La guerra del Vespro Siciliano vol. 2 - 03

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quattro d’Inghilterra. Adunaronsi in Tarascon; e segnarono il trattato
a Brignolles, il diciannove febbraio milledugentonovantuno.
Nel quale umiliossi Alfonso a promettere di chieder perdono al papa,
dapprima per legati, indi entro dieci mesi anco in persona; di
guerreggiar in Terrasanta; di rendere a Carlo gli statichi, la moneta,
i prigioni di guerra; di richiamar tutti i sudditi suoi di Sicilia, e
togliere a Giacomo ogni aiuto. S’ingaggiò Carlo in cambio a procacciar
l’assentimento di Filippo il Bello e del Valois: vedrebbe la Chiesa
di rivocar la concessione del reame a costui, e ribenedir l’Aragona.
Lasciossi luogo ad entrar tosto nella pace al re di Maiorca, e a
quel di Castiglia, se si potesse[71]. Il dì appresso i due cardinali
intimavan questo trattato a Francia e alla corte di Roma[72]. Tanto
si legge ne’ diplomi. Il Neocastro a queste condizioni aggiugne:
riconosciuta l’alta signoria d’Alfonso su Maiorca; fermato censo annuo
di trenta once d’oro, che pagasse Aragona alla corte di Roma; stabilito
con quali forze dovesse andar Alfonso in Roma e indi in Terrasanta, e
in Sicilia a procacciar anche con le armi la sommissione di Giacomo.
Fu tolto allora ogni ostacolo al matrimonio d’Alfonso con la figliuola
d’Eduardo d’Inghilterra: e un altro poco appresso ne strinse re Carlo
per ottener la rinunzia del Valois, dando a Costui in isposa la sua
figliuola Margherita, con le contee d’Angiò e Maine[73].
Non ebbe tempo Alfonso a raccoglier di questa pace altro che il
biasimo. Accrebbelo con fornir munizioni navali a Genova, per
l’armamento di sessanta galee agli stipendi di re Carlo; che
ripigliato animo alla impresa di Sicilia, di marzo andò in Genova,
co’ due cardinali legati, a invitarvi que’ mercatanti guerrieri[74].
Ma quando più lieto si dipingea l’avvenire ad Alfonso, robusto e
sano a ventisette anni, assicuratosi il reame, vicine le nozze con
la bella figliuola d’Eduardo, una malattia di tre giorni l’uccise,
il diciotto giugno del medesimo anno, pria che si fosse mandata ad
effetto alcuna parte del trattato. Per non essere di lui figliuoli,
ricadea la corona a Giacomo re di Sicilia. Talchè a un tratto dissipò
la fortuna le meditazioni di chi avean intrecciato sì sottilmente la
pace; e arrise alla Sicilia, per apparecchiarle più torbidi tempi, e
poi maggior gloria. Giacomo, al primo avviso, convocato in fretta un
parlamento a Messina, con molto affetto parlò; e, come suolsi sempre
partendo, giurò eterno l’affetto, accomiatandosi da’ popoli in Messina,
Palermo e Trapani; donde entrò in nave il dodici luglio. Lasciò
luogotenente il fratel suo Federigo; una forte armata; assai acquisti
in Calabria; e chiara fama di sè. Perchè negli otto anni che resse
di presenza lo stato, dapprima vicario, poi re, s’ei fu in qualche
incontro ingannatore e crudele, ne fece ammenda con la benignità
nell’universale, i larghi ordini delle leggi, la virtù di guerra,
le avventurate imprese contro i nimici della Sicilia. Oltre a ciò,
sotto il suo governo ristoravasi la nazione a floridità e ricchezza;
alleviata dalle tasse, e dalla tirannide che tutto soffoca in disperato
letargo; francheggiata da sicurezza di buone leggi, e dalla virtù
della rivoluzione che animava ogni parte del viver civile. Per le
quali cagioni, accompagnavano amorosamente i Siciliani coi lor voti
quel principe, che pochi anni appresso dovea meritare le più disperate
maledizioni[75].

