La guerra del Vespro Siciliano vol. 2 - 07

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Giacomo si avventurarono allora a cavalcar il paese più addentro che
non soleano. Seppelo Blasco dai suoi rapportatori, e li appostò in
Giarratana al ritorno di Pietraperzia. Una notte dunque di folgori e
tempesta, mentr’essi, carichi di bottino, venian sicuri al campo, si
trovano avviluppati nell’agguato di Blasco, tra sentieri mal noti;
nè seppersi difendere, nè trovar via alla fuga. Berengario e Ramondo
Cabrera, Alvaro, fratello del conte d’Urgel, con più altri andaron
prigioni; pochi scamparono. E Blasco, tutto lieto della prima vittoria
contro i Catalani, recò a Federigo in Catania le funate de’ gregari,
legati a dieci a dieci, e sciolti, sotto buona scorta, gli uomini di
paraggio[225].
Più segnalato avvantaggio s’ebbe per mare. Saputo l’assedio del castel
di Patti, spiccavansi al soccorso dal campo sotto Siracusa trecento
cavalli capitanati dall’ammiraglio, e venti galee cariche di vivanda
con Giovanni Loria. Dei quali l’ammiraglio, con ardire e fortuna,
cavalcando per lo mezzo della Sicilia nemica, giunse a Patti, e
dileguò l’assedio; perchè i nostri, com’era intendimento di quella
guerra, scansaron venire a giornata: e dato lo scambio al presidio
del castello, stracco o dubbioso nella fede, velocissimo al campo
tornò Ruggiero. Dopo lui giunse a Patti l’armatetta di Giovanni, e
vittovagliò anco il castello, ma non fu felice al ritorno, Perchè
Federigo vedendo qual destro gli offriva la fortuna, di combattere
contro una punta sola delle navi nemiche, sopraccorre di Catania a
Messina; gittasi nelle braccia dei cittadini, scongiurandoli a montar
sull’armata; nè molto penò a infiammarli, sì che avean allestito
sedici galee, quando si seppe da’ riconoscitori l’armatetta catalana
navigar ne’ mari di Mirto, e poi fur viste le prime galee, che
abbandonate da’ venti si sforzavan remigando a valicare lo stretto.
S’odono in Messina squillare le trombe per ogni contrada; corrono
armati al mare giovani e vecchi; il fratello, scrive Speciale, chiama
all’armi il fratello, il padre non respinge i figli che il seguono al
rischio; in tutti è una brama, di perire o pigliar vendetta di cotesti
Catalani, predon venderecci, venuti a portar guerra ingiusta a’ lor
liberatori della vittoria di Roses. Disordinatamente vogan dunque i
Messinesi all’affronto, con tal furore che il disordine stesso non
nocque. Per breve zuffa, senza molto lor sangue, trionfarono de’
nemici, contrariati dal vento; ogni galea messinese ne cattivò una
Catalana; le altro quattro si salvaron fuggendo; ma Giovanni Loria
restò tra i prigioni. Al ritorno de’ vincitori, non furono spettacol
nuovo a Messina, un re piangente di gratitudine che mescolavasi tra
il popolo e combattenti; le donne che traeano agli altari, recando
la offerte votate nell’ansietà del rimirar la battaglia. I prigioni
più notabili furono chiusi in castello; i minori in altre carceri
di Messina e di Palermo, ch’eran Catalani la più parte, e i nostri,
com’è aspro il risentimento dopo dimestichezza e vicendevoli obblighi,
non contenendosi che non aggravassero la prigionia col dileggio e
chiamaronli _garfagnini_[226]. Dopo questo disastro poco giovò ai
nimici la ribellione di Gangi; ove se vennero il traditor Barresi,
Tommaso Procida, e Bertrando de’ Cannelli, catalano, a confortare
