La guerra del Vespro Siciliano vol. 1 - 16

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celebravit, in qua omnibus pristinis libertatibus siculis
restitutis, ac de thesauro regio muneribus elargitis, etc._
[33] Afferman la coronazione Giachetto Malespini, cap. 212, e
Giovanni Villani, lib. 7, cap. 69, che copia il Malespini.
Montaner, cap. 63, la scrive anche, senza espressare qual vescovo
l'avesse fatto.
Finalmente ne darebbe testimonianza una dipintura a fresco, che
sbiadata e guasta si vede tuttavia nel muro a rimpetto il lato
occidentale della cattedral di Palermo, in quell'antico edifizio
ov'era la cappella di Santa Maria Incoronata, detta così perchè vi
s'incoronavano i nostri antichi re. Di questa dipintura e de'
versi che vi sono scritti, fece una descrizione sul cominciamento
del secol passato il chiarissimo canonico Mongitore; la quale si
legge tra i suoi Mss. nella Biblioteca di Palermo, e io la
pubblico al docum. XLV.
Con tutto ciò ho dubbi validissimi intorno la coronazione di
Pietro d'Aragona. E il primo è il silenzio di Niccolò Speciale,
Saba Malaspina e Bernardo d'Esclot, che trattan tutti i
particolari dell'avvenimento di re Pietro in Palermo; e il
d'Esclot, cap. 91, dice del parlamento, e dell'omaggio fatto al
re, e del banchetto che seguì; ma non fa parola nè punto nè poco
del coronamento, che in que' tempi, come sa ognuno, era tenuto
essenziale e impreteribile.
Aumentano il sospetto l'Anon. chron. sic., cap. 40, parlando del
titolo di re di Sicilia preso da Pietro il 30 agosto 1282, e non
già del coronamento; e Bartolomeo de Neocastro, cap. 45, scrivendo
che Pietro in Palermo, _novi diadematis titulo coronatur_; la
quale circollocuzione sarebbe assurda per riferire il coronamento,
ma è un'ambage non straniera al Neocastro, nel supposto che ci
volesse significare come, senza la material cerimonia
dell'imposizione del diadema, il re fu abbastanza esaltato con
quel titolo che gli dava il voler della nazione.
La Cronaca siciliana, in Gregorio, Bibl. aragon., tom. I, pag.
270, dice espressamente che, per l'assenza degli arcivescovi di
Palermo e Morreale, Pietro _non fu coronatu si non chiamatu di
lu populu_.
E quanto alla dipintura della cappella di Santa Maria
l'Incoronata, oltre che lo stile, per quanto io ne sappia vedere,
non è del secolo XIII, e molto meno appartiene a quel
tempo la forma de' caratteri, mi par manifesto che essa sia
piuttosto rappresentazione simbolica, che di un fatto vero e
reale. Perchè son dipinti nell'alto dell'incoronazione Pietro e
Costanza; quando si sa dalla Istoria, che Costanza venne in
Sicilia nel 1283, mentre Pietro era in Calabria; e che queste due
persone reali non si trovaron giammai insieme in Palermo. Di più,
in cima del dipinto si vede l'addogato giallo e rosso di casa
d'Aragona inquartato colle aquile sveve, che fu la divisa di
Federigo II, re di Sicilia, ma non mai di Pietro suo genitore. Per
queste ragioni io credo l'affresco fattura degli ultimi del secol
XIV; e che forse si volle con esso figurare il
coronamento di Pietro e di Costanza, perchè realmente non era
stato giammai, e parea bene riparare questa interruzione e
mancanza nella serie dei re legittimi coronati in quella cappella.
Certo egli è che questo dipinto, non contemporaneo e con due
anacronismi, non è tal monumento da aggiugner fede al fatto
taciuto o negato dai cronisti nazionali e dal d'Esclot.
D'altronde è naturale che Pietro cominciando a camminare con molto
riguardo verso la corte di Roma, si rimanesse dall'aizzarla con
questa altra cerimonia, che si potea volgere a carico di lui in
sacrilegio. E per vero il papa ne' suoi processi contro Pietro,
ricordando di avergli vietato di nominarsi re di Sicilia e di
servirsi del suggello reale con tal nome, e accagionandolo fin
delle più minute colpe, non toccò mai del coronamento; nè abbiamo
memorie di scomunica al vescovo che il coronò, quando ci restano
quelle fulminate contro i prelati che fornirono tal cerimonia con
Giacomo e Federigo.