CAPITOLO XIV.
Primordi del regno di Giacomo in Aragona. Raffermata amistà tra
Sicilia e Genova. Per quali ragioni allenava la guerra. Fazioni di
Ruggiero Loria nel reame di Puglia e in Grecia. Giacomo si volge alla
pace. Opinione pubblica in Sicilia; patriotti, Federigo d’Aragona,
fazione servile; primi oratori al re. Primo trattato di Giacomo con re
Carlo. Celestino V ratifica la pace. Più vigorosamente la procaccia
Bonifazio VIII. Pratiche delle corti di Roma e d’Aragona con l’infante
Federigo. Nuovi oratori a re Giacomo. Federigo chiamato al regno di
Sicilia. Vana prova di papa Bonifazio a impedirlo. Settembre 1291—–
gennaio 1296.
Volle re Pietro disgiunti i due reami d’Aragona e Sicilia, che per la
distanza di tanto mare, e più per la libertà degli spiriti ed ordini
pubblici, mal si potean reggere insieme, nè l’uno avria sofferto
la dominazione dell’altro. Però chiamava a succedergli in Aragona
Alfonso; Giacomo in Sicilia; quegli per testamento a Port Fangos pria
dell’occupazione dell’isola; questi nel parlamento di Messina[76]: e
venendo poi a morte, per fuggir viluppo novello di scomuniche, non fe’
altro lascio delle due corone combattutegli sì acerbamente dal papa;
ma probabil è che desse in voce alcun solenne ricordo a tenerle divise
per sempre[77]. Perchè a dieci marzo dell’ottantasei, Alfonso, giovane
e ne’ principi d’un regno, piuttosto per compier tale ordinamento
politico del padre, che per pensiero ch’aver potesse della morte,
istituiva erede Giacomo, sì veramente che lasciasse la Sicilia a
Federigo; e dava a Federigo la seconda aspettativa del reame d’Aragona,
se Giacomo avesse più a grado la corona dell’isola, o si morisse senza
figliuoli; nel qual caso poneva a Federigo ugual legge di risegnar la
Sicilia a Pietro, lor ultimo fratello[78]. Ma Giacomo, che in fatto di
principato mai non guardò misura, dapprima rimettea al caso della sua
morte senza prole il partaggio delle due corone[79]; e allontanato di
Sicilia, più aperto dinegava quei termini, che non eran legge scritta
del padre, nè Alfonso li potea comandare. Non ceduta l’isola dunque;
nel coronarsi a Saragozza il ventiquattro settembre del novantuno,
protestò ascender quel trono per ragion del suo sangue, non per
lascito di Alfonso[80]. Fortificovvisi con assentir quante più larghe
franchezze e guarentige sepper chiedere le corti; con fidanzarsi a una
fanciulla di nove anni, figliuola di Sancio re di Castiglia; e fermar
di novembre del medesimo anno la pace con questo vicino, stigator delle
civili turbolenze d’Aragona[81]. Raffrenò anco le guerre private;
spense i ladroni che infestavano il paese[82]; spinse suoi maneggi fino
a chieder aiuto di danari al soldano d’Egitto, al quale mandò Romeo di
Maramondo e Ramondo Alamanno a vantar le sue vittorie e la sua possanza
su tutte le corti cristiane della Spagna[83]: e fin qui rideasi della
corte di Roma, fattasi a vietargli, con parole più che fermi colpi, il
possedimento dell’Aragona[84].
