La guerra del Vespro Siciliano vol. 1 - 26

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vedendo presi dallo spavento ch'erasi sparso per Catalogna, sì che
molti si rifuggiano in Valenza, li riconforta con franco volto; spiega
ad essi il disegno di spossare il nemico con guerra guerriata; chiede
poca moneta per tener insieme poche forze. Avutala, munisce Girona
alla meglio di viveri; comanda che sgombrila in tre dì la gente da non
portar arme; l'afforza di bastioni e spianate, e d'un picciol presidio
di cento cavalli e due mila cinquecento tra almugaveri e balestrieri,
sotto il comando di Ramondo Folch, visconte di Cardona. E re Filippo
con tutto l'esercito, innondata la Catalogna settentrionale che i
popoli abbandonavan dassè, pose il campo a Girona; e, come se fosse
compiuto il conquisto, il legato coronò Carlo re d'Aragona; a'
cavalier di lui fu spartito in feudi il paese. Al medesimo tempo tutte
le {326} costiere infino a poche miglia sopra Barcellona furono
ingombre dallo immenso navilio collegato[48], segnalatosi solo per
enormezze al capo di San Filippo; ove l'ammiraglio richiamò i miseri
abitanti fuggiti al venir suo, e li fece arder vivi ne' lor
casolari[49].
Pietro in questo tempo affortificò Barcellona con molta cura; armovvi
undici galee; e dava principio a colorire i suoi disegni, richiedendo
il militare servigio del reame d'Aragona. Ma dinegatogli per le stesse
cagioni dette dianzi; ei fa sembiante di non curar nè ciò, nè i
Francesi, nè la corona o la vita: dà a sollazzarsi spensierato in
desinari e cacce; sdegnando venirne a più umil patto coi sudditi, e
aspettando che l'insulto nimico facesse ciò che il comando suo non
potea. E per vero i cavalier catalani, maneggevoli d'altronde, e or
più per sentire il fuoco in casa, tra non guari vennero disperati a
pregarlo un dì a Barcellona che li conducesse pur contro il nimico; ai
quali Pietro fermo rispondea: stare in questa guerra ei solo da una
parte, tutto il mondo dall'altra; e con tutto ciò potrebbe da'
presenti danni lampeggiar fuori più viva gloria, se gli {327} uomini
non poltrissero. Non era, no, aggiugnea, vergogna di Pier d'Aragona
tal nemico guasto di tutta la Catalogna. Ei, sol che avesse un
destriero e una spada, saprebbe viver lieto quanto niun cavaliere; e
nulla era il regno a lui, ma molto a' Catalani lo giogo straniero:
però non comandava, non isforzava; se voleano, s'armasser pure, ed ei
mostrerebbe come farsi la guerra. Ubbidito, ordinolli in due grosse
poste a Besalu e ad Hostalric, a fianco del nemico. Talchè punti dagli
atroci oltraggi del Francese, adescati dal bottino, i Catalani diersi
a infestar tutto il paese intorno intorno all'esercito. La lega
d'Aragona pur si mosse a mandar qualche picciolo aiuto. E Pietro a
poco a poco levandosi, e pensando anco al mare, inanimito dagli
audacissimi fatti de' suoi corsari, lasciò salpar di Barcellona
l'armatetta regia, capitanata da Ramondo Marquet e Berengario
Mallol[50].
