La guerra del Vespro Siciliano vol. 1 - 17

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porto l'armata di Sicilia, essa li investì con tanta virtù sua e
scoraggimento degli avversari, che una schiera di quindici galee
nostre, trovandosi innanti nella caccia, pur sola diè dentro, e
ventidue ne prese tra di Principato, marsigliesi e pisane. Quando di
Calabria videro ingaggiare l'inegual conflitto, ch'era presso il
tramonto del dì, non tenendo dubbia la vittoria, con luminarie la
festeggiarono; onde molta ansietà ne surse in Messina; e s'accrebbe la
dimane, scorgendo un grosso stormo di vele che drizzavansi al porto.
Si distinser poi le insegne; sventolanti in alto le aragonesi e
siciliane, strascinate in mare quelle d'Angiò; e tra l'universale
giubbilo preser porto le navi, recando, narra il d'Esclot, quattromila
cinquanta {205} prigioni. Caduto il dì, con fuochi e lumi sfolgoranti
per tutta Messina, rendeasi cenno delle fallaci dimostrazioni della
notte innanti in Calabria[5].
Più nobil tratto e di più atto argomento Pietro adoperò co' prigioni.
Due dì appresso, ritenendo soltanto i Provenzali, fatto adunar gli
altri sul prato a porta San Giovanni[6], benigno parlava: conoscessero
or lui e Carlo di Angiò; questi avrebbe messo a morte ogni prigione;
ei liberi a lor case rimandavali senza riscatto, sol che promettessero
non portare le armi contro Sicilia, e recasser lettere per Puglia e
Principato, invitando que' popoli a mercatare nell'isola, che
sarebbervi sicuri e graditi, venendo con intendimenti di pace. Offrì i
suoi stipendi a chi volesse; agli altri fornì barche e vivanda; e fe'
dispensare un tornese d'argento per capo. Talchè essi lietamente si
tornavano, a spargere nel reame di terraferma le lodi del nuovo re di
Sicilia; confortandoli {206} a gara i Messinesi con savie parole:
nulla da' Siciliani temessero, nimici solo agli stranieri oppressori;
alla gente italiana non già, che tratta a forza a questa guerra,
benediva in suo cuore[7] la rivoluzione siciliana.
Così entro due settimane, rincorati i Messinesi con tali ardimenti di
naval guerra, cavata a' nemici ogni fantasia di ripassare in Sicilia,
e gettata anco l'esca a' popoli di terraferma, Pietro cavalcò il
sedici ottobre per Catania, a mostrare in val di Noto il viso e la
benignità del principe nuovo. Onde in un parlamento di quanti sindichi
di comuni si poteano in fretta adunare, ei stesso orò nella cattedrale
di Catania: dalle unite forze avrebbero ormai sicurezza; godrebbersi
lor franchigie, e giustizia nel governo, e riparazione di tutti gli
abusi angioini; che il ben de' sudditi, dicea, è ben del monarca; la
tirannide li avea spolpato, la libertà porterebbe rigoglio e dovizie.
