La guerra del Vespro Siciliano vol. 2 - 02

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come un Castiglione, ingegnere dell’armata, sì fino giocava il mangano
da imberciare a ogni colpo il pozzo unico del castello. Però, ancorchè
stesser saldi agli assalti, per essere in sito avvantaggioso e grossi
di numero, il numero accrescea la strage, perdendosi pochi colpi degli
assedianti: e più travagliavali il fetor dei cadaveri, l’acqua scarsa
e corrotta, la fame che li portò a cibarsi de’ cavalli e suggerne
il sangue. Ai trentaquattro dì, svanita una speranza di pioggia, nè
apparendone alcuna d’aiuti, i Pugliesi del presidio abbottinaronsi
sotto Giovanni Boccatorsola, giovane cavato napolitano, che assai vivo
parlò al legato: ma furono ad inganno, ei preso e dicollato, messi fuor
del castello gli ammutinati inermi; su i quali i Francesi buttan da’
merli il tronco di Giovanni, e con tiri di pietre li scacciano. Vennero
alle linee de’ nostri, e furonne ributtati per timor di fraude: tre dì
la misera plebe, tra due nimici, arrabbiando di fame e sete, disperata
gridava pietà. L’ebbe da Giacomo, salve solo le vite. Agli stessi patti
si arrese a dì ventitrè giugno milledugentottantasette, dopo quaranta
d’assedio, Rinaldo d’Avella, col legato e le reliquie del presidio: e
in quell’istante frate Perron d’Aidone, autor primo di tanto miserando
strazio d’umani, per fuggir supplizio, o non sostenere il rammarico
dell’impresa fallita, diè rabbiosamente del capo sulla muraglia, e finì
suicida quel tempestoso suo vivere[36].
Lo stesso dì la bandiera siciliana ebbe una splendida vittoria nel
golfo di Napoli. Messe in punto le macchine all’assedio d’Agosta,
navigò l’ammiraglio a Marsala; ove non trovando i nimici, tornossi
al re, e deliberavano di combatter senza indugio l’altro armamento
apparecchiato sul Tirreno. Perilchè, rinforzato d’altre cinque galee
di Palermo, delle quali fu capitano Palmiero Abate, e promesso alle
genti, dice Speciale, un donativo, o piuttosto che fosse buon acquisto
a’ privati ogni preda di quest’impresa, come porta il Montaner che
meglio se n’intendea e a quest’uso attribuisce i maravigliosi fatti
di quelle guerre, l’ammiraglio poggiò a Sorrento. Seppevi il sedici
giugno pressochè pronta l’armata a Castellamare; andò a riconoscerla
egli stesso; e risoluto ad affrettar la battaglia, scrisse una sfida
all’ammiraglio nimico, il nobil Narzone. Avea questi, tra teride
e galee, ottantaquattro legni grossi; su i quali montò il forte
dell’oste, con assai nobili e cavalieri, e quei primi feudatari poco
minori del principe stesso, i conti, di Monteforte, di Ioinville, di
Fiandra, di Brienne, d’Aquila, di Monopoli, il primogenito di quel
d’Avellino: onde questa poi si nomò la battaglia de’ conti. In mezzo
alle schierate navi stette l’ammiraglio angioino, armando di fortissima
gioventù la sua galea, circondata di otto più, a fronte, a tergo ed ai
fianchi; e su due vaste teride alzò i due stendardi della Chiesa e de’
reali angioini. Spiegavano all’incontro le aquile siciliane quaranta
galee, schierate da Loria, in qual ordine non sappiamo, ma sol ch’ei
spartì gli ufici della gente, quali a ferir con tiri di balestre o di
sassi, quali ad aggrappar le navi nimiche e arrembarle. Allo schiarire
del giorno, il ventitrè giugno, un acuto fischio uscì dalla nostra
capitana, e l’armata si preparò. Esortata con lieto piglio da Ruggiero,
gridò i santi nomi di Cristo e di Nostra Donna delle Scale; e vogò
contro le bandiere papali.
