La guerra del Vespro Siciliano vol. 1 - 13

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nella chiesa del Salvadore, sulla estrema punta, ov'oggi è una
fortezza del medesimo nome. E un buon augurio fu principio alla
guerra, quando il due giugno, viste far vela da Catona quaranta
nimiche galee, i Messinesi ne mandavano trenta allo scontro. I nemici
non aspettandole, in fretta rifuggironsi a Scilla; e sbarcarono le
ciurme, spiegandosi a lor protezione in battaglia i cavalli d'Erberto
d'Orléans, e del conte di Catanzaro: ma la traversia che levossi, non
la mostra del nemico, fu quella che rattenne i nostri, anelanti a dar
dentro, e abbruciare le navi[13].
L'animo d'un frate siciliano ammiraron gli stessi nemici in quel
tempo. Veniva re Carlo il dieci giugno alla Catona {154} con un grosso
di genti; arrivavan da Brindisi ogni dì le allestite navi; e a tanto
romor del nemico, i Messinesi struggeansi di saperne a punto le forze
e i disegni. Allora a' preghi del consiglio della città, Bartolomeo da
Piana de' frati minori, uom litterato, di specchiati costumi, e di
gran nome, prese a esplorarli; non vile spiatore d'eserciti, ma
cittadino, ch'all'uopo della patria affronti la mannaia, com'altri la
spada. Nè furtivo, nè dimesso va dunque in Calabria il frate; dove
addotto a Carlo: «A che da' miei traditori ne vieni?» brusco
domandavalo il re. Ed ei più fermo: «Non io traditor, disse, nè terra
di tradimento lasciai. Mosso da religione e coscienza vengo ad ammonir
qui i frati minori, che non seguano queste tue ingiustissime armi. La
Provvidenza ti commise un'innocente popolo, e tu lo lasciavi a
dilaniare a lupi e mastini: tu indurasti il cuore alle querele, a'
pianti: e allor noi ci volgemmo al Cielo; e il Cielo ne ascoltò, e ci
fe' vendicare santissimi dritti. Ma se speri oggi vincendo chiamar ciò
fellonia, sappi, o re, che indarno tant'armi a' danni de' Messinesi
aduni. Torri hanno e mura, e forti petti rinfocati dal divin raggio di
libertà; onde maggiori che uomini, ti aspettan pronti a morire. A
Faraone tu pensa!» Per terror di lassù, o istinto d'accarezzar
Messina, il re si ritenne dall'offendere il frate. Die' sfogo all'ira
con ordinare una prima fazione: e Bartolomeo tornandosi a' suoi,
narrava la potenza dell'oste, e le truci voglie di Carlo[14].
Contro Milazzo quell'assalto si drizzò, perchè traeane Messina le
vittuaglie, che il parlamento avea deliberato di provvedersi; e mal
s'era fatto tra l'universale sospezione e penuria. I conti di Brienne
e di Catanzaro, Erberto d'Orléans, e Bertrando d'Accursio, capitani di
questa fazione, aveano a bruciar le messi, dar guasto al paese, rapire
gli armenti per uso dell'esercito, e occupar indi Milazzo: {155} i
quali a dì ventiquattro giugno, con cinquecento cavalli e mille
pedoni, sur una sessantina di barche salpavano dalla Catona. Contro
tal forza, e cento altri legni che si vedean surti alla spiaggia, il
capitan della città non volle mettere a rischio la sua poca armata, ma
piuttosto sull'asciutto far testa. Frettoloso armò dunque cinque cento
cavalli, e grosse bande di fanti; co' quali, poichè la flotta francese
girava il capo, ei valicò i colli della Peloriade, e lunghesso la
settentrionale riva, a Milazzo conducea le genti, come i nemici a
quella volta pur via navigavano. Molte miglia da Messina si dilungan
così i nostri; non usi all'andar in ischiera; trafelanti dal caldo,
dalla via, dal peso dell'armi, ciascun dassè, sparsi chi a cercar
ombre o acqua, chi a chiamare ad oste i contadini: quando presso il
canneto di San Gregorio, alla fonte d'Aleta, il nimico vedendoli sì
mal presi tra quelli scogli, d'un subito approda. Baldovino pensava
sostare, e, raccolti gli sbrancati, mandare per rinforzo a città; ma
dandogli sulla voce Arrigo d'Amelina per nimistade privata, tutti
appigliaronsi al partito che parea più generoso. Audaci sì, ma radi e
stanchi, investono il nimico: il quale ordinato e fresco, li sbaragliò