Cassò di presente le collette; abolì i dritti odiosissimi
dell'armamento delle navi; bandì non tornerebber quelli mai più sotto
il governamento suo, nè dei successori; mai la corona non leverebbe
d'autorità propria generali nè parziali sovvenzioni. Il parlamento gli
accordò allora i sussidi per sostenere la guerra: e a questo effetto
ei torna senza dimora a Messina il ventiquattro di ottobre[8]. {207}
Permutate lor sorti, la Sicilia si faceva ad assaltare, a portar
fomite e aiuto ai popoli scontenti, a turbar di là dallo stretto ogni
cosa: e Carlo alla meglio recavasi in atto di difesa nel discredito
della sua diffalta. La vien palliando perciò con iscrivere ai
magistrati di terraferma, affinchè non restin presi alle ciance del
volgo, com'ei, dato spaventevole guasto alle campagne di Messina,
percossa e condotta agli estremi la città, da non poterle ormai giovar
nulla il sospeso assedio, sopravvenendo il verno, s'era consigliato,
per la comodità delle vittuaglie e la sicurezza delle navi, a ritirar
gli alloggiamenti un pocolin[9] di qua dallo stretto; per tornar poi a
migliore stagione, con più formidabile apparecchiamento, da schiacciar
sotto i suoi piè le corna dei protervi ribelli[10]. Cotesti vanti
tradiva con una sollecitudine estrema di custodir le spiagge da tutta
incursione di que' che pur chiamava pirati; e ponea velette e
pattuglie; ordinava segnali, di fuoco la notte, di fumo il dì, che
desser l'allarme scoprendo la nostra bandiera[11]: perchè in vero
l'aragonese e siciliana flotta correa vincitrice il Tirreno; armandosi
di più parecchi galeoni a corseggiare[12]; onde grave il danno, e
maggior lo spavento, stendeasi per le marine di tutto il reame di
Puglia. A mettervi riparo ordinò Carlo ancora di racconciar
prestamente tutte le galee, e cento teride[13]. Rimandate le milizie
feudali del regno e gl'italiani aiuti, tenne insieme i soli Francesi e
{208} stanziali, che sommavano a sette migliaia di cavalli e dieci di
fanti. Alla Catona e in altri luoghi marittimi di Calabria li spartì
in grosse schiere: a Reggio ei rimase con la più forte[14]. E, per non
sembrare inoperoso, un messaggio di rimbrotti mandò a re Pietro, già
tornato a Messina.
Per Simon da Lentini, frate de' predicatori, il mandò, che affidato
nella chierca, rinfacciava al re d'Aragona: l'ingannevole risposta su i
primi armamenti suoi; la guerra non denunziata, portata mentre fingeva
amistà e trattava parentado; l'occupazione ingiusta del reame: con
l'arme gliel proverebbe re Carlo. A que' detti che suonavano slealtà e
tradimento, balzò Pietro dal seggio, concitato nei passi, alterato il
sembiante; ma in un attimo tornando padrone di sè, gli fea bilanciata
risposta: tra lui e 'l conte d'Angiò gli omicidî di Manfredi e Corradino
aver già da lungo tempo rotto la guerra: a ragione tener questo reame,
per eredità ed elezione de' popoli: mentir però chi gli apponea
tradigione: e sì che il sosterrebbe in duello[15]. Onde due messaggi
inviò a re Carlo, coi quali delle condizioni {209} del duello si disputò
lunga pezza; perciocchè re Carlo non amando a misurar le declinanti sue
forze con la robusta età dell'Aragonese, volea compagni molti al
combattere, chè tanti sì prodi, avvisava, non potrebbe trovar
l'avversario: e questi, tenendosi al singolare combattimento, offria
venirne senz'arnese contro Carlo coperto di tutt'arme; e sì ricusava il
duello in Calabria, a meno che non gli si desse in istatico il principe
stesso di Salerno. Accordaronsi al fine che i due re con cento cavalieri
per ciascuno s'affrontassero a provare: «Carlo, come provocatore, esser
Piero entrato nel reame di Sicilia contra ragione e in mal modo, senza
sfidarlo dapprima: e il re di Aragona, come difensore, che l'occupazione
e tutt'altro fatto contro Carlo, non fossero macchia all'onor suo, nè
opera da vergognarne dinanzi a dignità di tribunale o cospetto d'uom
giusto.» Ad ultimar la scelta del luogo e del tempo, si deputavan sei
cavalieri dell'uno e sei dell'altro, per lettere patenti date il
ventisei dicembre. I quali, convenuti nel real palagio di Messina,
ferman, che si combatta in campo chiuso nel contado di Bordeaux in