la terra a difesa, non tardavano a presentarsi ostilmente con armi
siciliane Matteo di Termini, maestro giustiziere, uom nuovo, ascendente
a possanza nella corte di Federigo, e Arrigo Ventimiglia conte di
Geraci s d’Ischia, d’antica nobiltà e nimistà a parte angioina[227];
i quali trovando ostinati i terrazzani e fortissimo il luogo, davano
il guasto al contado[228]. Ma un altro più grave effetto ebbe il
combattimento del Faro. Perchè arrivate al campo di Siracusa le navi
fuggenti, ristretti a consiglio Giacomo, Roberto e il legato, co’
principali capitani, consideravano la resistenza durissima di Siracusa,
da non vincersi di leggieri: le molte migliaia mancate all’oste[229];
la flotta menomata, ch’essi in paese nemico non potrebbero ristorare,
ma ben i Siciliani la loro, incoraggiati dall’ultima vittoria: e
certo fu tra le principali ragioni, che la guerra andava in lungo, e
gli stipendi della gente catalana correano scarsamente[230]. Perciò,
messo il partito da un Pietro Cornel, assai riputato tra i condottieri
di Giacomo[231], si deliberò la ritirata. Raccolsero sulle navi gli
arnesi e le tende di maggior prezzo; poser fuoco agli alloggiamenti;
e l’armata fe’ prora a settentrione. Lasciati da cinquecento cavalli
e duemila fanti nelle occupate fortezze, il re d’Aragona, pria di
partirsi di Sicilia, sostava a Milazzo, ridomandando a Federigo le
sedici galee co’ prigioni; e promettea che mai più non tornerebbe
a’ suoi danni. E forse, quant’era stato bene una volta non ascoltar
Giacomo, tant’era in questo incontro assentirgli; e Vinciguerra Palizzi
sostenealo caldamente nel consiglio del re, mostrando che a sì grande
utilità potea ben sagrificarsi un po’ di vendetta. Corrado Lancia,
per lo contrario, stigava Federigo ch’usasse la fortuna; che rispinto
ogni accordo, di presente uscisse con l’armata a combattere i Catalani
fuggenti: e il re, che non sapea reggersi fuorchè ad altrui consiglio,
seguì per abitudine quel di Corrado. Data dunque tal risposta ai legati
d’Aragona, Federigo, per novella ira di qualche parola di Ruggier Loria
riportatagli in mal punto, affretta il supplizio di Giovan Loria e di
Giacomo Rocca, condannati nel capo dalla gran corte, a ragione, per
ch’eran rei di tradimento; ma costò poi molte lagrime alla Sicilia.
Intanto infellonito contro il fratello, messa in punto tutta la flotta
in pochi dì, montovvi Federigo, cercando battaglia. Gliela tolsero un
vento fortunale che si levò, e la prudenza di re Giacomo, il quale amò
meglio affrontar la tempesta, che il fratello in quell’ira; non sappiam
se mosso da carità del sangue, o da coscienza delle proprie sue forze.
Perdute due navi tra le isole Eolie, tornossi di marzo del novantanove
a Napoli; ove Bianca gli partorì un figliuolo, ei fortuneggiò tra vita
e morte in breve malattia, e appena sorto dal letto, sopraccorse in
Ispagna ad assicurar le sue frontiere minacciate. Federigo, battuto e
mal concio dalla tempesta, si ricolse nel porto di Messina. Nè andò
guari che Manfredi Chiaramonte ridusse Pietraperzia; il re stesso, con
maggior oste e più duro assedio, Gangi, uscitini a patti i tre baroni
nominati dianzi; ed ebbe alsì le castella occupate dai nimici presso
Siracusa. Quelle della costiera di tramontana, già vicine ad arrendersi
non ostanti i soccorsi di Napoli, instando all’assedio Federigo, furon
liberate dal nuovo passaggio de’ Catalani[232].