Guglielmo Trara primo urtava la fila nimica, dalla quale quattro
galee spiccansi a circondarlo, e altre seguivanle; ma volano alla
riscossa le galee di Milazzo, Lipari, e Trapani, poi di Siracusa,
Catania, Agosta, Taormina e infine di Cefalù, Eraclea, Licata, Sciacca;
talchè svilupparon Trara, e universale ingaggiarono la battaglia: un
contro due i nostri, ma più pratichi del mare, si fidavan di vincere,
incoraggiati sì dall’ammiraglio, che a veggente di tutti, dall’alta
poppa della galea in fulgida armatura comandava. Sanguinosa indi e
lunga la giornata si travagliò, finchè spossati i nimici, e standosi
inoperose dal canto loro le galee genovesi, avventavansi i Siciliani
sulle altre all’abbordo; e cominciò la fuga alla volta di Napoli.
Questo chiarì la vittoria. La quarta che i nostri guadagnavano in
questa guerra per giusta giornata navale; la più nobil tra tutte per
disavvantaggio di forze, ostinazione al conflitto, e numero di navi
prese: e rimutò le sorti della guerra al par della prima battaglia del
golfo di Napoli tre anni innanti, e di quella dell’ottantacinque al
capo di San Sebastiano; ma ebbero queste maggior grido, l’una per la
presura del principe Carlo, l’altra per la Catalogna liberata dalle
armi di Francia. Più migliaia tra di nemici e nostri caddero in questa
giornata. Accrebbero lo splendor della vittoria quarantaquattro galee
prese, con le bandiere, l’ammiraglio nimico, tutti i conti, trentadue
nobili, e quattro o cinque mila più uomini. Mandolli Ruggiero sotto
scorta di dieci galee siciliane a Messina; fe’ atroce rappresaglia
d’una enormezza del nemico, o seguì gli atroci esempi di quelle guerre
e di quella età, accecando parecchi prigioni; e con le altre trenta
galee, spedito difilossi al porto di Napoli[37].
Dove il popolo, come si suole, appiccava ai governanti questa
sconfitta; e scompigliavasi, e sarebbesi ribellato, se l’ammiraglio
avesse incalzato per poco, e Gherardo ed Artois, sopraccorsi a tempo,
con loro riputazione non l’avessero contenuto. Ruggiero usò la vittoria
vendendo a’ reggenti per grossa somma di danaro, tregua per due anni
su i mari; senza mandato del re, senza pro della Sicilia, con dar
comodo al nemico a rifarsi, e troncar il corso della fortuna. Però
nei consigli di Giacomo gli emuli dell’ammiraglio ribadivan le accuse,
e dicean tra’ denti fellonia; ma Giovanni di Procida, ch’era innanzi
a tutti nell’animo del re, perdonar fece tal colpa alla gloria;
parendogli non doversi provocare un tant’uomo, o volendolo in corte
privato sostegno a sè medesimo.
Pertanto quando Loria tornò con la flotta a Messina, non fu conturbato,
non fu troppo gioioso il trionfo. È degno di memoria, che alla
dedizione d’Agosta, Giacomo vietò per questa vittoria sulle bandiere
della Chiesa ogni pubblica allegrezza, fuorchè gl’inni al Signore. Ben
attese a ristorar il castello d’Agosta, a rafforzar con un muro di
cinta castello e città; e questa, diserta dalla strage del sessantotto
e dal nuovo assedio, ripopolò con bandire, che tutti i Siciliani e
Catalani che vi prendesser soggiorno, avrebbero stabili e franchige.
De’ prigioni, Rinaldo d’Avella e il vescovo di Martorano si permutarono
col castel d’Ischia (tanto fur leali ad essi i reggenti di Napoli);
ma se l’ebbero a vergogna que’ cittadini, perchè per dodici anni,
tenendo i nostri le bocche del golfo, riscotean tributo d’un fiorin
d’oro all’uscita d’ogni botte di vino, e doppio sull’olio, e sì sulle
altre merci. Per moneta si ricattaron gli altri nobili e’ conti;
fuorchè Guido di Monteforte, quel che non temè d’assassinare nel tempio
del Signore l’innocente Arrigo d’Inghilterra, e or nelle prigioni di
Messina morì di malattia, dicono alcuni scrittori, per serbare castità
e coniugal fede[38].