Ma ne' vasti comprendimenti di Pietro, le fazioni navali, non che
restarsi a tal corseggiare, eran parte principalissima di questa
guerra; perchè sul mare avrebbe meglio bilanciato le forze l'armata
siciliana, sulla quale ei facea molto assegnamento, per le fresche
vittorie di Malta e di Napoli, e le genti audacissime, pratiche,
leste, la straordinaria virtù dell'ammiraglio. Sapea inoltre il re,
spezzata la flotta francese in varie squadre, a guardia di porti o
convoglio delle navi, che di Provenza recavan vittuaglie all'esercito:
talchè le galee di Sicilia potrebber ferire alla sprovveduta qualche
gran colpo; e, intercetti i sussidi del mare, l'esercito affamerebbe
nella Catalogna, diserta e infestata {328} per ogni luogo dalle
masnade paesane. Perciò Pietro con lettere e messaggi incalzava
l'infante Giacomo, incalzava l'ammiraglio, perchè venisse incontanente
la flotta; e ad una volta mandò tre spacci, per una galea e due legni
sottili, divisi, affinchè se l'uno mal capitasse, non mancasse un
altro: sendo in tutte le imprese di Piero, e massime in quest'ultima
guerra, maravigliosa la cura ch'ei ponea nell'ordinare e grandi e
picciole cose dassè. Comandava ancora al figliuolo d'inviargli il
prigione principe di Salerno, come pegno di salvezza nelle sue estreme
fortune. Ma Giacomo, ormai tenendosi in Sicilia come re, e non amando
privar sè stesso della flotta nè del principe per accomodarne il padre
in Aragona, indugiava; nè fu senza comandi più gravi del re, o forse
voler dello stesso ammiraglio, che al fine la flotta partì. Eran da
quaranta galee, siciliane la più parte, che osteggiando
sull'Adriatico, avean preso Taranto e altre città, e speravano
acquisti maggiori, quando fu forza voltare per Catalogna. Di questo
viaggio narra Speciale, che la vigilia dell'Assunzione della Vergine,
navigando presso la Goletta di Tunisi, festeggiavano i nostri con
luminarie, com'era costume in Sicilia, ed è anch'oggi. In quel brio
avvennesi nel navilio un altro messaggio del re: e, facendo da ciò
buon augurio, confortate dall'ammiraglio, più alacri volaron le ciurme
a quelle estranie guerre[51].
Tutta la state tenne fermo in Girona il visconte. Re Filippo moveagli
assalto ogni dì; percotea le mura coi gatti, la città coi tiri delle
briccole, dava scalate, fea scavar le cortine; ma il presidio punto
non se ne mosse, opponendo ingegni agl'ingegni, armi alle armi; e in
sortite bruciò le {329} macchine, e i balestrier saraceni con mirabili
colpi imberciavano, non pure gli scoperti, ma i riparati dietro
macchine o case, e gli infermi per li spiragli delle finestre, e chi
che fosse a gittata d'arco con due dita di luce da ficcarvi un
quadrello[52]. E l'oste francese era già scompigliata e consunta.
Arsevi, da disagi o aer malsano, una cruda morìa; infierita per la
corruzion delle carogne dei cavalli, che a migliaia morivano da
punture di tafani velenosi, ingombranti a nugoli la campagna, usciti
la prima volta, così il volgo favoleggiò e qualche isterico con esso,
dal sepolcro del beato Narciso, profanato dalla nimica rabbia[53].
Appigliossi la pestilenza al naviglio sì fieramente, ch'entro poche
settimane le ciurme s'ammezzarono, e poi scesero al terzo, e più
basso[54]. I Catalani intanto dalle poste di Besalu ed Hostalric
scorrazzavano per tutto il paese; rapiano i traini delle vittuaglie,
in quella carestia portate per mare a Roses, indi su vetture a Girona;
sorprendeano le picciole schiere francesi; tagliavano a pezzi gli
sbandati; s'arricchivano delle spoglie; vendeano i prigioni;
saziavansi del sangue: infaticabili, pratichi, arrisicatissimi, e
crudeli. Il mare stesso non era più sicuro ai nemici, poichè le undici
galee di Barcellona, disperatamente investite venticinque delle
francesi, rotto aveanle e preso; e indi i privati corsali, inanimiti,
uscivan in maggior numero a tentar la fortuna[55]. {330}
Allor Pietro manda intorno la grida della misera condizione dell'oste,
e ch'uno sforzo la metterebbe al nulla: fa bandir da Alfonso la levata
in arme in Aragona: ei stesso chiamavi i Catalani; da tutti con
maggiore alacrità ubbidito, come portava la rivoltata fortuna. Cavalca
indi al santuario di santa Maria di Monserrato, famosissimo per tutta
Spagna: passavi una intera notte a pregare all'altar della Vergine: e
la dimane uscendo la prima volta in campo, come se avvalorato dal
Cielo, conduce cinquecento cavalli e cinquemila fanti dritto a Girona;
e con quel pugno di gente, in faccia al nimico volteggiò, senz'altro
schermo che le acque del Tar. Poggia indi al vicin monte di Tudela; e,
abbandonatolo per non parergli opportuno, movea alla volta di Besalu,
quando con poche forze trovossi in una terribile zuffa[56].
