La guerra del Vespro Siciliano vol. 1 - 23

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questa e somiglianti imprese; onde parmi, che da soldato avventuriere
ch'egli era, contava sogni d'invidia, scrivendo come tolte tutte le
spese, tanta preda si spartisse tra le genti di Loria, che sdegnavan
poi a gioco tutt'altro conio che d'oro, e appena avrian sofferto nella
bisca chi ponesse mille marchi d'argento. Si riscattarono gl'isolani
avanzati alla schiavitù o alla spada; giurarono omaggio alla corona di
Sicilia[30]; e l'ammiraglio {288} fabbricovvi una fortezza, e s'ebbe
poi l'isola in feudo[31]. In questo tempo un Margano principe d'Arabi,
cavalcando con grande stuolo alla volta di Tunisi lunghesso la riva,
fu appostato, e preso dalla gente d'un galeon catalano, e recato allo
infante, che il tenea, scrive Neocastro, come preda, non come prigion
di guerra, nel castello di Messina[32], per istrana avventura compagno
di carcere al principe di Salerno. Ma la cattività dell'Affricano, nè
nocente a noi nè nemico, fu trapasso di ladroneccio e avarizia da
pirati, non gloria alle nostre armi. Nol fu tutto questo fatto
dell'isola delle Gerbe, se non che il malo acquisto si mantenne poi
con onor della nazione. Restò alla corona di Sicilia, non ostante la
ribellion dell'ammiraglio che aspirava alla sovranità di quell'isola,
e non ostanti le guerre e calamità in cui fummo avvolti; nè si perdè
che negli ultimi anni di Federigo II, quando l'aristocrazia sfrenata e
patteggiante, consumò tutte le forze nella esecranda guerra civile.
Ruggier Loria riducendo l'armata in Messina a svernare, empiè la
Sicilia di schiavi gerbini, e ripassò in Calabria con un grosso di
cavalli. Quivi s'insignorisce di Agrataria e Roccella; combatte un
Iacopo d'Oppido, feudatario; il rompe; mette a sacco e a fuoco il
paese. Voltosi a Nicotra con altro animo, rifà le mura, afforza le
castella, richiama gli sparsi abitatori: e incontanente, come per
ammenda di quest'opra di umanità, torna in Sicilia a sfogare con altre
enormezze quell'animo irrequieto, sanguinario, {289} ambiziosissimo e
superbissimo oltre ogni dire[33].
Perchè la gelosia dell'impero, crescendo per lontananza di luogo
nell'animo di Pietro e per invidia in Ruggiero e negli altri ministri
dell'infante Giacomo, si portava già in Sicilia a crudeli consigli;
come è nelle cose di stato assai incerto il confine tra il guardarsi e
l'offendere. E sembra in vero che, tenendo una parte de' nostri baroni
a ristrigner la balìa della corte aragonese, e tirandosi sempre
all'opposizione, alcun di loro si mostrò benigno ai prigioni francesi,
e massime al principe di Salerno; altri tenne forse pratiche con re
Carlo: e che la fazion della corte aragonese, ingrossata dagli usciti
calabresi e pugliesi, esagerò quelle pratiche, le appose ugualmente a
chi le avea maneggiato e a chi sol volea mantener le franchige della
nazione; e tutti accagionò di tradimento, per aver pretesto a spegner
chi le paresse, e trovare riscontro nel popolo, abborrente sempre da'
suoi antichi tiranni. Però dopo il ritorno della flotta dall'isola
delle Gerbe, e la ritirata e scompiglio dell'esercito di re Carlo, la
fazione aragonese, ormai secura dalle armi di fuori, diessi a riurtar
contro gl'interni oppositori; e fece spegnendo pochi dei più grandi o
più audaci, e nel medesimo tempo menando grande strepito di
condannagione del principe di Salerno[34]. E prima due nobili uomini,
Simone da Calatafimi e Pieraccio {290} d'Agosta, eran puniti nel capo;
questi, confessa il Neocastro, a stigazion degli emuli suoi, come
fautor di parte francese; l'altro perchè, noto già come avverso alla
rivoluzione e al nuovo principato, s'era partito di Sicilia sotto
colore d'andarsene colla moglie e' figliuoli in Inghilterra al
servigio di quel re, ma poi fu preso che riparavasi in Napoli contro
il dato giuramento[35]. Poi il grande Alaimo soggiacque ancora alla
giovanile perfidia di Giacomo; del quale Montaner fa lode col
proverbio catalano: «Spina non punge se non nasce acuta[36]:» e tal fu
l'infante; ma acuto e precoce al male; a vent'anni maturo già ai
tradimenti.