Valida per queste vittorie e per prosperità al di dentro, posò la
Sicilia intorno a due anni, non curante delle invettive che lanciavale
papa Niccolò IV, non guari dopo la sua esaltazione, il giovedì santo
dell’ottantotto[39]: e, durando la tregua, trattavasi anco la pace,
ma da oltramontani, e perciò male per noi. Perchè stando gl’Inglesi
con Francia in pace sospettosa e mal ferma, Eduardo, veggente assai
nelle cose di stato, temea non s’aggrandisse quel reame con l’impresa
d’Aragona; e, a torne cagione, procacciava in sembianze amichevoli la
liberazione di Carlo lo Zoppo e la pace. A ciò mosse le raccontate
pratiche al tempo di re Pietro[40]. A ciò, dicendo muoversi ai preghi
de’ figliuoli di Carlo e degli ottimati di Provenza, divisava un
congresso a Bordeaux con gli oratori di Aragona, Francia, Castiglia,
Maiorca, e i legati di Roma[41]: e ito a Parigi a dì venticinque
luglio dell’ottantasei, fermò tra Francia e Aragona una tregua[42],
non potendo la pace; perch’era durissimo a sciorre tal nodo. Giacomo,
afforzandosi ne’ preliminari assentitigli in Cefalù dallo stesso
Carlo, chiedeva, oltre il parentado con lui, la Sicilia, la diocesi di
Reggio, e il tributo di Tunisi: la corte di Roma, pugnando pe’ reali
d’Angiò più ostinatamente ch’essi medesimi non bramavano, rivolea la
Sicilia a ogni modo: Alfonso per interessi di famiglia e di nazione
tenea al fratello: induravano il re di Francia la romana corte e il
Valois. Eduardo dunque, poichè non seppe spuntar di suoi propositi
il pontefice che nulla temea, si volse ad Alfonso, imbrigliato
assai strettamente dalle corti d’Aragona e di Catalogna, ch’erano
impazienti di tal cumulo di danni per interesse non proprio, e le
turbava il novello romoreggiar delle armi francesi in Rossiglione.
Alfonso tentennò: poi a poco a poco, tirato da Eduardo, cominciò ad
abbandonare il fratello, in un accordo fermato ad Oleron in Bearn.
Parve poco questo trattato alla corte di Roma, che il disdisse; e
perciò i pazienti principi l’anno appresso rifecerlo, il venzette
ottobre milledugentottantotto, a Campofranco; ove, menomate in fatto
le guarentige d’Oleron, e lasciato dubbio là dove non poteasi far
l’accordo, Alfonso liberò il prigione, senza fermar patti espressi
per Giacomo, nè per la Sicilia, posponendo al suo proprio comodo il
manifesto dritto della Sicilia, le cui armi, non quelle d’Aragona,
avean cattivato il principe nel golfo di Napoli. Indi Carlo II,
lasciati per lui in carcere tre figliuoli, e pagati ad Alfonso
trentamila marchi d’argento, libero n’andò all’entrar di novembre
milledugentottantotto. Giurò che renderebbesi alla prigione, s’entro
un anno non procacciasse la pace ad Aragona. Ma di tal sacramento
il papa lo sciolse, insieme con Eduardo e co’ baroni mallevadori;
stracciò come disorbitante e nullo il trattato di Campofranco, scritto
da un officiale della romana corte; e continuò a conceder decime
ecclesiastiche al re di Francia, e a mostrar di favorire gagliardamente
l’impresa di Valois, per allontanar sempre Alfonso dal fratello, e
ottener senz’altri compensi la liberazione de’ figli di Carlo lo Zoppo,
com’avea conseguito quella del padre. L’anno appresso questo principe,
ancorchè uomo onesto e intero, fu piegato da simili ragioni a compier
la favola, appresentandosi con un grosso stuolo d’armati al colle di
Paniças, come se pronto a rientrare in prigione: e promulgò non aver
trovato chi ’l raccettasse; aver soddisfatto dal suo canto a ogni cosa;
e ridomandò infine gli statichi e la moneta.