Ognun vede che dopo questa disamina su i contemporanei e i
monumenti, non mi trattengo a parlare di ciò che scrivono del
coronamento di re Pietro il Surita, il Pirri, il Fazzello, il
Maurolico, e gli altri moderni.
[34] Si legge questo documento nell'Anon. chron. sic., cap. 40, e
altrove; ed è accennato in Raynald, Ann. ecc. 1282, §. 19.
Il Pirri, tom. I, pag. 150, non saprei su quale autorità, dice
mandata la lettera con Pietro Santafede arcivescovo di Palermo.
Per lo contrario io crederei piuttosto che quell'arcivescovo fosse
stato tutto di parte angioina. È valido argomento a supporlo
dimorante in Napoli in questo tempo, un diploma dato di Napoli a 2
maggio duodecima Ind. (1284), in quel r. archivio, reg. seg. 1288,
A, fog. 117, dal quale si vede che tra gli altri danari tolti in
prestito dalla corte angioina, v'ebbero once 200 dagli esecutori
del testamento _venerabilis patris quondam Petri Panormitani
archiepiscopi_.
[35] Saba Malaspina, cont., pag. 379.
[36] D'Esclot, cap. 91.
Montaner, cap. 64, dicon ciò; il primo de' Palermitani, il secondo
de' Messinesi.
[37] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 16.
[38] Montaner, cap. 62.
D'Esclot, cap. 92, dice data la posta a Randazzo.
[39] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 16 e 17.
Bart. de Neocastro, cap. 45.
Anon. chron. sic., cap. 41.
Saba Malaspina, cont., pag. 379.
D'Esclot, cap. 92.
Montaner, cap. 61 e 63.
Giachetto Malespini, cap. 212.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 70.
Cron. della cospirazione di Procida, pag. 271.
Ho scritto secondo il d'Esclot i nomi degli ambasciadori, de'
quali alcuno è diverso in altri autori de' citati di sopra.
Il consiglio di affamar Carlo mandando la flotta aragonese, è dato
a Giovanni di Procida dal Malespini, dal Villani, e dalla Cronaca
della cospirazione.
[40] D'Esclot, cap. 92.
Bart. de Neocastro, cap. 45.
[41] Bart. de Neocastro, ibid.
Saba Malaspina, cont., pag. 380.
[42] D'Esclot, loc. cit., descrive l'albergo dato in una chiesa,
senza letti, nè coltri, se non che trovaron fieno a ufo; e la
imbandigione di sei pani bruni, due fiaschi di vino, due maiali
arrosto, e un caldaio di minestra.
[43] Questa prima ambasceria è rapportata dagli scrittori
contemporanei in vario modo, ma tutti tornano a questo: che stando
Carlo d'Angiò all'assedio di Messina, Pier d'Aragona, già salutato
in Palermo re di Sicilia, mandava a ingiungerli che subito si
partisse dall'isola; e Carlo fremente per dispetto, ritorcea su
lui questa intimazione con molte minacce.
Niccolò Speciale, lib. 1, cap. 17, Bartolomeo de Neocastro, cap.
45 e 49, Montaner, cap. 61, Bernardo d'Esclot, cap. 92 e 93, dicon
di sola ambasciata, senza riferire le lettere. Secondo essi la
somma delle ragioni di Pietro era: il dritto della moglie e de'
figli, e la elezione de' Siciliani; onde a lui appartenendo il
reame, facea avvertito Carlo a sgombrarlo, e levarsi dalle offese
di Messina. Poco scrivon della risposta di Carlo; forse non amando
a ripetere ingiurie contro il re di Aragona.
Saba Malaspina, cont., pag. 379 a 381, porta una epistola, ch'ei
dice breve e non è. Al magnifico uomo Carlo re di Gerusalemme e
conte di Provenza, Pietro d'Aragona e di Sicilia re. Trovandone in
Barbaria a guerreggiar contro infedeli, vennero oratori di Sicilia
ad esporre la tirannide che li opprimea. Perchè questo reame
appartiene alla consorte e a' figli nostri, non potemmo ricusare
il nostro aiuto alla Sicilia. Qui saputo l'assedio di Messina,
mandiamo a richiedervi che lo sciogliate; e, indugiando, muoveremo
con le nostre forze. Questo è il compendio dell'epistola.