Affrettossi la ruina d'Alaimo per la moglie tracotante, che sfatava,
non ch'altri, Costanza stessa; negando chiamarla reina, ma sol madre
di don Giacomo; schifava le sue carezze; infrequente a corte, se non
era a lussureggiar di nuovo spendio di ornamenti; e una volta andovvi
a tastar gli animi quando il principe di Salerno venne prigione.
Costei sendo incinta, volle come maggior d'ogni legge, pretestando
malattia, far soggiorno nella casa dei frati minori a Messina, per
l'amenità e solitudine del luogo; dove ita Costanza a visitarla, il
nimichevole animo non placò. Partorita Macalda, mandava per Alaimo la
regina, offrendo con Giacomo e Federigo tener al fonte il bambino; e
la donna se ne scusò con dir che temea pel nato dal freddo dell'acqua;
ma tre dì poi fecelo da popolani battezzare in chiesa. Notavasi ancora
come un'altra stagione in Palermo, sapendo che la regina inferma fosse
andata in barella al santuario della Vergine a Morreale, il dì
appresso Macalda, {291} nè per cagionevole salute nè per voglia di
visitar santuari, si fece portare in una barella coperta di scarlatto
per le strade della città; e fu vista poi viaggiare di Palermo a
Nicosia nella stessa guisa, che parve strana in quei tempi; e di crudo
verno a capriccio affaticar soldati e vassalli sotto il peso della
bara. Questi femminili dispetti o vanaglorie, a corte eran misfatti.
In tal colore li scrive il Neocastro, aggiugnendo più nero, che
Macalda dall'infeminito Alaimo si facesse dar sacramento di fuggir la
corte, non mischiarsi in consigli contro i Francesi, e fin procacciare
che riavessero il reame. Di fatti palesi, narra come girando l'infante
in quel tempo d'una in una le terre della isola, e intrudendosi ad
accompagnarlo Macalda come avea costume, questa fiata non solo
agguagliavalo in lusso e corteggio, ma con arroganza novella, essa
facea da giustiziere quanto il marito: e peggio temeasi, vedendola,
col principe scortato da soli trenta cavalli, trar dietro a sè
trecento sessanta uomini d'arme, di dubbia fede o sospetti, spigolati
apposta da varie terre.
Allora nei consigli di Giacomo si tramò un colpo di stato. Portatosi
in Palermo, ei dà segretissimo avviso ai Catalani de' vicini luoghi,
fosser cavalieri, officiali del fisco, o fanti di presidio in
castella, che tutti trovinsi a Trapani a tal dì; mandavi nove galee
catalane delle quattordici di Marquet; vi sopraccorre egli stesso con
buono stuol di cavalli; nè il fa intender che alcuni dì appresso ad
Alaimo, il quale ripudiato dalla corte, per altra via andò a Trapani
con Macalda. Ma un dì, quasi tornandolo in grazia, adunato il
consiglio, Giacomo chiama inaspettatamente Alaimo[37]: e rivolto a
lui, toccava i pericoli che si vedean sovrastare non ostanti le
fresche vittorie; il padre non muoversi per lettera o messaggio a
mandar grossi aiuti; non veder, {292} dicea, chi potesse svolgerlo, se
non che Alaimo; salvasse egli la patria e la corona; andasse al re,
sulle galee lì pronte a tornare in Catalogna: e finito il dir
dell'infante, più efficaci di lui i consiglieri facean ressa ad
Alaimo. Li comprese; non vide scampo il grande; li guardò in volto; e
rispose che andrebbe. Lo stesso giorno dunque, che fu il diciannove
novembre dell'ottantaquattro, entrò in nave; ebbe cruda tempesta a
Favignana, sì che una galea ruppe a Levanzo; con le rimagnenti a
Barcellona arrivò. Quivi tutto lieto in volto l'accoglie re Pietro;
ascolta, loda, promette che faranno insieme ritorno in Sicilia: vezzi
leonini, che nè Alaimo nè altri ingannarono[38].
