La guerra del Vespro Siciliano vol. 1 - 15

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città e ville. Ai quali Pietro domandava, se per vero deliberato
avessero la profferta della corona fattagli in Affrica dagli
ambasciadori: e un cavaliero rispondea di sì; e poichè tutto il
parlamento a una voce l'assentì: «Degnisi ora il re, ripigliava quel
cavaliero, accordar le franchige de' tempi del buon re Guglielmo, e
lascerà memoria di sè gratissima, eterna, e cattiverà i Siciliani a
ogni voler suo.» Pietro accordolle; e ne promesse i diplomi. Allora
tutti i parlamentari levandosi in piè, gli giuravano fedeltà; un gran
banchetto imbandivasi al re e a' cavalieri[32]. Ma non credo vero,
com'altri scrive, che indi si cingesse a Pietro la corona {185} dei re
di Sicilia, e che tal cerimonia fornisse il vescovo di Cefalù[33].
Allora a nome della Sicilia indirizzossi al papa un {186} altro nobile
scritto, più misurato della prima rimostranza; come portava il novello
governo regio e baronale. In esso, replicate a lungo le enormezze
della tirannide straniera, toccossi della signoria profferta dopo il
vespro al sommo pontefice, e ricusata; onde la nazione s'era volta ad
altro principe; e il sommo Iddio, in luogo del vicario di san Pietro,
un altro Pietro, scherza così lo scritto, aveale mandato. Con ciò
ricordarono a Martino severamente, ch'ei francese, sulla cattedra
dell'apostolo dovea ascoltare la verità, non le passioni di parte; nè
a dritta piegar nè a manca; nè proceder contro i Siciliani sì
tempestosamente[34]. {187}
Ristretti in questo mezzo col re i più intinti nella rivoluzione, e
tutti gli esuli del regno di Puglia, affollantisi pieni di speranza
alla nuova corte, deliberavan sulle fazioni da imprendere contro il
nemico[35]. Del che eran tanto più solleciti, quanto ne' privati
ragionari si mormorava già la trista sembianza della gente catalana;
male in arnese; lacera e abbronzata ne' travagli d'Affrica; ondechè i
nostri poc'aiuto la estimaron dapprima contro i cavalier francesi, nè
se ne sgannarono che ai fatti[36]. E però avvisatisi di far
assegnamento sulle lor sole braccia, e su' militari consigli del re,
ansiosamente chiedeano i Siciliani d'esser condotti a Messina; che a
tutti tardava liberar la generosa città[37]. Pietro usando questo
ardore, allor mandò intorno la grida: che tutt'uomo da' quindici anni
a' sessanta si trovasse in Palermo entro un mese, armato, e con
vivanda per trenta dì[38]. Ed ei con molta prestezza con le milizie
più spedite mosse per la strada di Nicosia e Randazzo; seguendolo,
ciascuna come potea, le altre schiere che s'ivano adunando: e fece
veleggiare il navilio alla volta del Faro. Manifesto disegno era
dunque affamar Carlo nel campo, tagliandogli per mare le comunicazioni
con la Calabria, e su pei monti ogni via a foraggiare nell'isola; il
qual consiglio appone a Giovanni di Procida chi il fa protagonista
della tragedia del vespro. Con certezza istorica si sa che Pietro,
disposte così le forze, bandiva solennemente la guerra; e a Carlo a
quest'effetto spacciava Pietro Queralto, Ruy Ximenes de {188} Luna, e
Guglielmo Aymerich, giudice di Barcellona, con giusta scorta
d'armati[39].
Per due frati carmelitani domandaron costoro salvocondotto a re
Carlo[40]; il quale sognando potere in brev'ora parlar da vincitore,
ai frati rispondea darebbelo a capo a due dì; e comandava quel
generale assalto del quattordici settembre, che gli tornò sì funesto.
