La guerra del Vespro Siciliano vol. 1 - 20

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Pietro nascosamente, ambo pur s'appresentarono: ch'Eduardo non v'era,
nè assicurava il campo. Il giurato patto portava di trovarsi a
Bordeaux il primo giugno, non di combattere, se non dinanzi il re
d'Inghilterra, o secondo nuovo trattato. Amendue perciò in realtà
elusero il bizzarro lor patto, osservarono in apparenza; e da ciò
trassero argomento a gittar l'uno su l'altro la vergogna; il che in
fondo era il solo intento di entrambi[37]. {249}
Le trame di Gualtiero distratte, la sconfitta di Malta, l'audace
correria del nostro ammiraglio, sforzarono il principe di Salerno a
rimetter pure l'impresa all'anno appresso; mentr'egli, allestite in
Brindisi altre galee e teride, già col conte d'Artois da un dì
all'altro pensava imbarcarsi[38]. Indi con quell'adoprar attivo e
solerte, ch'è pur dote de' mediocri, ma gli effetti il distinguono dal
valor vero, questo Carlo che, degenere dal padre, in sua vita molto si
arrabbattò e nulla mai fece, preparò grandi macchine e videle ruinare
a un soffio, or tutto inteso al passaggio di Sicilia dell'anno
vegnente, la prima cosa perdè l'intento ch'avea sudato a procacciare
testè con le riforme e promesse a' sudditi. Perchè non dismettea le
antiche gravezze, le esacerbava anzi con francarne i Provenzali[39]
{250} e altri stranieri; ridomandava imprestiti ai comuni di
terraferma; nè facea senno all'aperto niego di quelli[40]. Errò ancora
a credere i popoli bambini troppo, quando appresentatisi al papa i
deputati delle province per la promessa riforma dei tributi, Martino,
che giocava d'accordo con Carlo, diessi a pretestare memorie incerte,
necessità di una sottile esamina, e questa commise al cardinal
Gherardo, legato a Napoli[41]; tanto più affrettandolo per lettere
quanto più bramava mandar la cosa a dilungo. Perciò nel reame di
Napoli gli umori desti dalla siciliana rivoluzione e da' travagli che
durava casa d'Angiò, e anco dalle benevole dimostrazioni di casa
d'Aragona, tornavano ad agitarsi. In Sicilia al contrario, allontanato
quel valor molesto di Pietro, quetavano i popoli nel mite reggimento
della regina Costanza: e sì tranquillo corse quell'anno, che sol de'
casi di fuori scrivono i nostri storici; e Montaner afferma,
irrefragabil prova del buon governo, che dopo la comun gloria della
battaglia di Malta, Siciliani e Catalani più che mai s'affratellavano
e strigneansi d'amistà e di parentadi[42]. Per questi cagioni la
regina di Sicilia potè allor tentare, e 'l vicario di Napoli non seppe
rintuzzare nello stesso cuor del suo regno, un'assai temeraria
fazione.
Ebbe in quel verno gran caro di vittuaglie in Italia. Donde Scalea,
Santo Lucido, Cetraro, Amantea, mosse dalla penuria o dalla mala
contentezza (chè Scalea l'anno innanzi era stata la prima in
terraferma a darsi a re Pietro), si proffersero alla regina Costanza,
s'ella provvedessele di viveri e difendesse; la qual pratica
condussero alcuni {251} Scaleotti usciti per omicidî e riparati in
Sicilia; e volentieri l'assentì la regina. Mandovvi pertanto con otto
galee un forte di almugaveri, e alcune teride cariche di grano; onde
il pregio di esso d'un subito si ammezzò[43], a grande sollievo dei
terrazzani. Ma gli almugaveri, messo piè a terra, diersi a infestare
tutto val di Crati e Basilicata: contro i quali movendo il giustiziere
di val di Crati con grosse torme di cavalli, aspettatolo a lor uso in
una stretta gola, rupperlo con strage, e l'inseguirono infino a un
castello del vescovo di Cassano, ove poser l'assedio. Sopraggiunto di
Sicilia il conte di Modica, e con esso pochi cavalli e più feroci
frotte d'amulgaveri, peggior travaglio diè a Basilicata. Prese alcune
castella e la terra di San Marco; quivi della chiesa de' frati minori
fe' un ridotto assai forte; mal conci ne rimandò Rizzardo Chiaramonte
e altri baroni venuti con maschio valore contr'esso; i quali non furon
punto imitati dagli altri feudatari del regno, scontentissimi del
governo angioino. Invano di maggio dell'anno seguente si fece un altro
appello alle milizie feudali del reame di Puglia per venire a oste a
Scalea, e anco mandovvisi, sotto il comando di Ruggier Sangineto,
gente assoldata in Toscana; perchè sempre tennero il fermo i nostri: e
patiron quelle province correrie, ladronecci, notturni assalti[44];
che appena si crederebbe, standovi {252} a manca il campo di Nicotra,
a destra la capitale, e per tutto il regno guerriere voci e
apparecchi.