al primo scontro. Quell'Arrigo stesso d'Amelina, Anfuso de Camulio,
Bertoldo Alamanno, Pietro Cafici, cavalieri; Bartolomeo Mussone,
Martin di Benincasa, Abramo d'Ambrosio, Niccolò Rosso, e di minor nome
mille a un di presso, nella zuffa o nella fuga fur morti. Assai
n'andar anco prigioni; tra' quali notan le istorie i nomi di Roberto
de Mileto cavaliere, che perì ne' ceppi francesi, e d'Arrigo Rosso
mercatante, ricattatosi per mille once d'oro dopo la fine
dell'assedio[15]. {156}
Come la sconfitta si riseppe in città, il popolo infellonito da
rammarico, e più stigandolo Baldovin Mussone, l'inesperto capitano che
a discolparsi gridava tradimento, levasi a romore in cerca di
traditori. Chiama al supplizio i partigiani de' Francesi, gli odiati
de Riso: tratti Baldovino e Matteo dalla rocca di Matagrifone, ove li
avea chiuso da pria, li mette in pezzi; Giacomo decollato per man del
carnefice; strascinati i cadaveri per la città; senza tomba gittati;
con tanto eccesso d'ira, che gli amici non osavano pur piagnerli, e i
congiunti a mala pena si sottrassero. La moltitudine intanto, come se
quelle morti fosser vittoria, {157} scordata già l'infelice fazione,
girava tripudiando intorno le mura della città, e per le strade
gavazzava. Ma in brev'ora il popolo stesso a una voce, persuadendol
forse i più savi, deposto d'uficio il Mussone, gridò capitano Alaimo
da Lentini, nobil di sangue, nobil di fama, vecchio robusto e animoso,
espertissimo in guerra. Fu somma ventura di Messina e di tutta
l'isola. Ei, preso appena il comando, con più alto militare argomento
ordinò le difese della città, riparò, sopravvide, indefesso addestrò
il popolo all'armi[16]. Catania e i comuni tutti del vasto tratto di
paese da Tusa ad Agosta, il crearon anco, ignorasi se prima di Messina
o appresso, lor capitano di popolo[17].
Nei preparamenti d'ambo i lati un altro mese volgeasi: poscia con
tutto il pondo dell'oste il re mosse a dì venticinque {158}
luglio[18]. Le salmerie, le vittuaglie, i cavalli, indi le genti
imbarcò; ultimo egli ascese la sua nave superbamente parata di
porpora, che parea tenere in pugno le sorti del mondo; e con tutto
ciò, schivato quel formidabil porto di Messina, fe' porre a quattro
miglia ver mezzodì, alla badia di Santa Maria Roccamadore; nuovamente
sperando trar lungi i cittadini alla pugna. Ma Alaimo affrenò
l'intempestivo ardore, che s'era pur desto. Deluso dunque, attendavasi
Carlo; e trucidar fea, dice Neocastro, i monaci della badia, che io
nol credo, perchè taciuto dagli altri istorici, e dissonante dai
consigli del re, che cominciarono con simular clemenza. Ben lasciò a
marinai e soldati metter a guasto il paese, sperando che i Messinesi
per salvar le facultà chiedessero accordo; ma fe' il contrario
effetto. Come da Roccamadore infino al torrente di Cammàri sparve il
ridente giardino, tagliati gli alberi, stralciate le vigne,
saccheggiate masserie e canove, diroccate le case, quanto rubar non
poteasi distrutto; e come il dì appresso, mutati gli alloggiamenti, lo
sterminio s'avvicinò, i Messinesi che a niente guardavano fuorchè
all'onore e alla libertà, con tanto maggior dispetto si fecero a
provocar l'Angioino. Appiccan fuoco a settanta galee delle costruite
contro i Greci; fabbrican armi delle ferrerie tratte dalle ceneri;
{159} disfatte altre navi, ne riattano mura e steccati; il borgo di
Santa Croce, posto a mezzodì ove in oggi è quel di Zaera, non potendol
fortificare, abbandonano. Occupollo al terzo giorno re Carlo; da
quella banda ponendo il campo, sì stretto alla città, ch'appena nel
partiva il picciol torrente di porta de' Legni. Egli alberga nel
munistero de' frati predicatori che sorgea sul poggio, da ciò chiamato
vigna del re; e fa alzar su i comignoli una torricella di legno, per
ispecolare dentro la città, e anco offenderla con macchine. Ma i
Messinesi se n'avvidero appena, che dato di piglio a' mangani, a furia
di pietre sconficcaron la torre[19]: e furon questi i primi saluti
all'antico lor principe.