Al secondo dì dalla battaglia, ancorchè giacesse in letto, tutto
rappigliato, spossato, affranto, arso d'infermità e peggio di
rabbia[41], assentì a veder gli ambasciatori, che già venuti al campo,
e cortesemente raccolti con grossiera ospitalità, sotto guardia
strettissima aspettavano[42]. Ammesso Queralto dinanzi al re sedente
in letto su ricchissimi drappi di seta, presentò le credenziali; e
Carlo a lui, troncando le cerimonie: «Alla buon ora di' su;» e datagli
un'altra lettera di Pietro, senza guardarla, gittavala sulle coltri;
ardea tutto d'impazienza {189} aspettando il dir del Catalano. Perciò
questi brevemente si fe' ad esporre l'ambasciata del suo signore,
richiedente il conte d'Angiò e di Provenza che lasciasse la terra di
Sicilia, a torto occupata, atrocemente manomessa, in cui aiuto il re
d'Aragona s'era mosso come signor naturale, pel diritto dei suoi
figliuoli. A queste parole, i brividi della febbre preser l'antico
monarca; convulso ammutolì. Poi rosicando il bastone, com'ei solea per
soperchio furore, interrotto e minaccioso rispondea: non esser la
Sicilia nè sua, nè di Pietro d'Aragona, ma della santa romana Chiesa;
ei difendeala, e saprebbe far pentire il temerario occupatore. Queste
ed altre superbissime parole, secondo altri cronisti, scrisse a
Pietro[43]. E intanto per far sembiante di non curare, o per ingannar
loro e i Messinesi, lasciò {190} andar alla città gli ambasciadori
stessi a profferir tregua d'otto dì. Fu vano, perch'Alaimo non
conoscendo i legati, {191} li ributtava; ond'eglino tornavano al campo
francese, ed eranvi senza risposta intrattenuti finchè il campo si
levò. {192} I Messinesi poi, che non avean creduto a Queralto
l'avvenimento del re d'Aragona[44], n'ebber certezza entro pochi dì
per Niccolò de' Palizzi messinese e Andrea di Procida, entrambi nobili
usciti, mandati dal re in lor soccorso con cinquecento balestrieri
delle isole Baleari. Costoro, valicati {193} per tragetti e alpestri
sentieri i monti a ridosso alla città, da quella banda non istretta
per anco da' nemici, di notte appresentaronsi alla Capperrina; e
riconosciuti i condottieri, e con grande allegrezza raccolti,
spiegavan su i muri lo stendardo reale d'Aragona[45].
Già fin dal primo arrivo degli ambasciadori, teneano i nemici novello
consiglio, a disputare non più dell'assalto o blocco della città, ma
della lor propria salvezza. Perciocchè sapendo per sicura spia uscite
dal porto di Palermo molte galee sottili armate di Catalani e
Siciliani, Arrighin de' Mari, ammiraglio di Carlo, rimostravagli
vivamente non potersi difendere; in tre dì sarebbegli addosso il
nemico ad affondare e bruciare i trasporti[46]. Quant'aspro il caso,
apparvero diverse allora le menti. Affrontar la flotta ad un tempo, e
correr sopra il re d'Aragona: accamparsi in alcun forte sito presso la
città co' balestrieri mercenari, accomiatando le milizie feudali:
prender pria de' nemici i passi de' monti: star all'assedio tuttavia
con l'esercito intero, finchè consumasser la vivanda, che n'avean anco
per due mesi; tra disegni sì fatti vagavano i parlatori più feroci.
Pandolfo conte d'Acerra, e molti con lui, mostran all'incontro
dileguata ogni speranza di ridur la città con quell'esercito
scoraggiato, stracco, assottigliato per morbi {194} e partenza di gran
gente ch'avea fornito il servigio feudale: ma le genti nemiche
inanimirsi, ingrossare per la riputazion del re d'Aragona: ben costui
saprebbe adoprare i Siciliani su le montagne: e il mare, il mare tra
le autunnali tempeste il terrebbero i nimici, padroni di sicurissimo
porto: romperebbero i legni napoletani su quelle aperte spiagge: e
intanto chi raffrenerebbe Reggio, invasa già dagli umori della
ribellione? E come ritrarsi poi se la estrema Calabria tumultuasse?
