La guerra del Vespro Siciliano vol. 2 - 05

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giustizieri, deputati a conoscer le cause criminali per tutta l’isola,
fuorchè in Palermo e Messina, che avean privilegio di speciali
magistrati[149]. Sonvi ancora statuti ch’or diremmo di polizia, tra i
quali si legge l’ordinamento de’ sortieri, ossia guardia cittadina,
ne’ comuni demaniali, e che fosse multato d’un agostal d’oro tutt’uomo
trovato per le strade senza lume, appresso il terzo tocco della
campana[150]. Si diè maggior passo in altra parte d’amministrazione
civile, decretando l’unità di peso e misura, se non per tutto il
reame, ben in ciascuna delle due regioni in cui divideasi la Sicilia,
a levante e a ponente del Salso[151]; e che nella prima si adoprassero
il tumolo di Siracusa e il quintal di Messina; nella seconda que’
di Palermo[152]. Quanto innanzi sentivano in economia pubblica i
Siciliani di quel tempo, si scorge altresì dalla legge ch’obbligò le
chiese a vendere o concedere ad enfiteusi, entro un anno, i poderi ad
esse pervenuti per lasciti o quantunque altro modo; talchè la incuria
delle mani morte, come si chiamano, non nocesse all’industria del
paese. Gli ecclesiastici, su i beni di lor patrimonio privato, andaron
soggetti, come ogni altro cittadino, alle pubbliche gravezze: e si pose
più giusta proporzione tra i contribuenti delle collette in ciascun
municipio, che altra riforma non restava, dopo quella di Giacomo,
nell’ordinamento delle entrate pubbliche[153]. S’aggiunse che gli
uficiali dell’erario fosser tutti Siciliani, capaci, e obbligati ad
esercitar gli ufici in persona: e stabilironsi i modi e i tempi in cui
rendessero ragione di lor portamenti[154].
Ma volgendosi nel terzo libro alla feudalità, s’ingaggiava a
riconcedere i feudi che fossero caduti nel demanio regio; e più
gratificava a’ baroni derogando alle leggi dell’imperator Federigo,
anzi a tutt’ordine feudale, col permetter che si alienassero i feudi,
pagata sì la decima al fisco, con lievi altre condizioni. Confermò,
anzi estese alquanto, i capitoli di Giacomo per la successione de’
collaterali, e i discreti termini del militar servigio; migliorò le
condizioni de’ marinai dell’armata[155]. Ebbe dunque la nazione,
dritto di pace e di guerra e di dar leggi, moderate gravezze, più
spedita e benigna amministrazione di giustizia, sicurezza pubblica,
favore a’ commerci e alla agricoltura: nè merita poca lode, secondo i
tempi, quella legge dell’alienazione de’ feudi, che, qualunque fosse
stato il suo scopo, rendea più libere le proprietà. Federigo giurò
solennemente l’osservanza di queste costituzioni; dienne perpetuo
attestato nell’ultimo capitolo. Poco appresso confermava ai Catalani
mercatanti in Sicilia i tre privilegi di Giacomo; rendea comuni a tutti
sudditi spagnuoli del fratello que’ dati specialmente ai cittadini di
Barcellona. Talmentechè è una mirabile somiglianza tra i primordi
delle due dominazioni di Giacomo e di Federigo, per trovarsi ambo nelle
medesime necessità in Sicilia, e sperar dall’interesse privato dei
sudditi in Aragona, gli aiuti che quindi lor contrastava l’interesse
del re[156].
Poi si volse Federigo alia guerra. Tenne in Palermo l’ultima
adunanza di quel parlamento; ove sedendo gli ottimati a destra e a
manca del trono, a fronte i sindichi de’ comuni, il re con modesta
parola, chiamando ogni suo potere da Dio, aringava; conchiudendo
che rimbaldanziti i nimici, strignenti d’assedio Rocca Imperiale in
Calabria, era uopo incalzarli per ogni luogo in terraferma; per pochi
giorni più che si sudasse sotto le armi, i Siciliani asseguirebber
premio di ferma pace; ei già li vedea azzuffantisi, vittoriosi,
bagnati di novello sangue nemico. I quali detti fur tanto ne’ commossi
animi, che non aspettato il fine, non serbato ordine o modo, prorupper
tutti in un grido di: «Guerra al nemico, guerra per la libertà;»
e deliberossi per acclamazione. Il popolo applaudendo con maggior
foga, chiedeva le armi; agguerrito, non stanco in quattordici anni di
guerra[157].