Or se la città debbasi assaltare impetuosamente pria che s'avvezzi al
pericolo, o travagliar tanto d'assedio che stanca ed affamata
s'arrenda, agitano tra loro i capitani, ristretti a consiglio. I più
focosi diceano andarne, l'onor di tant'oste contro una plebe assiepata
con legni e macerie, non muta: l'impeto vincer le guerre: a che
tardare sì giusta vendetta? Dubbio altri opponea il successo
dell'arme: grossa la città: presa d'assalto, metterebberla a sacco i
ribaldi[20] del campo; e qual pro al monarca? Senza sangue
certissimamente s'avrà per tedio o paura. A questo appigliossi Carlo,
contro la sua natura feroce; perchè il vinse avarizia, e lusinga che
Messina si lascerebbe prender sempre a lusinghe[21]. {160}
Perciò rimanendosi alla espugnazione dei posti più avvantaggiosi di
fuori, il dì sei agosto movea possente stormo contro il monistero del
Salvatore, chiave di quell'assedio, per tener la bocca del porto.
Cento Messinesi il difendeano: i quali nè sbigottiti dal numero degli
assalitori, nè scossi dal battito della prima affrontata, fieramente
combattendo dalle soglie e da' muri, li ributtarono; tantochè Alaimo
venia con freschi combattenti dalla città: e allora più aspra
mescolandosi la battaglia, con morti ed onta si ritrasse alfine il
Francese. A questa prima vittoria l'animo de' cittadini oltremodo si
rinfrancò. Indi il dì otto, con pari fortuna fu combattuta maggior
fazione al monte della Capperrina; il quale signoreggiando la città da
libeccio, l'avea fortificato Alaimo di steccato e fosso e giusta
guardia d'arcieri. Or avvenne ch'essi, come nuova milizia, quel dì a
un rovescio di gragnuola e di pioggia spulezzaron da' posti; onde i
Francesi e i Fiorentini, colto il tempo, pronti saliano per gli
uliveti, e guadagnavan già l'erta. Seppelo Alaimo; comprese ch'a un
altro istante era perduta Messina; e di tutto fiato si lanciò alla
riscossa, traendo con sè il popolo: e urtò; e ripigliò il ridotto; e
in faccia a' nemici affranti per molta strage, caduta già la notte, a
lume di fiaccole risarcir fe' le barrate. La notte del Campidoglio fu
questa a Messina. S'eran gli ufici ordinati per tal modo nella città,
che scritti in drappelli, dì e notte s'avvicendasser gli uomini a
vegliare in scolte e poste; girassero in pattuglie le donne.
Ritentando i Francesi a notte scura l'assalto della Capperrina,
superati chetamente i ripari, abbattonsi in una delle donnesche
guardie. {161} Dina e Chiarenza, donnicciuole di cui l'istoria
ingiusta ne tramanda appena il nome, salvaron allora la patria: e fu
prima la Dina a gridare all'arme, scagliando insieme un masso che
atterrò parecchi soldati; l'altra a martellare a stormo le campane:
onde il romore si leva, si spande: «Alla Capperrina il nemico» altro
il popol non sa, e nel buio, nel rovinio, non misura il periglio, sì
il cerca. Sugli attoniti e delusi nemici piombò col suo
fortissim'Alaimo; nè solamente rincacciolli, ma saltando fuor dal
ridotto, borghesi i nostri e a piè, incalzavano fin sotto il
padiglione di Carlo quei fanti vecchi spalleggiati da cavalli[22].