Somiglianti parole mettonsi in bocca agli ambasciadori. Carlo
risponde loro a voce: maravigliarsi della non provocata offesa del
re d'Aragona; a sè appartenere il reame per concession della
Chiesa; Pietro usurpane il titolo per false ragioni; ma troppo ei
si affida in sè e in sua gente, se viene in arme contro a noi.
Mostreremgli adesso com'ei s'è gittato a impresa da stolto.
Nella cronaca del monastero di San Bertino, Martene e Durand,
Thes. Nov. Anec., tom. III, pag. 763, a un di presso è riportata
nell'istessa guisa la lettera di Pietro; se non che s'aggiugne la
circostanza, che a lui guerreggiante in Barberia, la corte romana
negò ogni aiuto; sulla qual ragione, come si ritrae da diverse
memorie, egli facea molto assegnamento. La risposta di re Carlo fu
aspra e villana; e conchiudea, che se Pietro avesse voluto
conservare ombra di riputazione, non avrebbe dovuto cacciar fuori
il capo dalla sua spelonca. Vedrebbesi al fatto, se questo giovane
sarebbe tanto audace da sostener i prodi Francesi pronti a
combatterlo.
In sensi non molto diversi, ma in tenore più breve, si leggono le
due epistole nella Cronica di Rouen, presso Labbe, Bibl.
manuscripta, tom. I, p. 380.
Nell'Anon. chron. sic., cap. 40, si legge al contrario una
epistola di Carlo a Piero, e la risposta: lunghe oltremodo,
intessute di frasi bibliche, e di ingiurie, tra le quali nuotano
le reciproche ragioni, che sono a un di presso quelle accennate
dianzi. Le stesse due epistole son trascritte da Francesco Pipino
nella sua Cronaca, lib. 3, cap. 15 e 16, in Muratori, R. I. S.,
tom. IX.
Ma in Giachetto Malespini, cap. 212, Giovanni Villani, lib.7, cap.
71 e 73, e nella Cronica della cospirazione di Procida, pag. 271 e
272, trovansi in forma assai diversa le due lettere: intorno le
quali poco io m'affaticherei, per la poca fede che do a quegli
scrittori, se non fosse che leggonsi con alcune varianti nella
raccolta degli atti pubblici d'Inghilterra per Rymer, tom. II,
pag. 225, senza data.
La lezione del Rymer è questa; nella quale noterò le varianti del
Malespini e del Villani, e quelle della Cronica siciliana che non
si limitino alla diversità del dialetto:
«Piero d'Araona e di Cicilia re (Piero di Raona re di
Cicilia--_Malespini_), a te Carlo re di Jerusalem et di
Proenza conte.
«Significando (Significhiamo--_Malesp. Villani_) a te
il nostro advenimento nell'isola de Cicilia sì come nostro
giudicato a me per autorità di Santa Chiesa e di messer lo papa
(papa Niccolaio e dei suoi frati cardinali--_Malesp._ e di lu
santu apostolicu papa Nicola terzu--_Cron. sic. della
cospirazione_) et de' venerabili Cardinali;
«Et poi (però--_Malesp. Villani_) comandiamo a te che
veduta questa lettera ti debbi levare dall'isola con tutto tuo
podere et gente:
«Sappiendo che se nol facesti (altramente--_Malesp._) i
nostri cavalieri et fideli vedresti di presente in tuo dannaggio
offendendo la tua persona e la tua gente.»
«Carolo per la Dio gratia di Jerusalem et di Cicilia re prence di
Capoa, d'Angiò et di Folcachier et di Proenza conte, a te Piero
d'Araona re et (conti di Barcellona--_Cron. sic._) di Valenza
conte.
«Maravigliamoci molto come fosti ardito di venire in sul reame di
Cicilia giudicato nostro per autorità di Santa Chiesa Romana;
«Et però ti comandiamo (e perzò ti cummannamu per l'autorità di
nostru cummannamentu chi immantinenti viduti, _Cron. sic._)
che veduta nostra lettera ti debbi partire dal reame nostro di
Cicilia sì come malvagio traditore (tradituri o di presenti
vidirriti lu meu adventu e di li nostri cavaleri li quali disianu
trovarsi cu la tua genti--_Cron. sic._) di Dio et Santa
Chiesa Romana:
«Et se nol facessi (E se ciò non farai ti disfidiamo, e di
presente ci vedrete in vostro dannagio--_Malesp._)
diffidiamti come nostro inimico et traditore; et di presente ci
vedrete venire in vostro dannaggio però che molto desideriamo di
vedere (voi e la vostra gente--_Villani_) noi et la nostra
gente con le forze nostre.»
