La guerra del Vespro Siciliano vol. 2 - 04

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tra Francia e Aragona[116]; onde il trattato a nulla tornava.
Questo inchinò Carlo alle ambizioni di Benedetto Gaetani da Anagni,
salito in riputazione da avvocato nella curia papale, fatto indi notaio
del papa, e cardinale; uom procacciante, superbo, capacissimo nelle
civili faccende il quale poc’anzi a Perugia era venuto ad aspre parole
col re, ed or guadagnosselo con dirgli preciso; che Celestino avea
voluto e non saputo aiutar casa d’Angiò; ei vorrebbe, e potrebbe, e
saprebbe. E a Celestino gravava il papato, per coscienza e per sentirne
mormorare ogni dì i cardinali; onde il tranellarono al rifiuto; e
perfin si legge che ’l gaetani grossolanamente fingesse al semplice
romito chiuso nella sua stanza, voce del Cielo che gl’imperava
spogliarsi il gran manto. Ond’ei lasciollo, non ostanti le preghiere,
veraci del popolo di Napoli, infinte della corte. Per la possanza
di lei, indi a pochi dì, la vigilia del Natale del novantaquattro,
in Napoli fu rifatto pontefice il Gaetani; quel famoso Bonifacio
VIII, che salì da volpe, da lione regnò, e da cane morì, secondo la
sentenza profetica, foggiata da poi e data a Celestino, come se a lui
medesimo la dicesse nella prigione, ove per comando di Bonifacio fu
chiuso, e finì in poco tempo, non senza sospetti di morte violenta. Ed
or congiunto, scrive Speciale, il potere all’astuzia, si die’ tutto
Bonifacio a scior quell’inviluppato nodo della siciliana lite[117].
Oltremonti gli ambasciadori di Giacomo e di Francia, con la riputazion
del novello papa, ristringeansi un’altra volta a spianar gli ostacoli
rimasi tra loro[118]; Bonifazio serbò il più grave a sè stesso,
quasi per provarvi il suo ingegno. Avuti o richiesti, poco appresso
la esaltazion sua, legati di Federigo, che furono Manfredi Lancia
e Ruggiero Geremia, raccolseli umanamente il papa, li rimandò con
grandi promesse, e l’importanza della cosa maneggiar volle da sè con
Federigo; cui, non potendolo trar di Sicilia con forza, avean mostrato
per l’addietro la dignità di senatore di Roma o altra debol’esca; ma
Bonifazio pensò abbagliarlo profferendo una bella sposa e un impero.
Mandogli un suo cappellano con breve dato il venzette febbraio del
novantacinque, richiedendolo che venisse a corte di Roma con Giovanni
di Procida, Ruggier Loria, e i primi d’ogni siciliana città, muniti di
pien mandato de’ popoli. Portava i salvocondotti il medesimo nunzio.
Federigo, proponendosi obbedire, immantinenti alle città nostre ne
scrisse.
Il che è prova non dubbia della importanza che ritenea o ripigliava
in tal frangente l’elemento municipale e popolare, ristorato dalla
rivoluzione; il valor del quale d’altronde risplende assai nobilmente
nell’epistola, che il comune di Palermo drizzò a Federigo, e rincalzò
con la viva voce di tre inviati, Niccolò di Maida cavaliere, Pier
di Filippo, e Filippo di Carastone giudici. Ricordavasi all’infante
per queste lettere la romana corte qual fosse: il sommo Iddio aver
giudiccato tra lei e la Sicilia, con quella serie di strepitose
vittorie de’ pochi contro gli assai; tranquillasse gli agitati animi
de’ cittadini; non desse in questo laccio dell’andata al papa, onde
null’altro che danno incor gliene potrebbe[119]. Ma Federigo, com’è
timida l’ambizione di chi siede sull’alto, e ama piuttosto lasciarsi
raggirar dai potenti che fondare in su i popoli combattuta ma grande
fortuna, ostinossi all’andare. Montato sulla flotta con Procida che il
tirava alla via più ignobile, e con Loria, e molti altri rinomati nella
guerra o nei civili consigli, approdava negli stati della Chiesa sotto
il monte Circeo, poc’oltre il dì assegnato dal papa; e non trovando
Bonifazio, a lui andava a Velletri.