Esausta aggiugnean la Calabria di viveri: il paese intorno Messina,
fatto da loro stessi un deserto: per fame e avvisaglie perirebbe
l'esercito, assediato alla sua volta tra 'l mare, i monti, e quella
indomabile Messina. Per tali ragioni, dietro dibatter lungo,
deliberossi il ritorno[47]; ma per allora si tacque.
E Carlo sfogò il dispetto con atti disperati ed assurdi. Sguinzaglia i
suoi a un ultimo sterminio delle campagne; che cadde su i luoghi
sacri, poich'altro non rimaneva men guasto; e andò sì oltre, che fin
le colonne e le travi strascinarono al campo; e nel monistero di
nostra Donna delle Scale spogliarono gli altari, e ruppero e
contaminarono ogni cosa. Poi il re saltando all'estremo opposto, offre
ai Messinesi di rimetter tutte lor colpe, consentir tutte inchieste,
sol che tornino sotto il suo nome: ed essi con onta e scherno
rifiutano[48]. I tradimenti anco tentò, praticando col giudice Arrigo
de Parisio, il notaio Simone del {195} Tempio, Giovanni
Schaldapidochu, e un Romano, che di furto mettesser in città le sue
genti; i quali furono scoperti e puniti nel capo. L'insospettito
popolo di Messina allora, tumultuando chiamava al supplizio Federigo
di Falcone, che forse avea consigliato la resa, brontolando «il mal
fatto ne basti;» e minacciava anco Baldovin Mussone, il deposto
capitano, che intendendo la venuta di Pietro, occultamente era uscito
dalla città per andarne al re; ma i contadini di Monforte, credendol
indettato coi nemici, l'avean preso e condotto a Messina. Alaimo salvò
entrambi, imprigionandoli nel castel di Matagrifone[49].
Soprastato in questi vani pensieri alcun dì, intese Carlo con maggiore
rammarico l'esser della città da un Morello, ch'uscito in sembianza di
paltoniere, e preso da' soldati, affermava il tenacissimo proponimento
alla difesa; e aggiugnea sue favole di sterminate provvedigioni di
vittuaglie; bande novellamente scritte; disegni contro la vita del re,
imminenti, atroci, ordinati con cinquecento cavalieri spagnuoli e
duemila pedoni messinesi, che giurato avvessero al comune d'irrompere
disperatamente nelle regie tende in una improvvisa sortita de'
cittadini, nella quale il grido di guerra sarebbe «al campo, al
campo[50].» Fosse arte o caso, questo dir del prigione che parve
cominciato ad avverarsi in pochi giorni, diede la pinta al re; il
quale ripugnando a partirsi, aspettava e differiva.
A toglier ch'altri stuoli entrassero in città sull'orme di Palizzi e
d'Andrea Procida, il dì ventiquattro settembre re Carlo avea fatto
occupare il palagio dell'arcivescovo, poco lungi dalle mura. Un de'
suoi più fidati mandovvi con dugento soldati, che muniti di steccato e
fosso nello edifizio per sè fortissimo, teneano il passo della via di
Sant'Agostino a ponente della città. Ma Alaimo incontanente divisa
{196} un bel colpo. Di suo comando, Leucio e altri condottieri
arrisicatissimi, in gran segreto con iscelte bande di giovani, usciti
a notte da Messina, per vie diverse giungono intorno al palagio; e tre
da tre lati si appressarono; Leucio dall'altra banda, tenutosi
indietro, in un uliveto imboscossi. Come il disco della luna spuntò
dai monti di Calabria, ch'era il segno prefisso da Alaimo, i primi
mettendo altissimo un grido «Cristo già vince,» dan dentro ferocemente
ne' ripari; tagliano a pezzi il presidio; il capitano colto nel suo
letto stesso, vergheggiano a morte. Quanti di lor mani fuggono
all'uliveto, son dalle genti di Leucio ammazzati. E repente da'
silenzi della città uno scoppio di voci «Al campo, al campo,» uno
stormeggiar di campane, un dar nelle conche e nelle trombe, un
percuotere caldaie e panche, rintronano orrendamente: schiuse le
porte, accanite turbe prorompono. Sorse atroce scompiglio nell'oste.