Or sulla prima di queste epistole è da notare che Pietro allega la
sola fallace e ignota ragione della concessione di papa Niccolò
terzo, non accennata da lui nel manifesto scritto d'Affrica a
Eduardo, docum. VIII, nè ricordata da alcun documento, o memoria
degna di fede; e che per lo contrario tace le buone e solide
ragioni del dritto della regina Costanza, e della elezione dei
Siciliani, e l'altra, ch'ei tanto metteva innanzi, dei denegati
aiuti del papa contro gl'infedeli; le quali ragioni leggonsi nel
detto manifesto, in Saba Malaspina, nella Cron. di S. Bert., e
negli istorici siciliani e catalani più informati del linguaggio
della corte aragonese in quest'incontro. Questa circostanza sola
basta a mostrare apocrifa la lettera. È impossibile che Pietro
passando sotto silenzio i veri suoi dritti si fondasse tutto in su
quella vaga asserzione; e ciò contro il detto ai potentati
d'Europa; e ciò nel primo atto in buona forma ch'ei mandava allo
usurpatore; e ciò mentre papa Martino solennemente favoreggiava e
sostenea costui, onde sarebbe tornata vana qualunque anteriore
concessione di Niccolò III. Aggiungasi che se fosse stata vera
questa lettera di Pietro, la corte di Roma non avrebbe lasciato di
smentirlo; e che egli all'incontro, quando fu deposto dal reame
d'Aragona appunto pel fatto di Sicilia, avrebbe protestato di
certo, pubblicando la concessione di Niccolò III.
Tradiscon di più la risposta di re Carlo, quelle parole «malvagio
traditore di Dio,» nostro inimico e traditore. Si ponga mente in
prima, che nei diplomi autentici del duello dei due re, questi
gravi sfregi non si leggono, ma che Piero fosse entrato nel regno
di Sicilia contro ragione e in mal modo. E quando, fallito il
duello, Carlo rinfacciava al nimico le ingozzate offese (diploma
in Muratori, Ant. ital., tom. III, Dissertazione 39), faceasi con
molta cura a spiegare, che per quelle parole «contro ragione e in
mal modo» avesse voluto significare, il più cortesemente che si
poteva in carteggio di re, l'accusa di traditore; che Pietro
d'altronde avea compreso benissimo, e dettolo agli araldi che gli
portaron la sfida. Egli è evidente che re Carlo, se avea già
scritto letteralmente «malvagio traditore» in quella prima
epistola, ricordava adesso queste parole, e non silloggizzava di
averle adombrato in quel composto e misurato linguaggio.
A ciò s'aggiunga, che le due epistole son rese d'altronde sospette
dalle varianti tra i testi di Rymer, Malespini, Villani, e della
Cronica della cospirazione; e che a stento crederebbesi che due
principi, l'uno francese, l'altro catalano, le scrivessero in
volgare d'Italia; quando il carteggio tra' grandi, e gli atti
pubblici dettavansi di quel tempo in latino, e si sa essere stati
scritti in latino appunto e in francese i diplomi ne' quali
fermossi poscia il duello. Per queste ragioni le tengo apocrife,
come giudicarono il Raynald, Ann. ecc., 1283, §. 5, e il Muratori,
Ann. d'Italia, 1282, che le disse fatture de' novellisti d'allora;
l'uno e l'altro anche senza avere per le mani il manifesto di
Pietro, nè la continuazione dell'istoria di Saba Malaspina. Nè
importa che trovinsi nella collezione degli atti pubblici
d'Inghilterra, quando nè erano scritte da quella corte, nè ad essa
drizzate; onde ben potè avvenire, che per via degli ambasciadori
mandati poi da Eduardo ai due re, o altrimenti, fosser capitate a
corte d'Inghilterra le copie che giravano per l'Italia di que'
supposti diplomi, ne' quali chiara si scorge l'impronta di mano
guelfa.
Io penso che, se lettere si scrissero in quell'incontro, fossero
ne' sensi riferiti da Saba Malaspina e dalla Cron. di S. Bert.,
che più si avvicinino a que' degli altri contemporanei, e ben
ritraggono del manifesto di re Pietro ad Eduardo d'Inghilterra più
volte ricordato di sopra.