Il papa, non vinto pe' falliti disegni dell'anno innanzi, ma
rifacendosi ad ogni ostacolo sempre più pertinace e voglioso,
sforzavasi a ritentar ora la prova, fin trascurando i propri pericoli
e bisogni: Roma per carestia tumultuante; accanita ad assediare in
Campidoglio il vicario di re Carlo[45]; esausto l'erario pontificio;
necessitato a incettar grani in Puglia, perchè i Romani non facesser
peggio[46]. E pria rinnovò le scomuniche il dì della cena del Signore,
quel dell'Ascensione, quel della dedicazione della Basilica di san
Pietro, con molto studio a promulgarle per tutta l'Italia, e massime a
Genova[47]; ove molti cittadini per interesse di parte ghibellina eran
disposti ad aiutare il nuovo principato in Sicilia, e pendeano anco a
questo i magistrati della città, tentati invano da Filippo l'Ardito a
collegarsi con la Chiesa e Carlo contro il re d'Aragona e a stento
tirati a promettere una stretta neutralità[48]. Le decime, {253} non
per anco scadute, delle chiese di Provenza, d'Arles e degli altri
domini di Carlo a lui assegnò per la siciliana guerra; dando autorità
ai legati pontificî di sforzare i vescovi al pagamento[49]. A Venezia
s'adoprò, sollecitato dal principe di Salerno dopo la sconfitta di
Malta, ad armargli una ventina di galee, offrendo porger da' tesori
apostolici cinquemila once d'oro: ma l'accorta repubblica rispose: «Nè
al re d'Aragona, nè ad altri cristiani moverebbe mai guerra senza
cagione[50];» e richiamò in osservanza un'antica legge per la quale
vietavasi ai privati di prender l'armi per alcuno stato straniero,
senza permesso del doge e d'ambo i consigli; bello statuto secondo
ragion pubblica e delle genti, del quale sdegnossi pure la corte di
Roma come d'offesa, e pel cardinale di Porto, legato, scomunicò
Venezia, ribenedetta poi nell'ottantacinque da papa Onorio per maggior
prudenza di stato[51]. Tre legati del principe venivano inoltre a
Martino, a ridomandar moneta pel passaggio di Sicilia; ed ei dando di
piglio nei tesori delle decime di tutta la cristianità, levate già per
la impresa di Terrasanta da papa Gregorio e dal concilio di Lione, or
ne forniva per la guerra siciliana ventottomila trecentonovantatrè
once d'oro, non picciola somma, secondo que' tempi: ordinando bensì
che la più parte si maneggiasse dal cardinal Gherardo, in cui più
fidava[52]. {254} Altri danari da altre epistole di Martino appaion
sovvenuti al principe di Salerno. Il quale spintosi infino a chieder
le genti pontificie che in Romagna militavano condotte dal prò conte
Giovanni d'Eppe, le assentia Martino, senza curarsi della sua stessa
vacillante dominazione in que' luoghi[53]. Alfine il due giugno, tre
dì innanzi il precipizio dell'impresa, papa Martino da Orvieto la
rincalzava con bandire la crociata contro cristiani. A sue accuse
vecchie e stracche aggiunse: ricettarsi eretici in Sicilia; vietarsi
agl'inquisitori di perseguitarli; torsi a Terrasanta le vittuaglie.