Cavalcando il re per Messina, lo stesso amore il festeggiò a Polizzi,
Nicosia, Randazzo, e per ogni luogo; e più a Messina, gareggiante con
Palermo, allor solo in virtù. Quivi per lungo tratto fuor la città si
faceano incontro al principe, con bandiere e pennoncelli e signorile
abbigliamento, gli uomini di legge, onoratissimi in quel culto popolo;
i nobili vestiti di seta, su cavalli ricoperti a drappi di oro; il
clero venia salmeggiando; più presso alla città si trovaron brigate
di matrone e donzelle, ricchissime di vesti, di gemme, di profumi
orientali. Entrò Federigo per le strade parate e sparse di fiori; sotto
un pallio portato da nobili uomini; precedendo un araldo che gridava le
sue lodi; rispondendo il corteggio e il popolo; e gli stessi bambini,
dice lo Speciale, facendo plauso in braccio alle madri. Smontato
al palagio, la madre, la sorella che sì l’amava, la prima volta il
salutarono re. Confermò ai cittadini messinesi la libertà di mercatare
per tutta la Sicilia portando o traendo derrate, ch’era gran privilegio
tra’ sistemi proibitivi di quell’età, e loro l’avea dato l’imperador
Federigo, l’ultim’anno del secol duodecimo[158]. Loria allestì l’armata
con mirabile prestezza in quest’alacrità della nazione. Nè andò
guari che il re, spiegando la prima volta in guerra, l’insegna delle
sveve aquile nere in campo bianco inquartate con l’addogato giallo e
vermiglio di casa d’Aragona, passò lo stretto, con fortissim’oste,
e fu accolto in giubilo a Reggio[159]. Perchè questa e altre città
di Calabria eran rimase in fede della nazione siciliana, non ostanti
gli ordini di Giacomo. Più se ne eran perdute; a ridur le quali non
bastava, per aver poche genti, il pro Blasco Alagona; ma le tenea in
sospetto, e stringeva Squillaci.
Su questa marciò dunque Federigo, poich’ebbe fatta la massa a Reggio. E
al primo scorger la postura di Squillaci, domanda s’abbia altre acque
che delle due riviere a pie del colle; e sapendo che no, fatte venir
le genti dell’armata, le sparge sulla ripida costa che dalla città
pende sul fiume, occupa intorno tutti i passi. Dondechè i terrazzani
sitibondi, brucianti, che guardavan dall’alto la limpida corrente
del rivo, e lor era vietata, disperatamente uscirono ad azzuffarsi
co’ nostri; ma rotti da Matteo di Termini, e rincacciati entro le
mura, per non trovare altro scampo al morir dalla sete, s’arresero a
Federigo[160]. Lasciata Squillaci, ei sostò alquanto presso Rocchella,
per deliberare i movimenti della guerra contro il conte Pietro Ruffo,
che s’era afforzato in Catanzaro, ubbidito alsì da tutta la provincia.
Quivi s’accese tra i nostri capitani una lagrimevole discordia.