Nei particolari dell'ambasceria di Pietro a Carlo ho seguito a
preferenza il d'Esclot, che vien raccontandoli assai minutamente,
in guisa da mostrarsene informato da vicino.
[44] D'Esclot, cap. 93.
Bart. de Neocastro, cap. 45 e 50.
[45] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 17.
Montaner, cap. 62, il quale dice mandati in Messina dal re 2,000
almugaveri. Di questa milizia farem parola nel cap. IX.
[46] Gio. Villani, lib. 7, cap. 74, seguendo Giachetto Malespini,
cap. 212, e portando com'esso il numero delle galee siciliane e
aragonesi a sessanta. Questo è manifestamente esagerato secondo
gli umori guelfi di que' cronisti; perchè si vedrà nel capitolo
seguente come Pietro, dopo ch'ebbe armato le galee di Messina, non
potè mettere in mare che cinquantadue galee.
Cron. della cospirazione di Procida, pag. 272, 273, con l'errore,
che Loria fosse l'ammiraglio aragonese, e che Arrighino mostrasse
non aver tanti legni da fronteggiare il nemico. Egli avrebbe detto
una evidente bugia, essendo di gran lunga più forte l'armata di re
Carlo, come si ritrae bene dal capitolo seguente.
[47] Saba Malaspina. cont., pag. 381 a 383.
Bart. de Neocastro, cap. 46.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 75.
Cron. della cospirazione di Procida, pag. 273.
Fra Tolomeo da Lucca, Hist. ecc., lib. 24, cap. 6, in Muratori, R.
I. S, tom. XI, pag. 1188.
Vita di Martino IV, in Muratori, R. I. S., tom. III, parte 1, pag.
608.
Il d'Esclot, cap. 93 e 94, accenna solo questo consiglio. Il
Montaner, cap. 65 e 66, dice anco del timore di movimenti in
Calabria, e forse nello stesso esercito angioino.
[48] Bart. de Neocastro, cap. 49.
[49] Bart. de Neocastro, cap. 47, 48.
[50] Bart. de Neocastro, cap. 49.
[51] Bart. de Neocastro, cap. 50.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 14.
Questi porta la fazione dell'arcivescovado pria dell'assalto
generale; ma m'è paruto seguir piuttosto il Neocastro, che in ciò
non avrebbe ragione ad alterare il vero.
Il Montaner, cap. 64, dice d'una sortita gloriosa degli almugaveri
mandati dal re. Forse fu questa; ed ei tace la virtù de'
Messinesi, come il Neocastro quella degli ausiliari.
[52] Le date del Neocastro si riscontran perfettamente con quella che
si scorge da un diploma del 29 settembre 1282 (Docum. IX), dove
Carlo attesta essersi ritirato da Messina il 26 settembre.
[53] Bart. de Neocastro, cap. 50.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 17.
Anon. chron. sic., cap. 41.
Saba Malaspina, cont., pag. 383, 384.
D'Esclot, cap. 94.
Montaner, cap. 65, 66.
Pao. di Pietro, in Muratori, R. I. S. Agg., tom. XXVI, pag. 8.
Giachetto Malespini, cap. 212.
Gio. Villani. lib. 7, cap. 75.
Cron. della cospirazione di Procida, pag. 273.
Questi due ultimi dicon lasciato da Carlo un grosso di genti in
agguato per ferir ne' Messinesi che uscisser sicuri; di che essi
accorgendosi, bandian pena del capo a chi andasse fuori della
città. Il tacciono gli altri; anzi Malaspina, d'Esclot e Montaner
dicono degli assalti dati alla coda dell'esercito che ripassava il
mare; e 'l Neocastro aggiugne, che facean battere i contorni
temendo appunto quell'insidia, ma non trovavano alcuno.
I particolari della ritirata non son tutti rapportati da tutti
questi scrittori.
[54] Gio. Villani, lib. 7, cap. 64.
[55] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 15.
[56] Bart. de Neocastro, cap 50.
[57] Montaner, cap. 43, dice che Messina non era allor murata; e si
vede anche dagli altri fatti riferiti da noi al principio del cap.
VII.
[58] Veggasi il giudizio delle operazioni militari di re Carlo, che
fa Montaner a cap. 66 e 71, che io non ho seguito del tutto,
perchè ridonda di preoccupazioni nazionali. Nondimeno è da
attendere alla conchiusione del Montaner, che Carlo si portò con
molta saviezza, nè potea fare altrimenti. Montaner era condottiero
sperimentato; e la sua cronaca è piena di precetti militari,
com'io credo, non ispregevoli.