Guascogna, come vicino a Francia e ad Aragona, e tenuto dal giusto
Eduardo re d'Inghilterra: il primo giugno milledugentottantatrè si
presentin quivi i {210} due principi a Edoardo, o a chi egli manderà, o,
in difetto, a chi per lui regga la terra; ma, salvo nuovo accordo, non
si venga allo scontro, se non presente Eduardo; aspettandolo infino a
trenta dì, sotto fede di non si offendere reciprocamente in Guascogna
infino al duello e otto dì appresso. Stipulano in ultimo che qual manchi
ad appresentarsi co' suoi campioni, tengasi d'indi in poi «vinto,
spergiuro, falso, fallito, infedele e traditore, spoglio del nome e
onore di re». Ratificaron ambo i principi questi capitoli con sacramento
sugli evangeli. E com'era costume, chiamandosi a guarentigia dei re i
veri arbitri dello stato, quaranta per ciascuna parte de' primari baroni
e capitani giuravano sul sacro libro, che legalmente e di buona fede
secondo lor potere procaccerebbero l'osservanza di que' patti: che se il
lor principe fallasse, mai più non vedrebbero la persona di esso, nè
aiuto di braccio gli presterebbero, nè di consiglio. Da loro soscritti e
dai re in buona forma, si stendean di tutto ciò due atti, dati, quel di
parte aragonese di Messina, l'altro di Reggio; ambo il trenta dicembre:
e in questo leggesi, tra molti nobili nomi francesi, un Giovanni
Villani, congiunto forse del fiorentino istorico[16]; nel primo notansi
Alaimo di Lentini, il conte Ventimiglia, Ruggier Loria, Gualtiero di
Caltagirone, e Pietro fratello, Giacomo Perez, natural figliuolo del
re[17]. Gli scrittori parteggianti {211} per l'uno o per l'altro dei
principi li accusavan poscia vicendevolmente d'inganno. Dissero i
nostri, che Carlo pretestando il duello volesse trar di Sicilia il
rivale, per riassaltar l'isola più francamente, e spegner il fomite di
ribellione in terraferma[18]. Di pari astuzia i Guelfi accagionavan
l'Aragonese, supponendolo erroneamente provocatore al duello, come se
per tema delle forze superiori di Carlo divisasse differir tanto la
guerra, che inoperosi morissero nel meridional clima i Francesi[19].
Pensasserlo o no, Carlo e Pietro uomini eran ambo da meritare l'accusa.
Ma forse la sfida non fu che un appello alla opinione pubblica alla
guisa dei tempi; come un Pietro e un Carlo d'oggidì {212} farebbero con
promulgar dicerie d'umanità, legittimità, bilancia di potere, comodi de'
commerci, bene de' popoli.
E Pietro ebbe il destro d'esplorar pei messaggi affaticantisi in que'
riti cavallereschi, la condizione e postura de' nimici, su i quali
s'apprestava a portar la vera guerra[20]: e volle incominciarla con
infestagion di truppe leggiere, che riconoscesser meglio il paese, e
gli coprisser lo sbarco. Ondechè sapendo da Bertrando de Cannellis,
reduce dal campo francese, come duemila cavalli e altrettanti pedoni a
mala guardia se ne stessero alla Catona; mosso ancora dal pregar degli
almogaveri, ch'anelavan battaglia e bottino, il sei novembre appresso
il tramonto, fea partir chetamente da Messina quindici galee con un
grosso di fanti sotto il comando del suo natural figliuolo; cui pur
non affidò altrimenti il disegno, che in un plico da schiudersi in
mare. Colto all'improvvista così a profonda notte il presidio della
Catona; fatto assai strage e prigioni; volti in fuga i più; e
incalzati infino a Reggio: che fu trapasso degli ordini,
pericolosissimo perchè raggiornava. Spiacque al re sì forte la
temerità di Giacomo, che per amor che gli portasse, nè per merito
della vittoria e preda, non si trattenne dal torgli il comando: e a
stento ad intercession de' baroni gli perdonò gastigo più grave;
pensando che solo uno estremo rigor di ordini potesse render
sicuri[21] quegli audacissimi {213} colpi tra tante grosse poste
nimiche. Per pratiche ebbe intanto la terra di Scalea in Principato;
al cui reggimento il dì undici novembre mandò Federigo Mosca conte di
Modica[22]. Cinquecento uomini pose sulla estrema punta di Calabria: i
quali annidatisi negli antichi boschi di Solano, costernavano il
presidio di Reggio, con iscorrere in masnade pei contorni, rapir
vittuaglie, infestare le strade, tutte comunicazioni troncargli[23].