Così allenando in primavera del novantanove, ambo le parti ripigliavan
forze al nuovo conflitto. Papa Bonifazio, superbo di questo gran colpo
di scatenare il fratello contro il fratello, sì che scrivealo fra le
principali sue geste in accrescimento del nome cristiano, e vantavasi
delle notti vegliate a macchinarlo, e della moneta gittatavi[233],
raccolse allora sotto il patrocinio della Chiesa il reame di Aragona,
che, assente il re, i vicini nol turbassero; die’ a Giacomo per
la guerra siciliana le decime ecclesiastiche de’ suoi reami, e il
vescovo eletto di Salerno, legato apostolico da maneggiar censure e
perdoni[234]; ma questa fiata men prodigo fu di danari. Smorzava ciò lo
zelo di Giacomo, ch’era cominciato a pentirsi, e tornò ciò non ostante
a Napoli in fin di maggio[235], perchè l’anno innanzi, fidandosi
ne’ sussidi di Bonifazio e di Cario, s’era vincolato a pagar egli i
soldati, e indi i debiti stessi lo strinsero a continuar nel servigio
de’ due potentati italiani, e raddoppiare gli sforzi alla vittoria. Par
che in questo tempo una speranza inaspettata di libertà s’offrisse ad
Arrigo, Federigo ed Enzo, figli di Manfredi, per la necessità in cui
era Carlo II di far ogni piacere del re d’Aragona, o per altro disegno
che non saprebbesi indovinare; e che il disegno o il desiderio dì
Giacomo si dileguassero prestamente per la ragion di stato che volea
sepolti vivi i veri eredi del trono di Sicilia. Dicemmo già ch’essi,
con la sorella Beatrice, passaron dalle fasce alle tenebre e all’oblio
della prigione. Ruggier Loria alla prima vittoria del golfo di Napoli
ridomandò ben la Beatrice, minor sorella della regina Costanza; non
però i tre giovanetti ch’avrebbero conteso alla casa d’Aragona ogni
dritto su la Sicilia, e, se non dalla corte, certamente dal volgo, si
credeano spenti. Carlo II ordinava a un suo cavaliere il venticinque
giugno del novantanove, che li traesse dal castello di Santa Maria del
Monte; li vestisse, li provvedesse di cavalli, e liberi li mandasse
alla corte di Napoli. Ma la storia nulla ci dice di loro; ed è evidente
che i nipoti del gran Federigo, o furon vittima di qualche misfatto, o
la loro liberazione fu contrabbandata, o tosto tornarono alla prigione,
perchè non s’avviluppasse maggiormente con questi altri pretendenti la
gran lite di Sicilia[236].
Il re d’Aragona, che per certo facilmente s’acquetò alla sventura de’
fratelli della madre, seppe cavar moneta il più che potea dallo esausto
erario di Napoli[237]. S’acconciò col suocero che questi gli pagherebbe
il rimagnente delle spese della passata impresa, sottilmente computato
tra i commissari dei due re, per ventimila quattrocento ottantanove
once d’oro, obbligandovi Carlo tutti suoi domini, e specialmente
l’isola di Sicilia, se avvenisse di racquistarla; e si pattuì ancora,
che ripigliando la guerra, lo Spagnuolo avrebbe pronta moneta, nè si
farebbero mancare i sussidi per lo innanzi[238]. Crebbero per cagion
di sì gravi spese le penurie della corte di Napoli; ch’indi in questo
tempo veggiamo, mal sovvenuta da’ popoli con mendicati doni più tosto
che tasse, vender gioielli, e più precipitosamente ingaggiarsi co’
mercatanti toscani che le davano in prestanza, le maneggiavano i
cambi, e, come co’ falliti si fa, toglieansi in pagamento le entrate
più spedite[239]. Portan la stessa sembianza gli stentatissimi
pagamenti alle soldatesche di Giacomo[240]; la sollecitudine della
romana corte a farsi promettere da quella di Napoli il valsente di
tanti poderi, per la massa enorme de’ debiti che si erano ammontati,
di censo alla Chiesa, d’imprestiti dei suoi mercatanti, di sovvenzioni
per la guerra, di sovvenzioni per la dote della figliuola, con che
comperaron Giacomo re d’Aragona[241]. Per questi travagli ancora, re
Carlo vedea nel reame di Napoli prorompere assalti e guerre private,
come avviene ove mal reggasi il freno degli ordini pubblici[242]; avea
a temer sudditi volti a praticare con quegli stessi minacciati ribelli
di Sicilia[243]; era necessitato a porre magistrati con istraordinaria
autorità nelle città più grosse, ove i consueti modi del reggimento
rendeansi inefficaci[244]. Donde furono debolissimi in tal tempo i
nerbi di guerra d’un reame, che dapprima avea armato contro la Sicilia
tanti eserciti, tante flotte; nè per numero d’uomini, nè per mole di
preparamenti fallò che non la domasse.