Tornaron vane del pari le pratiche di suscitar Genova a gagliardi aiuti
contro la Sicilia, tentate come dicemmo fin dai primi principi di
quella guerra, e ripigliate da Carlo lo Zoppo dopo la pace con Alfonso,
e or incalzate con maggior calore anche dal papa[85]. Ma Genova in quel
tempo non curava nelle cose temporali l’autorità della cotte di Roma; e
quanto alla corte di Francia, se volea tenersela amica per comodo de’
commerci, il medesimo interesse la tirava a restare in pace con Aragona
e Sicilia, nè amava una briga con le loro forze navali congiunte e
vittoriose, mentre avea a lottare con le rivali repubbliche marittime
d’Italia. I guelfi di Genova per vero posponendo, come fanno i faziosi,
l’interesse pubblico alle passioni di parte, s’erano indettati con
l’Angioino; e privati corsali, in sembianza di far prede su i Pisani,
stendean la mano contro i Catalani che con essi navigavano[86]; e la
interruzione de’ commerci tra Genova e Sicilia, avvenuta in questo
tempo, mostrava i pericoli della guerra, che l’acume mercantile conosce
sì da lungi. Ma come dopo que’ sospetti giunse a Messian un vago romore
d’armata allestita in Genova, galee già uscite in corso, prese fatte ne
mari di Lilibeo; tutta la Sicilia sen commosse: e rammaricava l’assenza
dell’Ammiraglio, inebbriato in Catalogna presso il re[87] a comparir
primo a corte, cavalcare con grande stuol di clienti, abbattere ne’
tornei le più forti lance di Spagna[88]. E Federigo, o quegli esperti
consiglieri rimasi con esso alla siciliana corte, seppero antivenir
questa guerra. Mandano a Genova un oratore, affidato in pubblico a
salde ragioni, in segreto alla riputazion dei Doria e Spinola e di
tutta parte ghibellina. Il quale nei consigli del comune tornò a mente
l’antica amistà con Aragona, con Sicilia; le enormezze della ambizione
e avarizia di casa d’Angiò contro Genova: or, mutando gli amici co’
nemici, non credesser pure soggiogar l’isola a un tratto, nè provocar
questa guerra senta rovina de’ loro commerci; e pensasser alle avverse
bandiere di Venezia e Pisa, che potrebber trovare nuovi compagni.
Soverchiata da cotesti evidenti interessi della repubblica ogni briga
papale, e venuti allo stasso effetto altri legati del re d’Aragona,
si vinse il partito, che rafferma la amistà con Giacomo, si restasse
il comune da ogni atto ostile a Sicilia; non fosse lecito a privati
armarsi contr’essa sotto quantunque colore[89]. Per lealtà, e riguardo
all’ammiraglio di Sicilia, sì pronto alle vendette, l’anno appresso gli
fu resa incontanente una nave carica di grano per Pisa, predata da
mercatanti genovesi, con quel pretesto della cerca di merci pisane: e
aggiungevi il comune, indennità di lire duemiladugento, ambasciadori a
Federigo, che lui e Ruggiero sincerasser della fede genovese. Mantenuta
fu questa poi contro la seduzion di larghe promesse, e la riputazione
d’un’ambasciata di molti cavalieri di re Carlo, col conte d’Artois e
legati della corte di Roma, allo scorcio del medesimo anno novantadue.
Perchè i cittadini, sebbene divisi e parteggianti, sì che due anni
appresso vennero al sangue, d’accordo rifiutaron ora la lega col re di
Napoli, promettendo solo rigorosissima neutralità; tantochè dispettosi,
senz’alcun frutto partironsi gli ambasciadori[90].
Intanto volgean le cose d’Oriente ad estrema rovina: Acri in primavera
del novantuno cadde sotto le armi d’Egitto: e le stragi dei battezzati,
gli atroci trionfi degli infedeli[91], davano argomento per tutta
cristianità a lamentazioni piene di rabbia; correndo le lingue alla
corte di Roma, e a’ tesori e al sangue sparsi contro Sicilia nel nome
santo della croce. Però fu necessitata la romana corte a gridar addosso
a’ maumettisti, tacendo alquanto di noi[92]. Rattenea ancora il papa un
suo segreto pendìo a parte ghibellina, e l’amino tutto posto al vicino
intento d’aggrandire i Colonnesi più che alla rimota ristorazione
di Sicilia o di Terrasanta. Ed era molto abbassata parte guelfa in
Italia, per quelle vittorie di Giacomo e de’ Siciliani[93]: il reame di
Napoli scemo di danari, e di fortuna, e di territorio per le occupate
Calabrie, governato da principe non guerriero, e stracco di tanti
sforzi, male aiutavasi alla guerra[94]. La Sicilia non la rincalzava
per non averne cagione; ella sicura al di dentro, nè vogliosa
d’estender più in terraferma il dominio del suo re. Pertanto in questi
due anni, ancorchè fossero corsi i termini della tregua di Gaeta, poco
si travagliò con le armi. Turbolente passioni di feudatari, faceano in
Calabria or perdere una terra, or un’altra acquistare. Blasco Alagona,
capitano per Giacomo, il quale occupata Montalto, e sconfitto e preso
Guidon da Primerano, guerriero di nome, già meditava più importanti
fatti, per accusa di frode all’erario, tornò subito in Catalogna[95]. E
lo stesso ammiraglio, rivenuto in questo tempo in Sicilia, e uscito a
far giusta guerra, la governò debolmente.