Comandato avea senza dubbio Pietro medesimo questo rapimento d'Alaimo,
in un con la dimostrazione di condannare il principe di Salerno,
strettamente connessavi, com'anzi dicemmo, e dagli storici, per amor
di parte o dubbiose notizie, narrata variamente sì, ma in modo da non
dilungarsi gran tratto dal vero, e lasciarci vedere in fondo che fu
artifizio per ritrovare i ligi della corte e i resistenti; per troncar
tutte pratiche, spaventando e i nostri e i prigioni; per ridestar le
antiche passioni del popolo a tanto strepito; e prepararsi lodi di
longanimità con trattener la scure che sospendeasi sul capo al
figliuol di re Carlo. E avea Alaimo, o in adunanza pubblica o in
maneggi privati, contrastato questa condannagione del principe; il che
forse fu cagion principale del suo precipizio[39]. Ma divulgato {293}
questo in un baleno per tutta l'isola, con maraviglia e dolore
dell'universale, caddene l'animo ai partigiani d'Alaimo, crebbe a que'
della corte. Ond'ecco l'ammiraglio con la fama delle recenti imprese,
seguito da una mano d'usciti del reame di Napoli, gittasi a sollevar
la plebaglia di Messina, gridando tradimento contro i migliori che
teneano per Alaimo. Rabbiosa e diversa, chiamando a morte i prigioni
francesi, corre la canaglia alle case d'Alaimo, ove assai n'erano, e
al palagio del re, che serravane cencinquanta sotto la guardia di
venti soldati catalani: e qui seguia grand'esempio di virtù da una
parte, di atrocità dall'altra, a mostrare a che estremi opposti
portinsi gli uomini. Perchè i Catalani alla prima fecer testa; ma
vedendosi sforzati, sciolgono i prigioni, e armatili alla meglio, lor
dicono: «Insieme, per le vostre vite combatteremo,» e da finestre, da
tetti, coi tegoli, con le armi ributtano gli assalitori, ancorchè
ingrossati al romore. Allora gli usciti gridarono al fuoco; e mettean
cataste intorno il palagio. {294} Soffocati dal fumo, quei miseri
saltan dalle finestre, chieggon mercè; ma son trafitti, ripinti
semivivi nelle fiamme; e narra Malaspina degli usciti tal altro
orrore, che nè il credo io, nè il dirò[40]. Prigioni e guardie, ei
ripiglia, tutti periano. Il Neocastro tace quelle crudeltà, scema anco
i prigioni a sessanta; altri li porta a dugento, e ricorda le
fiamme[41]. L'umanità della regina, e la fortezza di Matagrifone,
salvarono con molti altri il principe.
Poi si tenne un parlamento in Palermo a deliberare di lui; dove, dice
il Neocastro, tutti accordavansi a mandarlo a morte in vendetta di
Corradino, se non che dissentirono i Messinesi con Giacomo e la reina.
A questo aggiungon fede, non ostante il divario delle circostanze, il
Montaner, Giachetto Malespini, il Villani, e sì una lettera di re
Alfonso di Aragona a Eduardo d'Inghilterra, nella quale trattando di
pace con Carlo II si afferma condannato lui dai Siciliani, e scampato
dal re. Favoleggiò un altro contemporaneo, che la regina un venerdì
facesse intendere a Carlo d'apparecchiarsi alla morte; e che poi gli
perdonasse per la sua fortezza a tal nunzio, e la rassegnazione a
morire lo stesso dì che si ricorda la passione di Cristo; ma tal
novella nacque manifestamente dal vero fatto narrato dianzi. Certo è
che il principe in questo tempo, per tor luogo ad attentati in favor
di lui, o contro, fu tramutato nel castel di Cefalù. Liberati gli
altri prigioni, tutti sotto fede di {295} non militar contro noi; ma
non altri che Galard poi la osservò[42].