Ed or fu costretto Carlo ad accattare l’armata dallo Spagnuolo,
nè vi sopperì del suo che poche galee, e remiganti, vittuaglie,
attrezzi, ch’erano il frutto di quegli ultimi disperati imprestiti
di moneta[245]. Poco men tristo fu per vero l’esercito di milizie
feudali, compagnie di venturieri, e in qualche caso fanti armati dalle
città[246]; e pur non ebbero tanta forza che sbarbassero di terraferma
le nostre soldatesche, varie, ribalde, senza disciplina, senza paga.
Non che nelle Calabrie sì vicine a’ nostri aiuti, non valser gli
sforzi di re Carlo contro picciole castella di Principato stesso,
contro le isolette a veggente di Napoli; e fa d’uopo che si volgesse a
procacciar tradimenti, aiutandol Giacomo con la sua riputazione appo
gli antichi suoi condottieri siciliani e spagnuoli, ch’or teneano
per Federigo. Il pro Ruggier Sanseverino conte di Marsico, e quel
Ruggier Sangineto che delle romane virtù imitava bene le snaturate
ed atroci, or mostraronsi peritissimi a servir Carlo nelle novelle
sue vie. Si pensò mandar la flotta catalana sopra Ischia, Procida,
Capri, che teneano il governo angioino in molto sospetto, e sbarcarvi
saccardi di Napoli, Capua, Aversa, che dessero il guasto alle campagne:
e mal ritraesi se la fazione fu dismessa o fallì; certo che le tre
isole resistettero fino alla sconfitta del Capo d’Orlando[247]. A
castell’Abate, sulla meridional punta del golfo di Salerno, che i
nostri per tredici anni avean tenuto con mirabile costanza, andò il
Sanseverino, men a combattere che a trattar tradimento con alcuni
almugaveri del presidio, spagnuoli e siciliani, che passaron di lì
a poco a’ soldi dell’Angioino. Sforzato da questi sleali, o da’
terrazzani, Apparente di Villanova capitan del castello, all’entrar
di marzo del novantanove pattuiva che darebbe la piazza, salve robe
e persone delle sue genti, con immunità larghissime e sicurtà degli
abitatori della terra, s’a capo a trenta dì non fosse soccorso da
Federigo; il quale non potendo mandar alcuno aiuto, s’arrese alfine il
castell’Abate, con vana mostra di venirvi i principi Roberto e Filippo
e grande oste del regno[248]. Sembra che per simil guerra tornassero
all’ubbidienza del re di Napoli, Rocca Imperiale e Ordeolo, terre in
Basilicata e val di Crati, alla cui espugnazione si fece gran ressa.
Tenne fermo il castel di Squillaci[249]. Vendè Otranto il traditore
Berengario degl’Intensi, catalano, passato co’ suoi venturieri a parte
nemica, e rimasovi in dubbia fede, sì che l’imprigionarono; ma poi
gli ottenne mercede Giacomo, amico di sì fatti ribaldi[250]. Altri ne
fallirono a Federigo in questo tempo medesimo; i quali, al par che
l’Intensa, credean colorire il prezzo del tradimento, con farsi pagar
dai nemici i loro stipendi, non soddisfatti dal re di Sicilia, o così
essi diceano, non trattenendosi forse dalla menzogna poichè s’eran
gittati al più vil dei misfatti. Così Giacomo trattò col castellano di
San Giorgio in Calabria, e il volse a parte angioina[251]. Guidone
Spitafora, che reggea per Federigo la terra di Taverna in Calabria,
sedotto da Sangineto, la rese a tradigione, ed ebbesela in feudo.