Donde commise al cardinal Gherardo, che predicasse contro re Pietro e'
Siciliani scomunicati; e, attendendo solo a far numero, desse a
tutt'uomo la croce, senza guardare a sua origine o nazione[54].
Nel medesimo tempo re Carlo attendeva in Provenza ad accattar danari e
allestir navi a questo nuovo assalto di Sicilia[55]; e al medesimo
effetto il figliuolo, fatta dimora a Nicotra infino all'autunno del
mille dugentottantatrè, e lasciato quivi con l'esercito il conte
d'Artois, tornossi a Napoli, donde secondo i casi sopraccorreva qua e
là per tutta Puglia[56]. A raccor danaro studiossi sopra ogni altra
cosa, perchè senza fine ne ingoiava la guerra. Ondechè, usando
l'autorità datagli dal padre a torre in presto infino a centomila once
d'oro con sicurtà su tutti i suoi beni e reami, non contento ai
sussidi del papa, nè ai tributi generali {255} del reame di
Puglia[57], accattava grosse somme da mercatanti toscani con
guarentigia dello stesso Martino e delle decime ecclesiastiche[58]: e
quando il bisogno più strinse, {256} impegnò per poca moneta vasellame
e arnesi d'argento[59]; smunse la borsa del cardinal Gherardo e
d'altri privati[60]; richiese altre sovvenzioni alle città più
docili[61]; vendè il perdono di misfatti[62]; sforzò nuovamente il
valor della bassa {257} moneta[63]; e con la riputazione del
cardinale, in un concilio di tutti i prelati convocato a Melfi,
strappò loro la promessa di due anni più di decime ecclesiastiche, e a
riscuoterle deputò immantinenti suoi commissari; dagli ordini dei
frati cavalieri ottenne aiuto di gente o compenso di danari[64]. E
{258} gente richiedea per tutta Italia, in Toscana, in Romagna, in
Lombardia, da comuni, da privati condottieri, cui assicurava del
pagamento con sì efficaci parole, che mostrano quanto si dubitasse de'
fatti[65]. Chiamò al servigio feudale tutti i baroni; che, fatta a
Napoli la mostra, n'andassero in Calabria all'oste di Artois[66];
molti allettò con sue concessioni novelle[67]. A' capitani di parte
guelfa in Firenze {259} raccommandò sollecitasser le galee promesse da
Pisa[68]; n'assoldò Genovesi[69], oltre le pisane che veniano con
l'armata del padre. Il comando della sua flotta affidò a Iacopo de
Brusson, vice ammiraglio; provvide con estrema diligenza ad allestir
navi, raccor vittuaglie, fornire smisurate macchine da guerra,
maneggiate da' Saraceni della colonia siciliana di Lucera, de' quali
molti anco assoldò arcadori a cavallo, uomini d'arme, e fanti: nè
altro si legge in quella stagione nei registri della cancelleria di
Napoli, che di soldati, munizioni, quadrella per l'armata. Fino una
nuova armatura per sè fece fabbricare in Napoli questo principe,
correndo con gran furore nella militar carriera, nella quale a capo di
pochi mesi trovò tal duro contrattempo, che non osò ripigliarla più
mai[70]. Questo spaventevole strepito d'arme empieva il reame di
Napoli di primavera d'ottantaquattro, perchè i governanti angioini,
dopo l'esito infelice dell'anno innanzi, fidando or meno nella via
delle opinioni, vollero ritentare {260} una prepotente forza d'armi,
come nell'ottantadue; se non che Carlo tenne tuttavia qualche pratica
con baroni di Sicilia, sì infruttuosa quant'eran deboli qui gli {261}
umori di controrivoluzione. Nondimeno temendo qualche assalto
dell'audace flotta nostra mentre esso armavasi, pose il nemico in
questo tempo una straordinaria cura a guardar le costiere di
terraferma[71]. Suo intendimento era insignorirsi al tutto del mare,
schiacciando la nostra armata {262} se s'attentasse uscire, e se no,
inchiodandola ne' porti; e poi, sbarcato l'esercito nell'isola, non
più campeggiar luoghi forti, ma dare il guasto al paese, bruciar le
messi, divider le città, e desolate sforzarle a sottomettersi. Vietava
Carlo al figliuolo qualunque fazione pria ch'egli venisse di Provenza
con la flotta[72]. Trenta galee tenea pronte il principe a Napoli,
quaranta a Brindisi. Entro pochi dì, operata la congiunzione di tutta
l'armata ad Ustica[73], cento navi da battaglia e più assai da
trasporto, verrebbero a por la Sicilia a soqquadro.