Tra queste scaramucce e 'l trattato del duello, il sanguinoso anno
ottantadue chiudeasi chetamente, lasciando i semi sì di lunghissime
guerre; alle quali non erano per mancare nè motivi, nè danari, nè
uomini. Perchè oltre la propria potenza di Carlo, la corte di Roma
vedendo tornar vane le prime prove, cominciò a rinforzare i comandi
spirituali e le pratiche, co' sussidi di moneta; le città guelfe
d'Italia, necessitate da lor maligna stella a sostener la casa
d'Angiò, mandaron tuttavia molte genti, e talvolta anco danaro; ed
oltre le Alpi la guerriera schiatta francese era pronta sempre a dare
il suo sangue. Infin dal primo annunzio della strage in Sicilia, il
principe di Salerno corse di Provenza a Parigi, a rincalzar le
inchieste del padre, a comporre le liti che questi avea con la regina
Margherita di Francia per cagion delle contee di Provenza e di
Forcalquier[24]. {214} Ottenne da Filippo l'Ardito un sussidio di
quindici mila lire tornesi[25], e favore a levar a un di presso mille
uomini d'arme. Questi condotti dal principe e da' conti d'Alençon,
Artois e Borgogna del sangue reale di Francia, e spesati in parte dal
papa[26], con assai altri cavalieri passavano in Italia in due
schiere, tra la state e l'autunno ed[27] alle Calabrie avviavansi,
dove sempre furono combattute le guerre dei due reami di Sicilia e di
Puglia, e gli uomini per somiglianza d'indole e paese, più tennero a'
vicini d'oltre lo stretto, che a que' di terraferma. Al tempo
medesimo, il papa consentiva a Carlo, che ne' presenti pericoli dello
stato mettesse presidio nelle fortezze di Monte Casino, e in
tutt'altre possedute da corpi ecclesiastici nel regno suo, sotto fede
di restituirle a ogni cenno della Chiesa[28]. Ed egli, sentendosi per
tali aiuti più sicuro in quelle province, partì come per andarsi al
duello, che ancor gliene avanzavano cinque mesi; ma fu che volle
ultimar da sè stesso le pratiche con Francia e col papa[29]; o {215}
sforzato da' tempi a moderare in Puglia la dura dominazione, gli
rifuggì l'animo superbo dal farlo con le mani sue proprie. Pertanto,
creato vicario generale del regno il principe di Salerno, unico
figliuol suo, per nome anche Carlo, e da vizio della persona detto lo
zoppo, comandò da Reggio il dodici gennaio milledugento ottantatrè ai
magistrati e officiali, che a costui ubbidissero come alla persona sua
stessa[30]. Altresì gli commetteva lo esercito[31]. Ma pria per
consiglio de' conti di Alençon, Artois, Borgogna, Squillace, Acerra,
Catanzaro, mutò la linea di difesa dalla riva del Tirreno al corso del
Metauro; o perchè i nostri tenendo il mare e i boschi di Solano
affamavan tutta la estrema punta delle Calabrie[32], o perchè ei pensò
adescarli tant'oltre, che in mezzo ai suoi formidabili cavalli
s'avviluppassero[33]. Perciò, abbandonata Reggio e i contorni, accampò
il grosso delle genti nelle pianure di Santo Martino e di Terranova; e
posò forti schiere in alcuna terra all'intorno. E pria che sgombrasse
Reggio, i cittadini tanta finser nimistà coi Messinesi, e paura e
incapacità a difender la terra senza presidio francese, che il re
assentia si desser pure al nemico, se così portasse la fortuna, e non
ne avrebber nota di fellonia. Com'ei volge le spalle, i Reggiani,
{216} per oratori raccomandati ai Messinesi, offron sè stessi e la
città a re Pietro[34].