Solo con dodici cavalli, uscito di schiera e di via, la notte innanzi
il quindici agosto, andava a dar dritto in una torma di cinquecento
cavalli francesi; se non che una parte de' suoi uomini d'arme e poche
centinaia d'almugaveri, che lui smarrito cercavano, s'accorsero de'
nimici. Senz'arnese il re cavalcava. Ma come di qua, di là correr vede
e venirsi alle mani, sprona nel mezzo, e grandissime prove fe' della
sua persona. Leggiamo che recisegli le redini del cavallo, accerchiato
da molti cavalieri, si sviluppò fieramente, uccidendone molti con la
mazza; e che un lanciotto vibratogli da presso, si piantò nell'arcion
della sella: che d'Esclot vide con gli occhi suoi l'arcione e la
spezzata punta. Aspro l'affronto delle altre genti anco si {331}
travagliava: almugaveri leggieri contro gli uomini d'arme, cavalli
contro cavalli; dove sopra tutti i bravi lodati di parte catalana
veggiamo quel siciliano Palmier Abate, giovane che non avea visto
unquemai battaglia, rapito fuor della diletta patria per astuzia del
re, e segnalatosi or tanto in sua difesa, che il catalano Montaner
lasciandosi portare all'estro della cavalleria, gli altri prodi
agguaglia a' Lancilotti e a' Tristani, e lui ad Orlando. Straziatisi
con tal disperato coraggio Francesi e Spagnuoli, stracchi alfine
lasciarono il campo; ed entrambi poi vantaron vittoria. Errore è
d'alcuni istorici, che ivi fosse ferito re Pietro. Venne anzi battendo
a Besalu, e alle altre poste; continuò a dar gangheri, porre agguati,
saltar qua e là intorno allo estenuato esercito di Francia: e pensava
anco qualche stratagemma per vittovagliare Girona; quando il
ventiquattro agosto, lasciato ogni altro pensiero, a spron battuto
volò a Barcellona per lietissimo annunzio[57].
E fu questo l'arrivo della siciliana flotta: onde sfavillò Pietro in
volto, a vedere nel porto di Barcellona trenta galee, schierate in
bell'ordine, dipinte intorno intorno con le armi d'Aragona e Sicilia,
luccicanti di scudi e balestre, {332} parate di bandiere, pennoncelli,
tende di seta vermiglia su i castelli di poppa; che non s'era più
vista, continua il d'Esclot, armata in migliore arredo. Un lietissimo
grido misero le ciurme siciliane al vedere il re; che montò su le
galee, soppravvide ogni cosa, e si strinse a consiglio con Ruggier
Loria. Questi, posato tre dì, sciolse pel golfo di Roses[58]: e
mandonne avviso all'armatetta catalana, che era uscita assai prima a
ritrovar briga in quei mari, e le dava caccia la flotta francese.
