
Apprestatisi in Napoli quaranta galee, con quanti rimaneano in
terraferma più rinomati nobili nazionali e francesi, e milizie,
e soldati mercenari; capitanando l’oste il principe Filippo, col
consiglio di sperimentati uomini di guerra; l’armata Pier Salvacossa
vice ammiraglio: in sull’entrar di novembre fan vela per Trapani,
a infestar le regioni occidentali dell’isola, grasse e fin qui
illese[284], dalle quali Federigo traea il nerbo delle sue forze.
Donde, come e’ seppe sbarcati i nimici a capo Lilibeo, depredanti il
paese, accinti a strigner Trapani per mare e per terra, fieramente
turbato, consultavane co’ suoi capitani che fare? Blasco Alagona, per
amore alla persona del re, o invidiosa cupidigia di gloria, volea andar
egli solo; dipingeva i pericoli: Roberto alle spalle, vicino e forte;
Filippo con la flotta, da potervi rimontare a sua posta, e differir
tanto la battaglia, che giugnesse il fratello, e cogliesserli in
mezzo; non lasci il re questa inespugnabile Castrogiovanni; dia a lui
qualche schiera, per accostarsi al nemico novello, tirarlo a giornata
con mostra di poche forze: e giurava che o presenterebbegli le bandiere
angioine, o rimarrebbe sul campo. A questo parlare niun disse contro.
Sedea su i gradi del soglio, a piè di Federigo, un Sancio Scada, nè bel
dicitore, nè tenuto savio; ondechè non atteso da niuno, rincantucciato
stavasi ad ascoltare e guardar gli altri, quando il re, fattosi a
interrogare per ordine i consiglieri, sbadato, a lui primo si volse.
E costui, scotendo il capo, maninconoso e veemente prorompe: «Stolto
partito è questo, o re, che senza la tua persona si muova contro
Filippo. Qual de’ tuoi padri, dimmi, avrebbe mai domato genti e reami,
se tra il più folto de’ nemici, se alla testa de’ suoi cavalieri,
non combatteva egli primo? Nel mio petto io sento, ch’innanzi a te
grandi cose ardirei, e te lontano il braccio cadrebbe. E Blasco or
vuole che la Sicilia tutta, volta a risguardare a te solo, te vegga
come codardo schivar la battaglia! Blasco fida nel suo braccio, e
insulta ogni altro; Blasco anela ingoiar ei solo la gloria; ma non sa
misurarsi, per Dio! Con tutte le forze si combatta, ove sta tutta la
fortuna. Ristorerassi la nostra, se Iddio ne darà questa vittoria. Se
no; o perdendo con onore, o con infamia standoti, non ti aspettar che
rovina[285].» Disse, e non curandosene altrimenti, nel suo silenzio
tornò. Ma Federigo colse questo lampo; considerò che a star dubbioso
un istante perdea tutta la Sicilia, osteggiata da due bande, oppressa,
sedotta; e vergogna l’accese, e necessità di lavare a rischio della
sua vita la fuga del capo d’Orlando. Lasciato dunque al presidio in
Castrogiovanni Guglielmo Calcerando, già grave d’età; ei con una mano
di cittadini di Castrogiovanni, e quante milizie feudali si trovarono
pronte, marcia alla volta di Trapani. Di Palermo, delle vicine terre,
popolarmente anco armaronsi, e corsero all’esercito: non curaron verno,
non aspettarono nuovo comando, antivennero i nostri, con quella ch’era
secondo i tempi celerità, il pericolo che sopraggiugnesse Roberto.
In breve furono addosso al nemico, che da Trapani, non valendo a
espugnarla, si tornava a Marsala. Era lungi la flotta; non restava
schermo alla battaglia: l’una e l’altr’oste apparecchiovvisi. Nella
nostra avvenne, o almen poi si contò, che un Lopis di Yahim, ariolo,
fattosi innanzi al re, vaticinavagli: «Vincerai, Federigo; io solo, con
cinque cavalieri morrò.—– Perchè dunque non fuggi? risposegli il re;
noi nel nome santo di Dio pugneremo.—– E quegli: Così è fisso nelle
sorti, ch’io muoia e che tu vinca!» Ma nel narrare il successo della
battaglia, scorda Speciale poi queste fole.
Ne’ vasti piani della Falconarìa, ad otto miglia da Trapani, dieci da
Marsala, due o tre dalla marina, l’oste siciliana trovò i nemici, il dì
primo dicembre milledugenonovantanove. Era più forte di fanti, animosi,
ma senza disciplina; l’aiutava un po’ di gente catalana, ma s’ignora
l’appunto folle sue forze: de’ nemici si sa che la vantaggiavan di
cavalli; che un grosso di Provenzali s’aggiugnea a’ Napolitani della
città e del regno; che avean secento cavalli, e assai più pedoni[286].