Allestite in Messina trenta galee, e sapendo da’ suoi rapportatori
nessun armamento farsi ne’ porti di Napoli e di Brindisi, navigò di
giugno milledugentonovantadue ver Cotrone, donde Guglielmo Estendard
con parecchie centinaia di cavalli era per muover contro i nostri
acquisti di Calabria. Il quale, scoperta la flotta, correa co’ cavalli
a por l’agguato alle Castella, sotto il capo Rizzuto; e l’ammiraglio
addandosene, tolta con seco picciola man di cavalli, spiccò per
altra via il grosso delle genti: e sì da due bande assaltarono alla
sprovvista l’agguato francese. Estendard, cupidamente cercato a morte
da’ nostri, ebbe tre ferite, e il veloce cavallo il campò. Abbattutosi
il suo all’ammiraglio mentre incalzava al passaggio d’un ponte, preser
tanto fiato i nemici da poter lasciare il campo con minore strage; ma
ne cadder molti prigioni; tra i quali un Riccardo da Santa Sofia, che
posto a guardia di Cotrone da re Giacomo, l’avea dato agli Angioini,
ond’or incontrò il sommo supplizio.
Soddisfatto con questa scaramuccia all’onor dell’armamento, che la
Sicilia forniva contro i nimici, Loria voltollo all’Arcipelago, sotto
specie di combattere i feudatari francesi della Morea e le armi che
teneanvi gli Angioini di Napoli, ma in effetto per saziarsi nelle
solite scorrerie[96], segnando la strada agli avventurieri che, finita
la siciliana guerra dovean flagellare la Grecia con pari valore e
avarizia. Corfù, Candia, Malvasia, Scio depredò o messe a taglia, sotto
specie che avesser porto aiuto a’ Francesi: tolse a Scio gran copia di
mastice; a Malvasia, oltre il bottino, l’arcivescovo, del quale poi
ebbe grosso riscatto: e, radendo la Morea, fu a Corone, a Chiarenza;
e prima a Modone virtuosamente combattè contro i Greci che gli tesero
insidie. Tornatosi a Messina con più riccchezze che schietta gloria,
seppe che i corsali di Positano ed Amalfi infestasser le nostre navi
mercantesche; ond’ei divisava già con l’infante Federigo, alla nuova
stagione portar su quelle spiagge quaranta galee e duemila fanti
leggieri, arder barche e ville, e trinceratosi in un monta, dar il
guasto a tutta la provincia; se non che trapelò in Napoli il disegno,
e del tutto il dileguaro le pratiche della pace[97]. Perchè Giacomo
trovossi in Aragopa nelle necessità medesime d’Alfonso; e alla Sicilia
toccò nuovamente ber l’amaro delle dominazioni straniere. Dieci anni
d’infelicissima guerra avean provato a’ nimici, che se la Sicilia
vincer si potea, si potea soltanto in Ispagna. Ripigliaron dunque i
trattati, tronchi dalla morte d’Alfonso; ai quali il re d Aragona
tuttavia sforzavano il privilegio dal Valois, l’armi di Francia, le
arti di Roma; e vi s’aggiunsero i brogli di Sancio re di Castiglia,
che, per fuggir di trovarsi in mezzo a Francia e Aragona guerreggianti,
sollecitava gli accordi in palese, a anco nascosamente pe’ partigiani
suoi in quell’ultimo reame. Allor Giacomo, fatto accorto dall’espresso
voler delle corti e della nazione tutta[98], ch’ei tener non potrebbe
ambo i regni, pensò lasciar la Sicilia, cagion di tanti travagli, che
non rendeagli d’altronde più che l’Aragona nè obbedienza nè danari,
pei limiti messi al potere regio, le misurate gravezze, la fatica e