Menomata dalla mortalità delle genti, e ignara del tutto della
sorvenuta armata di Sicilia, la francese avvennesi in lei agli scogli
delle Formiche, sotto il capo di San Sebastiano; e Loria la scoperse
senza essere riconosciuto da quella: nè altro aspettò, ma spiccata una
punta delle sue galee a tramettersi in mezzo la terra e 'l nimico, ei
l'investe di fuori col grosso del navilio; ordinate molte fiaccole per
ogni galea, perchè non si desser d'urto tra loro, e spaventassero il
nimico con la paruta di maggior numero. Ed ecco entrati a gitto di
balestra, d'un subito accendon le fiaccole i nostri, levano il grido
«Sicilia, Aragona, Maria delle Scale di Messina;» e l'ammiraglio con
la prora urta di costa sì fieramente una galea provenzale, che
ribaltandola, da cinque o sei uomini in fuori, tutta la gente sbalzò
in mare. Poco ressero gli sprovveduti a tal furia d'assalto. Dodici
galee scamparono, contraffacendo i segnali de' fuochi e il motto
Aragona e Sicilia; delle altre, qual fu presa, qual diè in secco;
restando compiuta la vittoria a' nostri. In questi fatti a un di
presso accordansi tutti gli istorici del tempo, con qualche divario
nel numero delle navi e negli ordini della battaglia. Ma le espresse
parole degli uni, lo stesso silenzio degli altri, e i fatti seguenti
dan fuori ogni dubbio che l'armata siciliana distruggesse {333} quella
notte il nerbo delle forze marittime di Francia. Meglio che cinquemila
tra Provenzali e Francesi caddero in questo abbattimento delli scogli
delle Formiche; e furono pur più felici de' prigioni, per la spietata
rabbia che portavano i tempi, e l'accanimento tra Spagnuoli e
Francesi. Prendendo a scernere i cattivi, Ruggier Loria ne tolse
cinquanta cavalieri di paraggio, che potean pagare grosso riscatto;
gli altri mandò in Barcellona a Pietro: e questi fa legare a una
gomena trecento feriti, accomandare il capo della gomena a una galea;
e la galea vogò allora, trasse dietro a sè la funata de' prigioni, e
consumò l'orrendo supplizio, a veggente di chi veder volesse, scrive
freddo il d'Esclot. Dugentosessanta non feriti fur tutti accecati,
d'uno all'infuori al quale re Pietro fe' cavare un sol occhio perchè
guidasse la brigata a Filippo; infermo dell'epidemia, straziato dallo
sterminio che la morte in tante orrende guise facea del suo
popolo[59]. {334}
Ruggier Loria entro pochi giorni spazzò il rimagnente della flotta
nemica, mandate le galee catalane a raccorre {335} quante reliquie se
ne ritrovavano a Palamos e a San Filippo; ed ei difilandosi al golfo
di Roses, bruciò e prese venticinque più navi; e ponendo a terra,
stormeggiò il castello per impadronirsi delle molte vittuaglie
serbatevi[60]. Raro esempio in quell'età di sostenersi da fanti ignudi
lo scontro di grave cavalleria, intervenne allo sbarco di Roses.
Perchè movendo da vicina terra contro le ciurme di Loria il conte di
Saint-Pol con un grosso di cavalli, si circondano i nostri di fossi
mascherati, e intorno intorno di gomene tese su' piuoli, e con l'arme
da gitto li aspettano. Piombarono a briglia sciolta i Francesi; e
parte ne' fossi precipitarono, parte respinti da' ripari si
scompigliaro: saltaron fuori i nostri e finirono lo sbaraglio. Il
conte, abbattutoglisi il cavallo, fu ucciso; e troncagli una mano, che
i nemici poi ricomperavano per settemila marchi d'argento.
Rimbarcatosi l'ammiraglio, fece altre ricche prede su i mari; tagliò
tutti sussidi di vittuaglie allo esercito[61]. E allor fu che andato a
lui il conte di Foix, chiedendo tregua a nome di re Filippo, negolla
Ruggiero superbamente. Disse che, pur accordata dal re d'Aragona, a
Provenzali e Francesi ei non osserverebbe tregua giammai; e
ripigliando il conte, non salisse in tanta superbia, perchè la Francia
potrebbe metter in mare trecento galee: «Vengano, ei riprese, e
trecento e duemila; con cento delle mie fidereimi tener tutti i mari;
nè legno solcherebbeli senza salvocondotto di re Pietro, nè pesce
v'alzerebbe la testa senza lo scudo delle armi regie d'Aragona[62].»