Tal fu il primo esito delle negoziazioni tra gli oltramontani principi
pe’ fatti della rivoluzione nostra del vespro. Piegavano, com’anzi
dissi, a nostro danno, per la potenza della corte di Roma, e perchè
gl’interessi della Sicilia restarono in balìa del re d’Aragona, ch’era
costretto ad abbandonarli se volea restare sul trono. Indi Giacomo
ripigliò incontanente le armi, fidando nella nazione siciliana, che
avrebbe avuto a combattere per le vite, per la libertà e per la
corona del re. E Carlo II intanto, passato di Provenza in Italia, fe’
omaggio del suo reame al papa; e funne coronato a Rieti il diciannove
giugno milledugentottantanove, con grande allegrezza di tutta parte
guelfa d’Italia, che si vedea reso il suo principe. Cavalcò questi
immantinenti alla volta del regno, che i Siciliani già laceravano con
aspra guerra[43].
Perchè Giacomo di primavera dell’ottantanove risoluto l’assaltava,
tirato ancora da una pratica con cittadini di Gaeta. Passa a Reggio il
quindici aprile con quaranta tra teride e galee, quattrocento cavalli,
e dieci migliaia di fanti: il quindici maggio muove a risalir lungo
la costiera occidentale di Calabria; avanzandosi ei di terra con le
genti, l’ammiraglio con la flotta; l’uno a veggente dell’altro, perchè
operassero insieme. Occupavan Sinopoli, Santa Cristina, Bubalino,
Seminara, e per duri assalti anco Monteleone, sbarcatevi le ciurme;
e Rocca, Castel Mainardo, Maida, Ferolito, Aiello. Volle Artois
fronteggiarli, e s’ebbe a ritirare in fretta alle province di sopra;
dapprima campando appena da un agguato; poi non fidatosi a investire
il siciliano campo; e infine confuso dall’ardir di Calcerando e de’
fratelli Sarriano, che con picciolo stuolo, percotendo di mezzo al suo
campo sotto Squillaci, entrarono a rafforzar la terra e mantenerla
nella fede di Giacomo. Arrendeansi indi a’ nostri Amantea, Fiume
Freddo, Castel di Paola, Fuscaldo; resistean le rocche di Castel
Belvedere e San Gineto, tenute entrambe da Ruggiero San Gineto,
assecurandole il forte sito e la virtù del signore, e anco della
moglie, la quale con virile animo fu vista sugli spaldi di San Gineto
inanimire il presidio, e di sua mano piombar sassi sulle teste de’
nostri, che con l’audacia di tante vittorie stormeggiavano il castello.
Giacomo, lasciata Belvedere, strinse duramente quest’altra fortezza,
impaziente di seguire il corso delle sue vittorie, e adirato contro
Ruggiero, che caduto già una volta prigione dei nostri nel frequente
scaramucciar di Calabria, avea promesso di risegnare il castello, dando
statichi due figliuoli, ed or negava i patti e si difendea con tanto
valore[44].