Atteggiossi allor Bonifazio a paternal carità. Inginocchiatosi dinanzi
a lui Federigo, il rialza, prendegli il capo con ambo le mani, il bacia
affettuosamente; e veggendolo balioso e svelto portar l’armatura,
prese a lusingarlo: «Gentil garzone, ben par che da fanciullo reggevi
quel duro peso.» Poi volto a Loria, senz’ira il domandò, s’ei fosse
quel nimico della Chiesa, noto per tante sanguinose battaglie; e Loria
a lui: «Padre, i papi il vollero!» Da queste accoglienze si passava
ai consigli. In pregio d’abbandonar la Sicilia, promesse il papa a
Federigo la giovane Caterina di Courtenay, figliuola di Filippo, in
titolo imperador d’Oriente; e con lei i dritti a quella dominazione,
e, per l’impresa del racquisto, aiuti di gente, e in quattro anni
centotrentamila once d’oro. E in ver sembra che Bonifazio s’appose; e
che il giovane allettato da grandi parole, e da beltà da lui non vista
con gli occhi, si piegava a lasciar in balìa de’ nemici quel popolo,
con cui era già entrato in legami più stretti che di vicario del
principe. Ma da cauto, volle termin breve all’adempimento de’ patti,
che fu il settembre vegnente[120]. Pien d’allegrezza tornò in Sicilia;
abboccatosi pria ad Ischia con Gilberto Cruyllas e Guglielmo Durford,
inviati di Giacomo[121]. A corte di Roma lasciò, o rimandò a praticare
per esso, Manfredi Lancia e Giovanni di Procida[122].
In questo modo parendo a Bonifazio avere in pugno Federigo e la
Sicilia, ultimava gli accordi. Tra i principi che v’ebber parte le due
forze venate a patti eran l’Aragona e la Francia. L’una di queste corti
possedea la Sicilia; l’altra il dritto su l’Aragona, com’or si confessò
aperto, messo da canto il nome del Valois[123]; e per questo la
Francia avea sparso tanto danaro e tanto sangue, sovvenuto a’ bisogni
di Giacomo re di Maiorca[124], ed or era tenuta a negoziare per lui.
Acquistava il papa una maggiore autorità; Carlo II, la Sicilia; Giacomo
d’Aragona, la pace e la vergogna; Giacomo di Maiorca, l’impunità alla
ribellione contro il fratello; Carlo di Valois, il baratto d’un vano
titolo con un picciol patrimonio[125]; e niente la Francia, fuorchè
l’onore di ristorar casa d’Angiò a tutta la dominazione ch’avea
avuto una volta. Convenuti diansi al papa in Anagni gli ambasciatori
d’Aragona, Napoli e Francia, a dì cinque giugno del novantacinque
rinnovavano i patti ratificati da Celestino; mutando sì i termini
della dedizione di Sicilia e Malta alla Chiesa, che fosse pronta; e
che a domar i popoli, essendone uopo, facesse Giacomo ogni piacimento
del papa. In cambio di ciò, s’era già fatta in mano del pontefice, la
rinuncia del Valois e del re di Francia a ogni dritto sopra Aragona.
Guadagnonne ancor Giacomo, che non fosse tenuto a rendere i trentamila
marchi d’argento, dati da Carlo ad Alfonso con le altre sicurtà al
tempo della sua liberazione; che Carlo, con la sua figliuola Bianca,
dessegli in dote centomila marchi. Guadagnonne per capitol segreto
la investitura di Corsica e di Sardegna, liberalmente donategli da
Bonifazio che non aveaci alcun dritto. Al perdono largheggiato pei
fatti della rivoluzione o della guerra siciliana, s’aggiunse quel
degli usciti da’ tempi di Carlo I, e che si godessero quantunque or
possedeano in Sicilia. Per un altro capitol segreto, Giacomo s’obbligò
a fornire forze navali agli stipendi di Francia contro Inghilterra.