Macalda intanto, sol essa non isbigottita tra tanti suoi partigiani,
sperando tuttavia volger sossopra ogni cosa, andata era in Messina: ma
con tal audacia fe' rincrudire i governanti, i quali incontanente
promulgan reo d'alto tradimento Alaimo; spoglianlo dei beni, e
dispensanli a lor favoriti o partigiani; fan perir di mannaia a
Girgenti il tredici gennaio Matteo Scaletta, fratel di Macalda,
confessante, diceasi, congiura col cognato. Indi a diciannove febbraio
incarcerarono nel castel di Messina la stessa Macalda co' figli; alla
quale era nulla tal rea fortuna, sì che ilare e contegnosa passava il
tempo a giocare col principe arabo e co' famigliari; e una volta,
quando portossi l'ammiraglio a strapparle i titoli del feudo di
Ficarra, essa, come nell'alto della possanza, il garrì: «Bel merto ne
rende il padron tuo! Compagno, non re, il chiamammo; ed egli usurpa lo
stato, e di soci fatti n'ha servi[43]. Bene a noi sta; ma digli che
non muterei questi miei ceppi nè il palco, col suo trono pien di
misfatti!» Sembra tuttavia che la sventura consumasse quest'animo che
non potea domare; e che Macalda tosto morisse in prigione, perchè la
storia null'altro ne dice di lei. Non andò guari che Alaimo co' nipoti
Adenolfo di Mineo e Giovanni di Mazzarino, nel campo di Pietro in
Catalogna fur sostenuti. Un corriero diceasi preso con lettere di
Alaimo al re di Francia, piene di tradimenti: ch'ei domandava sicurtà
per sè e' nipoti, e l'andrebbe a trovare, e fiderebbesi con dieci
galee rivoltar {296} la Sicilia a casa d'Angiò. Mostrolle Piero ad
Alaimo, il quale negò; onde fu lasciato, e vegliato: ma i nipoti indi
a poco uccisero un segretario che le avea scritto. Scoperto
l'omicidio, un famigliare e Adenolfo alla tortura il confessano, e
Adenolfo anche la tentata tradigione con Francia; e però con Alaimo e
Giovanni è chiuso nel castel d'Ilerda. Re Pietro fin qui. Più crudo il
figlio, salito al trono di Sicilia procacciava lor morte[44]. Poco del
resto è da credere a questi misfatti, come li spacciò da lontano la
corte aragonese. Que' che s'apposero ad Alaimo in Sicilia non son meno
incerti. Ne tacciono i due scrittori catalani, come per coscienza di
colpa de' lor signori. Malaspina scrive, che Giacomo nimicava il
leontino per aver contrariato la condannagione del principe. Il
Neocastro nol fa nè reo nè innocente, ma portato dalla superbia della
moglie; e parla incerto, come ammirator dell'eroe di Messina, e
ministro insieme di re Giacomo. Di documenti non avvi altro che il
mandato del supplizio d'Alaimo nell'ottantasette, sì scuro[45], che,
se delitto prova, è di Giacomo, il quale senza forme di giudizio
assassinò il glorioso vecchio. Portò costui la pena d'aver puntellato
di tutta la sua riputazione re Pietro contro Gualtiero di Caltagirone
e' sollevati dell'ottantatrè. E del rimanente furon sole sue colpe,
gli obblighi di casa d'Aragona, la gloria della difesa Messina, del
dato reame, la riverenza e amor di tutta Sicilia, la grandezza con
poca modestia, e sopra tutto l'invidia di Procida e Loria, non
cittadini ma venturieri, pronti a sagrificare ogni cosa a chi lor
dispensava beni e comando.