{336}
In questo mentre Ramondo Folch, ch'avea fatto tai prodigi alla difesa
di Girona, e a gran pezza non s'era curato della fame, non che delle
minacce e promesse del nimico, venuto a stremo di penuria, cominciò ad
ascoltar parole d'accordo; di voler anco di re Pietro, il quale nè
potea far levare l'assedio per battaglia, nè vedea cagione di gettarsi
a tal rischio[63]. In questa pratica narra una cronaca francese,
ch'ito al campo degli assedianti l'arcivescovo di Saragozza, il legato
troncavagli ogni parola, fremendo: «Non misericordia, non patti,»
quando Filippo il Bello, bruscamente il domandò, che farebbe de'
bambini e delle donzelle prendendo Girona d'assalto? «Muoian tutti,»
il cardinale riprese; e il giovin principe a lui: «Niuno muoia, che
non può difendersi colla spada.» Indi all'arcivescovo segretamente
palesò travagliar peggio gli assedianti che gli assediati; perciò
tenesse fermo nel chiedere i patti[64]: e chi sa quanto operarono sul
giovanil animo queste prime ire contro la romana corte, per disporlo
all'offesa di Anagni? Il visconte pattuì venti giorni per arrendersi,
se non gli giugnesse soccorso; e non avendone, il dì sette settembre
uscì con armi e bagaglio e tutti onori di guerra, e ammirazione
grandissima de' nemici[65].
Ma nè gioia nè comodo ne tornò a' Francesi in tal tempo, perchè
perduto il mare, la fame finiva già l'esercito, straziato dalla
pestilenza e dalla spada nemica; e l'ansietà crescea per trovarsi in
pericolo lo stesso re Filippo, che preso dalla morìa nel campo di
Girona, per mutar sito non rinfrancossi, e sopraggiunto il disastro
della flotta, il sangue {337} gli si rivelenì per tutte le vene. Tra
questi travagli comandava Filippo la ritirata, lasciando presidio a
Girona. Intanto di Catalogna, d'Aragona, di tutto il reame traeano a
gara armati alle bandiere di Pietro; il quale rinfiammò tal zelo con
far dassè ciò che per altezza d'animo ostinatamente avea negato nelle
più dure strette; ed ora nel montar della fortuna gli era tanto
maggior lode. Assembrati i baroni in concione pubblica, egli accetta:
queste calamità pubbliche esser fattura sua, e della maligna sorte che
gli fe' chiuder gli orecchi a' leali consigli de' baroni: Iddio aver
punito il superbo, e trattener ora il flagello levato sul suo capo:
ond'ei ripentito, vedendo la man del Signore, chiedea perdono a' suoi
sudditi; consigliava loro di temperarsi nella vendetta sopra i nemici
sbaragliati e fuggenti, a' quali gli Spagnuoli avessero misericordia
poichè Dio l'avea avuto di loro: così ei pensava, dicessero lor
sentenza i baroni. Col medesimo accorgimento accarezzò gli Aragonesi
sopra tutti; e fe' piangere, dice d'Esclot, di tenerezza quegli animi
sì indocili, a tal umile e benigno parlare.
Adunato un giusto esercito, marciando di costa alle reliquie del
nemico, giunse al passo di Paniças; e nol contese, dicon gli storici
di sua parte, per pietà del re infermo a morte, e preghiere di Filippo
il Bello; ma forse perchè metter non volle a disperazione il nemico,
tuttavia più poderoso di lui. Ed ecco il trenta settembre[66]
quattromila cavalieri, che sol tanti ne rimaneano montati, e inutili
turbe di fanti, e confusione di salmerie, lasciandosi a dietro, per
falta di vetture, tanti doppi più d'arnesi e robe e argenterie,
anelanti e mesti ripassavan le chiuse: stretti a schiera i cavalieri
intorno all'orifiamma e alla {338} barella del re moribondo, co'
principi del sangue, il legato, e' principali dell'oste. Ardeano gli
almugaveri di dar dentro, e li trattenne il re finchè fur valicati gli
uomini d'arme; poi su fanti e bagaglie sbrigliaronsi. Di là dai monti,
in Rossiglione, il medesimo scempio nel sangue e nella roba de'
fuggitivi facea Loria, sbarcato con le feroci genti dell'armata;
talchè per gran tratto di paese non fu che cadaveri e moribondi di
ferite, di morbi, di fame, e assalti, e ladronecci; salvandosi a pena
il forte nodo de' cavalli. Il sei ottobre morì re Filippo a
Perpignano: non riportarono in Francia i rimagnenti che lutto,
pestilenza, ferite, e peso gravissimo di debito pubblico[67].