La redintegrazione dello stato preso al re di Maiorca, instando
gli ambasciatori di Francia e non avendo gli Aragonesi autorità a
stipulare, differissi alquanto; ma poi si ultimò, come anco una lite di
confini tra Francia e Catalogna[126].
Ratificava Bonifazio a dì ventuno giugno; dispensava alla
consanguineità per le nozze tra Giacomo e Bianca; riconcedeva a re
Carlo le decime ecclesiastiche per lo racquisto dell’isola; e il dì di
san Giovanni, tra i riti del divin sagrifizio, promulgava in un con
la pace, scomunica a chi contrastassela. Per novelli sospetti ribadì
con più forti pene questi anatemi il dì ventisette giugno, poichè
furon ripartiti alla volta di Sicilia Lancia e Procida. Accomandò
loro un frate de’ predicatori, inviato a raffermar negl’intenti del
papa la regina Costanza; indirizzò a Federigo il novello arcivescovo
di Messina, con autorità di ribenedir l’isola e ultimare ogni cosa.
Ei medesimo scrive intanto a Caterina di Courtenay, aver promesso con
re Carlo la sua mano al valente Federigo; disponga, dicea il papa, la
mente e l’animo a queste nozze; ascolti i consigli dell’abate di san
Germano e d’un altro prelato, apposta a lei spacciati dalla paterna
cura del pontefice; e tosto si metta in viaggio per venirne in Italia
alle braccia dello sposo. Sollecitò anco Filippo il Bello a farsen
mezzano. E di tutte queste pratiche ragguagliava minutamente Federigo,
perchè sempre più inchinasse l’animo alla obbedienza e alla pace[127].
Volle infine indettare nel nuovo ordin di cose l’ammiraglio; il quale,
fatto ricchissimo e tra potente per concessioni de’ re aragonesi in
Sicilia e in Valenza, e propri acquisti di prede, riscatti, baratterie,
commerci, e per la gloria nelle armi, e per lo terrore di quell’animo
impetuoso, era forse il primo tra’ grandi che salvar poteano o
inabbissar la Sicilia in questo frangente[128]. Con costui dunque
trattando, prima in persona, poi per Bonifazio di Calamandrano, il
papa concedettegli in feudo della Chiesa l’isola delle Gerbe, ch’egli
acquistò con le armi di Sicilia, e or volea farne un nuovo principato
cristiano, o nido di corsali in levante, da potersi render formidabile
per la guerriera virtù dell’ammiraglio e de’ soldati dell’armata di
Sicilia, che a lui sarebbersi rannodati[129]. Da un lato dunque tiravan
Ruggiero i poderi in Ispagna, la sovranità delle Gerbe, la potentissima
lega che minaccerebbe la Sicilia resistente; dall’altro le sue facultà
in Sicilia, l’onor del suo nome, il tedio della pace, la cupidigia
di preda, l’amore a un popolo ch’era prode e per dodici anni avean
pugnato e vinto insieme, sopra ogni altro i fomiti dell’ambizióne; che,
s’ei non chiedeva il titolo, aspirava alla potenza di re di Sicilia,
e sapea che l’avrebbe rompendosi nuovamente la guerra, perch’ei
sarebbe principal sostegno di Federigo. Perciò l’ammiraglio ascoltava
le profferte di minore stato nella pace; ma era pronto a turbarla, e
accomunar le sue sorti con la Sicilia e Federigo.