Mentre que' primi casi d'Alaimo travagliavano la Sicilia, re Carlo
consumava le forze del regno e sè stesso, nel delirio di tornar sopra
l'isola. Ritirandosi, inseguito dall'armata nostra, sostò pochi giorni
a Cotrone; ove crebbe a {297} cento doppi lo scompiglio de' moltissimi
disertori: e indi tutto dispettoso e truce passò il re a Brindisi[46];
e trovò per conforto gli avvisi d'un altro insulto di quel Corrado di
Antiochia, che adoprò sì caldo nell'impresa di Corradino. Costui,
adunati esuli del regno e altra gente presso i confini, ove imperava
in nome la Chiesa, in effetto ogni sfrenato feudatario o ladrone,
entrò a mano armata in Abruzzo al racquisto della contea di Alba. Il
conte di Campania li fronteggiò e ruppe[47]: ei rife' testa, aiutato
di danari dalla reina Costanza[48]. Un Adinolfo surto in quel tempo
stesso a turbar la Campania, disfatto fu da Giovanni d'Eppe con le
genti pontificie. Perugia ancora, Urbino, Orvieto e altre città
d'Italia levarono in capo contro la Chiesa e parte guelfa, tuttavia
poderosa, ma duramente percossa in re Carlo[49].
E questi vinto dal disagio, convalescente di quartana, rodeasi tra
mille cure: in man dei nemici il figlio: saltati essi in terraferma:
perduto armamenti, uomini, spesa: affogar nei debiti del danaro
accattato in Francia, e per ogni luogo d'Italia: e come sopperire agli
smisurati bisogni della guerra, se i popoli di Napoli sbuffano, e
negan quasi apertamente e gabelle e collette[50]? Nondimeno
dissimulando alla meglio, e facendo sempre gran dire della guerra che
porterebbe la vegnente primavera ei stesso in Sicilia {298} e il re di
Francia in Aragona[51], provvede a racconciar le navi; scrivere por
forza i marinai; vittovagliar tutte le castella; adunar grani;
preparar biscotto; fabbricar immenso numero di saette e altre arme e
arnesi fabbrili: alletta i feudatari al militare servigio, permettendo
che levassero nuove sovvenzioni da' vassalli[52]. E anelando sempre
{299} danari, poich'ebbe esauste le altre fonti[53], portato
dall'antico vizio, bandì una colletta generale, calandosi pure a
persuadere e pregar quasi i popoli. Bandiva ad essi, che se Dio fosse
ancor Dio, egli ch'avea domi i re e' regni a un girar di ciglio,
espugnerebbe sì quest'isoletta di Sicilia; e avrebbel fatto
incontanente, aggiugnea, se non che sursegli improvviso nimico il
ribaldo Pier d'Aragona; onde fu mestieri altrimenti ordinar la guerra,
ingaggiarsi al duello, muover Francia contro il reame d'Aragona; e
tornato in Italia, la sola carestia gli avea tolto di mettere sotto il
giogo i Siciliani. «La mia causa, sclamava, è vostra; domi i ribelli,
avran fine i travagli; pace e giustizia faran fiorire il reame.» Ma
perchè a quello sforzo bisognava moneta, chiedea quest'anno a tutti i
comuni la colletta usata, e undici per cento di più a chiunque non
tenesse a molestia di sovvenire alquanto più largamente il suo re[54].
Così, tentennando tra bisogno di danaro e necessaria temperanza,
comandava si riscuotesse la colletta anzi tempo; e insieme {300}
chiamava parlamento in Foggia per lo dì primo dicembre. A Melfi indi
il tramutò per lo minor caro del vitto. Ebbe sospetto in quel tempo, e
forse da calunnie, che tre giudici suoi, tra quali un Quintavalle, e
Tommaso di Brindisi, barese, praticassero tradimento di bruciargli la
flotta; onde chiamatili a sè, mandolli alle forche come ladroni, non
risguardando all'onore e privilegio dell'uficio. Dopo questi esempi
non grati a' sudditi, conturbato e febbricitante va a Melfi, sperando
nel parlamento gran cose.