Senz'ascoltar comando o rampogna, mezz'ignudi fuggian qua e là per gli
alloggiamenti; e chi ai poggi, e alla marina i più, sentendosi già sul
collo il formidato re d'Aragona. Saltando dal sonno, Carlo corse gran
tratto con gli altri al mare, percosso dal presagito grido: «Al campo,
al campo;» finchè tornato a sè stesso, vergognando sostò, e si fece a
racchetare il tumulto. Carichi di preda rientrano i Messinesi in
città: e raggiornando, ostentano su per le mura il tronco braccio del
capitano del ridotto, con villanie appellando Carlo coi suoi tutti che
vengano a rimirarlo[51]. {197}
Allor Carlo non più soprattenne la levata dell'assedio, che divulgata
non ostante il segreto, finì di rovinare i soldati; al segno che nè
onta de' nimici li raccendea, nè per militare orgoglio almeno serbavan
contegno. Al primo dì valicò la regina, venuta a questo campo come a
teatro: e le macchine da guerra e' lavorieri fur traghettati, tanto o
quanto posatamente. Ma imbarcatosi il re[52], nei due giorni appresso
le altre genti si precipitarono al passaggio con tal pressa, e confusi
ordini, e obblio di lor cose e di sè stessi, che rassembrava
sconfitta. Un andare e tornar di vele per lo stretto, un abbaruffarsi
intorno le barche, un bestemmiar gli avari marinai, e lor noli
eccedenti il pregio delle cose; e abbandonati come portava il caso,
per gli alloggiamenti, per la marina, cavalli disciolti o uccisi dai
propri padroni, e arnesi, e robe, e botti di vini, legnami da
macchine, grani, vittuaglie accatastati o mezzo arsi per pressa,
attestavan la condizione di quel dianzi fioritissimo esercito. I
nostri martellaronlo nella ritirata con impetuose sortite; talchè a
protegger l'imbarco si costruì alla meglio un riparo, e ordinovvisi
forte banda di cavalli sotto il conte di Borgogna. Con tutto ciò da
cinquecento uomini furon trucidati, e salmeria grandissima di preda
riportata in città[53]. Recarono tra le altre spoglie il padiglion
grande {198} del comune di Firenze, nella cieca fuga mal difeso o
gittato; e l'appendeano in voto nel maggior tempio[54].
Ebbe questo memorabil esito l'assedio di Messina. Tra le gare,
fanciullesche sì ma parricide, onde la patria nostra cadde lacera e
schiava, splende indivisa la gloria delle due maggiori città nella
rivoluzione del vespro. Ne levò l'insegna Palermo; rapì seco la
Sicilia intera al gran fatto: non assestato il reame per anco, e
minacciato da tant'oste, Messina il salvò con quella eroica difesa.