Le sorti della Sicilia che pendeano sul precipizio, per tal abbandono
del re, del luogotenente, dell’ammiraglio, di tutti i grandi, poteano
tornar su per novello empito del popolo; ma ristorolle con men sangue
l’interesse di Filippo il Bello, o il caso, che spinse la giovane di
Courtenay a rifiutar le nozze di Federigo, rispondendo al papa, che
una principessa senza terra non dovesse maritarsi a un principe senza
terra. Ostinata resse Caterina alle repliche del papa[130]: e Federigo,
fatto accorto dell’inganno, tutto si volse a quelle ben più salde e
vicine speranze che gli offriva la Sicilia; dove, trapelando le nuove
de’ trattati, s’era con più furore ridesto il turbamento d’animi del
novantadue, per esser più certo e imminente il danno, e scorgersi la
perfidia che il dissimulò. Indi l’infante diessi a prendere il regno;
ma volea parere sforzato, ritenendol anco il sospetto della fazione
degli stranieri, mascherati di lealtà a Giacomo, e tradenti per turpe
guadagno il paese che li nudriva. Costoro, come aperti apparvero
gl’intendimenti di Federigo, la focosa volontà del Sicilian popolo,
diersi dapprima a gridare che la rinunzia del re fosse favola di
Federigo volto a usurpar la cotona. Per darsi riputazione, fecero lor
capo il solo che operava forse da coscienza e lealtà, Ramondo Alamanno
gran giustiziere; e si notavano inoltre i nomi del Procida, di Matteo
di Termini, di Manfredi Chiaramonte e di più altri. Vedendo tornar vane
le arti, ai chiusero in lor castella, minacciando già la guerra civile.
La regina Costanza l’ovviò col ripiego, che novelli oratori si
deputassero in Catalogna a intender la mente di Giacomo; dondechè
adunato un parlamento, questo elesse Cataldo Rosso, Santoro Bisalà, e
Ugone Talach[131]; e nel medesimo tempo Federigo, vedendo ormai vane
le coperte vie, s’ingaggiò in parlamentò co’ patriotti, che svelerebbe
ad essi quantunque risapesse de’ trattati di Giacomo coi nemici.
Lasciò dunque coloro che si dicean leali, chiusi dalle lor mura e
dall’universale sdegno del popolo; ed egli, con nome ancor di vicario e
opere maggiori, andò in giro per tutta l’isola, ad accrescersi parte e
riputazione, con opportune riforme, amministrazion vigilante, e volto
benigno[132]. Giunser gli oratori siciliani in Catalogna, quando
ratificati già dalle corti i capitoli della pace, re Carlo e il legato
pontificio con la sposa veniano a Perpignano e Peralada, e Giacomo si
facea loro all’incontro per Girona e Villa Bertram; i quai luoghi,
straziati d’ogni più atroce eccesso nella guerra, or s’allegravano
per lusso de’ grandi venuti al seguito de’ due re, e per frequenza di
plebe che festevole ne venia chiamando Bianca «Regina della santa pace»
e anelando lo scioglimento degli anatemi di Roma[133]. Il ventinove
ottobre a Villa Bertram, sendo poche miglia discosto il corteo della
sposa, raggiunser Giacomo i nostri legati: pallidi e severi gli si
apprestarono a sconfonderlo tra tanta allegrezza, dinanzi tutti i
nobili del reame. Esposta la domanda del sicilian parlamento, il re
senza vergogna confessava il trattato. A che Cataldo Rosso: «O voi,
sclamò, o voi passaggieri, sostate; oh dite se v’ha duolo ch’agguagli
il duol mio[134]!» e dopo tal biblica lamentazione, in un coi compagni
e i famigliar! della siciliana ambasceria, stracciaronsi i panni
indosso, ruppero a dimostrazioni d’angoscia disperata, e a Giacomo
gridavano: «Non più udita crudeltà, che un re desse leali sudditi a
straziare a’ nimici!» Ma poich’ebbero così aggravato il biasimo del
principe, ricomposti a dignità ed alterezza, protestarongli in piena
corte: come la Sicilia abbandonata, disdicea tutti i dritti di lui
alla corona; scioglieasi da ogni giuramento, fede ed omaggio; si
tenea libera a prendere qual governo più bramasse. Fu forza al re
quella protestazione accettare; e ne voller diploma gli ambasciadori,
e l’ebbero. Lo stesso dì, vestiti a bruno, volgean le spalle
all’infida corte straniera. Ma pria Giacomo ebbe fronte a dir loro,
ch’accomandava ai Siciliani la madre e la sorella. «Di Federigo nulla
parlo, aggiugnea, perch’è cavaliere, e ciò che fare ei sel sa, e voi il
sapete anco.» Almen così Federigo propalò poi in Sicilia. Incontraron
gli ambasciadori, sciogliendo per l’isola, fierissima fortuna di mare,
che dilungò il ritorno, e ’l tolse a Santoro Bisalà, sbalzato sulle
costiere di Provenza, e tenutovi prigione finchè nol ricattarono i suoi
Messinesi concittadini[135]. E in Catalogna il trenta ottobre Giacomo
fu ribenedetto dal legato pontificio, egli e ’l reame; bandì nelle
adunate corti d’Aragona il fine della gran lite di Sicilia; lo stesso
dì Carlo II a lui e alla madre e a Federigo e a Piero con tutta lor
baronia e amistà rimettea le offese fatte, le robe occupate a sè ed a
suoi ne travagli della guerra. La dimane, portatosi Giacomo a Figueras,
rese a Carlo i tre figliuoli e gli altri statichi; tolse la sposa; e
celebrò le nozze il primo novembre[136].