Perciò impaziente il fa adunare, rimanendosi egli in palagio, infermo,
o per dispetto delle note disposizioni degli animi: e negatigli
novelli tributi, a precipizio lo scioglie. Indi al solito rifugio
tornò di papa Martino; che prodigalissimo del non suo, gli avea dato
poc'anzi un'altra decima per tre anni su tutte chiese d'Italia, e
ribandito avea la croce contro l'isola dei ribelli. Corrieri sopra
corrieri mandavagli il re; sognando già danari, indi uomini ed armi, e
nuova guerra: e dissimulava ad altrui ed a sè medesimo il morbo che lo
tirava alla tomba[55].
In grave età, colpito al petto, distrutto di rammarico e rabbia, cadde
in una febbre continua; talchè a fatica di Melfi si trasse a Foggia, a
incontrar la regina Margherita, che tornava di Provenza; con la quale
assai dolorosa la vista fu, e Carlo appena ebbe forza di stender a lei
le tremule braccia[56]. Allor fu la prima volta che senza inganno {301}
sollecitò il papa alla riforma del governo[57]. Raccomandò al papa lo
straziato e pericolante reame, che per la prigionia del figliuolo non
potea lasciare a certo successore; se non che sostituirvi, e non
sappiamo con quali condizioni, Carlo Martello, primogenito del principe
di Salerno, giovanotto di dodici anni, col conte d'Artois per tutore o
baiulo, come si disse, e per capitan generale Giovanni di Monforte,
conte di Squillaci; salvo sempre il piacimento del sommo pontefice.
Istituì Filippo l'Ardito tutore delle contee, non della persona del
novello conte, di Provenza e d'Angiò, finchè Carlo lo Zoppo non fosse
liberato della prigione, o, morendovi, non uscisse di minorità Carlo
Martello, o il seguente fratel di costui; al quale effetto scrisse a
Filippo un dì pria di morire, chiamandolo sola speranza e rifugio della
schiatta d'Angiò, e scongiurandolo pei vincoli del comun sangue che non
ricusasse la tutela. Indi con molta pietà confesso delle peccata e
comunicatosi, infino all'ultimo fiato ingannò il mondo o sè stesso,
dicendo che sperava perdono da Dio per aver fatto l'impresa di Sicilia e
di Puglia più a onor di santa Chiesa e ben dell'anima sua, che da
cupidigia di regno. Così a Foggia spirava il dì sette gennaio
milledugentottantacinque, nel sessantesimoquinto anno dell'età sua,
diciannovesimo del regno[58]. {302} Villani guelfo, favoleggia che lo
stesso dì predicossi la sua morte a Parigi per frate Arlotto de' minori
e Giardin da Carmignola maestro dello studio, ambo lodati
astrologhi[59]. Il siciliano Speciale notò, come in quel tempo
spaventevol tremuoto scosse l'Etna; e poi squarciandosi il fianco
orientale del monte, ne sgorgò fiume di lava che correa sulla chiesa del
romitaggio di santo Stefano, ma giuntavi, si spartì in due rami senza
pure lambirla[60]. Un frate spagnuolo in vece di prodigi sul fato di
Carlo, scrisse il nobil contegno del re d'Aragona, che risapendolo
all'assedio d'Albarazzin, senz'allegrezza sclamò, esser morto un dei più
prodi cavalieri che fossero stati unque al mondo[61]. {303}
Mancato un tanto re, papa Martino faceasi a riparare la ruina del
regno, e avvantaggiarne la romana corte. Incontanente, col voto del
sacro collegio, die' compagno ad Artois il cardinal Gherardo legato;
ambo dicendo deputati dalla romana Chiesa a baiuli del regno, finchè
il principe di Salerno non esca di prigione, o il papa altrimenti non