spendio della difesa. La morte di papa Niccolò d’aprile del novantadue,
la guerra che scoppiò l’anno appresso tra Francia e Inghilterra, la
lunga vacanza del pontificato, differirono mi non dileguarono la pace,
comandata da interior forza nello stato aragonese. Calovvisi Giacomo
più volentieri per profertagli terra e moneta, e soprattutto per
isperanza di restar signore dei conquisti sopra Giacomo suo zio, re di
Maiorca. Maneggiò il trattato, com’era sua indole, chiuso, ambidestro,
dissimulante; sì che ad altri parve che beffasse gli Angioini,
lasciando cader la corona di Sicilia dal suo capo su quel di Federigo;
ma forse fu il contrario; e certo che avvolgendosi tra le torte vie,
n’uscì com’avvien sovente, con infamia e poco guadagno[99]. La frode
ebbe a lottar questa volta con la virtù d’una nazione, che per libertà
novella era fatta rigogliosa, non intralciata e discorde; onde fu vinta
la frode. La Sicilia, dopo quel felice ardimento, conoscea le sue
forze; era piena d’alti spiriti per le guadagnate franchige civili,
la nuova prosperità materiale, la provata virtù nelle armi, i molti
ingegni esercitati nelle cose di stato quando divenner cose pubbliche.
I quali elementi di vigor politico, stavano più nelle città che ne’
baroni; per la riputazion de’ partiti presi da quelle nell’ottantadue,
delle grosse forze mandate, per dieci anni interi in oste e in armata,
dell’attività e capacità de’ consigli municipali. E per vero le città
primeggiarono nella mutazion di stato ch’or maturavasi; ad esse si
accostò la più parte dei baroni, non per anco sviata dalla causa
siciliana per timori e vizi d’ordine. La generalità dunque della
nazione, tenendo alle libertà conquistate nel vespro, e abborrendo
dalla dominazione di casa d’Angiò e della corte di Roma, presentava
durissimo ostacolo a Giacomo; e tale anco gli era il proprio fratello,
l’infante Federigo.
Venne Federigo in Sicilia appena fuor di fanciullo; quivi
prestantissimo divenne, non meno all’armeggiare e in ogni esercizio di
guerra, che negli studi delle lettere, allora in molto onore appo noi,
de’ quali ebbe tal vaghezza, che poetava ei medesimo in lingua romanza,
e amico fu dell’Alighieri, pria che lo sdegnoso spirito ghibellino
lo sfatasse come dappoco. Ma brioso di gioventù, bello e gagliardo
della persona, pronto d’ingegno, di piacevol tratto, a tutti grato ed
umano, e fratello di re, caldamente l’amava il popolo, ch’ha femminil
andare di passioni; e poteva anco da maturo consiglio augurarsen
bene, al vederlo con moderazione e giustizia tener le supreme veci, e
con ogni studio procacciare la prosperità del paese, che s’ebbe pace
e abbondanza sotto il suo vicariato[100]. Necessità politica, spesso
sentita come da istinto innanzi che netta si divisasse alle menti,
fe’ coltivar a Federigo con maggiore studio quelle virtù, e ’l rese
più caro al popolo; portandoli entrambi a sperar l’uno nell’altro; e
spingendoli a tali termini, che forse niuno si proponeva dapprima.
Così la parte patriottica in Sicilia rannodavasi intorno a Federigo,
sperando mantenere gl’intenti della rivoluzione del vespro, senza
metter giù la monarchia nè la dinastia aragonese; e ne diveniva più
solida e più forte.
