La guerra del Vespro Siciliano vol. 1 - 11

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e i Palermitani; sol nemici i tiranni: quelle armi contro i tiranni
volgessero.» E inalberavan su i muri a canto all'aquila palermitana,
lo stendal della croce di Messina[34].
E la città di Messina, o que' ne teneano il municipal governo, a
dimostrazione di lealtà, il dì quindici aprile mandavano cinquecento
lor balestrieri capitanati da un cavalier Chiriolo messinese, a munir
Taormina, che non l'occupassero i sollevati[35]. Il popolo al
contrario, sentendosi bollire il sicilian sangue nelle vene,
com'incalzavan gli avvisi del tumulto di Palermo, e degli altri, e
dello eromper de' sollevati per l'isola, delle stragi, delle fughe,
de' mille casi accresciuti o composti dalla fama; e come i Francesi
vedea pavidi e ignudi riparar anelando in Messina, cominciò a
digrignar contro i soldati d'Erberto[36], ch'erano un grosso di
secento cavalli tra francesi e calabresi, condotti da Pier di
Catanzaro; e pareano al vicario sì duro freno che il popolo non sel
trarrebbe giammai[37]. Onde il popolo che ciò sapea, una volta
proruppe in ferocissime parole, che per poco si rimase da' fatti: e
quei vedendosi mal sicuri in città, parte si ritraeano nel castel di
Matagrifone, parte nel real palagio presso Erberto, il quale in mal
punto volle far mostra di gagliardo; con che {131} il popol dubbio si
doma, il risoluto s'affretta. Perchè mandati novanta cavalli con
Micheletto Gatta ad occupare le fortezze di Taormina, quasi non
fidandosi de' Messinesi del presidio, costoro che li vedean salire sì
alteramente in ostile sembianza, stimolati da un cittadino per nome
Bartolomeo, li salutarono con un grido di ingiuria e una grandine di
saette; e appiccarono la zuffa. Caddervi quaranta Francesi: gli altri
a briglia sciolta si rifuggiro nel castello di Scaletta: e i nostri,
abbattute le insegne di Carlo, su Messina marciarono a sforzarnela a
ribellione.
Dove tra' mille che voleano e non osavano, Bartolomeo Maniscalco
popolano, con altri molti congiurò a dar principio ai fatti. Intanto
preparandosi le armi a respingere i sollevati di Taormina, deploravano
i cittadini più posati la imminente effusione del civil sangue; il
popolo stava a guinzaglio[38]; nè erano neghittosi i cospiratori.
Forse allor fu, ch'entrata in porto una galea palermitana, dandosi a
trucidar alcuni Francesi, affrettava l'evento[39]: ma raro avviene in
così fatti incendi scerner netto qual fosse la prima scintilla. Era il
ventotto aprile. Scoppian tra la commossa plebe le grida «Morte ai
Francesi, morte a chi li vuole!» e incominciano gli ammazzamenti:
pochi allora, perchè il minacciar sì lungo avea sgombrato dalla città
la più parte de' Francesi. Maniscalco in questo coi suoi fidati,
innalza in luogo dell'abborrita insegna d'Angiò la croce messinese:
per poco ei capo del popolo; ma fosse modestia sua, o forza de'
cittadini maggiori che prevalson sempre nell'industre Messina, per
loro consiglio la notte stessa risegna il reggimento al nobil uomo
Baldovin Mussone, poche ore innanzi tornato con Matteo e Baldovin de
Riso dalla {132} corte di Carlo. La dimane poi ragunato in buona forma
il consiglio della città, Mussone fa salutato a pien popolo capitano:
e invocando il nome santo di Cristo, si bandì la repubblica sotto la
protezion della Chiesa: con grandissima pompa fu spiegato il gonfalone
della città. Eletti insieme a consiglieri del nuovo reggimento, i
giudici Rinaldo de' Limogi, Niccoloso Saporito, l'istorico Bartolomeo
de Neocastro, e Pietro Ansalone; e gli officiali tutti, financo i
carnefici, quasi a mostrare che la spada della giustizia sottentrasse
a disordinata violenza; ma troppo presto era ciò per tanto
rivolgimento. Richiamaronsi il dì trenta aprile le galee da Palermo;
inviaronsi in vece messaggi di amistà e federazione[40].