Ansiosi in questo tempo pendeano tutti gli animi in Sicilia. Ma
alla prima certezza di quelle nuove, ed anzi che tornassero gli
ambasciadori, Federigo, sostando d’un tratto dal viaggio per val
di Mazara, adunò in Palermo conti, baroni, cavalieri, e i sindichi
delle città di qua dal Salso: ai quali, come per tener le promesse
di Milazzo, palesava la non dubbia cessione dell’isola; la compiuta
pace; la risposta a’ legati. Allora il fatto, soprattenuto per salvar
le apparenze, pieno si consumò. Il parlamento di Palermo, a dì undici
dicembre, ritirò la rivoluzione a’ suoi principi con esaltare a una
voce Federigo; ma, da riverenza all’universal voto della nazione,
il chiamò solamente signor dell’isola, volendo più solenni comizi
per dargli nome di re; onde disse generale adunata in Catania il dì
quindici gennaio, e che non solamente i sindichi vi si trovassero, ma
giusto numero dei primi d’ogni terra e città, per facultà, sapienza e
riputazione, con pien mandato a partecipare in quel principalissim’atto
di sovranità. Federigo protestando la santità della causa, e affidarsi
in Dio e nei Siciliani, accettò il dominio; si votò con persona e
facultà a difenderli. Cominciava allora a intitolarsi signor di
Sicilia. Il dì appresso promulgava unitamente le novelle di fuori, le
recenti deliberazioni, e richiedea le municipalità di sceglier tosto i
deputati al parlamento di Catania[137].
In questo generale assentimento fu agevole ridurre i baroni recatisi
in parte. A Ramondo Alamanno, afforzatosi nel castel di Caltanissetta,
andavano Ruggier Loria e Vinciguerra Palizzi, con molti altri grandi
del regno; ed ei cominciando a mostrar l’animo con liete accoglienze,
sincerato della rinunzia, piegossi, e tutti gli altri con esso[138].
Poco stante venner ordini di Giacomo, che richiamava di Sicilia i
Catalani, e gli Aragonesi, e comandava l’abbandono delle fortezze;
compiuto a nome del re dall’Alamanno e da Berengario Villaragut, con
questo rito, che gli uficiali, fattisi alla porta, gridavan alto tre
fiate: se fossevi alcuno che prendesse la fortezza per la santa romana
Chiesa? e niun rispondendo, si ritraeano col presidio, lasciavano
schiuse le porte, appese le chiavi; e le municipalità incontanente se
n’insignorivano a nome di Federigo[139]. Tornarono in patria quelli
e altri cavalieri spagnuoli. Molti altri restarono in Sicilia a
seguir la fortuna di Federigo; tra i quali eran primi Ugone degli
Empuri e Blasco Alagona, che dopo la rinunzia di Giacomo, era fuggito
dalla sua corte: e altri nobili avventurieri aspettavansi di Spagna,
a dispetto anco di Giacomo, che secondo il dritto pubblico di quel
reame non potea lor vietare che militassero per cui lor piacesse. Così
Blasco, confortando i suoi compagni, ricordava che lor nazione, libera
sopra ogni altra ch’avesse re, non ubbidiva a voler di principe, ma
a giustizia e ragione. Filavan indi il creduto testamento di Pietro,
l’espresso d’Alfonso; che Giacomo potea risegnare alla Chiesa il
proprio diritto al reame di Sicilia, non già l’altrui; che ben se
insignoriva Federigo[140]. Con questi argomenti mal colorivano di
legittimità quel reggimento per sè legittimissimo. Nè badavano che per
dritto di successione potea il trono appartenere alla sola Costanza; e
che nè Piero, nè Giacomo altrimenti v’ascesero, che, come or Federigo,
per la elezione del popolo.