Perchè Ruggier Loria, grandissimo di fama, d’avere e d’orgoglio,
pensava troppo d’essere primo o solo sostegno del nuovo principato:
e allettandolo le arti di Giacomo e de’ nemici, che profferian alto
stato a lui e a Giovanni di Procida e a tutt’altri stranieri gittatisi
nella siciliana rivoluzione, tanto teneva ormai l’ammiraglio per
Federigo, quanto questi e ’l reame di Sicilia si reggessero del tutto
a sua posta. Per le medesime cagioni gli altri baroni, valenti anco
in guerra, invidiavan profondamente l’ammiraglio, ed eran più grati
a Federigo. A questi umori non mancò presta occasione. Volea il re
oppugnar Catanzaro, avvisando che con essa cadrebbe tutto il paese:
Loria, al contrario, congiunto di sangue col conte, lo dipingea
fortissimo; però si lasciasse stare, s’occupasser le altre facili
terre, Catanzaro si avrebbe per fame. In tal disparere, gli altri
capitani non osavano in consiglio dir contro Ruggiero, perchè non li
conficcasse di rimbrotti in qualche sinistro; non voleano lasciar
passare non malignata la sua sentenza; ma con gesti e mormorar tra i
denti, fean peggio che con parole. Federigo colse il cenno, e risoluto
comandò di marciare su Catanzaro; l’ammiraglio apprestasse le macchine
per lo assedio. Ed egli tacque e ubbidì.
Messo il campo al castello, parve a Federigo assaltarlo dal Iato ov’era
fabbricato sul piano; e volendo colmar di tronchi e fascine il fosso,
con molto ardore egli stesso conducea le genti al vicin bosco; di sua
mano dava con la scure per gli alberi; talchè fornita l’opera in poche
ore, grande massa di legname si ammontò sullo spalto. S’udiron tutta
notte squillar di qua e di là le trombe; stettero in arme gli assediati
per timore, i nostri per impazienza del saccheggio, che promettea il
re. Al far dell’alba, appena dato il segno, appianato in un attimo
il fosso, le genti di mare leste scalavano. Ma un dispettoso comando
le arrestò. Il conte, con l’acqua alla gola, chiama l’ammiraglio,
mescolatosi, com’ei solea, tra i combattenti; gli offre darsi a patti,
raccomandandosi a lui per lo comun sangue: e l’ammiraglio, fattogli
cenno a tacersi, che non udissero i soldati, comandò di far alto, prima
a suon di tromba, poi con voce e minacce egli stesso, galoppando qua
e là sotto i muri; perchè i nostri, per tener già la vittoria, non
sapeano spiccarsene. Corse indi Loria al re; n’ebbe una prima ripulsa,
ma non restandosi per questo, e tirando seco altri baroni, tanto disse
che, fremendone tutta l’oste, impetrò alfine l’accordo: si rendesser
Catanzaro e le altre terre della contea, non avendo soccorso dal re di
Napoli tra dì quaranta. Con giuramento e statichi il conte ratificò.
Entrò nella tregua tutta la Terra Giordana, fuorchè Sanseverina,
renduta ostinatissima alla difesa dall’arcivescovo, per nome Lucifero,
che per lo suo gregge, Speciale dice, si giocava l’anima; e non ostia,
ma umani corpi, non mistico vino, ma uman sangue offriva al Cielo.
Federigo accampossi, per l’amenità del luogo, sotto Cotrone, ingaggiata
dall’ammiraglio ne’ medesimi patti di Catanzaro[161]. E tenendo
appresso di sè dodici galee, mandò l’ammiraglio col rimagnente della
flotta e trecento cavalli su’ confini di Basilicata, a sovvenire Rocca
Imperiale, duramente battuta dal conte Giovanni di Monforte[162].
Col solito ardire quivi sbarcò Ruggiero; avvicinossi al campo nemico;
poi, accozzate le forze con frate Arnaldo de Poncio, prior di
Sant’Eufemia, che combattea in quelle regioni per parte aragonese,
vittovagliarono la rocca una notte, con sacchi di grano portati in
groppa da’ cavalli, in ispalla da’ pedoni, in improvvisa fazione sugli
assedianti. Di lì l’ammiraglio percote d’un altro assalto Policoro,
presso alla foce dell’Acri; vi prende i viveri dell’oste di Monforte,
e cento cavalli che stavano a guardia. E tornavane al campo di Cotrone
tutto lieto, se un caso non facea divampar tra lui e il re la rattenuta
ira[163].