Contro tal volere della massa della nazione, Giacomo potea trovar
sostegno in una sola fazione. Accese le guerre del vespro, gli usciti
di terraferma adunaronsi sotto le nostre insegne, massime dopo la
esaltazion di re Pietro; cercando fortuna, e sfogo all’odio contro
casa d’Angiò, e termine, se si potesse, al doloroso lor bando. Molto
con lor pratiche operaron costoro nelle guerre di Calabria; molto
stigarono i Siciliani stessi, come nell’eccidio de’ prigioni a Messina
nell’ottantaquattro, temendo sempre non allenasse la rivoluzione. Ma
più che alla Sicilia, teneano al re, che speravano s’insignorisse
della lor patria; e intanto li gratificava di feudi e ufici. In più
numero ebbero simile stato in Sicilia uomini catalani e aragonesi,
creature della corte, e però, al par degli usciti di Puglia, esosi a’
Siciliani, per gelosia dei premi che gli uni e gli altri usurpavano.
A costoro s’univa, perchè non mancano i rinnegati giammai, qualche
Siciliano. E con tal fazione servile pensò Giacomo di mercatare la
tradigione della Sicilia; a chi profferendo di redintegrarle ne’ beni
lasciati in Puglia, senza perdita de’ nuovi acquisti in Sicilia; a
chi minacciando lo spogliamente di sue sostante in Ispagna; tutti
adescando con promesse, carezze, e inique speranze sotto sante parole.
Chi ha appreso il nome di Giovanni di Procida su le novelle istoriche
che il danno autor del vespro, maraviglierà a vederlo primeggiare in
questa fazione e tener pratiche con lo stesso re di Napoli, s’ignora
se di voler di Giacomo, o senza. Ma oltre le parole de’ nostri
istorici, ond’ei si scorge pochi anni appresso scopertamente sorto
contro i patriotti siciliani e Federigo, e oltre i documenti della
restituzion de’ suoi beni nel reame di Napoli, pattuita espressamente
tra Giacomo e Carlo II[101], avvi, monumento di vergogna al suo nome,
uno spaccio di Carlo al siniscalco di Provenza, dato il venti marzo
milledugentonovantatrè, perchè libero mandasse a corte di Napoli il
siciliano Pietro di Salerno, inviato a Carlo dal Procida, e fatto
prigione in Marsiglia[102]. Cimentato quel gran nome con le forze che
ha in oggi l’istoria, sen dileguano i vanti della prima congiura: gli
resta la sola feccia di questa seconda contro la Sicilia.
Entrando il novantadue, re Carlo e ’l papa mandarono oratore a Giacomo,
Bonifacio di Calamandrano, maestro degli Spedalieri gerosolimitani
di qua dal mare[103], famoso in arme e assai destro ne’ maneggi di
stato. Col quale il figliuol di re Pietro, discepolo di Procida,
temporeggiò[104] per la sopravvenuta morte del papa; rispondendo, che
per essergli i Siciliani compagni nei dritti politici, non soggetti
impotenti, ad essi ne riferirebbe: e in vero pensò che, non assentito
da loro, rimarrebbe in carte ogni accordo. Inviava dunque a tentar
gli animi Gilberto Cruyllas, cavalier catalano, che approdato in
Messina il due aprile del novantatrè, conturbò d’ansietà dolorosa
tutti i Siciliani. Vagamente spargeasi, divisato pace con Francia e re
Carlo, e di riaver la grazia della Chiesa; ma spiegavan queste scure e
compilate parole la disarmata flotta, i mercenari licenziati senza pure
sgravar le collette, sopra ogni altro, gli stormi di frati stranieri
che, chiudendo gli occhi i governanti, svolazzavan sinistri per tutta
l’isola, a spiare, novellare, cercare i penetrali delle coscienze,
ingerirsi appo nobili e cittadini. Ondechè adunato al venir di Gilberto
un parlamento, apparve manifesto il voler della nazione. Pochi vollero
assentire; negaron la pace i migliori, com’evidente magagna: e si
deliberò che ambasciadori s’inviassero a intender espresso l’animo del
re. Furon trascelti a nome di tutto il sicilian popolo, tre Messinesi,
Federigo Rosso e Pandolfo di Falcone cavalieri, e Ruggiero Geremia
giurisperito, e tre Palermitani, Giovanni di Caltagirone e Ugone Talach
cavalieri, e Tommaso Guglielmo. In Barcellona appresentaronsi a Giacomo.