L'insperata virtù di codesti scontri miracol parve a' nemici, e a'
nostri stessi: il che accrescea i miracoli veri e naturali. Donna in
bianco paludamento sorvolar lunghesso le mura; stender soave un velo
contro a' colpi, e ribatterli; innanti sue divine sembianze cascar
l'animo agli assalitori; presi d'un ghiaccio volgersi in fuga; e
saette inchiodarli, che il feritor non vedeasi; tribolato anco il
campo di mortifera epidemia: tanto narravano i nemici soldati a'
nostri, facendosi sotto le mura a parlamentare. L'attestavano con
sacramento per lo Iddio adorato da tutti gli umani, i Saracini stessi
di Lucera; e chiedeano una volta qual fosse la diva, e più diceano, se
non che surto un subito allarme dileguaronsi. Pertanto tenacissima
surse in Messina, sprone a fatti più egregi, la fede di quest'aita
soprannaturale della Vergin Madre, nella quale teneansi inespugnabili.
Sgombro poi che fu l'assedio, alla celestiale proteggitrice alzavano
un tempio nel lieto nome della Vittoria: il miracol tramandossi di
generazione a generazione, e la facile istoria il registrò[23]. {162}
Or narrinsi i miracoli umani: fornite le fortificazioni nel tempestar
dell'assedio: fatto un popol di soldati: nè età, nè sesso provarsi
imbelle: null'opra dura a niuno: vigilie, interminabil disagio,
penuria sostenuti senza fiatare: uno scherzo la morte: e più, invidia
e discordia incatenate: pensiero in tanta moltitudine un solo, far
salva Messina. In pochi dì, là dov'era accostevole a scale, arduo
drizzasi il muro; ove fiacco, si rassoda; ove il luogo nol comporta,
steccati, argini di botti, fascine: a giusta distanza dalle cortine
esteriori fabbricano un contramuro. E cavan fondamenta, e murano, e
assestan travi, e insieme combattono, quanti son umani nella città;
vincendo lor passione gl'infermi corpi, le schive usanze, le vanità
degli ordini. Nobili, giuristi, mercatanti, artigiani, infima plebe,
sacerdoti, e frati, e vecchi, e fanciulli all'opra tutti secondo lor
posse; intenti ed ansiosi, dice Saba Malaspina, quale sciame
ch'affatichi intorno a suoi favi. Donne cresciute in dilicatissimo
vivere, d'ogni età, d'ogni taglia fur viste a gara sudar sotto il peso
di pietre e calcina; e lì, tra il fioccar de' colpi, recarne a'
lavoranti; girare per le mura dispensando pane e polenta, dissetandoli
d'acqua, mescendo vini; e più di belle parole confortavanli: «Animo,
cittadini! Nel nome della Beata Vergine, durate alle fatiche. Vi serbi
alla patria Iddio. Egli il vede e difenderà Messina.» In questo gli
altri Siciliani, eludendo l'oste pe' tragetti de' monti, aiutavano la
città di gente, d'armi, e di vittuaglie. Crebbe la virtù de' Messinesi
con l'uopo e coi rischi, durò tutto l'assedio, e più valida ogni
giorno rendea la difesa[24]. {163}
Perseverando siffattamente i cittadini, e stando fermo Carlo nel
disegno di ridurli senza battaglia, s'aprì una pratica per mezzo del
cardinal Ghepardo, ch'entrovvi, richiedente o richiesto (varian su di
ciò le istorie),[25] e carico certamente di clemenze del papa e del
re; ma uom non era da maneggiarle con inganno. Il preso reggimento
portò che i cittadini l'accogliessero con onori di principe, come
legato del pontefice; onde fu condotto tra' plausi alla cattedrale;
appresentategli le chiavi della città, e da Alaimo il baston del
comando. Pregavanlo prendesse lo stato nel nome della santa romana
Chiesa; desse un reggitore alla città; a questi pagherebbero i tributi
debiti al sovrano; ma lungi, lungi i Francesi; dalla terra della