Quivi un miserando caso attristò que’ medesimi animi infelloniti nelle
ostinate lotte dell’assalto e della difesa. Era il castello presso
ad arrendersi per diffalta d’acqua, quando una inaspettata speranza
di pioggia tanto il rinfrancò, che tornando alle offese, fu tolta di
mira coi mangani la tenda stessa di Giacomo. L’ammiraglio a questo,
rompendo ai soliti trapassi d’ira cieca e spietata, fa drizzare co’
remi un palco dinanzi la tenda; fa legarvi i due figliuoli, avvertito
e veggente Ruggiero. Il seppe la madre, e con dolor disperato, corse
alle mura, pregò i suoi, pregò i nemici, scongiurò ora il re di
Sicilia, ora il feroce consorte: e i combattenti arrestavan la mano da’
colpi, lacrimosi guardando tutti Ruggier San Gineto. Qui altri dice
ch’ei fe’ star la macchina, altri che con atroce virtù comandava di
trar sempre. In questa tragica tensione d’umani affetti, s’era chiuso
d’oscuri nugoli il cielo; disserravasi un turbine; il fremito de’
venti, il polverio confondeano ogni cosa; quando tra le ondate della
caligine si vide il palco andare giù in un fascio, non si sa bene se
per tiro del castello o folata di vento. Al maggior de’ giovanetti
entrò nella tempia un palo aguzzo che l’uccise. Giacomo rendea ai
miseri genitori il cadavere con onor di pompa funerale, rendea libero
l’altro figliuolo, e scioglieva anco l’assedio. Perchè vedendo per
quella medesima tempesta rifornito d’acqua il castello, e la propria
sua flotta campata appena da grave rischio su quelle costiere; e
tardandogli di mandare ad effetto una pratica con cittadini di Gaeta,
rientrò in mare con tutte le sue forze per seguire i disegni della
guerra[45].
Toccò Scalea, Castell’Abate, Capri e Procida che per lui si teneano;
soprastette in Ischia; e smontò l’ultimo di giugno a Gaeta, agevolmente
messo in fuga il conte d’Avellino, che in quello incontro ricordossi
troppo vivamente la passata sua prigionia in Sicilia. Mala fazione
che avea chiamato Giacomo, presumendo assai delle proprie forze[46],
sparatissima si trovò in quel tempo, in cui re Carlo II con tutti gli
aiuti di Roma, rientrato nei regno per Solmone e Venafro, avviavasi
a Napoli[47]. Largivagli il papa le decime ecclestastiche per tre
anni[48]; bandiva per tutta Italia la croce, seguita in frotte da
Guelfi di Lombardia e di Toscana, da Abbruzzesi, Campani e altri
regnicoli, oltre le milizie feudali chiamate al servigio. Sotto il
vessillo della croce e i comandi del legato pontificio, veniano i
Saraceni di Lucera. Vide con gli occhi propri il Neocastro, donne
portar armi tra quelle masnade, menarsi a guinzaglio grassi mastini per
isfamarli di scomunicata siciliana carne. Questo esercito smisurato,
sì diverso e bizzarro, capitanava il conte d’Artois[49], in cambio del
non guerriero monarca, inteso in Napoli a chiamar parlamento[50], e con
arti più miti tentare i Siciliani, promettendo perdono, e riforme, e
che Francesi non manderebbe a governare la Sicilia, ma un legato del
papa[51].
La fama dunque di tai forze, precorrendole a Gaeta, voltò tutti gli
animi a parte angioina; tantochè gl’indettati con Giacomo furono i
primi a gridare contr’esso. Però di ripari e provvedigioni si munì
bene la terra; il re, tentate indarno le pratiche, dopo alquanti dì
si pose a sforzarla: accampatosi sur un poggio egli coi cavalli e
il fior delle genti; e gli altri pedoni attendò al piano, trinceati
ambo i campi, antiveggendosi il pericolo. Con assalti forte dati e
forte respinti, e scambievole trar delle macchine gran pezza passò
quest’assedio: occuparono e poser a sacco i nostri Mola di Gaeta;
poi infino al Garigliano da un lato, a Fondi dall’altro, corser
guastando e saccheggiando i contadi di Nola, Maranola, e Tragetto;
ma Gaeta si danneggiava aspramente e non espugnavasi. Indi a poco
sopravvenendo l’oste crociata, corse in frotte a stormeggiare i
siciliani alloggiamenti; da’ quali ributtata con molto sangue,
anch’essa a picciol tratto si accampò. Gaeta dunque tra la flotta e le
genti nostre, queste tra la città e il nimico alloggiamento assediati
stavano, percotendosi coi tiri a vicenda. S’ebbe maggior travaglio
alla campagna, scaramucciando i nostri ogni dì or coi Saraceni, or coi
Toscani crociati, or co’ Francesi; e spesso i mastini lasciati contro i
nostri, sfamaronsi delle membra di chi li avea portato ausiliari alla