E già la Sicilia a questo solenne atto metteva il suggello, ad
onta della romana corte, di Napoli, Francia, e Aragona, contro
lei congiurati. Il dì quindici gennaio milledugentonovantasei,
nella cattedral chiesa di Catania, s’assembrarono frequentissimi i
rappresentanti della nazione, con quanti nobili catalani e aragonesi
sperassero ventura qui, più che in lor patria. Ruggier Loria primo
parlò; poi Vinciguerra Palizzi, prestante per forza d’ingegno e di
parola; e seguendoli ogni altro, d’un accordo gridavano re Federigo;
decretavano si fornisse la coronazione in Palermo[141]. Fu secondo
di questo nome in Sicilia; ma s’intitolò terzo, per esser terzo de’
figliuoli di Pietro, o dei reali d’Aragona qui dominanti, o per errore
diplomatico piuttosto, credendosi secondo di Sicilia Federigo lo Svevo,
che fu secondo degl’imperadori, primo tra nostri re[142].
Ma come Bonifazio riseppe que’ primi passi del parlamento di Palermo,
non essendo in punto a usar la forza, non lasciava intentato alcun
mezzo di frode. A Federigo scrisse il due gennaio, ricordando le
pratiche dell’anno innanzi, la sollecitudine a trovargli terreno e
sposa; che negava Caterina, ma non resisterebbe a nuovi preghi; e
sì richiedealo, e lo scongiurava con ogni più efficace parola, che
desistesse dalla usurpazione del regno. Al medesimo effetto ammonì la
regina Costanza. Lo stesso dì «ai Palermitani e agli altri Siciliani»
drizzò un breve pien di mansuetudine: come la romana Chiesa, or che
Giacomo le avea risegnato questa bella Sicilia, volea consolar le sue
afflizioni, fare il ben pubblico, governarla dassè per un cardinale;
vedessero i Siciliani tra’ fratelli del sacro collegio qual più lor
fosse a talento, quello il sommo pontefice manderebbe. E con tali
missioni inviò il vescovo d’Urgel, e quel Bonifazio Calamandrano, che
da quattro anni correa per tutta Europa in questi maneggi, come li
chiamavan, di pace. Facean assegnamento altresì sulla fazion d’Alamanno
e di Procida, non sapendola per anco spenta: e con tali speranze
il Calamandrano a Messina approdò, poco innanzi o poco appresso il
parlamento di Catania[143]. Il pratico negoziatore parlava ai cittadini
di maravigliose prosperità lor preparate dal papa, ingeriasi, brigava;
alfin vedendo grossa la piena per Federigo, tentò l’ultimo argomento,
mostrando pergamene bianche col suggello della corte di Roma; dicea,
consultassero i Siciliani tra loro, e assoluzioni, perdonanze,
immunità, franchige, dritti, usanze, patti, quantunque vorranno,
ei scrìverà sulle pergamene, assentiralli il sommo pontefice. Ma i
Messinesi, non che dar dentro la grossolana rete, sen beffavano;
rincalzati da Loria, da Palizzi, e dagli altri primi. E Pietro
Ansalone, prudente e ornato dicitore, al Calamandrano ne andò senza
molte parole. «Sappi, gli disse, che i Siciliani non ubbidiranno a
dominazione straniera; sappi che vogliono Federigo per loro re: e vedi
qui! (aggiunse sguainandola spada) i Siciliani da questa aspettan la
pace, non dalle tue carte bugiarde! Sgombra su dalla Sicilia, se morir
non ami!» Il Calamandrano, scrive Speciale, incontrar non volle il
martirio per servire a mondane ambizione. Tornato a Bonifazio, il fe’
certo non restare altra speranza che nelle armi[144].