Per simil premio, il Sangineto ordiva che rendesse al nome d’Angiò
Martorano anco in Calabria. Precipitavano alla corruzione i privati,
tra tanti rivolgimenti e pericoli de’ governi. Precipitava alla
corruzione, per troppa voglia e debolezza, lo stesso Carlo II, cui
dritto animo e pietà cristiana non ritennero, non che dal trattare i
tradimenti delle dette due terre, ma dal por giù ogni pudore, scrivendo
in questi casi ne’ suoi diplomi latini: «Onore è ciò che toglie
molestia;» che suona bisticcio miserabile in quell’idioma, e bestemmia
nel linguaggio dei giusti[252].
Federigo al contrario, sommo magistrato d’un popolo ritempratosi nella
rivoluzione, convocando il parlamento a Messina, cospicuo nelle regie
vestimenta, dal soglio esordiva con la parola del profeta, «Morire in
guerra, pria che mirare i mali del popol tuo.» Vivamente ei dipinse
l’ingratitudine di Giacomo, or vegnente con fresche masnade e con due
principi del sangue d’Angiò, contro il fratello, contro quest’isola che
il crebbe alla gloria, ed egli s’apprestava per gratitudine a guastare
e depredare i campi, a rovinar le città, a versare per vil prezzo
il sicilian sangue. «Or noi, dicea Federigo, salviam le ricchezze
del nostro suolo, antivenendo l’assalto, mentre son intere le forze
del reame; combattiamo in mare questi vecchi nemici, le cui cento
bandiere veggonsi appese ne’ vostri tempi, questi nuovi avversari,
assai più ingiustamente armati contro noi, onde già li sgarammo nella
prima prova, e peggio or li confonderà Iddio. Per noi la ragion delle
genti; noi per la patria e per le case nostre combatteremo!» Troncò
questo parlare la siciliana impazienza, tuonando al solito a gran voce
«Guerra»: e per tutta la nazione si fe’ un gran dire contro il protervo
Giacomo, un chieder arme, uno stigarsi l’un l’altro alle battaglie ed
al sangue. Indi appellati i feudatari e i borghesi, di gran volontà,
frettolosi accorreano a Messina. S’apprestò la flotta, di quaranta
galee: e saputo già in mare il nimico, poichè tutte le genti fur
montate in nave, re Federigo ascese la capitana, riccamente ornata e
dorata, e si spiegaron le vele. Il popol di Messina, affollato intorno
al porto, le accompagnò con evviva, lagrime, voti[253].
Navigava que’ mari nel medesimo giorno la flotta catalana, rifornita
al ritorno di Giacomo, rinforzata di poche galee del reame di Napoli;
che salpò il ventiquattro giugno[254], e portava il re d’Aragona, con
Roberto duca di Calabria, Filippo principe di Taranto e Ruggier Loria:
acceso costui a vendicare il supplizio di Giovanni; i Catalani a lavar
l’onta di quella sconfitta; Giacomo a finir presto le brighe di questa
guerra. Erano alle isole Eolie, drizzandosi alla più vicina costiera
di Sicilia, quando un legno siciliano sottile, uscito a riconoscere,
tornò a vele e a remi a darne avviso alla nostra flotta, che, superato
lo stretto, prendea già Milazzo. Indi i nostri a dare forzosamente
ne’ remi, anelando prevenir lo sbarco; ma il tardo avviso, o i venti,
o maggior arte dell’ammiraglio nemico, fecero che già guadagnati i
lidi di San Marco, alla foce della fiumara Zappulla, gittate avea le
ancore, rivolte le prue al di fuori, in ordine di combattere, quando
la siciliana flotta, al girare il capo d’Orlando, l’avvistò. Scoppiava
dalle nostre ciurme un impeto d’allegrezza all’aspetto del nemico;
fean suonare infino a’ cieli il nautico grido di guerra _aur, aur_,
tolto un tempo da que’ Catalani medesimi; e a testa alta, infelloniti
e bramosi, senz’ordine arrancavan sovr’essi. Potè Federigo a stento
por freno a questa temerità, tanto più cieca, quanto in brev’ora si
aspettavan dai mari di Cefalù otto galee di val di Mazzara con Matteo
di Termini; e ’l giorno se n’andava; le navi nimiche si vedean legate
sì salde alla spiaggia e tra loro, che non la flotta veneziana e
la genovese congiunte alla nostra, diceano i pratichi, l’avrebbero
sforzato giammai. A’ risoluti comandi del re, le ciurme ubbidirono,
non s’acquetarono; e proverbiavanlo: «Che fa? che dorme? scordò chi
siam noi? Invilì Federigo; o riguarda il fratello, e vuoi torcerlo di
mano!» Così gonfi da tanti anni di fortuna in guerra, dandola alle lor
braccia sole, non curanti s’avessero ammiraglio, o il sol nome, nè dove
fosse il gran Loria, tardava loro mortalmente quella notte di state.