CAPITOLO IX.
Andata di re Pietro a Messina. Macalda moglie d'Alaimo. Fazioni
navali. Pietro libera i prigioni di guerra. Parlamento in Catania.
Trattato del duello tra i due re. Primi affronti delle soldatesche in
Calabria. Carlo parte lasciando le sue veci al principe di Salerno.
Almogaveri. Vittorie di Pietro in Calabria. Vien la reina Costanza co'
figli in Sicilia. Principi di scontento tra i baroni siciliani e il
re. Parlamento in Messina; ove Giacomo è chiamato alla successione, e
ordinato il governo. Movimenti repressi da Alaimo. Gualtier da
Caltagirone. Partenza di Pietro per Catalogna. Ottobre 1282 a maggio
1283.

Levato l'assedio, prima cura de' Messinesi fu di riconoscere le
campagne, se vi si coprisse agguato di cavalleria nemica; ma fatti
certi che l'oste s'era pienamente dileguata, non soggiornarono a
mandare oratori a Pietro a Randazzo, invitandolo a città; com'eran
essi impazienti di salutare il re nuovo, obbligato loro della invitta
difesa, ed essi a lui del soccorso. E Pietro, fatta acconcia risposta,
ove si rammaricava pur della fortuna, che gli avesse tolto di provarsi
con l'arme in mano contro il Francese, mosse immantinenti alla volta
di Messina con tutta l'oste siciliana e spagnuola; battendo la via
delle marine settentrionali, perchè volea prima scacciar da Milazzo
una punta di mille Francesi, lasciata in quel castello per fretta
della ritirata, o appicco a nuovi disegni. Posato a Furnari perciò con
le genti, mandava il dimane Giovanni de Oddone da Patti a intimare a
quel presidio la resa: il quale non isperando veruno aiuto, rassegnati
col castello le armi e i cavalli, passava sotto sicurtà in Messina e
in Calabria. Nella terra di Santa Lucia l'Aragonese albergò[1]. {201}
E qui prendiamo a narrare un fatto di femminil vanità o peggior
debolezza, perch'ebbe seguito ne' casi dello stato, e dipinge al vivo
re Pietro. Seconda moglie d'Alaimo fa Macalda Scaletta, disposata
prima a un conte Guglielmo d'Amico, esule al tempo degli Svevi. Vedova
di costui, dopo lungo vagare in abito da frate minore, e soggiorno men
che onesto a Napoli ed a Messina, riavuti i suoi beni sotto il dominio
di Carlo, maritossi Macalda ad Alaimo: si gittò gagliardamente poi
nella rivoluzione dell'ottantadue, sconoscendo i beneficî
dell'Angioino, o pensando che ogni rispetto privato dileguar si
dovesse nella causa della patria; ma certo è da condannarsi per la
tradigione de' Francesi di Catania, cui finse ricettare negli strepiti
dopo il vespro, e poi li spogliò, e dielli in balìa al popolo. Governò
indi Macalda quella città durante l'assedio di Messina[2]: ed or
intesa la venuta di Pietro a Randazzo, affrettavasi a complire con
esso. Superba nella baronale riputazione e nel gran nome del Leontino,
appresentavasi al re con molta pompa, coperta a piastra e a maglia,
trattando una mazza d'argento; e non ostante il suo quarantesim'anno,
pur altrimenti pensava conquidere il re. Il quale, non badando ad
amori in quel tempo, finse non la intendere; e di rimando davale
cortesie; l'onorava assai nobilmente; con un corteo di cavalieri ei
medesimo riconduceala all'albergo. Ma a ciò non fatta accorta Macalda,
prese a seguirlo nel viaggio; e parvele il caso la fermata a Santa
Lucia, onde con aria incerta e confusa veniane al re chiedendo
ricetto, ch'erano occupati gli alberghi nè {202} altro luogo trovavasi
nella picciola terra. Pietro, rassegnate a lei le sue stanze, passa ad
altro albergo; e lì trova ancora, come a visitarlo, Macalda. Perciò
schermendosi alla meglio, chiama nella stanza i suoi cavalieri,
incomincia vacui ragionamenti: tra' quali pur domandava a Macalda qual
cosa più temesse al mondo, e «La caduta d'Alaimo» ella rispondeagli; e
richiesta qual fosse il suo maggior desiderio, «Mio non è, replicava,
ciò che più bramo.» Ma il re sordo, pur moralizzava e novellava; e
alfine gli si aggravaron gli occhi di sonno. A questa sconfitta la
donna s'accomiatò, struggendosi tutta. E venuta in Sicilia la reina
Costanza, Macalda mai perdonar non le seppe questa fedeltà dello
sposo; e tanto crebbe nell'odio e nell'arroganza, che sè stessa e il
canuto Alaimo precipitò[3].