Ma Pietro, non tardo a usar la vittoria, strignea d'assedio Girona; e
voltavasi anco all'isola di Maiorca, dicea, non per vendetta contro il
fratello, ma per aver meglio di che fermar la pace con Francia e Roma.
Con pratiche tra gli abitatori dell'isola si spianò la via;
cinquecento cavalli apprestò con l'armata di Loria, sotto il comando
di Alfonso. Erano in ponto a salpare, quando il re partendo da
Barcellona per Saragozza il ventisei ottobre, colpito dal freddo del
mattino, e preso di violenta febbre a San Clemente, dopo breve
fermata, ostinavasi a rimontare a cavallo; ma vinto dal morbo,
recaronlo in lettiga {339} a Villafranca di Panadès[68]. Quivi
temendosi già di lui, venne ansioso Alfonso; e il re che non pensava
alla propria vita, ma all'impresa di Maiorca, sgridavalo: «A che
lasciare l'armata? Or se' tu medico da stare attorno al mio letto! Di
me sia ciò che Dio vorrà, ma tanto più preme occupar di presente
Maiorca[69].»
Andò dunque l'infante, e se n'insignorì tra pratiche e forza d'arme,
con picciol contrasto[70]. Risplendeva in quello incontro il valore
de' nostri; perchè fortificatisi in una rilevata chiesa fuor la città
i più fedeli al re di Maiorca, con Francesi e Provenzali, avean
ributtato i replicati assalti della gente catalana e dell'isola: ma
quando Alfonso, per pensiero dell'ammiraglio, fece sottentrar nel
combattimento i Siciliani dell'armata, «Viva Sicilia» levan essi il
grido; danno nelle trombe, e montando su per scale e remi, d'un solo
stormo impetuoso fur dentro, e finirono la guerra[71].
Nel medesimo tempo navigava que' mari Carlo II d'Angiò, mandato di
Sicilia dall'infante, dice il Neocastro, pe' comandi risoluti di
Piero, e' consigli di Procida, che ammonialo a posporre a' doveri
verso il padre ogni utilità sua propria e dell'isola; ma piuttosto fu
che Giacomo col re fortuneggiante avea disputato, al vincitore
ubbidiva[72]. Perciò dopo alcune pratiche, che son da supporsi e forse
ancora con l'intesa di Roma (ritraendosi data licenza dalla romana
corte d'aprile milledugentottantacinque a {340} due frati inglesi
Ugone di sant'Edmondo e Gualtiero di Seggefelt di venire in Sicilia
per lo re Eduardo a visitare e consolare il prigione[73]),
affrettavasi Giacomo a fare per sè, pria che il prigione gli escisse
di mano. Va a trovarlo egli stesso a Cefalù; ottien promessa da lui
per impazienza del carcere o saputa degli eventi d'Aragona, che
cederebbegli ogni ragione su l'isola, darebbegli sposa Bianca sua
figliuola, e con altri parentadi strignerebbersi le due case d'Aragona
e d'Angiò. I quali patti, quanto men valeano per la prigionia di Carlo
e 'l dubbio diritto di Giacomo a fermarli, tanto più Giacomo volle
rafforzar di giuramenti sul vangelo e doppio scritto, l'un per sè
stesso, l'altro per ispacciarlo al padre. Allor trascelti i
fidatissimi cavalieri Ramondo Alamanno, Simone de Lauro, e Guglielmo
de' Ponti, si fa dar sacramento, che la persona di Carlo rassegneranno
a re Pietro; e avvenendosi nel viaggio in forze nimiche, a lor potere
difenderansi, ma, sopraffatti, troncheranno il capo al prigione, e
gitteranlo in mare, perchè nè anco il cadavere riavessero i nimici. Di
Cefalù a Palermo; quindi coi tre cavalieri Carlo s'imbarcò per
Barcellona; e giunsevi nelle ore estreme di Pietro[74].