CAPITOLO XV.
Coronazione di Federigo II di Sicilia. Novelle costituzioni, per le
quali è ridotta nel parlamento gran parte della sovranità. Federigo
porta la guerra in Calabria, Principi della discordia tra il re e
Loria. Presa dì Cotrone; fazioni in Terra d’Otranto; combattimento del
ponte di Brindisi. Papa Bonifazlo spinge Giacomo contro 11 fratello.
Ambasceria di Giacomo. Parlamento di Piazza. Battaglia di Ischia.
Viene Giacomo a Roma. Chiama a sè Loria. Ribellion di costui da
Federigo. La regina Costanza il porta via di Sicilia, con Giovanni di
Procida. Primavera del 1296 alla primavera del 1297.
D’ogni luogo di Sicilia cavalcavano alla volte di Palermo, all’entrar
di primavera, gli ottimati ecclesiastici e civili, i sindichi delle
città, e insieme privati borghesi, e plebe, e vassalli, con frequenza
non più vista, per trovarsi a quel nuov’atto di libertà, la coronazione
di Federigo. Indi la sera innanzi la pasqua di resurrezione, erano
sparse di mirto le vie della capitale, i portici, i tempî, i palagi
parati in mille bizzarre guise a drappi di seta e oro; le luminarie
davan chiaro di giorno per le contrade; la cattedrale, festeggiandosi
il vespro del sacro dì, ardea dal baglior d’infiniti torchi di cera,
grandi, scrive Speciale, al par di colonne; il fracasso di trombe,
corni, taballi, come simbol della guerra soverchiante i diletti della
pace, vinceva l’armonia de’ più dolci stromenti, e i lieti canti del
popolo, che tutta spese in tai sollazzi la notte. Al nuovo dì che
fu il venticinque marzo milledugentonovantasei, nella cattedrale fu
unto e coronato re di Sicilia Federigo; ricondotto al palagio tra
plausi non comuni, a cavallo, con vestimenta regie, diadema in capo,
scettro alla man sinistra, pomo alla dritta. Ei stesso armò cavalieri
meglio che trecento giovani di nobil sangue; creò conti; die’ feudi
ed ufici: fatti Ruggier Loria grand’ammiraglio; Corrado Lancia gran
cancelliere, in iscambio del Procida; capitani dell’esercito Blasco
Magona, frate Arnaldo de Poncio disertor di Calabria, Guglielmo di
Casigliano e altri provati combattenti. Si passò ai giochi pubblici,
adatti al secolo e al guerresco atteggiamento del paese, cavalcare,
trarre al segno, giostrare; al palagio tennersi mense imbandite a
chiunque, Così per due settimane si tripudiava[145]. In quel tempo,
forse in quel primo brio, e con l’alacrità di chi avea gittato il dado
a grande impresa, detta Federigo una poesia provenzale, indirizzata
al suo fedel Ugone degli Empuri, che gli rispose nello stesso metro e
rima: e i versi d’entrambi attestano con qual franco animo il giovin
re andava incontro alla guerra; come fidava nella nazion siciliana;
sperava negli aiuti degli avventurieri spagnuoli; e sospettava del re
d’Aragona, dubbioso tra gl’interessi di famiglia che ’l tiravano a
favorir Federigo, e le profferte e minacce de’ nemici che spingeanlo
dal lato opposto. Federigo sfidava quasi gli uomini e la fortuna a
trarlo giù dal trono, se potessero: Ugone par che credesse più nel
coraggio, che nella capacità e nella mente del nuovo principe: ambo
i componimenti, se non han pregio di poesia, servono alla istoria,
perchè fedelmente dipingono l’animo di Federigo e le sue condizioni
politiche[146]. S’innovò insieme la costituzione dello stato. Avean
Pietro e Giacomo ristorato le buone leggi normanne, riformato abusi,