voglia[62]: sottile accorgimento, che ammoniva la casa d'Aragona a non
fidar troppo sul valore del pegno ch'avea in mano; e ricordava al
mondo la pretensione del dominio del papa sul reame di Sicilia, di cui
teneasi vacante il trono, o dubbia la persona del re. Indi i diplomi
del tempo variamente s'hanno intitolati e senza legge, or col nome di
Carlo primogenito del principe di Salerno, or con quello più vago di
eredi e successori di Carlo I, e talvolta vi si aggiungono i nomi de'
due baiuli, o leggonsi questi soli[63]. Più salutare consiglio fu
quello di mandare ad effetto la riforma, non compiuta nei capitoli di
Santo Martino, ove la principalissima parte, rimessa al papa, restava
incerta come per l'addietro. Or Martino da senno volle i nuovi
ordinamenti; come alla giustizia si ha ricorso ove adoprar non puossi
violenza. Scrivea essere stato richiesto di quella riforma da re Carlo
al tempo dell'andata a Bordeaux, e or novellamente; averla maturato a
lungo; di presente promulgherebbela[64]. Aggiunse un sussidio di
centomila lire tornesi perchè Artois s'armasse alla difesa[65]. {304}
Le quali provvisioni e la saviezza e robusta man dei reggenti, massime
d'Artois, sostennero il trono, o vacante, o dubbio tra un prigione e
un fanciullo, con sudditi vogliosi di novità[66], e nimico vicino,
quantunque indebolito per sospetti in Sicilia, e in Aragona turbolenze
civili e guerra straniera. Pertanto Corrado di Antiochia riassaltando
gli Abruzzi, fu rincacciato[67]: nelle altre province non si voltarono
a re Pietro che tre ville marittime Gallipoli, Cerchiaro, e San
Lucido[68].
Ma riparata appena la perdita di re Carlo, un'altra ne piombò sul
governo di Napoli, non apposta come quella prima a cordoglio
d'ambizione o fatiche di guerra. Allo scorcio di marzo, in Perugia,
papa Martino, nimico fierissimo di Sicilia, morì, dicono alcuni, d'una
scorpacciata d'anguille, che solea nudrir di latte e in vernaccia
affogare: di che leggiadramente l'avea morso una satira del tempo[69],
intitolata Primo principio de' mali, effigiando lui in manto e
triregno, con una bandiera alla man destra, in segno delle attizzate
guerre, e a sinistra un'anguilla ergentesi verso un augellino, che
posato sulla mitra, reggendosi con le sparse ali s'inchinava a
beccarla[70]. Altri scrive, ben altramente di Martino[71]. Ma i
cardinali senza indugio, {305} chè punto non ne pativano i tempi,
rifean pontefice Giacomo de' Savelli, romano, non per anco sacerdote,
attratto e invalido della persona, destro d'ingegno, procacciante
l'util de' suoi più che l'altrui danno; il quale si nomò Onorio
IV[72]. Costui senza la prontezza ligia di Martino, tenne lo stesso
metro, per l'antico disegno della romana corte. Avrebbe forse Onorio
raffrenato il re di Napoli potente e ambizioso; dovea sostener adesso
quel trono vacillante, che metteva in pericolo tutta la parte guelfa
in Italia. Porse moneta dunque ad Artois[73]; confermò ai bisogni
della guerra di Sicilia le decime delle chiese italiane[74];
raccomandò agli stranieri principi gli eredi di Carlo d'Angiò: e ne
resta di lui una lettera a Ridolfo imperadore, perchè non contendesse
il pagamento delle decime ecclesiastiche dei suoi dominî al re di
Francia, già involto in assai spese per la guerra sopra Aragona[75].