Avea già questi messo in punto ogni cosa al passaggio; affidato al pro
Ruggier Loria il comando della flotta[35]; accozzato in Messina tra
Catalani e Siciliani gran podere di gente[36]; chiamando al militare
servigio i baroni dell'isola, ch'alacremente il seguiano[37].
Quell'oste il re ordinava con poca man di cavalli, ed elette bande
d'arcieri, balestrieri, e sopra tutto almugaveri: fanteria spedita,
chiamata così dagli Spagnuoli con moresco vocabolo. Breve saio a
costoro, un berretto di cuoio, una cintura, non camicia, non targa,
calzati d'uose e scarponi, lo zaino sulle spalle col cibo, al fianco
una spada corta e acuta, alle mani un'asta con largo ferro, e due
giavellotti appuntati, che usavan vibrare con la sola destra, e poi
nell'asta tutti affidavansi per dare e schermirsi. I lor condottieri,
guide piuttosto che capitani, chiamavansi, anche con voce arabica,
adelilli. Non disciplina soffrian questi feroci, non aveano stipendi,
ma quanto bottino sapessero strappare al nimico, toltone un quinto pel
re; nè questo medesimo contribuivano, quand'era cavalcata reale, ossia
giusta fazione. Indurati a fame, a crudezza di stagioni, ad asprezza
di luoghi; diversi, al dir degli storici contemporanei, dalla comune
degli uomini, toglieano indosso tanti pani quanti dì proponeansi di
scorrerie, del resto mangiavan erbe silvestri ove altro non
trovassero: e senza bagaglie, senza impedimenti, avventuravansi {217}
due o tre giornate entro terra di nimici; piombavano di repente, e
lesti ritraeansi; destri e temerari più la notte che il dì; tra balze
e boschi più che in pianura; fortissimi ovunque i cavalli non potesser
combattere. Ben seppe farne suo nerbo alla guerra delle montuose
Calabrie re Pietro; e agevolmente li ordinò, perchè gli alpigiani
Spagnuoli solean darsi a quest'aspra milizia, ed or parea fatta pei
Siciliani, nati tra montagne, svelti, audaci, di mano e d'ingegno
prontissimi[38].
Con sì fatta gente a valicare lo stretto si apprestava re Pietro,
saputo l'indietreggiar de' nemici, quando l'ambasceria di Reggio sì
l'affrettò, che il dì appresso che fu il quattordici di febbraio,
navigava a quella città; recando seco nella sua galea medesima tra i
più fidati baroni Alaimo di Lentini. Accolsero tanto più lieti i
Reggiani, quanto, aperto il mare, dopo lunga penuria, ogni vivanda
appo loro abbondò. L'oste parte albergava per le case; parte, non
bastando quelle, attendavasi alla campagna. Tutta la Calabria allora
piena della riputazione del re, cominciò {218} occultamente a
inviargli messaggi: e prima Geraci scoprissi, ov'ei mandò Ruggier
Loria, e Naricio Ruggieri conte di Pagliarico, l'uno a prender,
l'altro a regger la terra[39]. Egli intanto disegnando accostarsi al
nemico esercito, il dì ventitrè febbraio, con un sol compagno a
cavallo, trenta almugaveri e una guida, per cupi sentieri di valli e
boschi infino agli alloggiamenti si spinse a riconoscere. Tornatosi a
Reggio, conduce i suoi pei boschi di Solano; e ad otto miglia dal
grosso delle genti francesi, e non guari lontano dalle altre lor
poste, li accampa in un rispianato che ha nome la Corona, sopra
alpestri e salvatichi monti, sicuro da assalti, comodo portarne su i
luoghi bassi d'intorno. Quivi i Greci del paese, usi a praticar senza
sospetto tra i nimici, d'ogni fiatare di quelli il ragguagliavano.
Cheto aspettando ei posava, come se quelle foreste lo avessero
inghiottito; tantochè in Calabria il bucinavano già uom dappoco e
acquattatosi per paura[40].