A tempo il seppe Giovanni di Procida, gran cancelliere, pei suoi molti
rapportatori che in terraferma vegliavano assidui il nimico. Onde nel
consiglio della regina, considerato il grave frangente; lungi il re;
non esercito pronto; poca l'armata, l'audace partito si deliberò in
cui solo era salvezza: assaltare gli Angioini risolutamente pria che
tutte adunasser le forze. A ciò trentaquattro galee e più legni minori
s'armano in fretta nel porto di Messina, di scelta gente catalana e
siciliana, di finissime armi, di nobili arredi. Come la flotta fu in
punto, Costanza fatto a sè venire, coi capitani minori e i piloti,
l'ammiraglio, nudrito seco del medesimo latte, educato in sua corte,
con vive parole rimembragli l'affetto della casa reale d'Aragona:
tutto per lei andarne su quest'armata; l'onor del re, la corona, sè
stessa e i figliuoli a due soli commetteva, a Dio e a Ruggier Loria. A
questo dire le s'inginocchiava ai {263} pie' l'ammiraglio, e co' riti
dell'omaggio feudale, poste le sue nelle mani della regina: «Non fu
unque vinto, le rispose, lo stendardo reale d'Aragona; nè oggi il
sarà. Fidane, o regina, nel sommo Iddio.» Non senza lagrime allora gli
altri guerrieri giurarono; li accomiatò Costanza; li salutò il popolo
allo scioglier dal porto; e a Dio, alla Vergin Madre ne pregavan
vittoria. Fece porre l'ammiraglio a una vicina spiaggia; in terra fe'
la mostra di tutte le genti; con brevità da soldato arringò: avrebbero
entro due settimane una grandissima battaglia: andrebbero incontro a
due flotte, l'una surta nel porto di Napoli, l'altra che venia di
ponente. «Son settanta galee; ma come noi ci troviamo armati, o
guerrieri, non paventiamo le cento.» E le soldatesche risposer d'un
grido: «Andiamo andiamo, nostra è la vittoria.» Costeggiate le
Calabrie, tennero il golfo di Salerno. Da ciò in Napoli nacque una
voce, che Piero, tornato d'Aragona subitamente con tutta l'armata,
navigasse pe' mari di Principato. Mandovvisi a far la scoperta un
genovese Navarro con legno da sessanta remi[74]: e costui un altro
falso avviso riportò, frettolosamente riconosciuta la flotta da lungi
per sole venti galee e poche fuste. Vantò dunque, tornato, che
sarebbero anco troppe le ventotto galee del principe e la sua nave.
Talchè salito in superbia il giovane Carlo, ordinava d'uscir contro al
nimico; ma i Napoletani, che punto l'amavano, non vollero armarsi per
lui.