Indi la fama a celebrar di Messina il capitano, i cittadini, le donne;
e di codeste animose e gentili cantava la rinascente musa d'Italia; e
le altre siciliane spose e donzelle, come da ammirazione si fa,
prendeano ad imitare il lusso di lor fogge e ornamenti; che dileguato
il pericolo, ripigliossi ogni dilicato vivere tra i commerci, le
industrie, le ricchezze della valente città[55]. Di stranieri non
pugnavano per lei nello assedio che sessanta Spagnuoli: v'eran da
cento Genovesi, Viniziani, Anconitani, Pisani[56]. Del resto nè
cittadini esercitati all'arme pria dell'assedio, nè avea
fortificazioni, se non che rovinose, e slegate tra loro[57]: onde in
molte parti fu mestieri supplirvi con le barrate; e pressochè
senz'avvantaggio di luogo molti affronti si combatterono. Diversa in
vero da quella dei nostri dì, e men {199} dura agli oppugnati, l'arte
degli assedi allor era; men destre e compatte che i nostri stanziali
quelle antiche milizie; ma quant'arte di guerra fiorì in quei
guerrieri tempi, l'avea esercitato, può dirsi fin da fanciullo, tra il
sangue delle battaglie, il vincitor di Manfredi; sperimentati i suoi
capitani; ferocissimi quegli oltramontani avventurieri; i soldati
d'Italia nè inesperti in quella età nè inviliti. Provveduti di tutte
macchine, obbedienti, ordinati, sommavano a un di presso a
settantamila al cominciar dell'assedio: nè a tanto numero forse
giugneano, presi tutti insieme d'ogni sesso coi poppanti e i
decrepiti, quanti umani rinserrava la città. Per sessantaquattro
giorni la campeggiò tanto esercito, venuto in sua baldanza, che
copriva il mare; e tornossi sgomenato, mutilo, a fronte bassa,
ingozzando oltraggi, poco men ch'a dirotta fuggendo. Altri dirà che
nell'assedio della città, che ne' disegni della guerra contro l'isola,
fallava in molte parti re Carlo; ma posto pur ciò, non son da supporre
sì grossolani gli errori, nè che ei non sapesse ripararli: e certo è
che molti assalti diede con tutte le forze di mare e di terra, ne'
quali la virtù de' cittadini fu che il rispinse. A questa dunque si
dia la vittoria dell'assedio. Alla vittoria di Messina, alle
difficoltà de' monti e del mare, al cuor degli altri Siciliani, e alle
forze ormai concentrate per la riputazione di Pietro si dia, che
null'altro danno tornasse al rimanente dell'isola da tanta mole di
guerra, e primo furor di vendetta[58].

NOTE
[1] Bart. de Neocastro, cap. 43.
[2] Lib. 1, cap. 8 e 9.
[3] Questi aiuti, che il Neocastro dissimula un poco, sono accennati
da Speciale, lib. 1, cap. 7 e 16.
[4] Non merita piena fede Bartolomeo de Neocastro, che le
attribuisce (cap. 21) ai Palermitani, narrando come sbigottiti a
veder nimico il papa, e Messina leale ancora a casa d'Angiò,
deliberassero, persuasi da un Ugone Talach, di gittarsi in braccio
all'Aragonese, con tanta prestezza, che Niccolò Coppola orator
loro, sciogliea per Catalogna il dì 27 aprile. Il Neocastro
incespa nel computo del tempo, con dir che giunto Niccolò in otto
giorni alle Baleari, una fortuna di mare spingealo sulle spiagge
d'Affrica; dove s'avvenne in re Pietro, che egli medesimo afferma
partito di Spagna il 17 maggio, e per più autorevole testimonianza
si sa approdato in Affrica il 28 giugno. Segue a intessere il suo
racconto: che non volendo il re entrare in quella impresa senza
intender l'animo dei Messinesi, rispondea manderebbe a ciò suoi
fidati, ma nulla prometteva intanto. Così dà tempo e sembianze a
questa pratica, a maggior vanto di Messina sua; senza pure
accorgersi che Messina splendea di tanta gloria verace, da doversi
sdegnar l'accattata.
Lo Speciale, il d'Esclot, il Montaner, e Saba Malaspina non parlan
d'altro, che dell'ambasceria pubblica, della quale ora diremo.
I racconti del Villani, lib. 7, cap. 69, e della Cronaca anonima
della cospirazione son sì lontani da tutte queste testimonianze
istoriche, da nemmeno farsene parola. Essi non mancano di mandare
orator dei Siciliani a Pietro il loro protagonista Giovanni di
Procida.