Quand'ecco stando agli alloggiamenti a Lagrussana presso Sinopoli
cinquecento cavalli capitanati da Ramondo de Baux, mentre stanchi di
gozzoviglia senza scolte straccurati giaceansi una notte, repente un
fracasso li riscuote; gli almugaveri come torma di lupi saltano tra
gli alloggiamenti; scannano, rapiscono; sconosciuto tra i gregari
ammazzan Ramondo; e prestissimi dileguansi col bottino[41]. Non andò
guari che un Arrigo Barrotta tesoriere di Carlo, recando sei mila once
per gli stipendi dello esercito, nella terra di Seminara albergò;
stanza in quel tempo di ottocento cavalli francesi. Avutane spia re
Pietro, l'adescò lor mala guardia, e più la moneta. Onde il tredici
marzo a sera, {219} ei stesso con trecento cavalli e cinquemila
almugaveri calavasi chetamente da Corona: e giunto a tre miglia da
Seminara, fatte posar le genti svelò il meditato colpo. Quel generoso
Alaimo il contrastava. Qual lode a re, dicea, da notturna rapina, e
disutile strage? Vano il pensier sarebbe di tener Seminara sì presso
al campo nimico. Lasciata dunque la misera terra, al campo si vada: lì
il principe di Salerno, il fior della corte di Francia, sbadati,
sicuri; investisserli risolutamente; che l'audacia partorirebbe
fortuna, o gloria certo. Taccion le istorie il contegno del re, le
parole, che furon certo pacate, i proponimenti, forse fieri e
sinistri, che gli si ribadirono in mente contro l'eroe di Messina.
Ostinato a Seminara ei marciò. Dove mentr'una schiera accostavasi al
muro debolmente combattuta delle guardie, gli altri occupate
velocissimi le porte, troncano ogni difesa. Il re, come se
pratichissimo della terra, dritto sprona all'albergo del tesoriero: nè
la moneta pur trova, mandata al principe il dì innanzi. Allora,
postosi fuor dalle mura, alle riscosse contro gli aiuti che potesser
venire dal campo, inondan Seminara gli almugaveri. Il Barrotta,
d'ordine chierico, soldato a' costumi, desto dal fracasso, lasciando
una donna che seco avea, sorge, dà di piglio all'armi, e fieramente
difendendosi è morto. Cadon altri resistendo; e fuggono i più, qual
senza panni, quale a piè, qual balzando sull'ignudo cavallo; ma era
gente sì ordinata, che, non ostante il subito scompiglio, da
cinquecento rannodaronsi di lì a una mezza lega aspettando il dì, e
partendosi poi i nostri, rientrarono in Seminara. Messa questa intanto
a ruba e a guasto: per severo divieto del re furon salve tuttavia le
vite degli abitanti, che fuggendo si dileguaro. Al nuovo albore
straccarichi di preda rinselvansi i Catalani e i Siciliani alla
Corona; non molestati dal nemico, il quale agli avvisi dei fuggenti
s'era desto a tumulto, ma sorpreso e scoraggiato sì fattamente, che
volendo {220} il principe di Salerno muover pure a un assalto, niuno
nol seguì. La dimane ei manda un drappel di cavalieri a Seminara; da'
quali intendendo non potersi munir contro nuova fazione, perchè non
n'abbia comodità il nimico, la fa sgombrar anche da terrazzani,
spartiti per le altre terre di Calabria ad accattare il pan
dell'esilio[42].
Con questo notturno guerreggiare e occulto adoprare, il re d'Aragona
occupò parecchie terre intorno il campo stesso nemico; menomandosi ad
ogni dì le speranze nei Francesi, che senza ferir colpo consumavansi.