Ruggiero in questo volteggiava cautamente fuori il golfo di Napoli,
ignorando ove fosse re Carlo con la flotta provenzale; e volea
cogliere il tempo a slanciarsi o su lui o sul principe. A Capri dunque
ancorò dapprima, divisando {264} fare una dimostrazione sopra Baia, e
indi appressarsi se potesse trar fuori il principe con avvantaggio; e,
se no, far prora verso la Sicilia, e poi la notte volgere a Ponza, e
in quel canale aspettare l'armata del re. Ma non uscito alcuno da
Napoli come ei si pose a scorrere per isolette e lidi, guastando i
colti e mettendo a taglia e a sacco le terre; e venutagli presa in
questo una saettia di re Carlo, onde seppe che con trenta galee
provenzali e dieci pisane venisse ad una o due giornate d'ordinario
viaggio, Loria, vedendo sovrastar la temuta unione delle due flotte
nimiche, consultane di nuovo coi suoi più pratichi; e si deliberò di
combattere quella del principe, immantinenti, a ogni costo. Ondechè
venuto a Nisita la notte, e prese in quel mare due galee di Gaeta,
Ruggiero armolle per sè, spartiti i prigioni in tutta l'armata, la
quale sommò a trentasei galee, oltre i legni sottili. Inviò il
catalano Giovanni Alberto con una fusta a riconoscer la flotta di
Napoli; e seppene il vero numero, e che tutta la spiaggia luccicava di
fuochi e d'armi. Indi all'alba minacciando con gran mostra, apparve
fuori il capo di Posilipo, alla Gaiola.
Era il cinque giugno milledugentottantaquattro. Le depredazioni e gli
oltraggi de' nostri nei dì innanzi; i conforti de' nobili che tenean
per la corte; questa recente ostile baldanza, commossero sì gli animi,
che avuto avviso la notte stessa dell'armata siciliana surta a Nisita,
il popolo preso di novello ardire, chiede battaglia; suona le campane
a martello; Francesi, regnicoli, cavalieri, plebei alla impazzata
rapiscon le armi, corrono a' legni, in tanta pressa che per poco non
li fecero andare alla banda. E gli ottimati, per parere, dice Saba
Malaspina, chi fedele e chi gagliardo, consigliavano sì il combattere:
sopra ogni altro il conte d'Acerra, favorito del principe Carlo,
stigollo a montar in nave egli stesso, per dar animo ai combattenti.
Indi nè ragione, nè autorità il trattenne del cardinal Gherardo, {265}
il quale, non perduta la memoria di quelle aspre battaglie di Messina,
ammonialo ad esser cauto contro i Siciliani, ubbidire i comandi del
padre, aspettare l'armata e con essa la vittoria; non si gittasse al
laccio tesogli da Ruggier Loria. Ma da queste parole anzi aizzato, più
ratto il principe s'imbarcò: e prima ordinò d'imbandire a corte uno
splendido convito per festeggiar la vittoria. Con lui furono Iacopo de
Brusson vice ammiraglio, Guglielmo l'Estendard, Rinaldo Galard, i
conti di Brienne, Montpellier e Acerra, frate Iacopo da Lagonessa, e
più altri baroni. A ventotto o trenta sommarono le lor galee, tutte
del regno; armate le più di regnicoli, poche di Provenzali e Francesi.
Loria allora quasi fuggendo si difilò a Castellamare, per guadagnar
l'avvantaggio del sole alle spalle, o per trarre in alto mare i
nemici, e lasciarli disordinar nella caccia. Schiamazzando e urlando
l'inseguon essi: volano innanzi a tutte le altre, due galee capitanate
da Riccardo Riso e Arrigo Nizza, Siciliani rinneganti la patria, che
chiamano Loria a gran voce, ed «Ove fuggi eroe? gridangli; ma invano
t'involi, invano; vedi, i tuoi ceppi son qui!»; e mostrangli le
catene. E muti i nostri a vogare. A quattro leghe restano; rivoltan le
prore; l'ammiraglio in un battello scorreva a rincorarli: «Mirateli,
scompigliati da sè stessi; gente che non vide armi, o non vide mare
giammai: gridan essi, e noi feriremo.» A linea di battaglia ordinò
venti galee, serrate tra loro; fe' rassettare i remi, sgombrar le
coverte; schierovvi i balestrieri; il rimanente delle navi pose a
retroguardo, che non entrasser nella mischia senza un estremo bisogno.