Ordinaronsi gli uni e gli altri in tre schiere: Filippo a destra, alla
mezzana il maresciallo Brolio de’ Bonsi, alla manca Ruggier Sanseverino
conte di Marsico: e Federigo, per consiglio di Blasco, oppose Blasco
stesso al principe con pochi cavalli e un forte di almugaveri; stette
ei medesimo nella schiera di mezzo col grosso de’ fanti; assegnò la
destra a’ cavalli di Giovanni Chiaramonte, Vinciguerra Palizzi, Matteo
di Termini, Berardo di Queralto, Farinata degli Uberti, coi fanti
di Castrogiovanni. Quest’ala entrò prima in battaglia, lentamente
movendo contro Sanseverino. A tal vista, il principe di Taranto
dall’altro corno, spicca i balestrieri provenzali a cavallo a ferir gli
almugaveri; ei, stretto a schiera con gli uomini d’arme, spingesi a
quella volta contro la bandiera di Blasco, che parea la più segnalata,
non mostrandosi per anco le aquile di Federigo, inteso dietro le file
ad armar novelli cavalieri nel memorabil giorno. Blasco per affannosi
messaggi l’affrettò a montare a cavallo. Gli almugaveri intanto, fermi
lasciano avvicinare il nemico. Com’entra a gittata di mano, a lor
usanza gridano: «Aguzzate i ferri,» e dan co’ giavellotti a striscio
su per le selci, che tutto allumò di scintille il terreno, scrive
Montaner, con maraviglia e terror del nemico; e si venne alle mani.
Alla carica del principe, balenava un istante la gente di Blasco;
scrollata di qua, di là, combatteasi la bandiera: ma rattestaronsi in
un attimo que’ provati combattenti, nè cedeano un passo. Filippo allor
vedendo la schiera nostra di mezzo rimasa alquanto indietro, credendol
timore, pensò sperder quelle frotte di fanti; spronò sconsigliatamente
ad essi, lasciandosi interi a destra gli almugaveri con Blasco, che
freddo e fermo sopra lui ripiegossi. Allora un cortigiano, di cui
Speciale per generoso sdegno tace il nome, supponendo abbattuto Blasco,
gridava al re, fuggiamo; e forse tutto perdeasi; ma Federigo: «Fuggi
tu, traditore, gli disse; la mia vita io qui dar debbo per la Sicilia.»
E fa spiegar la sua bandiera; e con un pugno di cavalieri, quanti
n’avea in quella schiera, sprona egli il primo contro la cavalleria del
principe.
Qui fece egregie prove; pugnandosi da corpo a corpo; tramescolate
le due schiere; riscaldati i guerrieri dalla presenza, questi del
re, quelli del principe. Lampeggiava in alto la spada di Filippo;
Federigo or di mazza or di spada, uccise di sua mano più uomini; ferito
lievemente ei stesso in volto, e alla man destra. Ma in questo si
sentirono da sinistra i colpi di Blasco, che pria caricò con gli uomini
d’arme la cavalleria del principe, poi risoluto tornò ad affrettare gli
almugaveri che il seguivano a piede, e: «Uccidete, gridò, i cavalli
a’ nemici.» Gli almugaveri con mezze lance, leggieri e lesti, saltano
nel conflitto, tramettonsi negli ordini della cavalleria nemica. Un
d’essi, s’è da credere al Montaner, col giavellotto passava fuor fuora
un cavaliere copertosi collo scudo; un’altro, per nome Porcello, d’un
fendente di squarcina tagliava netto la gamba armata d’un Francese,
e aprì anco la pancia al cavallo. Fecero strage degli animali sì
rabidamente, che molti anco n’uccisero a’ cavalieri di Federigo.
Sdrucita dalle schiere del re in faccia, a destra dagli almugaveri,
la cavalleria di Filippo andò in volta. L’ala sinistra, non ostante
la virtù del conte Ruggier Sanseverino, con poco avvantaggio s’era
affrontata col fior della siciliana nobiltà. La schiera di mezzo,
forte di dugento cavalli napolitani, per l’error di Filippo a occupar
il terreno ov’essa dovea combattere, poco o punto mescolossi nella
battaglia; ma il maresciallo Brolio che la comandava, fu trovato nel
campo, tra i cadaveri de’ suoi Francesi, trapassato da cento ferite.
Filippo combattendo s’avvenne in un Martino Perez de Ros, fiero e
forzuto, che’ l percosse di mazza; e ’l principe gli die’ due punte
tra le squame dell’usbergo; ma il Catalano col suo ferro tentando
invano tutta l’armatura al nemico, il ficcò alfine nella visiera con
leggiera ferita: e indi vennero alla prese; e aggavignati stramazzarono
entrambi giù da’ cavalli. Già Martino lottando, soverchia l’ignoto
guerriero; già alza il pugnale per ispacciarlo, quando questi: «Beata
Vergine! sclamava, son Filippo d’Angiò»; e l’altro soprattenne il
colpo, ma non lentava il principe, e a gran voce chiamava Blasco,
ingaggiato lì presso a finir lo sbaraglio della schiera nemica. Senza
lasciarla, bollente e infellonito, comanda Blasco a due almugaveri:
«Segategli la gola; paghi l’assassinio di Corradino;» e periva Filippo
d’Angiò d’ignobil morte, se in questo non si levava un romore tra i
nostri: «Il nimico, il nimico!» scoprendo i dugento cavalli napolitani
del centro, allorchè si dileguarono in rotta gli squadroni della
dritta; onde Blasco pur pensò a Corradino, sconfitto a Tagliacozzo
mentre tenea la vittoria; e tutta, l’oste siciliana avventossi contro
la novella schiera. Federigo, saputo il pericolo di Filippo, corre a
lui; lo strappa a’ due almugaveri; e fattegli tor le armi, il da in
guardia a’ suoi[287].
Così fu vinta la giornata della Falconarìa. Il conte di Sanseverino
s’arrendè, poichè vide non potersi rattestare i fuggenti. Bartolomeo
e Sergio Siginolfo, Ugone Vizzi, Guglielmo Amendolia e altri nobili,
caddero al pari in poter de’ nostri. Vano romore fu poi quello dei
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