Chiesa li scacciasse per Dio. A che Gherardo, secondo suoi mandati,
rispondea: gravissime lor peccata; pure la Chiesa richiamarli con
affetto di madre; a lui commesso di riconciliar {164} Messina col suo
re, e lietamente il farebbe; ma non parlasser di patti, che non n'è
luogo tra sudditi e monarca; sperassero in Carlo, magnanimo, clemente,
il quale perdonar saprebbe alla città, serbare i gastighi a' soli
efferati omicidi; vano architettar altre pratiche; ubbidissero, e ne
rimarrebber contenti. «Messina, conchiudea, s'affida nel grembo della
Chiesa; in suo nome la risegno io a re Carlo.» E Alaimo: «A Carlo no,»
con voce di tuono proruppe, e gli strappava il baston del comando:
«No, padre, vaneggi: i Francesi mai più, finchè sangue e spade avrem
noi!» Somiglianti parole in suon di varie voci scoppiarono dalla
moltitudine; alla quale invan replicava Gherardo, invan essa a lui:
perilchè cessando il negoziato a pien popolo, deputaronsi trenta de'
più notevoli cittadini, a cercare in ragionar più queto, qualche
strada agli accordi.
Venian proponendo patti al re disdicevoli, a Messina pericolosissimi,
e peggio al rimanente della Sicilia: perdonasse Carlo alla città; gli
bastasser l'entrate de' tempi del Buon Guglielmo; nè soldato nè
ministro francese in Messina mettesse pie'; la si reggesse per uom
latino a scelta dal re: dai quali termini il legato non valse a
rimuoverli un passo. Onde, o ch'ei se ne riferisse al re, e questi
ricusasse tutt'altri patti che di resa a discrezione, com'alcuno
scrive; o che il cardinale conoscesse la mente di Carlo sì addentro da
non averla a ricercar nuovamente, risoluto ei disdisse l'accordo; con
isdegno grandissimo de' cittadini. E tra i popolani più ardenti, che
fremeano e schiamazzavano a tal niego, alcuno drizzandosi a Gherardo
il rimbrottò[26]: «Vedi candor di pastori che consiglianti ignudo
{165} porgere il collo al manigoldo perch'abbia clemenza! Quante ore
dura la clemenza di Carlo? Lungi da noi cuor di selce, torti ingegni,
insidiose lingue: voi ne vendeste al Francese; ci riscattammo con
l'arme noi; ed or che vi offriamo temperata signoria della bella
Sicilia, la schifa Martino, e si fa mezzano al Francese, non vicario
del Cristo di mansuetudine e amore. Oh temete, temete la giustizia del
Cristo! E tu riedi al tiranno angioino, per dirgli che nè lioni nè
volpi mai più entreranno in Messina!» Allibito al minaccevole aspetto
del popolo, frettoloso uscia Gherardo; scomunicata pria la città; e
ingiunto a tutti chierici che in tre dì ne sgomberassero; ai rettori
del comune, che in quaranta dì comparissero a corte del papa[27].
Tacqui d'una epistola di Martino, che Giachetto, il Villani, e la
Storia della cospirazione portan come letta da Gherardo a' Messinesi,
non riferita punto dagli scrittori degni di maggior fede, e zeppa
d'ingiurie, fuor dal sonante stile della romana curia, da' concetti
della bolla che deputava Gherardo, e dall'oprar tutto del papa e di
Carlo in que' primi tempi. Fabbricata la giudico perciò da' detti
autori, che mal intrecciano, com'altrove notai, queste istorie del
vespro. Nè meglio regge l'altro supposto[28], che Gherardo suggerisse
a Carlo d'assentir l'accordo con Messina, {166} e violarlo,
insignorito che fosse della città; perocchè s'ai Messinesi spiacque
nel caldo di loro speranze la ripulsa del legato, ammirava tutta la
Sicilia poi, com'afferma Speciale, quel suo onesto e franco negoziare;
talchè se l'ebbe in rinomanza di santo[29].