guerra. Leucio, sì glorioso ne’ fatti dell’ottantadue, e Bonfiglio,
messinesi, segnalavansi in questi affronti. Matteo di Termini in più
grossa battaglia cominciata un dì, sfracellò coi tiri delle macchine
la falange serrata de’ nimici. Non parea vero che diecimila uomini
tenesser sì saldo tra una città e uno esercito fortissimi. All’oste
siciliana si volgeano per la sua virtù le menti, i cuori, fin de’
nemici; piena di maraviglia e di perplessità, tutta l’Italia aspettava
ormai la catastrofe[52]. Ma intanto la violazione de’ patti d’Oleron
e di Campofranco, comandata, com’aperto vedeasi, da Roma, incresceva a
Eduardo; e a confonder Niccolò venner anco di levante lagrimevolissimi
avvisi: scacciati di Soria i cristiani; presa Tripoli dal Soldano con
orribili atti di crudeltà; strette d’assedio in Acri le reliquie de’
fedeli che imploravan soccorso. Però Eduardo, non più sopportando
che si spiegasse la croce contro cristiani mentre i maumettisti la
calpestavano in Asia, mandò al papa per Odone di Grandisson una
ambasciata acerba: che cessasse tanto scandalo; o alfin si aspettasse
l’ira di tutti i principi cristiani. Umiliossi Niccolò a tal forza
di verità. Spacciò, insieme con l’inglese, un messaggio a re Carlo,
portatosi il diciotto agosto al campo a Gaeta; il quale non era uom da
ricusare la tante volte promessa cessazione dalle armi. Aggiunte tai
pratiche alla difficoltà, che vedeasi d’ambo i lati durissima, a ben
finir questa fazione, fecer tosto fermare la tregua.
Vanno dall’un campo all’altro oratori a parlamentar di pace; nel
quale incontro scrive il Neocastro, che i cavalieri francesi entrati
nelle tende del sicilian re, vedendole sfolgorar di spade, lance e
tutti ornamenti d’arme, e per ogni luogo le ben acconce macchine, e
gli alloggiamenti trinceati con sapienza di guerra, ricordasser con
rammarico le stanze del secondo lor Carlo, come cella di chierico,
piene di libri profetici, musaici, dalmatiche in luogo di corazze.
Quanto all’importanza del trattato, battendo gli angioini oratori su
lor fola della cessione dell’isola, Loria al cospetto di re Giacomo
rispondea brusco: non lascerebbe la Sicilia, se tutto il mondo venisse
crociato sovr’essa. Indi del mese d’agosto milledugentottantanove si
fermò tra Sicilia e Napoli, in luogo della pace che non si poteva, una
tregua infino al dì d’Ognissanti del novantuno, con questi patti: che
si posasser le armi sì in mare e sì in terra, fuorchè nelle Calabrie e
presso il Castell’Abate e in qualche altro luogo: che potesse Giacomo
per mare vittovagliare e munire tutte le terre occupate da esso; non
portar l’armata innanzi a quelle ch’ubbidivano a Carlo: che nelle
infrazioni della tregua, si provasse il danno dinanzi a’ magistrati
della parte offesa, o a Giovanni di Monforte per re Carlo, a Ruggier
Loria per Giacomo; e tra dì quaranta il principe dell’offensore ne
facesse risarcimento. Notevol è tra questi articoli, e mostra con
quali indisciplinate masnade la Sicilia riportava tante vittorie,
il patto che restasser fuori della tregua gli almugaveri, de’ quali
Giacomo non si facea mallevadore; ma ben promettea non favorirli in
loro fazioni, e non mandarvi uficiali, nè mercenari suoi. Di tal
tregua presero grandissimo sdegno i baroni di re Carlo, che sentendosi
dieci contr’uno, speravan rifarsi una volta delle sconfitte toccate
nella siciliana guerra. Secondo i patti, primo levò il campo re Carlo,
tre dì appresso Giacomo; il quale imbarcatosi con tutte le genti il
dì penultimo d’agosto, prese il porto di Messina a sette settembre,
dopo aver corso a capo Palinuro grande fortuna di mare. Ricantando
le bravate dei baroni di Carlo, alcuno scrittore di quel reame, poi
sentenziava che seguitando le offese, sarebbe stata senza dubbio
inghiottita la picciol’oste di Sicilia; ma il guelfo Villani accetta
esser tornato utilissimo quell’accordo al regno di Puglia; e Carlo
stesso, men vantatore de’ suoi, di lì a pochi mesi non gloriavasi
d’altro che dell’aver Giacomo tentato senza pro la espugnazione di
Gaeta. Lo stesso può argomentarsi dalla fermezza de’ capitani di
Sicilia nel trattare; dall’essere rimaso Giacomo signore della più
parte delle Calabrie, oltre le terre occupate qua e là per altre
province; e dagli altri onorevoli patti che fermaronsi per, termine di
questa certo audacissima impresa sulla estremità opposta del territorio
nemico[53].