Erberto, non più sicuro nella sua rocca, all'intendere que' casi
ripigliò il vecchio ordegno delle divisioni, senza migliore fortuna.
Della famiglia Riso[41], che s'era con lui {133} serrata per coscienza
di colpe, spacciò Matteo a tentare il Mussone. Al quale venuto Matteo,
dinanzi gli altri consiglieri {134} ammonivalo con le parole d'una
torta politica: ripensasse alla smisurata possanza del re: questo
pazzo tumulto rapire a Messina il premio che già se le apparecchiava
per la ribellione palermitana: che gli erano i Palermitani ch'avesse a
insanir con loro? in che re Carlo avea offeso lui o la città? «Tu,
diceagli, poc'anzi leale al re, a noi amico, e nel viaggio compagno,
tu quest'odio covavi nel cuore! E or, non che trattenere il popol da
tanta ruina, furibondo lo sproni! Per te, per la patria ormai fa
senno; tempo ancor n'è[42].» Ma sdegnoso gli die' in sulla voce
Baldovino, meglio intendendo l'onore e gl'interessi della città, che
quei medesimi della Sicilia erano; nè i consiglieri e' cittadini
dubbiarono tra il far Messina meretrice dello straniero, o libera
sorella delle altre siciliane città. Rigettati però que' volgari
inganni, Baldovino solennemente innanzi al Riso rinnovava il
giuramento di mantenere la siciliana libertà o morire; ed esortollo a
seguir egli stesso la santa causa: conchiuse, tornasse ad Erberto a
offrir salva la vita a lui e ai soldati, se lasciato armi e cavalli e
tutt'arnese, dritto ad Acquamorta navigassero, promettendo non toccar
terra di Sicilia, nè altra vicina. I quali patti assentì il vicario; e
li infranse appena con due navi ebbe valicato mezzo lo stretto; che in
Calabria tutto pien d'ostili disegni approdò, a congiungersi[43] con
{135} Pier di Catanzaro; il quale avvisato di quanto s'ordiva, s'era
già prima imbarcato co' suoi Calabresi, abbandonando sì cavalli e
bagaglio all'ira del popolo[44].
Alle condizioni medesime del vicario s'arreser poi con tutte lor genti
Teobaldo de Messi, castellan della rocca di Matagrifone, e Micheletto
co' rifuggiti a Scaletta: de' quali il castellano, imbarcato sur una
terida, più volte dal porto fe' vela, e i venti o il suo fato vel
risospinsero; l'altro nel castello fu rinchiuso, e i soldati suoi nel
palagio della città, a sottrarli al furor della moltitudine. Nè
campavan essi perciò. Ritornavano il dì sette maggio le galee da
Palermo, portando prigioni due di quelle d'Amalfi state lor compagne,
e gli animi o dallo esempio accesi, o esacerbati dal dispetto della
snaturata e inutil fazione contro Siciliani: onde a sfogarli chiedeano
sangue francese. I cittadini rinnaspriva intanto la rotta fede
d'Erberto. Perilchè, come la galea di Natale Pancia, entrando in
porto, rasentò la terida del castellano, fattole cenno di terra, salta
la ciurma su quella nave, afferra e lega i prigioni, e li scaglia a
perir miseramente in mare. A tal esempio ridesto subitamente il furore
in città, corresi al palagio; i soldati presi a Scaletta popolarmente
son trucidati. A stormo suonavano le campane; i radi partigiani de'
Francesi tremando rannicchiavansi; armato e insanguinato il popol
calava a torrenti. Al suo furore non fecero argine i maggiori della
città: chè anzi, scrive il Neocastro partecipe al certo de' consigli,
presero a camminare più franchi nelle vie della rivoluzione, vedendovi
sì intinta e ingaggiata la moltitudine[45]. {136}
Per tal modo entro il mese di aprile[46], cominciata in Palermo con
disperato coraggio, comunicata a tutta l'isola con attività e
consiglio, si fornì in Messina questa memoranda rivoluzione, che
dall'ora del primo scoppio s'addimandò il vespro siciliano. Vi fur