Perchè durante la tregua, i terrazzani di Cotrone, venuti un dì alle
mani co’ Francesi del presidio per private cagioni, e avutone il
peggio, chiaman soccorso dal nostro campo, di là ov’era attendata la
fiera gente delle galee; la quale, rapite in furia quelle armi che il
caso offrì, salta dentro, rinnova la zuffa, e rifuggendosi i Francesi
nel castello per postura fortissimo, entravi rinfusa con essi, pone
ogni cosa a sacco ed a sangue. Intanto levandosi il romore nel campo,
Federigo che meriggiava, desto dal sonno, così com’era senz’arnese,
afferrata una mazza, lanciossi a cavallo, spronò al castello; e il
trovò sforzato, e i suoi ch’uscivano col bottino. Ond’ei crucciosamente
proruppe a rampognarli della rotta fede, nè si ritenne dal trucidar
di sua mano i men presti a fuggirgli dinanzi. Poi comandò fosse resa
tutta la preda; pagato dalla cassa regia ciò che non si rinvenisse;
dati due prigioni, francesi per ognuno morto nella mischia: e fe’
scusa della tregua violata, ma non rendè la fortezza. Fe’ imbarcare
il capitano francese, Pietro Rigibal, con tutto l’avere de’ suoi, e
lettere drizzate all’ammiraglio, narrandoli il successo, e commettendo
ch’avviasse Rigibal coi renduti prigioni al re di Napoli, poichè altra
riparazione non restava.
Ma l’ammiraglio all’intendere il caso, infellonito diessi a gridare:
«Son io, son io la cagione!» e affrettatosi al campo, assai
superbamente parlava a Federigo, delle sue geste, dell’incontaminata
fede guerreggiando fin co’ barbari e gl’infedeli; questa esser macchia
incancellabile sul suo nome. «Mai più, conchiuse, mai più non sarò
ludibrio di chi sta e susurra perfidi consigli agli orecchi del re.
A man giunte, dalla rocca di Castiglione, vedrommi il fine di questa
guerra. E tempo verrà che i ribaldi calunnianti or me in corte,
tremeranno in faccia al pericolo.» Federigo, contenendosi appena, con
un sogghigno gli rispondea: non ricantasse que’ servigi, noti e pagati
a soperchio: essersi fermati a nome del re i patti di Cotrone, al re
toccava mantener la sua fede; e a tutta possa aveal fatto; ma non
saper soffrire l’orgoglio; andasse pur via dall’oste a sua voglia: e
montato a cavallo, il piantò. Corrado Lancia, fidatissimo di Federigo,
cognato dell’ammiraglio, tramezzatosi a riconciliarli, salvò almen le
apparenze. Sì che per questa volta l’uno e l’altro si davano a sfogar
sopra i nimici gli animi grossi e tempestosi[164].
Prosperamente avanzavano in terraferma le armi nostre. Avuti i
messaggi del conte di Catanzaro, re Carlo, esausto di danari, dopo
molta deliberazione, avvisò munir le città marittime di Puglia,
senza affaticarsi a impotenti aiuti nelle Calabrie; onde scorsi i dì
quaranta, vennero in poter di Federigo tutta la contea di Catanzaro e
la Terra Giordana. Il re con l’esercito, Loria con l’armata, venuti in
questo sopra il conte di Monforte, lo fean levare dall’assedio di Rocca
Imperiale. Poi l’uno, cavalcando ambo le Calabrie vittorioso, piegò
agli accordi il feroce arcivescovo di Sanseverina; occupò, dato il
guasto al contado, Rossano fortissima di sito, e le terre d’attorno; e
inanimito da’ successi, minacciava le province di sopra. L’ammiraglio,
valicato il golfo di Taranto, assaltava Terra d’Otranto. Dapprima
innoltratosi sull’asciutto fino a Lecce, d’improvviso assalto di notte,
la sorprese e depredò. Rientrato in nave, presentasi ad Otranto;
senza fatica se n’insignorisce, mentre gl’irresoluti cittadini nè
difendeansi, nè venieno a’ patti; e perchè gli parve comodo il porto,
la rafforzò di torri e di mura, lasciovvi tre galee e scelta gente di
presidio[165]. Dopo ciò tentava un colpo su Brindisi.