Placidissima sorrise nel firmamento, mentre negli animi dei mortali
bollivan tante ire, tanti pazzi immaginari di combattimenti, glorie,
acquisti, vendette, paure. Il cauto Giacomo fe’ sbarcar cavalli e
bagaglie e quanti pareano men validi al combattere; chiamò i presidi
delle castella; e la mattina a dì, sulla spiaggia, parlando d’alto tra’
suoi baroni, esortava le genti. Dicea dell’ubbidienza alla santa sede;
de’ lor maggiori combattenti sempre per la fede; s’ei balenò alquanto,
s’era poi ravveduto; ammonito non potersi salvar l’anima del genitore,
che sarebbe cruciata da atroci flagelli, finchè non si rendesse la
Sicilia: onde tra la pietà del padre e del fratello, la prima avea
vinto. «Voltici al buon sentiero, aggiugnea, quante offese non patimmo
da questa indomabil genìa di Sicilia, che da noi apprese a combattere!
Or eccola; minor di numero, minor di legni, e pur invasa di cotanta
baldanza contro gli uomini e Dio! Gastigatela, Catalani!»
Indi con tutta l’oste montò sulle cinquantasei galee ordinate in una
linea di battaglia, con le ali distese, da soverchiare la minor linea
nostra; e nel mezzo stette la capitana, col re e i figli dell’Angioino.
A dirimpetto le s’era locato Federigo, standogli a dritta diciannove,
a manca venti galee; e comandava alla poppa della sua nave un Bernardo
Ramondo, conte di Garsiliato; alla prora Ugone degli Empuri, fatto
conte di Squillaci; nel mezzo guardava lo stendardo reale Garzia di
Sancio, con un gruppo di guerrieri fortissimi. Erano d’ambo le parti,
noti, amici, congiunti; capitani due fratelli; come in guerra civile.
Perciò più rabbiosamente, di qua di là mossero all’affronto, il sabato
quattro luglio milledugentonovantanove, poco appresso il sorger del
sole. Alle spalle de’ nemici la riva di San Marco, a dritta il capo
d’Orlando; venian di fuori i nostri. S’udì squillo di trombe, fracasso
di grida, tonfo di remi, e in un attimo sparve il mare di mezzo.
Con le armi da gitto trassero gran pezza, e non a voto. Ma Gombaldo
degl’Intensi, giovin feroce, vago di gloria, e fors’anco di vendicare
il suo nome, deturpato dal fratello traditor della Sicilia, sdegnando
quel combattere da lungi, tagliata la gomona che il legava alle altre
galee, la nimica fila investe. Due navi gli furo addosso dalle bande,
una da prua; dan di cozzo, vengono all’abbordo: e Gombaldo, con
bell’ammenda della temerità, contro tal pressa difendeasi, ancorchè
ferito, e fieramente ributtava i nemici. Strettasi pertanto la mischia
per tutta la fronte, incominciò più micidial furia di sassi e dardi
vibrati da presso: le navi ad urtarsi di prua, di costa, a dar co’
remi su i remi dei nemici; ostinatamente infino alla sesta ora del dì,
con molto sangue, senza avvantaggio d’alcuno, si combattè. Federigo
cercava Giacomo; estremo orror si vedea in questa battaglia, se non
si trovavan di mezzo le altre navi, ingaggiate e accanite tra loro,
che tolsero di riscontrarsi a’ fratelli. Sotto la sferza del sole, nel
caldo del luglio, cocente quel giorno oltre l’usato, s’accese ne’
combattenti da fatica, da paura, da rabbia, dal perduto sangue una
rabida sete. Nè vino, scrive Speciale, nè acqua la spegnea. Gomabaldo,
trafelante, bruciato, date tutte le forze vitali in tante ore di
bollente battaglia, cercò un attimo di riposo, s’adagiò sullo scudo, e
spirò. L’ardire di costui preparava, la sua morte cominciava la rotta.