Com'ei scornato e mesto fe' ritorno al campo, tanto furor prese i
soldati, assetati della vasta preda della città, che, non aspettato
comando, tumultuosi diero a stormeggiar le mura: e venner indi con più
agevolezza respinti[30]. Bella prova anco feano i nostri ne' minori ma
ordinati assalti rinnovellati poscia ogni dì; perchè Carlo, vedendo
che per sole minacce non si piegava la città agli accordi, volle farle
sentir più viva la punta del coltello alla gola. Ma ne seguì l'effetto
contrario; perchè la vigilanza de' nostri deludea tutt'ingegni
dell'inimico; il loro saettame l'affliggea di morti e ferite; la
fortuna favorevole in ogni fazione a' cittadini dava a' loro animi la
sicurezza della vittoria; ne togliea la speranza ai soldati di Carlo.
E invano il re, fatte venir le genti da Milazzo, poneale a campo nel
borgo di San Giovanni, ov'oggi, estesa la città oltre l'antico
cerchio, è il Priorato e indi il borgo di San Leo, e così
l'accerchiava da settentrione e da mezzogiorno, ove il terreno parea
più comodo alle offese; lasciando libero solo l'aspro colle guardato
dal castel di Matagrifone. Questo a' Messinesi fu nulla; se non che
temendo pei difficoltati sussidi qualche stremo di penuria, mandaron
via, duro ma inevitabil partito, la minutaglia più inetta all'arme; la
quale tapinando per le campagne, cadde, inutil preda, in man dei
nemici. Con molto lor sangue ritentavan essi poi con forti impeti, il
dì quindici agosto la Capperrina, il due settembre le mura a
settentrione. Ributtati sempre, sfogarono risarchiando con nuove
scorrerie il contado; {167} steser fino alle chiese le mani ladre;
manomisero i sacerdoti; trascinarono al campo il sacro arredo, la
croce, la effigie della divina madre, e li barattarono vilmente[31]:
atti d'impotente furore, che dovean mostrare a' più veggenti come
Carlo disperasse già dell'impresa.
Acerbe novelle conturbavano l'animo di Carlo: venuto d'Affrica con
forte stuolo di navi Pier d'Aragona; cintagli in Palermo la corona del
reame; gli animi de' Siciliani avvalorarsi; adunarsi le forze;
riguardare all'assediata città, che non fiaccavasi nè per insulto di
guerra, nè per fame. A un assalto pertanto si deliberò, universale ed
estremo[32]. Era il quattordici di settembre. Allo schiarire del dì,
appresentossi l'oste a cerchio, dal piano, dal monte in ordinanza, con
macchine e infiniti ordegni; splendenti in lor armature cavalcano per
le schiere i baroni; Carlo esorta i suoi a combatter no, sclamava, ma
a far macello de' vili borghesi. A un tempo l'armata con una
tramontana gagliarda, a golfo lanciato investia la bocca del porto; ed
era primo in fila uno smisurato naviglio, pien d'uomini e di macchine,
guernito di cuoia contro i fuochi, il quale col possente urto
spezzasse {168} la catena. Ma questa Alaimo avea con maravigliosa cura
affortificato. Schieravansi dentro dalla catena quattordici galee
armate di strenua gioventù, e tramezze sei navi cariche di mangani e
altri ingegni; fuori, s'ascondean tese sott'acqua, grosse reti che
rompessero il momento degli ostili navigli: sorgea sulla riva un
ridotto di forte legname; e in quello munitissimi d'arme i combattenti
più feroci.