[5] Saba Malaspina, cont., pag. 361.
Cron. S. Bert., in Martene e Durand, Thes. Nov. An., t. III, p.
762.
[6] Montaner, cap. 44.
D'Esclot cap. 77 e 78.
[7] Diploma di Pier d'Aragona del 19 (agosto?) 1282; Docum. VIII.
[8] D'Esclot, cap. 77 e 78.
Montaner, cap. 46, 4º.
[9] Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 13.
Veg. anche Geste de' conti di Barcellona, cap. 28, nella Marca
Hispanica del Baluzio.
[10] Diploma dato di Port Sangos o Fangos il 1 giugno 1282, in Rymer,
atti pubblici d'Inghilterra, tom. II, pag. 210.
[11] Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 19 e 20.
Parecchi documenti confermano l'esistenza di questa donazione
segreta; lasciandoci sempre nel dubbio, se il re l'avesse fatto
veramente in giugno 1282, o finto nel 1283. Sono essi:
1º. Un breve di Martino IV a Filippo l'Ardito, d'Orvieto 10
settembre 1283, negli archivi del reame di Francia, J. 714, 5. Il
re avea mandato due ambasciatori per sapere se la concessione del
regno d'Aragona ad uno de' suoi figliuoli, che allor si trattava,
potesse incontrare ostacolo nella rinunzia di Pietro in favor
d'Alfonso. Il papa rispondea che non s'era allegata questa
eccezione, ma che in ogni modo egli e 'l collegio de' cardinali,
la teneano come futilissima e di niun valore.
2º. Una rimostranza degli arcivescovi, vescovi e altri prelati,
de' maestri de' Templari, Ospedalieri e altri ordini religiosi
militari, de' conti, visconti, baroni, delle università di città e
ville e di tutti i popoli infine de' reami d'Aragona e Valenza e
della contea di Barcellona, indirizzata a papa Onorio IV, e a
tutto il collegio de' cardinali, scritta in carta bombicina, con
la nota d'essersi copiata in _quatuor foliis papiri_, e mandata
alla corte romana; negli archivi del reame di Francia J. 588. 27.
La nazione Aragonese e Catalana chiedea la rivocazione della
concessione, che Martino ingannato avea fatto a favore di Carlo di
Valois; e pregava il papa che non la sottomettesse alla
dominazione francese, ma lasciasse pacificamente regnare Alfonso.
Tolta la rettorica, le ragioni erano: che Giacomo il
Conquistatore, con assentimento di Pietro suo figliuolo allora
infermo, avea fatto donazione de' regni al nipote Alfonso: che il
dì della coronazione di Pietro in Saragozza, tutti i baroni aveano
giurato di ubbidire dopo la sua morte ad Alfonso: che Pietro,
secondo gli usi di Spagna, donò _inter vivos_ i suoi stati al
figliuolo, e dichiarò che li terrebbe da lui in usufrutto durante
la propria vita: che infine li avea lasciato per testamento al
medesimo Alfonso: e che tutti questi atti erano antecedenti
all'impresa di Sicilia, e a qualsiasi altra offesa che Pietro
avesse recato alla santa sede. Sostenuto così il dritto perfetto
d'Alfonso, si allega ch'egli non n'era punto decaduto, perchè non
avea avuto alcuna parte all'impresa di Sicilia. S'aggiugne che la
nazione anche ignorava questa impresa, e di buona fede credea
preparato l'armamento contro i nemici del nome cristiano; _maxime
cum hoc idem Dominus P. (Petrus) aperte diceret se facturus, ac se
hoc velle facere ipso facto probaret, dum ad partes Sarracenorum,
cum decenti bellatorum societate se contulit, et pro debellandis
inimicis fidei, romane Ecclesie auxilium postulavit._
3º. Finalmente si fa parola della donazione ad Alfonso nella bolla
di Bonifazio VIII, data il 21 giugno 1295, per la quale furon resi
a Giacomo i regni, come li tenea Pietro, _antequam Ecclesiam
offendisset in aliquo, et de predictis regnis et comitatus in
quondam Alphonsum primogenitum ejus, donationem, ut dicitur,
contulisset._ Raynald, Ann. ecc., 1295.