Il quale, poichè Alfonso si partì da lui, sentendo la mortal forza del
morbo, lasciar volle solenne discolpa {341} della guerra contro il
papa, sì come Carlo d'Angiò fatto avea in punto di morte per la guerra
suscitata dal papa. Chiamati dunque l'arcivescovo di Tarragona, co'
vescovi di Valenza ed Huesca e altri prelati e baroni, attestò: non ad
offesa della santa sede, ma secondo sue ragioni aver preso il reame di
Sicilia; le scomuniche acerbe di Martino non aver meritato, ma sì come
cristiano osservatole; ed or presso al divin giudizio, chiedeva
all'arcivescovo l'assoluzione, promettendo che s'ei campasse, e qui
ripigliava le ambagi, obbedirebbe secondo giustizia al pontefice
sommo, al quale rappresenterebbesi di persona o per legati. Il giurò;
e l'arcivescovo ribenedillo. Consigliato a perdonare i nimici, fe'
liberare prigioni, non però que' d'alto affare; non mutò il testamento
dettato a Port Fangos nell'ottantadue; ad alta voce si confessò a due
frati; e poi a grande sforzo surse di letto, mal reggentesi e
tremolante, vestissi, s'inginocchiò lagrimando e pregando dentro da
sè, ed ebbe l'Eucaristia. Seppe indi arresa Girona; venuto di Sicilia
Carlo, che gli restava appena un barlume di sensi, nè potè profferire
risposta; ma fe' croce delle braccia, levò gli occhi al cielo, e il
dieci novembre spirò [75]. {342}
Questo fine ebbe di quarantasei anni, verde di forze, nel maggior
vigore della mente, nel colmo della fortuna; vedendo dissipata l'oste
di Francia; confuso il re di Maiorca; mancati Carlo, Filippo l'Ardito,
papa Martino; il novello re di Napoli nelle sue forze; scompigliato
quel reame; la Sicilia sicura e obbediente; la sua flotta
signoreggiante il Mediterraneo; per sè la riputazion della vittoria,
da por freno in ogni luogo agli stessi suoi sudditi. Grande fu e ben
fatto della persona, robusto di braccio, d'animo audacissimo,
perseverante, ingegno da abbracciare gran disegni e non saltar le
minuzie, scaltrito, chiuso, infaticabile; tutte le parti ebbe di
capitano egregio. Gli furon queste nelle cose di stato or vizi or
virtù, secondo la giustizia dell'intento, a che mai non attese. Indi
la discordia, non da savio, con le corti d'Aragona; le dubbie vie
contro i baroni di Sicilia; le frodi e gl'inganni che macchinò con
arte profonda; le vendette efferate ne' suoi nemici, alle quali
proruppe per l'atrocità de' tempi, per la fierezza dell'animo, non
curante strazio e morte nè in sè nè in altrui, per la crudeltà della
mente assorta negl'intenti politici, fatta cieca alla conoscenza de'
veri beni propri ed altrui, miscredente a' dritti degli uomini,
ghiacciata contro ogni alito di lor carità. Avventurosa la Sicilia che
sel trovò nel pericolo, e sen disfece tosto; perchè era di tempra da
agognar sempre o fuori o in casa. Gli uomini poi scordarono i danni di
quella molesta fortezza, e diergli il meritato soprannome di
Grande[76]. {343}
Per questa ragione medesima gli scrittori del tempo, anco i nostri, e
fin il sommo poeta d'Italia[77], che di tanto fu più grande di quei re
combattenti, esaltavano a canto all'Aragonese, l'emolo Carlo d'Angiò,
lodato per valor pari e più chiare vittorie, biasimato al paro di
slealtà, ma senz'arte alla violenza nè alla frode, onde Pietro, che
meglio se n'intendea, lo raggirò e vinse. Più pesante tiranno fu
Carlo, invidioso e uggioso ne' costumi privati, e nello stato
avarissimo, connivente ai suoi sgherri, inumano, spregiator delle
genti italiane[78], calpestator d'ogni dritto, nimico fin dalla prima
sua dominazione di Provenza a tutte franchige, anzi odiatore de' suoi
stessi sudditi; e punito del maggior martiro che il Cielo serbar
poteagli, mancando di lenta morte, nella rabbia di veder lieta e forte
quella Sicilia che straziata lo maledisse, gli rese onte per onte,
sangue per sangue, spezzò il suo scettro, troncò il corso alle sue
esterne ambizioni, la sua schiatta per due secoli combattè.