Quivi la prima zuffa appiccossi. Difilandosi la maggior nave sopra il
ridotto d'Alaimo, impigliasi nelle reti, con sassi e dardi tempestanla
i nostri, le gittano i fuochi, le squarcian le vele; e mentre pur
tenea la battaglia, saltato il vento a ostro, tutta sdrucita e
sgomenata fu forza che si ritraesse, e la flotta con lei. Il perchè
tutta la virtù de' difenditori alla parte di terra fu volta; ove
terribile e diverso tante turbe portavan l'assalto. Qui a far breccia
drizzano i gatti[33] contro la muraglia, o sottentrano a zapparla da
pie'; qui ov'è più bassa, appoggian le scale, approcciano le
cicogne[34]; gli altri stuoli co' tiri delle saette fan prova a
cacciar dallo spaldo i Messinesi. Ed essi rispondeano virilmente con
un grandinar di ciottoli e frecce; versavan olio e pece bollente su i
più innoltrati: gittavan massi e fuoco greco alle scale.
Nell'ondeggiar della sorte in sì accanita {169} lotta, ascesero
alquanti sul muro; ma non n'ebber che diversa la via della morte, non
bersagliati da lungi, spacciati da petto a petto co' brandi. Alaimo
sfavillante in volto, corre per ogni luogo, agli steccati, agli
spaldi, ov'è maggior l'uopo, ove più aspro il pericolo; sopravvede i
movimenti del nimico, regge tutta la difesa, rifornisce gli stanchi
co' freschi guerrieri, supplisce l'arme, esorta, e combatte. Con esso
i condottieri, i cittadini di maggior nome adopran tutti secondo la
prova estrema e disperata: in tutto il popolo è una virtù. «Viva
Messina e libertà;» e torna la lena a' petti, e s'addoppia il vigore
alle braccia, e non è chi curi di colpi e di morte. Nel fitto nembo
de' tiri vedeansi le donne sopraccorrer franche, piene i grembiali di
sassi, cariche di saette a fasci, di fiaschi e cibi a ristorare i
forti fratelli. E quali mostrando lor bambini in braccio, ricordavano
che li sgozzerebbe quello spietato straniero; e che vedrebbero rapite
le sacre vergini, contaminati i casti letti, strage e vergogna, e
spianata Messina, se fino al l'ultimo fiato non si pugnasse. Così
infiammati i nostri da' più santi affetti dell'animo, i nimici da
avarizia e paura de' duci, travagliavansi da mattino a vespro; ma la
furia dello assalto indarno contro la nobil cittade si consumò.
Stendeasi a pie' delle mura spaventosa ghirlanda di fracassate
macchine, spezzate armi, cadaveri mutili e abbronzati atteggiati in
ogni più strana convulsione di morte; e fu maggiore assai il macello
de' Francesi che degli Italiani dell'oste, perchè, noti alle insegne,
men li bersagliavano i nostri. Il re sul limitare della chiesa di
Santa Maria, rodeasi di rabbia agli impotenti assalti, quando un
dottor Bonaccorso[35] l'imberciò dalle mura con bel tiro di {170}
mangano. Cadderne due cavalieri francesi, fattisi innanti in
quell'attimo per caso, o eroic'atto; e il re lasciava precipitosamente
il luogo, perdendo nell'avversa fortuna quell'indomito suo coraggio.
Alfine visto ch'anelanti e sanguinosi d'ogni dove piegavano i suoi e
il tristo dì volgeva a sera, fece suonare a raccolta. Un grido
rintronò a questo per tutta la corona de' muri; e impetuosamente i
cittadini saltando fuora, inseguiano i ritraentisi come in rotta,
motteggiavanli e ammazzavanli; che infin sotto gli occhi del re
spogliarono i cadaveri. E seguiva in città un abbracciarsi a vicenda,
un lagrimar di gioia, un tripudio cui null'altro al mondo agguaglia.
Alaimo, l'eroe di Messina, ricordava le geste, rendea merto a' più
valorosi a nome della patria, e tra i più valorosi alle donne, delle
quali alcuna riportò onor di ferite in quella tenzone. Poco lutto a
queste gioie si mescolò, per aver pugnato i nostri da' ripari. La
notte uno stuolo condotto da Leucio arrisicatissimo combattitore, con
nuova strage si saziò dei nemici, sorprese gli assonnati, i desti
contenne con la paura, e tornossi carico di bottino.