Ma perchè vel prevennero secento cavalli francesi, Ruggiero, posti
in terra i suoi, trinceossi alla Rosèa con pali e corde intorno, a
sua usanza; e non potendo assaltar la città, dava il guasto al paese.
Avvenne un dì, che conducendo egli stesso la cavalcata infino al ponte
di Brindisi, i fanti che ’l seguiano, spinsersi oltre il fiume in cerca
di verzure e più limpid’acque, in un luogo che l’ammiraglio non tardò a
riconoscer atto ad insidie: ond’ei sopra un ronzino corse lor dietro,
gridando che tornassero. Ed ecco una torma di cavalli francesi,
uscita dall’agguato, a corsa drizzarsi al ponte. Voltò la briglia
Ruggiero; a mala pena guadagnò il ponte; gridò che gli recassero il
suo destrier di battaglia; e ansando facea montare gli uomini d’arme:
perchè nella difesa del ponte stava la salvezza de’ suoi, sparsi e
pochi incontro al grosso stuolo nimico. Già il capitano, Goffredo di
Joinville, con un altro nobil guerriero, trasvolavan oltre l’arco
di mezzo; eran perduti i nostri, se Peregrino da Patti e Guglielmo
Palotta, cavalieri siciliani, non si gittavan soli sul ponte. Costoro
a’ due Francesi fecer testa, indi a tutta la torma accalcatasi allo
stretto varco: bagnati di sangue da capo a piè, coperti di ferite,
tennero il ponte finchè l’ammiraglio sopravvenne co’ suoi, gridando:
«Loria, alla riscossa!» Allora si strinse più aspra la zuffa. Sotto i
colpi delle spade e delle mazze volavano, scrive Speciale, in pezzi le
armature; fronte con fronte, petto con petto, cozzavano i guerrieri.
L’ammiraglio e Joinville per caso affrontansi: e alza questi la mazza
per ferire; Ruggiero al tempo, gli vibra una punta tra corazza ed elmo;
ondechè il Francese, avvampando di vendicarsi, immerge gli sproni
ne’ fianchi del cavallo per gittarlo addosso al nemico; e gittossi a
morte, perchè l’agil animale, spiccato un salto, precipitava giù dal
ponte. Nè finì la tenzone a questo; dura e ostinata si travagliò,
finchè i balestrieri siciliani, bersagliando la massa de’ nemici
serrata sul ponte, laceraronla, diradaronla e volserla in fuga. Molti,
fitti nella melma del fiume, restarono uccisi o prigioni; i fuggitivi
non inseguì Loria co’ suoi, laceri e ansanti poco men che i nimici,
per la disuguale battaglia. Indi non s’ebbe dalla vittoria altro
frutto[166]. Ma la virtù di Peregrino da Patti e di Guglielmo Palotta,
che ricorda per la somiglianza del caso, illustri esempi antichi e
recenti, degnissima è della nostra memoria. Speciale la registrò nelle
istorie siciliane; poi l’hanno obbliato i più, perchè tutto quaggiù,
anche la gloria, vien da fortuna. E maggior mancamento mi sembra che
nel toccar questi fatti, pochi scrittori e vagamente, s’innalzavano
alla considerazione politica, che travagliandosi in guerra i due reami
di Sicilia e di Puglia, il primo vinse per lo più il secondo, ch’è
tanto maggiore di territorio: e nella state del novantasei, non che
difendersi, conquistava tutto il paese dalla punta di Reggio al capo di
Roseto[167]; infestava Terra d’Otranto; e più addentro portava le armi,
se non ch’entrovvi di mezzo l’interesse degli altri potentati d’Europa.