Per lo contrario crescea Pietro di riputazione e di forze; e la
catalana e siciliana gente imbaldanziva per la fortuna dell'arme e per
lo ricco bottino: che per lo bottino, scrive un guelfo, assalivan le
terre; per la moneta del riscatto facean prigioni, e per le cuoia
rapivan gli armenti[43]: e anco dal catalano Montaner s'intende come
quelle masnade a gara chiedesser le più rischiose fazioni per
arricchirsi, e cupide e animose nè a numero nè a forza de' nemici
badassero[44]. E {221} già, come signor de' mari, stendendosi Pietro
più a dilungo, prende sull'Adriatico Geraci, chiamato da' terrazzani.
Quivi, serratosi nella rocca a' movimenti primi de' cittadini il
presidio francese capitanato da un Guidone Alamanno, il re d'Aragona
gli dava assalti ogni dì; e per fame e sete già riducealo, quando un
sospetto d'umori nuovi in Sicilia, il fe' precipitare al ritorno[45].
In questo tempo la regina Costanza, chiamata da Pietro, fin quando
pattuivasi il duello perchè restasse al governo in Sicilia, era venuta
di Catalogna in Palermo co' minori figliuoli suoi, Giacomo, Federigo,
e Iolanda[46]; seco recando cortigiano o consigliero quel Giovanni di
Procida, che sulle memorie degne di maggior fede or la prima volta
appar venuto in Sicilia, nè più se ne facea menzione dopo quegli
antichi disegni tra esso, Loria, ed il re[47]. Vedendo dunque la
figlia di Manfredi, e i giovanetti principi di vago e nobil {222}
sembiante, la moltitudine esultava e plaudiva; soddisfatta alsì dalle
novità, e dalle vittorie di terraferma. Ma tra i baroni e' l re
nasceano molti sospetti. Perch'avendogli dato quei la corona, superbia
in loro, e nel re dispetto del troppo beneficio, lavoravan tanto, che
a' baroni non bastava guiderdone o favore, al re parea fellonia ogni
picciolo scontento; e cominciava egli a giocare con suoi scaltrimenti
per abbattere i più audaci. È probabile inoltre che cagionasse
dispiacere la pattuita e mal osservata ristorazione agli ordini
pubblici de' tempi di Guglielmo il Buono[48], di cui s'avean idee
indefinite e pressochè favolose: onde tanto più ardentemente li
vagheggiavano i popoli, tanto più diveniano difficili a soddisfarsi;
nè Pietro era principe arrendevole, nè mantenitor di franchige che
menomassero l'autorità regia. Pungea fors'anco i nostri invidia de'
Catalani, e del non aver parte abbastanza ne' pubblici affari; onde
alcun pensava non aver mutato la tirannide in libertà, ma la persona
del principe e la nazione de' signori: i quali umori è naturale che
da' baroni passassero anco ne' popolani più veggenti, nè ignoti
restassero al re. Stando Pietro così sotto il castel di Geraci,
avvenne che il dì otto aprile, preso uno spion de' nemici, rivelava
pratiche del principe di Salerno in Sicilia. Confessò, dice il
Neocastro, essersi indettato Gualtier da Caltagirone a dargli in balìa
tutta l'isola, se alla partenza di Pietro per Bordeaux, mandasse {223}
in alcun porto di val di Noto cinquanta galee con un grosso di cavalli
francesi. Il quale Gualtiero, signor di Butera e d'altri feudi,
possente sopra ogni altro in val di Noto, e famoso appo i narratori
della congiura di Procida, al primo avvenimento del re avea chiesto
d'andar tra i cento campioni al duello; ma poi deluso nelle sue
ambizioni, o sospicando de' governanti, venne a tanta contumacia, che
solo tra' siciliani baroni, per inviti che replicassegli il re, niegò
di seguirlo in arme in Calabria. Ciò dunque a' detti della spia
aggiugnea fede[49]. Saba Malaspina sol narra, che mandata la spia
prima della forca a' tormenti, svelato avesse vaghe macchinazioni in
Sicilia; e che questo indizio, riscontrato co' sospetti anteriori,
conducesse a supporre una cospirazione contro la reina e i figliuoli,
trattata con parecchi baroni da Palmiero Abbate, oriundo di Trapani,
cittadin palermitano, ricchissimo in val di Mazara per terreni ed
armenti, prode in arme, picciol di persona, grande di fama[50]. Del
resto poco montano i nomi, e certo ritraesi nata nel baronaggio una
trama, o supposta e spacciata da Pietro perchè la temea. In quel tempo
stesso gli giunse la nuova dello arrivo della reina in Palermo; e andò
in Calabria a trovarlo Piero fratel suo, ansioso tornandogli alla
mente il solenne patto del duello; che il dì sovrastava; che {224} mai
spergiuro non infamò il sangue regio d'Aragona; non si mostrasse egli
primo a tutta cristianità mancatore e codardo. Stretto dunque a tornar
di presente in Sicilia e affrettarsi al duello, fremendo Pietro si
restò dalla impresa di Calabria; le terre occupate abbandonò; sciolse
l'esercito: e lo stesso dì Gualtier da Caltagirone alfin veniva al
campo di Solano: tardo consiglio in vero a purgar sì gravi
sospetti[51].