[12] Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 19 e 20.
Per le date ho seguito, ancorchè non contemporaneo, questo autore,
che potè correggerle compilando gli annali su i contemporanei e i
diplomi.
[13] Montaner, cap. 49, 50.
D'Esclot, cap. 79, 80.
Surita, Ann. d'Aragona, lib. 4, cap. 19 e 20. Almossariffo era il
titolo del feudatario, o principe saraceno di Minorca; forse da un
vocabolo arabo che suonerebbe in italiano: nobile, esaltato,
salito a dignità.
[14] Annali genovesi, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 576, e
Geste dei conti di Barcellona, cap. 28, loc. cit., i quali ho
creduto seguire piuttosto che Neocastro, che porta la partenza di
Spagna il 17 maggio, e Villani, lib. 7, cap. 69, il quale seguendo
Giachetto Malespini, la differisce infino a luglio.
All'autorità degli Annali genovesi e del contemporaneo catalano
per queste date, aggiungon fede il testè citato diploma del 1
giugno 1282, e il testamento di re Pietro, del quale è una copia
tra i Mss. della Biblioteca comunale di Palermo Q. q. G. 1, fog.
119, dato di porto Fangos il 2 giugno.
[15] Gli Annali genovesi, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 576,
dicono 10,000 fanti, 350 cavalli, 19 galee, 4 navi, ed 8 teride.
Saba Malaspina, cont., pag. 364. allegando per questa impresa
d'Affrica una relazione presentata al papa, porta 1,400 cavalli, e
8,000 fanti con le picche, oltre i balestrieri. Giovanni Villani,
lib. 7, cap. 69, dà a Pietro 50 galee, molti legni di carico, e
800 cavalli. Bartolomeo de Neocastro, ch'è sempre in
sull'ingrandire, dice 900 cavalli, 30,000 fanti, 24 galee, 10
navi, e 10 vascelli a remi. D'Esclot 800 cavalli, 15,000 fanti, e
140 vele. Montaner 20,000 fanti, 8,000 balestrieri, oltre i
cavalli, e 150 vele. A me è parso tenermi piuttosto agli Annali di
Genova, ch'han maggiore autorità, s'accostano a d'Esclot, e
portano il numero più credibile.
[16] Il nome di questa terra è storpiato diversamente ne' diversi
ricordi de' tempi; de' quali un la dice Ancalle, uno Antola, altri
Altoy; i più esatti Alcoyl o Alcolla, che è il giusto nome
preceduto dall'articolo arabico _al_.
[17] Saba Malaspina, cont., pag. 361 e 367.
Bart. de Neocastro, cap. 17.
D'Esclot, cap. 80, 83, 89.
Montaner, cap. 51, 53, 55, 85.
[18] Saba Malaspina, cont., pag. 375.
Montaner, cap. 52.
D'Esclot, cap. 84, 85.
Geste de' conti di Barcellona, cap. 28, loc. cit.
Diploma di Pier d'Aragona, in Rymer, Atti pubblici d'Inghilterra,
tom. II, pag. 208.
Surita, lib. 4, cap. 21.
Il Montaner e il d'Esclot portan come sincera e schietta questa
missione al papa.
[19] Saba Malaspina, cont., pag. 376.
[20] Anon. chron. sic., cap. 40.
Queste sollecitazioni a' Siciliani sono apposte a Pietro dal
Nangis, in Duchesne, Hist. franc. script., tom. V, pag. 539; e sì
da papa Martino nel processo, che leggesi appo Raynald, Ann. ecc.,
1283, §. 21.