Perchè papa Bonifazio, vedendo torcer Federigo dalle sue vie, più si
ristrinse con Giacomo, per lanciarlo contro il fratello. E prima a
ventuno gennaio del novantasei, col titol sonante di gonfaloniere,
ammiraglio e capitan generale della santa sede, condusse il re di
Aragona ai suoi soldi; da combattere in Terrasanta, e quest’era il
pretesto, o altrove, e quest’era l’effetto, contro qualunque nimici e
ribelli della Chiesa, con sessanta galee, armate da lui, pagate dal
papa; e n’avesse Giacomo la metà della preda, l’investitura di Corsica
e di Sardegna, del rimanente gli acquisti fossero della Chiesa o degli
antichi signori cristiani[168]. Poco appresso il sollecitò Bonifazio
a venir, com’avea promesso, a Roma[169]. E punto al vivo da Federigo,
che tentava in questo tempo gli animi dei Napolitani, praticava con
usciti lombardi e toscani, e fin co’ romani Colonnesi già disposti a
ribellione contro il papa, più gravemente scaricò i colpi spirituali il
dì dell’Ascensione; cassò l’atto del coronamento del re di Sicilia;
scomunicato lui, co’ popoli e loro amistà; dato termine a pentirsi
il dì di san Pietro, nel quale rinnovò le maledizioni[170]. Intanto
spandea le indulgenze a chiunque portasse armi contro Sicilia; aiutava
Carlo con le decime ecclesiastiche del regno e di Provenza[171].
Talchè il re di Napoli, non ostante que’ rovesci, volendo ritentar la
guerra, o farsen pretesto a cavar moneta da’ popoli, bandi general
parlamento a Foggia, pel dì venti settembre; disse di nuova impresa
sopra la Sicilia[172], ingiungendo ai feudatari che venissero in
armi o pagassero[173]. Giacomo s’apprestava anch’egli al combattere;
ma, ritenuto da pudore, e dalla briga che davangli in casa le guerre
di Murcia e Castiglia[174], volle tentar prima nuovi ammonimenti a
Federigo.
Al cader della state, guerreggiando Federigo in Calabria, giunsegli
messaggio del re di Aragona Pietro Corbelles, de’ frati predicatori,
parlando blandizie di pace; e finiva con minacce, che Giacomo, fatto
or capitano della santa sede, non starebbe in dubbio tra quella e il
proprio suo sangue; nel petto della madre, nelle viscere de’ figli
immergerebbe la spada a’ comandi del santo pontefice; aprisse pur gli
occhi Federigo, a ciò il fratello il richiedea d’un abboccamento ad
Ischia. Ma Federigo, nulla mosso, palesava l’ambasceria ai suoi baroni;
e vistili balenare, con generose parole li confortò. Riferissi del
negozio al general parlamento, secondo i freschi patti fondamentali;
e perchè pensava che troverebbevi spiriti più generosi. Lasciato
dunque luogotenente in Calabria con giuste forze, Blasco Alagona, ei
tornato di fretta in Messina, dà giorno e luogo al parlamento; richiama
Loria con l’armata[175]. Costui pe’ narrati sdegni, o perchè pareagli
disperato il caso di Federigo, avea già in Terra d’Otranto ascoltato
pratiche de’ nemici. Bartolomeo Machoses di Valenza, inviatogli da
Giacomo in agosto, sotto colore d’ingiunger che risegnasse il feudo
di Gerace in Calabria, l’avea indettato forse a tradigione: e anco si
sospettò che se ne fossero allacciate le prime fila, fin dal tempo
della esaltazione di Federigo, quando i baroni aragonesi leali a
Giacomo si partiron di Sicilia. Altri messaggi in tutto questo tratto
il re di Aragona avea spacciato alla madre, allo stesso Federigo,
alle città di Palermo, Messina, e altre prime dell’isola[176]. Talchè
l’ammiraglio, tornato immantinente a Messina, e abboccatosi col frate
spagnuolo che stava ad aspettar la deliberazione, non fu senza speranza
di avviluppare il vicin parlamento, che si calasse agli accordi.
Convenuti in Piazza, di mezz’ottobre, i baroni e’ sindichi delle
città, scopertamente diessi ad aggirarli, far partigiani, sparger
terrori e promesse. Ma Vinciguerra Palizzi e Matteo di Termini, con più
caldo s’adoprarono per lo contrario effetto; speser la notte innanzi
l’adunata, girando qua e là a scongiurare che non si lasciasse partir
Federigo. Indi forte si combattè in parlamento.