morti, dice il Villani[47], da quattro mila Francesi; e, qualunque sia
stato il numero, che non abbiamo da più sicure fonti, certo vasta
corse e miseranda la strage, ma necessaria in quel tempo; onde a
ragione il popol nostro orgogliosamente serba infino ad oggi le
memorie di quell'antica feroce virtù. E ben gli scrittori d'Italia
contemporanei, disserla, chi maravigliosa e incredibile, chi opera
diabolica ovvero divina; quando non solamente franse il potere di re
Carlo, tenuto fino allora invincibile; ma nella stessa prima
conflagrazione, invano tentarono i governanti di ridur Palermo con le
undici galee, invano di fortificare o tener in fede {137} gli altri
luoghi più vicini a Messina: e non vi fu inespugnabil fortezza che non
cadesse sotto le mani de' liberatori, non città o terra che non li
seguisse. Ricorda pur la tradizione, e d'oggi in poi il proverà anche
un documento, come il castel di Sperlinga, capitanato da Pietro
Lamanno, solo in tutta l'isola facesse lunga difesa, per virtù del
presidio, e fede de' terrazzani; che passò poi in proverbio: «Ciò che
ai Siciliani piacque, Sperlinga sola negò;» e il popolo tuttavia punge
con tal motto chi discordi da un voler comune. Onde i soldati del
presidio e i terrazzani n'ebbero sorte diversa; e ciascun secondo suo
merto: i primi lodati e guiderdonati dal governo angioino[48]; i
secondi passati appo la nazione con ingrata memoria, per tal
pertinacia in un reo partito, che non merta dirsi costanza. Ma da
queste poche centinaia in fuori, è maravigliosa la unanimità di quegli
antichi nostri; tanto più, quanto eran prima, e furon appresso del
ricordato periodo, straziati da divisioni municipali, e tutte nel
vespro si tacquero; anzi Messina generosamente si die' al movimento
comune, non ostante che allora il vicario di re Carlo sedesse in
Messina, e che dopo il vespro Palermo ripigliasse l'influenza antica
nel governo dell'isola. Ma la unanimità nelle grandi masse agevol è
per uguaglianza di brame e forza di esempio. E per tal cagione i fatti
di Palermo con le medesime sembianze nacquero successivamente in ogni
luogo, e si ebbero i medesimi ordini, de' quali or faremo parola.
{138}
Il reggimento a comune sotto il nome della romana Chiesa, prendean,
come s'è narrato, tutte le città e terre[49], fors'anco le baronali,
di cui molte avean cacciato i feudatari francesi, tutte godeano il
privilegio di municipalità, secondo gli ordini pubblici de' tempi
normanni e svevi. Fatte dunque repubbliche, il popolo elesse, dove
uno, dove parecchi capitani, e vario numero di consiglieri; i quali
dapprima furono popolani, o nobili senza grandi vassallaggi, militi,
che è a dir cavalieri, scelti come ogni altro cittadino per propria
riputazione; e se alcun d'essi nascea d'illustre sangue, il poco avere
e l'ambizione il rendea popolano[50]. E ciò intervenne in un reame
stato due secoli feudale, perchè i baroni stranieri e nuovi, abborriti
per quegli aggravî ch'erano inusitati in Sicilia, caddero involti
nella medesima ruina del governo regio; i baroni antichi, pochi di
numero, battuti delle proscrizioni e dalla povertà, non eran forti
abbastanza. Per tali cagioni, e per l'impeto del movimento che nacque
dal popolo, par siano stati democratici al tutto quegli ordinamenti
repubblicani d'aprile milledugentottantadue. E in vero le
deliberazioni più importanti si presero dal popol convocato in
piazza[51]. Come le città libere d'Italia, le nostre si tenner l'una
dall'altra indipendenti; ma ammonite dal pericolo che ognun vedea
sovrastare, si strinsero in lega a mutua difesa e guarentigia[52]; se