[21] Queste condizioni, taciute dagli altri, e pur necessarie, son
riferite dal d'Esclot, cap. 90, 91.
[22] Anon. chron. sic., cap. 40.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 8 e 9.
Saba Malaspina, cont., pag. 373, 374.
Ann. genovesi, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 576.
Pao. di Pietro, in Muratori, R. I. S., tom. XXVI, agg. pag. 37.
D'Esclot, cap. 87.
Montaner, cap. 54.
Giach. Malespini, cap. 212.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 69.
Cron. della cospirazione di Procida, loc. cit., pag. 269. Questi
tre ultimi, in loro errore, portano Giovanni di Procida ito
ambasciador de' Siciliani a re Pietro.
Lasciando da parte il Montaner, che nulla dice della deliberazione
del parlamento siciliano, e racconta l'ambasciata in modo assai
strano, è notevole che il d'Esclot porta espressamente questo
parlamento in Palermo nel tempo dell'assedio di Messina, e lo
accordo generale nella esaltazione di Pietro, a proposta del
capitano del popolo. Non dice la persona, nè indica l'uficio di
costui in modo più particolare. Potrebbe indi supporsi che
presedesse in quell'incontro al parlamento, il primo de' capitani
del popolo di Palermo, Ruggiero Mastrangelo, che alla esaltazione
di re Pietro ebbe, forse in merito di tal servigio, la carica di
giustiziere ne' territori di Geraci, Cefalù, e Termini. Diploma
dell'8 febbraio 1283, ne' Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q. q.
G. 12.
[23] Cap. 44.
[24] Saba Malaspina, cont., pag. 378, 379.
Montaner, cap. 56.
D'Esclot, cap. 86.
[25] D'Esclot, loc. cit.
[26] Geste de' conti di Barcellona, cap. 28, loc. cit.
Montaner, cap. 54 e 57, narra assai goffamente questa ambasceria
de' Siciliani, che fa venir con vele negre alle navi, in vesti
negre, e dirottamente piangendo ai piè dello Aragonese, implorarlo
con parole di paura e servitù. Non s'addicean certo queste
abbiette dimostrazioni ai Siciliani del vespro, venuti ad offrire
a Pietro una sovranità assai limitata. In fatti D'Esclot, cap. 88,
presenta in ben altre sembianze gli ambasciadori, e riferisce i
patti della esaltazione. Le testimonianze degli altri istorici
portano anche a questo.
[27] Bart. de Neocastro, cap. 23.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 12 e 13.
Surita lib. 4, cap. 22.
Montaner, cap. 57, e d'Esclot, cap. 88, da partigiani del re,
tacendo i dispareri, dicon presa la guerra di Sicilia con grande
accordo e gioia di tutta l'oste, che fu a un di presso l'esito
della faccenda.
[28] D'Esclot, cap. 90.
[29] Docum. VI.
[30] Bart. de Neocastro, cap. 23 e 46.
Saba Malaspina, cont., pag. 379.
Anon. chron. sic., cap. 40.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 13.
Giachetto Malespini, cap. 212.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 69.
Veggansi anche Montaner, cap. 58, e d'Esclot, cap. 90.
[31] Bart. de Neocastro, cap. 45.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 13.
Saba Malaspina, cont., pag. 379.
D'Esclot, cap. 90 e 91.
Montaner, cap. 60.
Gio. Villani, e Giachetto Malespini, loc. cit., Cron. della
cospirazione di Procida, pag. 270.
I particolari non leggonsi tutti a un modo, in ciascuna di queste
cronache.
[32] D'Esclot, cap. 91.
Del parlamento fa cenno il Montaner, cap. 60.
E più distintamente lo scrittore delle Geste dei conti di
Barcellona, le cui parole, cap. 28, loc. cit., son queste: _Apud
Palermum cum regnicolis omnibus in genere celebre curiam
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