Invano ad aiutar questo Carlo intendea con tutto lo sforzo del
pontificato, Martino, la cui vita e la morte non sarebber da istorie,
se non che preoccupato da umori di nazione e di parte, e ritenendo
sotto il gran manto gli antichi ossequi, proruppe ai narrati scandali,
onde le due penisole bagnò di sangue, espilò tutte le chiese d'Europa,
profanò l'armi della croce.
Da costui suscitato e da volgar vanità e cupidigia, Filippo {344}
terzo di Francia corse oltre i Pirenei a guerra disutile e ingiusta;
lasciovvi sessantamila vite d'uomini, e la sua stessa; smentì il nome
d'Ardito[79] con gli smisurati preparamenti e l'esito miserando, e
fatto notevol nessuno, se non furon gli ammazzamenti d'Elna e di San
Filippo.
Sotto questi quattro principi, mezz'Europa s'agitò per la siciliana
vendetta del vespro. Mantennela con vittoria il più debol tra loro,
contro le unite forze dei tre potentissimi; tutti mancarono nel
medesimo anno ottantacinque; e dalle loro ambizioni altre ambizioni,
indi altri mali rinacquero. Ma la Sicilia, sciolta dal legame della
comune signoria con Aragona, sola ne restò a guerreggiar contro il
reame di Napoli e 'l papa; e s'ordinò con migliori leggi; e per
maggiori fatti d'arme rese chiaro il suo nome.

NOTE
[1] Veg. il docum. XIV.
[2] In questo tempo stesso Carlo I e la vedova regina di Francia,
fecero compromesso per le questioni insorte tra loro, intorno la
eredità di Ramondo Berengario conte di Provenza. Diplomi del 10
novembre 1283, e 23 marzo 1284, negli archivi del reame di
Francia, J. 511. 3.
[3] Docum. XIV.
[4] Raynald, Ann. ecc., 1283, §§. 34 e 35.
[5] Saba Malaspina, cont., pag. 394.
[6] Bolla del 27 agosto 1283, in Raynald., Ann. ecc., 1283, §§. 25 a
32; e in Rymer, Atti pubblici d'Inghilterra, tom. II, pag. 252 e
seg.
[7] Nangis, Vita di Filippo l'Ardito, in Duchesne, Hist. franc.
script., tom. V, pag. 542.
Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 12, in Muratori, R. I.
S., tom. XI.
Veg. anche Saba Malaspina, loc. cit., e Geste de' conti di
Barcellona, cap. 28.
Gl'intendimenti di casa di Francia in questa guerra, e le
sollecitazioni di Carlo I d'Angiò son detti apertamente da costui
nel diploma del 5 ottobre 1284, docum. XXIII.
[8] Montaner, cap. 79.
[9] Docum. XIV.
[10] Brevi del 10 gennaio 1284, in Rymer, op. cit., tom. II, pag.
263.
[11] Bolla di Martino IV, in Rymer, loc. cit., pag. 267.
Nangis, Vita di Filippo l'Ardito, in Duchesne, Hist. franc.
script., tom. V, pag. 542, contro i documenti allegati da noi,
porta questo parlamento di Natale dell'83.
[12] Raynald, Ann. ecc., 1284, §. 5 e seg.
Rymer, loc. cit., p. 267.
[13] D'Esclot, cap. 136, il quale trasporta questa investitura al
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