Allor si die' nelle trombe; levossi il grido «Aragona e Sicilia:» e
piombò la nostra armata su i nemici, già a tal variar di consiglio
attoniti e palpitanti.
E ruppeli in un attimo; chè, non aspettato lo scontro, diciotto galee
di Napoli, Sorrento, e Principato diersi a fuggire; {266} lasciando
solo il principe con la sua galea, e quattro di Napoli, due di Gaeta,
una di Salerno, una di Vico, una di Scio, a disputar l'onore, non più
la vittoria. I Francesi, ancorchè non avvezzi nè fermi in nave,
combatteano con maschio valore. Più numerosi e franchi al maneggiar le
navi, Catalani e Siciliani urtavan di prua, spezzavano i remi al
nimico, gittavan fuochi alle tolde, sapone e sego sui banchi, polvere
di calce alle viste, scagliavan sassi e saette: e pure gran pezza non
li spuntarono dalla difesa. La strage indi si mescolò; spenta gran
parte di quei prodi cavalieri di Francia, il numero vinse. Sola
restava la galea del principe: accerchiata, squarciata, invasa da'
nostri la prua, e mezza la nave; ma un fior di gagliardi stretti a
schiera intorno al principe, che piccino e zoppo mal s'aiutava, fecero
incredibili prove; e sopra tutti Galard, uomo d'erculee forze, quanti
colpi tirava tanti feriva o uccidea, o di peso scaraventava gli uomini
in mare. A tal pertinacia, Loria comanda che si sfondi la nave; e i
nostri già saliti le dan d'entro coi pali; un Pagano, trombetto e
marangone fortissimo, attuffò per bucarla con un ferro: rotta in sei
luoghi calava la galea, gridavano i marinai, ma non udianli i
combattenti. Addandosene alfine Galard: «Salvatene, sclamò, vostra è
la fortuna; qui il principe, qui a voi s'arrendono le migliori spade
di Francia!» Gridava l'Estendard, sacra fosse la persona del principe.
E questi togliendosi la spada, tra i nostri domandò: «Qual v'ha
cavaliero?» e rispostogli dallo ammiraglio, a lui la rendè; e accettò
la mano stesagli da Ruggiero perchè lesto sulla sua nave salisse, che
l'altra già sommergeasi. Nove galee fur prese: una delle quali
velocissima involandosi, Ruggiero le spiccò alla caccia la galea
catanese di Natale Pancia; e parendogli perder lena i remiganti,
minacciò di farli tutti accecare se non tornassero colla nimica nave:
talchè per mortali sforzi la sopraggiunsero; sapendo Ruggiero uom
{267} da tener la cruda parola, grande nelle virtù, grande nei vizi,
di smisurato valore e brutale ferocia[75]. {268}
Alla battaglia seguì un ridevol caso. Avea fatto Ruggiero assai onore
al principe: e questi riccamente armato, in mezzo a molti cavalieri
sedea nella capitana, quando una barca di Sorrento si appressò con
messaggi del comune; i quali, credendolo l'ammiraglio, offriangli
quattro cofani di fichi fiori e dugento agostali d'oro «per un taglio
di calze; e piacesse a Dio, seguiano, che com'hai preso il figlio,
avessi anco il padre; e sappi che noi fummo i primi a voltare.»
Sorrise il principe, e a Loria disse: «Per Dio, ch'ei son fedeli al
re[76]:» ma lamentando la slealtà dei soggetti, scordava il giovin
Carlo chi fosse stato il primo a infrangere il social patto, e la
crudeltà scordava del suo governo, l'avarizia, la superbia, la
tirannide sconcia e brutale.