Nei due anni appresso, sostando la grossa guerra con Napoli, male
si osservò la tregua; com’eran gli uomini sempre con le armi alle
mani, e avvezzi ad offendersi e rubacchiarsi a vicenda; talchè or
per cupidigia, ora per rappresaglia, ora per non potersi raffrenare
gli almugaveri, continuarono scambievolmente le prede in mare, gli
assalti in terra[54], a quanto pare con maggiore avvantaggio dalla
parte dei nostri, che fean bottega de’ prigioni[55], e per mare
talvolta minacciarono[56], talvolta consumarono importanti fazioni[57];
alle quali l’ammiraglio preparossi il pretesto, lagnandosi una fiata
d’infrazione a’ patti, e aggiugnendo: non parlare per ambagi; ciò che
avea in cuore nol mentiva col labbro; sapessero ch’egli osserverebbe
la tregua al modo stesso che feano i nemici[58]. In questo tempo le
armi siciliane mostraronsi ancora con gloria in levante. Andò Loria
con la flotta a riportare il Margano principe d’Arabi, che in Sicilia
promettea riscatto; e appena sbarcato in terra maomettana, cavalcando
con uno stuol de’ nostri a Tolomitta, l’avviluppò d’insidie; ma essi
con incredibili prove strigatisi da’ barbari, e sforzato il re a
noverar la moneta, si tornavano con quella a Messina. Nel medesimo
tempo venuto a Messina Giovanni di Greilly, quel siniscalco di Eduardo
che adoprò sì leale con re Pietro a Bordeaux, ed or s’era partito
d’Acri per sollecitar aiuti della Chiesa, Giacomo, raccoltolo con assai
onore, gli die’ sette galee siciliane che in que’ luoghi combattessero
per la fede[59]. Più notevoli furono in questo tempo le pratiche della
pace.
Perchè vennero da chi solo potea portarle a compimento; parendo papa
Niccolò divenuto a un tratto più mite, per paura delle armi del
Soldano. Il Neocastro non la dà a cagione sì piana. Narra, che non
guari dopo bandita la tregua, un Geronimo, decrepito romito dell’Etna,
si traesse dinanzi al sommo pontefice, a rivelare ammonimenti del
Cielo a pro di Sicilia; sì che il piegò con la forza delle apostoliche
parole, che gravissime spiccano su le pagine del siciliano istorico.
Niccolò, qual che si fosse il perchè, mandava al re di Sicilia un frate
catalano, Ramondo per nome, a fargli sperar propizia la santa sede s’ei
menasse la siciliana flotta al soccorso d’Acri: e Giacomo rispondeagli,
che, riconosciuto re di Sicilia, con tregua per cinque anni e aiuto
di danari, passerebbe in Terrasanta con trecento cavalli, diecimila
pedoni e trenta galee; promettendo Loria ch’a sue spese aggiugnerebbevi
(sì alto era salito!) dieci galee, cento cavalli, duemila fanti. Ma
in altro modo questa novella benignità del papa fu interpetrata in
Sicilia. Pandolfo di Falcone e altri Siciliani pratichi delle cose
di stato, sursero a distogliere il re; tornandogli a mente che simil
laccio tese papa Innocenzo all’imperator Federigo; e che s’ei portasse
le siciliane armi in levante, darebbe inerme l’isola in man dei nimici.