Esposta l’ambasceria, si dava liberissimo voto a ciascuno; e pendeano
i più alla ripulsa, per amor di Federigo o di sè stessi, temendo
Giacomo noli seducesse, allorchè Loria col pianto sugli occhi, quasi
per pietà del paese, s’alzava ad orare: «Non ingannassero sè medesimi;
sarebbero irresistibili le congiunte forze di Giacomo e di Carlo;
ripiglierebbero le Calabrie in un batter d’occhio; porterebbero in
Sicilia fame, incendi, stragi; pagherebbe di molto sangue la Sicilia
questo insensato ostinamento, All’incontro, qual danno nell’andata di
Federigo? e forse, per l’amor che gli porta, si volgerà a noi il re
d’Aragona. Ma s’ei verrà da nimico, pensate quanti Catalani e Aragonesi
mancheranno alle vostre bandiere. Posson essi prender le armi per chi
lor piaccia, ma son traditori se combattono contro le bandiere del re
d’Aragona[177].» Gran bisbiglio seguì a questo parlare, vergognando gli
stessi partigiani dell’ammiraglio ad assentir con parole, ma chinavano
il capo; e gli altri altamente dicean contro: onde dopo lunga contesa,
nulla deliberavasi.
Il dì seguente tolse ogni dubbiezza il re, surto egli stesso a
concionar l’adunanza. «Non ripeterò, disse, le parole che si son fatte,
che sono pur troppe. Io penso che dal trattare, altro non tornerebbe
che più fuoco d’ira, tra Giacomo, soldato de’ vostri nimici, e me, che
tutto alla Sicilia sonmi giurato: e tra la Sicilia e’ suoi nimici non è
via di mezzo; o libera com’oggi, o calpestata oltre ogni antico strazio
di servitù. Su questo partito deliberate dunque, non sull’andata del
vostro re ad Ischia. Ma tu, Ruggier Loria, che parlavi misterioso di
leggi e usanze d’Aragona, ricorda che io son re in Sicilia quanto
Giacomo altrove: che s’ei mi porta ingiusta guerra, non sarà traditore
se non chi me tradisce! E quanto a’ pericoli dipinti sì atroci,
richiama al tuo cuore l’antica virtù; pensa che Iddio combatte contro
gl’ingiusti e i superbi.» Coronò tal generoso parlare il decreto del
parlamento, che vietò l’andata all’abboccamento con Giacomo. Il fece
intendere Federigo all’ambasciadore; accomiatollo[178]; e cominciò ad
apparecchiar la Sicilia a validissima difesa.
Ma non son da pretermettere gli altri atti di questo parlamento di
Piazza, non sì scosso dal grave partito politico, che non pensasse,
quasi posando in pace, a molti statuti, trasandati in mezzo alle
leggi fondamentali del parlamento di Palermo, o suggeriti da novella
esperienza, o portati dallo sviluppo di novella forza civile. Ed in
vero si favorì tanto sopra l’aristocrazia l’elemento municipale, che
se ne scorge evidentemente la preponderanza della parte popolana,
e l’intendimento di Federigo a fondarsi in su quella, più che sul
baronaggio, fattosi torbido e parteggiante; e s’ha valido argomento che
la parte popolana, alla quale, com’avviene, accostavansi anco parecchi
nobili, fosse stata quella che vinse il partito della guerra in
questo parlamento, e sostenne Federigo e la rivoluzione. Certo quegli
statuti danno a vedere, secondo i tempi, assai civiltà. Decretavasi:
i castellani non s’ingerissero nelle faccende de’ vicini municipi;
non i nobili nelle elezioni de’ magistrati comunali; i feudatari non
pretendessero dritti sul passaggio degli armenti; non levassero a lor
posta gabelle sulle grasce; non frodassero i vassalli nella misura de’
poderi soggetti a terratico; nè terratichi nuovi riscuotessero su i
feudi conceduti testè dal demanio: si vietò l’alienazione de’ feudi
oltre i termini della recente legge; si die’ obbligo a’ baroni di