Indi quanta esultanza nella città, rammarico e spavento lasciava quel
sanguinoso giorno nel campo. Qual toro sgarato, dice il Neocastro,
gittossi Carlo a giacere, men da fatica che dal cruccio dell'animo: e
girava intorno lo sguardo, e vedea scoramento; ripensava a Messina,
alla Sicilia, a Piero, e maggiori dispetti il dilaniavano. L'assalto
non rinnovò più mai; ma con forti posti occupò le uscite; pose i
mangani a scagliar contro le porte una tempesta di sassi[36]. Scese
anco il superbo a tentar la fede {171} d'Alaimo, senza comprendere che
da tanta altezza di virtù non si precipita al più schifo ed esecrando
vitupero della tradigione. Offrivagli occultamente: perdonata ogni
colpa a Messina, fuorchè a sei de' più facinorosi; a lui diecimila
once d'oro, rendita di annue once dugento, onori e dignità a suo
grado: mandavagli pergamena bianca col suggello reale: Alaimo
scrivesse. E Alaimo, fattagli fiera risposta, tornava ad esortare i
cittadini; tornava a provveder le difese: e a rallegrar la plebe
afflitta dallo stretto blocco, apriva i granai occultati da
antiveggenza nei primi tempi. Del resto non si patì penuria;
sovvenendo anco la pescagione, sì abbondante che Bartolomeo de
Neocastro l'appone a miracolo[37]. Messina vincitrice rideasi ormai
dell'assedio, quando l'avvenimento di Pier d'Aragona l'accelerò a
lietissima fine.

NOTE
[1] Gio. Villani, lib. 7, cap. 61, 62. Queste son le parole, ch'egli
mette in bocca a re Carlo.
Cron. della cospirazione di Procida, loc. cit. pag. 265.
Giach. Malespini, cap. 210.
[2] Bart. de Neocastro, cap. 31.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 5.
[3] Docum. VI. La rivelazione di Messina era accaduta il 28 aprile;
il 9 maggio Carlo scrisse questa lettera a Filippo l'Ardito.
Abbiamo nella citata raccolta di Rymer, tom. I, part. 2, pag. 204,
l'avviso che Ferrante di Castiglia dava a re Eduardo d'Inghilterra
il 26 maggio della rivoluzione di Sicilia, ma senza
particolareggiare i fatti.
[4] Saba Malaspina, cont., pag. 361.
Gio. Villani, Giachetto Malespini, e Cron. della cospirazione di
Procida, ne' luoghi citati di sopra.
[5] Bolla in Raynald, Ann. ecc. 1282, §§. dal 13 al 18.
[6] _Ave rex Judeorum, et dabant ei alapam; ave rex Judeorum, et
dabant ei alapam._ Gio. Villani, lib. 7, cap. 63.
[7] Docum. VII.
[8] Saba Malaspina, cont., pag. 361, Villani, Giachetto Malespini, e
la Cron. della cospirazione nei luoghi citati.
[9] Raynald, Ann. ecc. 1282, §. 20.
La bolla è data d'Orvieto a 4 giugno 1282.
[10] Capitoli del regno di Napoli, 10 giugno 1282. _Post
corruptionis amara discrimina_, pag. 26 e seg.
[11] Saba Malaspina, cont., pag. 367.
[12] Gio. Villani, lib. 7, cap. 64, 65.
Paolino di Pietro, in Muratori, R. I. S., tom. XXVI, pag. 88.
Anon. chron. sic., cap. 39.
Saba Malaspina, cont., pag. 367, 368, 381.
Geste de' conti di Barcellona, cap. 28, loc. cit.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 5.
Cron. della cospirazione di Procida, loc. cit., pag. 270.
Montaner, cap. 43.
Bart. de Neocastro, cap. 32.
D'Esclot, cap. 82.
Annali di Genova, in Muratori, R. I. S., tom. VI, pag. 576.
Diversamente essi riferiscono il numero dell'oste. Barlolomeo de
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