Il quale fe’ loro lieta e famigliare accoglienza, condottili nelle più
segrete sue stanze: e parlava, esser cresciuto tra i Siciliani; da
loro aver tolto pensieri, costumi, usanze; pensassero s’altro potea
bramare che il ben del paese; ed ecco che non da principe, ma come un
altro cittadino, con essi triterebbe il negozio, divisato a onore ed
util comune. E gli ambasciadori, non presi alle blandizie del re, si
guardavan l’un l’altro. Ma il Falcone, accorto e bel parlatore, venne
alle prese. Giustizia, dissegli, e verità che l’è compagna, voglionsi
nel trattar le sorti de’ popoli: e dolce è ad ogni uomo la parola di
pace; ma grossolana favola assai questa, che Roma e casa d’Angiò, dopo
dodici anni d’oltraggi, di paure, di sangue, or lasciasser di queto
la Sicilia. I sospetti poi toccò di que’ provvedimenti del governo
regio in Sicilia; l’aperta frode del profferire all’infante Federigo
l’uficio di senator di Roma, per trarlo dall’isola. Nè sperasse il re
ferma pace in Aragona, in prezzo de consegnar legato mani e pie’ un
generoso popolo; nè sperasse cansar da infamia il suo nome. Se pure,
ei ripigliò, il gravava questo combattuto regno, perchè non lasciarlo
provveder a sè da sè stesso, dando la corona a Federigo, non per dritto
di successione, ma per elezion del popolo, lietissimo auspicio a chi
unquemai la Sicilia reggesse? E se tremassero Giacomo e Federigo e
tutti i reali d’Aragona, chiamerebbero i Siciliani un altro Federigo,
rampollo della casa di Svevia; troverebbero i più disperati partiti,
pria che abbassar le aquile dianzi agli abborriti gigli[105]: e se
Iddio non benedicesse le armi loro, affranti alfine e debellati,
vibrerebbero gli ultimi colpi ne’ petti de’ propri figliuoli e delle
donne; sè stessi con quelle care vittime scaglierebbero nelle fiamme
delle città. Ma Giacomo non se ne mosse. Lodò i legati di zelo; lodò
i suoi propri maggiori di fede ai popoli: ei, nato di quel sangue,
non che non abbandonar la Sicilia, combatterebbe per lei finchè gli
restasse spirito di vita[106]. Con questo focoso parlare accomiatolli:
e non andò guari che di novembre, abboccatosi tra Junquera e Paniças
con re Carlo, fermò i patti, a sè più avvantaggiosi, verso la Sicilia
più rei, che que’ d’Alfonso, maladetti da lui medesimo, tre anni prima.
Tennersi in segreto grandissimo; aspettando a ultimarli in buona
forma, che fosse rifatto il papa, e raggirato, col popol di Sicilia,
anco l’infante Federigo[107], cresciuto di potenza, perchè come i
nostri videro più da presso la minaccia del giogo angioino, la perfida
morbidezza di Giacomo, prendendone sempre in maggiore abborrimento
la dominazione straniera, che sotto Carlo li avea calpestato sì
orrendamente, sotto il re d’Aragona macchinava tal tradigione, vennerne
al fermo proposito di rifarsi indipendenti; e più s’accostaron gli
animi a Federigo.