soggiornare in Sicilia o tornarvi in corto tempo: e che il principe
solo potesse assentire i matrimoni delle lor figliuole co’ figli de’
nemici allo stato[179]. Altri statuti, proclamando che i deboli non
debban soggiacere ai potenti, studiavano nuovi argini ai radicati
abusi degli uficiali sull’avere dei privati[180]; innalzavano in ogni
comune un ministero pubblico di tre cittadini, obbligati per giuramento
a denunziare tutti gli aggravi de’ giustizieri e uficiali qualunque,
e sì i misfatti contro la sicurezza delle persone; i quali, dal
sacramento che davano, si appellaron giurati[181]. Fu decretata libertà
universale d’importazione ed esportazion di vini e altre derrate;
inibito di prender le persone o i letti, o diroccar le case pei debiti
delle collette; francati da queste i militi[182]. Si rinnovi il
divieto d’ingiuriar altrui con gli odiosi nomi di guelfo o ferracano:
riabilitati agli ufici i sospetti di queste opinioni politiche, non
rei di alcun fatto[183]. La quale benignità di principi s’osserva non
meno nei molti ordinamenti sopra gli schiavi saraceni e greci, che
numerosissimi erano in Sicilia per causa del corseggiar nelle ultime
guerre: statuti tendenti a procacciar la conversione de’ primi alia
fede di Cristo, de secondi a’ dommi ortodossi, o mantenere il pubblico
costume; ma si fe’ divieto ai cristiani di usar con giudei; a costoro
di tenere ufici ed esercitar la medicina[184]. Scagliossi pena del capo
contro gli avvelenatori, stregoni, indovini, incantatori, che spargon,
dice lo statuto, profani errori, e ingannano i popoli con empie
fallacie[185]: talchè nè corsero quegli antichi nostri legislatori
all’atroce e usato supplizio del fuoco, nè mostrarono prestar fede a
negromanzie, ma puniron solo la frode e il disordine civile. A questo
medesimo effetto con molto studio vietaronsi i giochi di sorte, non
di destrezza; e si commendaron que’ d’esercizio nelle armi[186]. Allo
zelo di religione e morale, ch’appar da cotali ordinamenti, s’aggiunse
un particolare statuto contro la usurpazione de’ beni ecclesiastici;
un divieto di portar armi, ferro, o legname a paesi d’infedeli; ma si
pagò il tributo a’ tempi con lasciar salva alla santa sede la riforma;
e non si dice sol delle leggi per le quali poteano vedersi incerti i
limiti tra il sacerdozio e l’impero[187]. Su questi capitoli di Piazza,
perchè essi contengono più numero di sanzioni penali che niun degli
altri anteriori di Federigo stesso o dì Giacomo, noteremo, ch’eccetto
il sommo supplizio contro i maestri di veleni e malie, le pene son
pecuniarie o di privazione; poche di carcere a tempo; e pei giochi
vietati s’aggiungono in un caso le battiture. Riserbossi il principe di
gastigare ad arbitrio alcuni abusi degli uficiali, e dichiarar secondo
i casi la qualità del carcere detto dinanzi[188]. Talchè possiamo anco
dir mite e non troppo disuguale il penal sistema che si tenne di mira.
In questo tempo, reggendosi sempre Ischia per noi, Pier Salvacoscia
con cinque galee vi combattè bella fazione, assalito da nove teride
smisurate, zeppe di armati, che i Napolitani mandavano a acquistar
l’isoletta, vergognanti del tributo ch’indi si levava su i vini
navigati per lo golfo. Appiccata la zuffa senza curare il disugual
numero, vinsero i nostri; ogni galea cattivò una terida; fuggendo
le quattro rimagnenti, i cui capitani re Cario fe’ mettere a morte,
uscito questa fiata dall’indole sua dolce[189]: e come disperando
delle armi, cavalcò per Roma a ripregar Bonifazio. Costui indi punse
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