A dì quattordici aprile, con le genti e il vasto bottino, Pietro
valicava lo stretto. Il ventidue la reina co' figli, chiamata da
Palermo, con lui si trovò a Messina[52]. Dove adunati a parlamento il
dì venticinque i sindichi delle città, per ordinare lo stato prima
ch'ei si partisse dall'isola, con assai dimostrazione di affetto, il
re lor presentava que' suoi carissimi pegni, e: «Partir, dicea, m'è
forza da questa terra, che amo quanto la stessa mia patria. Io vado
innanti a tutta cristianità a confondere il superbo nostro nimico; a
vendicare il mio nome nel giudizio di Dio. Perchè tutto io ho commesso
alla fortuna per amor vostro, o Siciliani; e nome, e persona, e regno,
e l'anima stessa. Nè men'incresce già, vedendo coronata l'impresa
dall'onnipossente man del Signore; il nimico lungi di Sicilia;
inseguito e prostrato in terraferma; ristorate le vostre leggi e
franchige; voi crescenti a ricchezza, a gloria, e prosperità. Lasciovi
una flotta vincitrice, capitani provati, fedeli ministri, la reina
vostra e i nipoti di Manfredi. Questi giovanetti, la più cara parte
delle mie viscere, io v'affido, o Siciliani, nè tremo per essi. Anzi,
com'aspri e dubbi sono i casi della guerra, ecco novissima guarentigia
a' vostri dritti: Alfonso avrassi alla mia morte Aragona, Catalogna e
Valenza; Giacomo, secondo figliuol mio, mi succederà sul {225} trono
di Sicilia. La reina e Giacomo terranno finch'io sia lungi le veci di
re. E voi docili serbatevi al paternale impero; forti contro i nimici,
e sordi alle insidie di chi cerca novità per vendervi ad essi.» Poi
volto ad Alaimo: «Sian tuoi figli, disse, la mia consorte, i miei
figli! e voi qual padre onoratelo[53].» Assentiva il parlamento la
successione di Giacomo, proposta forse dal re, perchè il parlamento e
la nazione voleanla; non soffrendo che l'antico reame ridivenisse
provincia d'altro più lontano, e ubbidisse a gente straniera. Così
riparato alla principal cagione di scontento, volle anche rafforzarsi
della virtù e gloria di Alaimo. Il creò gran giustiziere[54]; ma gli
altri maggiori ufici die' a suoi fidati: fatti Ruggier Loria grande
ammiraglio[55]; Giovanni di Procida gran cancelliere, e il catalano
Guglielmo Calcerando vicario, forse nel comando dell'esercito; e anco
l'armò cavaliere. Gli ufici minori accomunò ancora tra Catalani e
Siciliani: volle che in tutto il maneggio dello stato nulla senza
saputa della regina non si comandasse. Ciò ordinato, cavalcò via da
Messina il ventisei aprile; e prima investì Alaimo delle signorie di
Buccheri, Palazzolo e Odogrillo; e baciatolo affettuosamente, gli donò
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