E noti sono nelle istorie del reame di Napoli i due statuti, ch'Onorio
sanciva a sedici settembre di quest'anno ottantacinque, preparati già
da Martino. Nel primo dei quali raffermavansi con l'apostolica
autorità tutti i privilegi ecclesiastici decretati nel parlamento di
Santo Martino, come dianzi ricordammo[76]. L'altro risguarda il
governo civile; dove dopo lungo preambolo, che apponea al tutto la
ribellione di Sicilia alle avanie e ingiustizie del governo,
trascrissersi e ampliaronsi le leggi del medesimo parlamento di Santo
Martino, e molte più se ne dettero a guarentigia delle persone e
dell'avere di ogni classe di sudditi. {306} Si disdisse l'iniquo
spogliamento dei naufraghi: a favor delle famiglie de' baroni si
estese ai fratelli e lor discendenti il dritto di redare i feudi: il
militare servigio o l'adoamento si limitò alle guerre entro i confini
del regno: e soprattutto si vietaron le collette, fuorchè nei quattro
casi feudali; e si assegnò la somma da potersi levare in ciascuno di
quelli. Io non so se debbasi lodar come guarentigia più forte dei
sudditi, o biasimar di usurpazione sulla autorità regia, il richiamo
de' comuni alla santa sede, decretato nelle costituzioni medesime; e
lo interdetto sulla privata cappella del re alle prime violazioni di
queste franchige, la scomunica persistendovi[77]: ma certo non potea
la corte di Roma adoprare a miglior intento civile le spirituali armi.
Questi capitoli Onorio fe' con molta sollecitudine promulgare da
Gherardo per tutto il reame di Napoli, e massime nei luoghi più vicini
a Sicilia[78]; e osservaronsi per poco. Poi increbbero ai governanti,
come imposti da Roma, o larghi troppo; nè ebber luogo nel corpo delle
leggi di quel reame[79].
Insieme con queste buone leggi Onorio adoprava non buone arti,
suscitando in Sicilia congiure. A ciò mandovvi furtivamente due frati
predicatori, Perron d'Aidone, siciliano, e Antonio del Monte,
pugliese; i quali iti a Randazzo, recavano a Guglielmo abate di
Maniace lettere pontificie con autorità di largheggiar indulgenze a
chiunque per la Chiesa si ribellasse. Sospesi eran gli animi per la
strepitosa guerra del re di Francia contro Aragona; freschi i torti
d'Alaimo, e gli umori che ne dieron pretesto; le costituzioni di papa
Onorio, più larghe de' presenti ordini pubblici in Sicilia. Indi
l'abate con gravi parole di religione, trovò tosto seguaci due nipoti
suoi, per nome {307} Niccolò e Francesco, messinesi, Bonamico de Randi
milite, Giovanni Celamida da Traina, e più altri di Randazzo;
indettatisi con giuramento a tradire, non so qual credeano, la patria
o il re. E sì l'autorità del papa accecava le menti, che i due frati,
passati a Messina, avean ricetto nel chiostro delle suore di santa
Maria delle Scale; dal qual sicuro nido misteriosi usciano ad annodare
lor fili. Ma la cospirazione allargandosi trapelò. Un Matteo da
Termini, messovi sulle tracce dall'infante Giacomo, appostò alfine i
due frati predicatori, aiutato da due frati minori, Simone da Ragusa e
Raimondo, catalano; i quali il fecer cogliere a casa una femminuccia
mendica. Addotti allo infante, senza pur minaccia, svelavan per ordine
il trattato; e rimandati erano a Napoli con vestimenta, danaro, e
barca apposta; per clemenza non già, ma contemplazione e paura del
papa. L'abate fuggì: preso a Palermo, il mandavan prigione a Malta;
indi a Messina; e infine libero a corte di Roma. I men rei, al
contrario, gastigati severamente: dicollati a Messina i nipoti
dell'abate; Celamida alle forche; Bonamico, gittatosi nei boschi
dell'Etna a levar mano di disperati, fu accarezzato e svolto a parte
regia dalle arti di Matteo da Termini[80]. Così la congiura si dissipò
in Sicilia; mentre in Aragona terminava, senz'altro frutto che d'atti
crudeli e mortalità infinita, la guerra che, tornando alquanto
indietro nei tempi, ci faremo a narrare.

NOTE
[1] Saba Malaspina, cont., pag. 411.
Giachetto Malespini, cap. 222.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 94.
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