Guadagnano i nemici alla fine la nave di Gombaldo: avviluppate tra loro
con le gomone, co’ remi, mal s’aiutavano le altre nostre galee; quando
si sentiron alle spalle ferir da sei navi ordinate a ciò da Ruggiero.
Allora, perduta la speranza del vincere, allenarono nella difesa;
soprastettero un istante; sei galee diersi alla fuga.
Federigo, dicon le istorie, come vide piegare i suoi, risoluto a
morire, chiedea di Blasco, che fianco a fianco spargessero il lor
ultimo sangue; alla ciurma gridava: «Non restargli altro che la vita
a dare per lo popol suo;» e per vero gittavasi disperatamente tra le
navi nemiche, se non che d’un subito, vinto anch’egli da passione,
caldo, fatica, stramazzò tramortito sulla tolda. Estrema ansietà allor
nacque ne’ suoi più fedeli: che farebbesi della persona del re, mentre
in ogni attimo era vita o morte? Il conte di Garsiliato pensava di
rendere a’ nemici la spada di Federigo; Ugon degli Empuri gli die’
sulla voce; comandò di vogare a Messina; e per disperata forza di
remi, la capitana involossi ai nemici, e con essa dodici altre galee.
Blasco, che combattea non lasciando mai degli occhi il diletto suo
principe, come vide fuggir la nave, posposto a lui ogni cosa, comanda
a’ remiganti che il seguano, al suo alfiere che ravvolga lo stendardo;
e l’alfiere, rispondendogli che non vedrebbe mai Blasco Alagona lasciar
la battaglia, die’ del capo rabbiosamente sull’albero della galea, e
cadde semivivo; la dimane spirò. Ferrando Perez il suo nome. Seguirono
altri strani casi nella sconfitta. Vinciguerra Palizzi, testè creato
gran cancelliere del regno, in cambio di Corrado Lancia che fu sì
avventuroso da morire innanzi questo misero giorno[255], Vinciguerra,
per antico rancore cercato a morte dall’ammiraglio, sopraffatto da
quattro galee, dopo bella difesa, saltò sopra una barchetta vicina
a caso, e rifuggissi ad altra nave. Così ancora Alafranco di San
Basilio e altri nobili, gittatisi a nuoto. I più, soverchiati dal
numero, pugnarono con cieco furore, finchè saliti sulle navi i nemici,
incominciò un macello. Perchè l’ammiraglio con sinistra voce urlava:
«Vendicate Gian Loria!» e nobili e plebei immolati cadeano, con mazze,
coltelli, mannaie, o scagliati in mare: tanto che sostarono i soldati
per pietà; e l’ammiraglio pure a comandar sangue, a percorrere le
prese navi, più atroce contro i Messinesi, dei quali fu grandissimo
lo scempio. Federigo e Perrone Rosso, Ansalone e Ramondo Ansalone,
Jacopo Scordia, Jacopo Capece e altri nobili di Messina perironvi;
poi per istanchezza si cominciò a far prigioni, a dar di mano al
bottino. Pier Salvacossa, fuggitosi non a Messina col re, ma ad Ischia,
vilmente cercò la grazia de’ vincitori con render l’isola, ch’avea tre
anni prima difeso con singolare virtù[256]. Diciotto galee andaron
prese; da seimila de’ nostri morti nella battaglia, o dalla rabbia
de’ vincitori. Questa fu la giornata del capo d’Orlando; perduta per
incapacità di cui comandava, e minor numero e temerità de’ combattenti:
ed allora la fortuna per la prima volta mostrò, lamenta Speciale
trasportato da amor di patria, potersi vincere in naval battaglia i
Siciliani, che per diciassette anni, in guerre diverse, in orribili
scontri, e su lontanissimi liti stranieri, avean riportato senza
interruzione incredibili vittorie[257]. Gli storici guelfi, credendo
sparger vergogna su i Siciliani, perdenti sì ma con onore poco men
che di vittoria, portan rovinate le sorti della Sicilia, tolta ogni
difesa, certissimo il soggiogamento, se non che Giacomo nol volle; e
a lui appongon anco che chiudesse gli occhi alla fuga di Federigo:
non probabili cose, anzi non vere, come il seguito degli avvenimenti
dimostrerà.