Ripigliato la notte stessa il viaggio, al nuovo dì, che fu il due
ottobre, su pei luoghi arsi e guasti dalla nimica rabbia, che nè
contadino vi si scernea, nè armento, nè vestigia di côlti venivano a
stuoli i Messinesi a incontrare il re. Il quale festevolmente
raccoglieli, e ringraziali, e Alaimo sopra ogni altro: che ponselo al
fianco, e in pegno d'amistà gli viene svelando i sospetti, che sulla
fede sua e de' Sicilian tutti avea cercato stillargli un tristo
vegliardo, Vitale del Giudice, presentatogli a Furnari, com'esule,
spoglio al mondo d'ogni cosa, per amor, dicea, della schiatta sveva,
cui furo nimicissimi un tempo quest'Alaimo, questi or sì caldi
parteggiatori. Tra cotali parole {203} pervenuti alla città, col folto
popolo si feano innanzi al re i sacerdoti, i cittadini più autorevoli,
e la sinagoga de' reietti Giudei, per loro ricchezze or carezzati, or
manomessi in quei secoli. Solo cavalcava Piero con tutti onori di
monarca: le strade al suo passaggio trovava parate a drappi di seta e
d'oro; il suolo sparso di verdi ramoscelli ed erbe odorose. Smontato
subito al duomo, rende grazie a Dio, entra in piacevoli parlari coi
cittadini, affabile e grato in ogni atto; e loda i monumenti della
città, e richiede d'ogni minuta sua cosa. Passò indi alla reggia,
raccolto dalle più nobili donne, tra le quali non mancò la Macalda: ed
ella ed Alaimo sedean anco a mensa col re. A ciò seguiron le pubbliche
feste, splendidissime per la ricchezza, liete per l'affratellarsi dei
cittadini coi seguaci di Pietro. Sciolsersi i voti fatti al Cielo nel
tempo dell'assedio; nè altro spirava il paese, dice Bartolomeo de
Neocastro, che ilarità, pace, e sollazzo[4].
Ma ripigliaronsi in pochi dì le fatiche dell'arme, come vedeansi per
lo stretto le nemiche navi a stuoli ritornar da Catona ai vari porti
del regno. Era entrato il nove ottobre in Messina con ventidue galee
catalane Giacomo Perez, natural figliuolo del re; e altre quindici
delle disarmate in quel porto n'avea fatto allestir Piero tra gli
stessi primi {204} festeggiamenti. Accozzate in tutto cinquantadue
navi da battaglia, diè dunque principio a travagliare il nimico, non
ostante la disuguaglianza delle forze; ma pensava esser quello
scoraggiato e discorde, i suoi in su la vittoria. Nè ascoltò chi
sconsigliava quest'impresa; montò ei medesimo sulle navi catalane;
arringò alle ciurme; nel nome di Dio le benedisse promettendo
vittoria, e sbarcò. Il dì undici ottobre, tornando i Catalani
dall'inseguire invano un primo stuolo angioino pe' mari di Scilla,
avvistatone un altro più grosso verso Reggio, mettono insieme coi
Messinesi l'armata; contro vento e corrente vogan robusti sopra gli
avversari. A ciò salito in furore re Carlo, facea tutte escir le sue
navi al numero di settantadue, ma nè bene in attrezzi, nè in uomini;
donde sbigottite a quel difilarsi de' nostri sì destri e bramosi della
zuffa, rifuggironsi a terra. Spintesi allor le catalane e siciliane
navi fin sotto le fortezze, chiamano a battaglia i nimici; li aizzano
con le ingiurie; sfidanli coi tiri delle saette; nè traendoli fuori
con ciò, tornansi bravando a Messina. Tre dì appresso, salpati da
Reggio quarantotto legni, perchè speravan che il vento ripingesse in
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