Così fatto accorto Giacomo, inviò al papa Giovanni di Procida, uom da
stare a petto a que’ di Roma: il quale dando oneste cagioni del mutato
proponimento, conchiuse, che si differisse l’impresa di Terrasanta
infino alla ferma pace tra la Chiesa e Giacomo; ma il papa volle
rimettere il negozio alla pace generale da trattarsi in Provenza, tra
Aragona, Francia, Chiesa, Napoli, Maiorca, e Carlo di Valois, mediante
l’inglese Eduardo[60]; procacciandola con estrema attività, per ottener
la liberazione de’ figliuoli, Carlo lo Zoppo, che fermata ch’ebbe
la tregua in Gaeta, lasciò l’insultato reame, per compier con le
negoziazioni ciò che non avea saputo con la spada[61], e dimorò lungo
tempo in Francia come un infelice importuno, mercanteggiando con Carlo
di Valois, pregando Filippo il Bello, e spesso domandandogli danari in
prestito[62].
E per tal modo tutte le speranze si dileguarono; sendo finita questa
generai pace d’oltremonti là dove avean accennato i trattati di Oleron
e di Campofranco. Perchè la corte dì Roma, o non potendo beffarsi di
Giacomo, o tornando a pensare alle cose d’Italia più che della Soria,
non die’ ascolto al ripiego di Giacomo, offrente pagarle tributo per la
Sicilia[63]: e rinnovò gli appresti di guerra contro Aragona[64]: ove
le corti, mal soffrendo sempre il pericol proprio per l’utile altrui,
di settembre dell’ottantanove avean mandato ambasciadori in Sicilia,
che praticasser anco con Procida, Loria, Alamanno e Calcerando, a’
cui consigli Giacomo si reggea, e chiedesser venti galee siciliane
in Catalogna, poichè per ragion della Sicilia si dovea quel reame
rituffare ne’ mali della guerra[65]. A’ nuovi romori dunque, nacquero
in Aragona discordie civili tra le corti e ’l re; le corti, inibita
ad Alfonso ogni pratica dassè solo intorno la pace, voller che la si
trattasse per dodici commissari della nazione[66]: e vinto Alfonso
da necessità e stanchezza, ruppesi il debil filo al quale teneano
gì’interessi di Giacomo. Bandito un congresso[67] in Provenza, al
quale al papa mandava i due cardinali Gherardo da Parma e Benedetto
Gaetani[68], perchè tra la riputazione della porpora e la capacità
degli uomini, ogni cosa andasse a posta loro, alla prima si disse a
Giacomo ch’inviasse suoi oratori, o si fece sperare d’ammetterli; ma
quand’ei spacciò di giugno milledugentonovanta Gilberto di Castelletto
e Bertrando de Cannelli, il re d’Aragona rispondea: si stessero;
non gli sturbasser la pace sua; ferma quella, più agevol sarebbe a
Giacomo[69]. Intanto i cardinali legati a diciannove agosto del
novanta avean fermato un patto con Carlo II e Filippo il Bello, che
fatta la pace con Aragona, ma persistendo la Sicilia, il re di Francia
si godesse sempre la decima accordatagli per tre anni, e l’avesse
per altri anni due con pagare al papa per le spese della guerra di
Sicilia quattrocento mila lire tornesi, che si ridurrebbero a trecento
mila racquistandosi l’isola entro un anno e due mesi. Non conchiusa
la pace con Alfonso, il re di Francia darebbe dugento mila lire
solamente; sarebbe aiutato dal papa contro l’Aragona, e anco da Carlo
II, se questi riavesse la Sicilia nella quale dovea principiarsi la
guerra[70]. E’ manifesto così qual pace serbassero a Giacomo: nè allora
l’ignorava alcuno. Andò al congresso re Carlo co’ dodici commissari di
re Alfonso e delle corti d’Aragona, presenti i due legati del papa, e
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