Allor sopravvenne la elezione del nuovo pontefice, tardata oltre due
anni per Discordia de’ cardinali, precipitata come per caso, a dì
cinque luglio del novantaquattro, col tristo spediente di chiamare
un uom dappoco; ma sotto ogni pochezza nelle cose mondane fu Pietro
da Morrone, romito abbruzzese, che per vita povera, e straziata
d’austerità, avea già riputazione di santo[108]. La quale esaltazione
come fu nota a corte d’Aragona, Giacomo affrettavasi a ultimare il
trattato. Inviò in Sicilia a diciotto di luglio Raimondo Vlllaragut,
che ritentasse di trarre al suo intento Federigo, e la madre, e gli
nomini di maggior seguito. Volle tor dal fianco di Federigo, Corrado
Lancia e Blascoq Alagona, intrinsechi del giovane; ai quali il re
comandava che di presente venissero in Catalogna. A Corrado surrogò un
uom suo, Ramondo Alamanno, sì nell’uficio di gran giustiziere e sì nel
comando del castel di San Giuliano[109]. E intanto la guerra, condotta
fin qui assai debolmente come finita nell’animo de’ governanti, posava
del tutto in una tregua[110]. Carlo II, per pratiche, racquistava
Cotrone in Calabria[111]; e a darsi riputazion di munificenza, largiva
immunità a questa e quell’altra terra, travagliata per l’addietro da’
nimici[112].
Celestino V, tal nome prese Pier da Morrone, volle tra’ suoi Abbruzzi
in Aquila consagrarsi: entratovi per umiltà sur un asino; ma
l’addestravano due re, Carlo II di Napoli, e Carlo Martello d’Ungheria,
fattisi, tra per pietà e ambito, a corteggiarlo assai strettamente.
Preso alle quali arti, non ostante che vi ripugnasse forte il sacro
collegio, Celestino fissò la sede in Napoli; creò molti cardinali di
nazione o parte francese; e fuor da’ consigli e dagli usi della romana
corte tanto uscì di via, che religiosi scrittori del tempo, scherzando
sulle formole, il proverbiavano: da pienezza di semplicità, non di
potestà, decretar Celestino[113]. Ma portato dalla corte di Napoli, ben
per la Sicilia fe’il papa.
Con lo stracco pretesto di Gerusalemme, e di volere far pianta
di quella guerra la nostra isola, ratificò a primo d’ottobre
milledugentonovantaquattro il trattato di Junquera. Nel quale Carlo
promettea d’impetrare per Giacomo e il suo reame, piena assoluzione
dalle scomuniche, piena remission d’ogni offesa che i reali di Aragona
e que’ popoli e i popoli di Sicilia recato avessero a casa d’Angiò
e alla santa sede, e la restituzione del reame d’Aragona, in que’
dritti e termini medesimi in che il tenea re Pietro pria delle sue
scomuniche; al qual effetto re Carlo procacciasse la rinunzia del re
di Francia, e di Carlo di Valois. Restituiva Giacomo a Carlo tutti
gli statichi; restituiva le Calabrie, e le isole adiacenti a Napoli.
Stipulava rimetterebbe la Sicilia con Malta e le altre isole adiacenti,
in poter della Chiesa nel termine di tre anni dal primo novembre del
novantaquattro, a patto che la Chiesa tenessela un anno, nè la cedesse
ad alcuno senza saputa di Giacomo. E vergognosa conseguenza ne fu
l’altro patto, che resistendo i Siciliani, ei s’adoprerebbe con la
forza a domarli[114]. Assentiti questi accordi, largheggiò Celestino
a re Carlo per la difesa del suo reame e ’l racquisto dell’isola, le
decime ecclesiastiche delle province francesi per quattro anni, e
per un anno quelle d’Inghilterra e d’altre regioni di là dai mari.
Poco stante chiamò Giacomo stesso ad Ischia: scissegli apponendo a
grave peccato, per cagion di parentela, il matrimonio con la Isabella
di Castiglia; e mandavagli che fuggisse quelle nozze per menar una
figliuolia di re Carlo, a lui congiunta ancora di sangue[115]. A tai
scandali ne venne il pio Celestino; nè pur fu destro a servirsene,
perchè prese termine sì lungo all’affare di Sicilia, e non assicurò
punto la sommissione de’ popoli, non compose del tutto le differente
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