temperato gravezze; ma Federigo, consigliato o sforzato da’ tempi,
passò a sviluppare, ben oltre il confine normanno e svevo, i dritti
politici della nazione, in guisa che, se non mutaronsi i nomi, si
vantaggiò tanto negli ordini pubblici, da restar alla Sicilia premio
non indegno del vespro. Nel proemio delle costituzioni, promettea
Federigo, e non a ludibrio, di osservar la giustizia e liberalità
comandate dall’Onnipotente ai re della terra. La colpa di Giacomo,
gl’incerti passi ch’ei medesimo, Federigo, già diede con Bonifazio
dopo essersi indettato co’ Siciliani, or lo strinsero a sacramentare
su la sua fede e ’l terribil giudizio di Dio, che manterrebbe a tutto
potere il presente stato della Sicilia; nè cupidigia di nuovo acquisto,
nè altra ragione lo spunterebbe dalla difesa; nè farebbesi a domandar
dalla romana sede scioglimento da cotali promesse, com’era pessima
usanza di quell’età. A guarentigia di ciò, si strinse Federigo d’un
altro vincol più duro: che nè con la Chiesa romana, nè con altri
potentati, farebbe unquemai lega, pace, guerra, se nol consentisse la
nazione. Slmilmente partì co’ rappresentanti della nazione il poter
legislativo. Stanziò, che s’adunasse ciascun anno il dì d’Ognissanti
generale parlamento de’ conti, baroni, e sindichi de’ comuni (nè qui
si fa menzione di prelati), che insieme col re provvedessero alla cosa
pubblica; e il re fosse tenuto, come ogni altro, dalle leggi decretate
col parlamento. Data a questo la censura su i magistrati e uficiali
pubblici; e che i sindichi accusassero, tutto il parlamento punisse.
Tutto il parlamento, non esclusi i sindichi delle città, ebbe la scelta
annuale di quella che noi diremmo alta corte de’ pari, cioè di dodici
nobili siciliani, che giudicassero inappellabilmente, indipendenti
da ogni altro magistrato, le cause criminali de’ baroni; importante
privilegio de’ tempi normanni, ristorato or che montava l’autorità de’
nobili e del parlamento.
Confermò Federigo largamente le franchezze e privilegi degli Svevi
e de’ suoi predecessori aragonesi, con ciò che nei casi dubbi
s’interpretassero a favor dei soggetti. Nè terminò quest’ordine di
leggi politiche, senza riforma in quelle sopra i delitti di maestà,
ch’a gran pezza dipendono dalle politiche, e secondo l’indole del
reggimento, or portan mite freno, or cieca ed efferata vendetta.
Ondechè fu tolta a’ privati l’accusa di fellonia; riserbata al
principe; lasciata ai rei la scelta del giudizio, come lor fosse
a grado, secondo il dritto comune, le costituzioni dell’imperador
Federigo, o le usanze larghissime di Barcellona. Volle il re in
fine, che su i beni confiscati per alto tradimento, si rendesse alle
mogli quanto lor dava la civil ragione, o ad esse e alle figliuole
si porgessero sussidi per vivere. E intendendo nel principio del suo
regno a cancellar ogni ombra di parte, vietò severamente le parole di
fellone, guelfo, o ferracano, divenute ingiurie in questo tempo, in cui
l’opinione pubblica e gl’intendimenti del governo non discostavansi un
passo. Fu questo il primo libro delle costituzioni di Federigo[147].
Contengonsi nel secondo poche riforme di abusi su l’amministrazione
della giustizia[148], perchè Giacomo ci avea provveduto appieno;
ma notevol è lo statuto, che fossero Siciliani, nobili, e ricchi,
da scambiarsi in ogni anno, e stipendiati dall’erario, i quattro
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