E al castel dell'Uovo[77] suonavano di pianti femminili le stanze
della principessa, ch'era salita sul più rilevato scoglio {269} fin
quando Carlo salpò; e fitti gli occhi sulle navi, avea visto
l'affrontata, e la fuga, e sparir la galea capitana; nè sapea
spiccarsi dal guardare, dileguata anco la flotta napoletana, e caduto
il dì. Pallido e ansioso a lei venne il cardinale, spaventato dal
minaccevole aspetto della plebe: e pensando insieme a que' prodi, or
li temeano uccisi, or li speravan prigioni; quando due galee siciliane
approdarono con una lettera del principe. A lui, trepido di sua sorte
in guerra spietata, l'ammiraglio avea richiesto sciolta di presente la
Beatrice, giovanetta e bella figlia di Manfredi, ch'orfanella passò
dalla cuna al carcere di Carlo, e ivi stette come sepolta. Scrivea il
principe dunque, si rendesse immantinenti la donzella: e i Siciliani
aggiugneano che se no, lì, sulla galea, in faccia a Napoli a lui
mozzerebbero il capo. Indi la principessa a cercar Beatrice, a donarle
gioielli e femminili arredi, e gittarsele ai pie' che salvasse per Dio
la vita a Carlo suo. Recarono alla flotta con molto onore Beatrice; e
si sciolser le vele. Alle bocche di Capri, Riso e Nizza, come traditor
maledetti, furon sulla galea di Loria dicollati. Entrò l'armata nel
porto di Messina[78].
Dove al primo scoprir quelle vele, con susurro e ansietà precipitava
il popolo alla marina, d'ogni età, d'ogni sesso; ma visti i segni
della vittoria, e le galee prese, e saputo prigione il principe di
Salerno con tanti baroni, inenarrabile allegrezza si destò. Sbarcate
le turbe de' prigioni, proruppe il volgo, com'e' suole in ogni luogo,
a insultarli; {270} ricordando a gara la tirannide, l'assedio, le
scambievoli offese, e molti le abborrite sembianze de' baroni stati
loro oppressori: onde aprian la calca i più avventati, e feansi a
guardarli faccia a faccia, e dir dileggiando: «Chi fuvvi maestro a
battaglie di mare? Oh sventura! dar le spade voi a Catalani ignudi, a
Sicilian galeotti! Eccovi la seconda fiata trionfanti in Messina!» A
schivar peggio, il principe sbarcò travestito da soldato catalano. Ma
la regina, i figli, i cittadini autorevoli raffrenarono la cieca ira,
che già correva a suonar le campane a stormo, coll'antico grido «Morte
ai Francesi.» Nel palagio reale dapprima fu sostenuto il principe;
indi nel castel di Matagrifone con Estendard; non incatenati, nota un
istorico, ma sotto gelosa guardia di cittadini e soldati: e vietò la
generosa Costanza ai figliuoli, che vedessero in quella misera
condizione il figlio di Carlo d'Angiò. Furono assegnati i cavalieri in
custodia per le case de' maggiori della città. La reina con molte
lagrime abbracciava la sorella, campata come per miracolo dalle mani
de' nemici[79].
Ebbe tempesta in Napoli la dominazione angioina a quella sconfitta.
Levato il popolazzo a romore, gridava per le strade «Muoia re Carlo e
viva Ruggier Loria:» sfrenavasi per due dì a saccheggiar case
francesi; e pochi cadutigli in mano ammazzò; la più parte usciti dalla
città con cinquecento di lor cavalli scamparono. I quali pensavan
ritrarsi in Calabria appo il conte d'Artois, se non {271} che il
cardinale e i baroni mandavano a confortarli: si riducessero intorno
il castel Capuano, e non temesser pure la minuta plebe e quel foco di
paglia, chè la nobiltà napoletana sarebbe tutta con essi. E in vero, o
vinti dall'autorità e arte del cardinale, o mansuefatti all'alito
della corte, i nobili di Napoli si fecero sostegno all'usurpatore in
quel fortunoso momento. Perciò la plebe volle scacciare i Francesi, e
non potè; contrariata dai suoi stessi, e repressa e castigata due dì
poi dal medesimo re Carlo[80]. Si propagò il movimento a Gaeta e molte
altre terre, che strepitarono un poco, scrivea re Carlo con l'usato
disprezzo, e per le medesime cagioni si tacquero[81].