CAPITOLO XVII.
Giacomo, lasciato Roberto in Sicilia, tornasi a Napoli, indi in
Catalogna. Ambo le parti s’apparecchiano a continuare la guerra in
Sicilia. Dansi a Roberto varie città; è presa Chiaramonte; altre
resistono. Tradimento di alcuni cittadini, che chiamano in Catania i
nemici. Effetti di questo nell’isola. Nuovi passi di papa Bonifazio.
Sbarco del principe di Taranto. Battaglia della Falconarìa, ove egli è
sconfitto e preso. Inganno e combattimento di Cagliano. Luglio 1299,
febbraio 1300.
Per molto sangue de’ suoi e vergogna e rimorso, seppe amara a Giacomo
questa vittoria. Al far la rassegna delle genti catalane, scorgendo
tanto numero d’uccisi, non meno gregari che condottieri e nobili,
sclamava: non aver vinto, no, l’infelice giornata. Ma recatigli a
funate i nostri prigioni, chinò vergognoso la fronte, nè seppe fare
risposta a un vegliardo, che spiccatosi dalla torma, scrive Speciale,
squadernò in volto al re quante più pungenti rampogne avean saputo
ritrovargli le siciliane lingue fin dal suo primo abbandono; e «A
te non chieggiamo, sclamava, il sangue che versammo per mantenerti
sul trono, che rifar tu nol puoi, nè il vorresti; ma renda la nazion
catalana, sì altera di libertà ed onore, renda i siciliani navigli
suoi liberatori, che la tempesta affondò nel mar del Lione!» Le
quai parole, o fosser vere, o immaginate dallo storico a ritrar ciò
che fremea l’opinion pubblica, peggio or ferivano gli animi de’
Catalani, per cagion del poco utile ch’e’ traean dalla colpa. E in
vero dal guerreggiare in Sicilia, Giacomo avea tutto il carico, gli
acquisti casa d’Angiò: e anco gli stipendi correan male, per penuria
di Carlo, slealtà di Bonifazio; il quale avea ben sovvenuto danari
per l’armamento, ma quando gli parve lanciato Giacomo pell’arena, ei
chiuse la borsa[258]. Donde il re d’Aragona, che in accorgimenti
non era secondo a niuno, si cavò lesto di briga. Ripassa in Calabria
a tor le milizie del reame di Napoli, raccolte a Nicotra[259]; le
traghetta in Sicilia; e adunati i primi del l’oste, con Roberto e
Filippo, apertamente lor dice: aver compiuto le promesse al sommo
pontefice, abbattuto le forze della Sicilia; ora veder sì gagliardo
l’esercito angioino, che Roberto con l’ammiraglio agevolmente
fornirebber l’impresa; quanto a sè, necessità lo stringea di tornarsi
in Catalogna. Il che forse non spiacque a Roberto, bramoso di gloria.
Il re d’Aragona dunque, da pratico mercatante di guerra, fa il cambio
de prigioni siciliani coi suoi dell’altra stagione; que’ che gli
soverchiano, lascia a Roberto; e sì le castella occupate, e molti
suoi guerrieri di nome; ed ei, con Filippo principe di Taranto, fe’
vela per Salerno[260]. Invano re Carlo volle ingaggiarlo a restare,
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