NOTE
[1] Montaner, cap. 77, 78, narra queste pratiche di Carlo a corte di
Roma.
[2] Bart. de Neocastro, cap. 74.
[3] Montaner, cap. 81.
D'Esclot, cap. 110.
[4] Diploma dato di Nicotra il 13 maggio 1283, nel citato Elenco
delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag. 250, nota
3.
Altri due diplomi si trovano nel r. archivio di Napoli, reg.
segnato 1283, E, fog. 10 a t. e 11 a t., l'uno per fornirsi in
Nicotra sei teride oltre sei più che n'eran pronte, il quale è
dato di Nicotra il 20 aprile undecima Ind. (1283), e la cura n'è
commessa a Riccardo de Riso, lo sciagurato uscito siciliano, e a
Gerardo di Nicotra. L'altro è diverso dal notato nell'Elenco delle
pergamene, ma dato ancora di Nicotra il 13 maggio, pel biscotto
delle 20 teride di Principato e Terra di Lavoro, da armarsi a mo'
di galee.
[5] Saba Malaspina, cont., pag. 398.
La testimonianza di questo diligentissimo storico è rinforzata nel
presente luogo dai diplomi.
E prima, il mutamento del campo da Santo Martino a Nicotra si vede
dal registro del regio archivio di Napoli segnato 1288 E, dove a
foglio 10 è un diploma dato _in castris in planicie sancti
Martini_, il dì 7 aprile, undecima indizione (1283); un altro
dato di Nicotra il 14 dello stesso mese; e un terzo di Nicotra il
21 aprile per lo trasporto delle tende; e a foglio 10 a t. un
altro del 20 aprile per trasporto di vini a Nicotra sotto scorta
di legni armati; il che mostra ancora come que' mari erano
infestati da' Siciliani.
V'ha allo stesso foglio 10, un altro diploma risguardante il conte
Piero d'Alençon, _carissimi consanguinei nostri_, scrivea
Carlo lo Zoppo. Questo è dato di Nicotra a 20 aprile, undecima
Indizione (1283), e provvede che si supplisse del denaro regio il
bisognevole a soddisfar tutti i lasciti del testamento dì Alençon.
Questi era dunque gravemente infermo. E morì in Puglia il giovedì
dopo la festa degli Apostoli Pietro e Paolo, come si legge in un
diploma di Filippo l'Ardito dal 24 giugno 1283. _Collection des
Documents inédits sur l'histoire de France_, tom. I, Paris
1839, pag. 318, Documento 244.
Malaspina dice ch'ei fosse mancato di malattia; l'autore delle
_Gesta Comitum Barcinon._, cap. 28, che morisse lentamente
delle ferite riportate nella guerra. Sbaglia pertanto Montaner che
lo fa cadere all'assedio della Catona, cioè di novembre 1282.
I luoghi ove dimorò Carlo lo Zoppo vicario generale si veggon
ancora dai diplomi del regio archivio di Napoli. Nel registro
segnato 1283 E, n'abbiamo uno dato di Terranova (presso Santo
Martino) il 20 febbraio undecima Indizione (1283), a foglio 11;
poi vi hanno quegli altri del mese di aprile citati di sopra: e
moltissimi dati di aprile, maggio, luglio ed agosto, tutti di
Nicotra, se ne trovano foglio 9, 3, 3 a t., ed 8; e uno dato di
Matera il 7 luglio, foglio 3 a t.
È notevole tra questi diplomi, che la Corte angioina, tra tanti
suoi travagli, dovea pur mandare qualche sussidio alle sue genti
in Acri e Durazzo. Ciò si scorge da due diplomi dell'8 e 9 maggio,
foglio 9, per 20 cavalli saraceni e pochi viveri imbarcati per
Durazzo e da un diploma del 27 aprile, foglio 11, per 400 salme di
grano inviata ad Acri _pro usu gentis nostre_, da consegnare
a Odone Polliceno, _Vicario regio in regna Jerhusalem_.
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