per marche o province {139} o unitamente nell'isola tutta, non ben si
ritrae da' pochi diplomi avanzati infino a' nostri tempi, nè da'
cronisti, che dir delle leggi o non sapeano, o sdegnavano. Dubbio indi
è se per deliberazione della lega venissero sostituiti agli antichi
giustizieri, o se fossero stati eletti capitani di popolo da tutti i
comuni d'una o più province, que' che Saba Malaspina registra:
Alamanno[53], capitano in val di Noto e poi in tutta l'isola; Santoro
da Lentini, in val Demone e nel pian di Milazzo; Giovanni Foresta, in
quel di Lentini; Simone da Calafatimi nei monti {140} de' Lombardi; e
altri in altre regioni e città[54]: uomini ed ordini oggi oscuri,
perchè nulla operarono, o perchè poco durarono; sendo sopraggiunto a
capo di cinque mesi re Pietro, e prima prevalsa la fazione che, messa
giù la repubblica, chiamollo al trono. Nè sembra che questi, o altri
siano stati rivestiti della potestà che or chiameremmo esecutiva;
perchè niun vestigio di loro autorità abbiamo nelle carte pubbliche
nostre[55], o nelle fiere invettive della corte di Roma; ma in tutti i
ricordi del tempo si scorge che le città, soprattutto Palermo e
Messina, che vantaggiavano ogni altra di riputazione e di forza,
operassero come corpi politici, collegati con le altre e non
contaminati da discordia, ma independenti. I Palermitani infatti
mandavano oratori al papa a ragguagliarlo de' successi, e impetrare la
protezione della Chiesa[56]. I Messinesi più gradito messaggio
spacciarono all'imperador Paleologo, un Alafranco Cassano da Genova,
che per amor del popolo di Messina navigò tra gravi pericoli infino a
Costantinopoli[57]. Nelle altre parti del governo dello stato, da
sovrani operarono i magistrati del comune. Molti accordaron franchige:
e quel di Messina rendeva all'arcivescovo il castel di Calatabiano, e
{141} altri beni tenacemente negati dal fisco sotto la signoria di re
Carlo[58].
Del rimanente certissimo appare che gl'interessi comuni dell'isola si
maneggiassero per un'adunanza federale; la quale per l'antico uso si
chiamò parlamento, ma in altro modo che i soliti parlamenti si
compose; mancandovi il principe, e fors'anco i baroni: poichè nel
primo principio di questa repubblica, sol veggonsi legami tra
municipio e municipio, sol dicono gli storici di congregati sindichi
delle città, d'invito a tutte le terre ad entrare per sindichi nel
buono stato comune, e simili parole che suonano rappresentanza
cittadinesca e non baronale. E come i parlamenti regi, senza tempo nè
luogo certo, in quella età a comodo del re si adunavano; così questi,
secondo i bisogni della nazione, in Palermo o in Messina[59].
Sovrastando le armi di re Carlo, i parlamenti prendean opportune
deliberazioni: si fornisse di vittuaglia per due anni Messina: i
valenti arcieri e balestrieri de' monti rafforzasser quella città: con
uomini e navi si custodissero Catania, Agosta, Siracusa, importanti
città sulla costiera di levante; e su quella di settentrione, Milazzo,
Patti, Cefalù. Nascean tali appresti dall'uno irremovibil proposito di
non tollerar mai più il giogo francese, nel quale tutti accordavansi,
ancorchè nei mezzi si dissentisse; {142} quando chi pensava accostarsi
alla Chiesa più strettamente e ribadir gli ordini di repubblica, e chi
chiamare alcun principe straniero con giusti patti[60]. Ma senza
sangue, senza accanite fazioni ciò si trattava. Bello indi
l'immaginare questa siciliana famiglia, rinata a vita novella, che
senza gelosia, senza veleni d'interiore nimistà, fervea nell'opera
della comune difesa, strigneasi ne' consigli, adunava le forze, e
pacata deliberava ad ordinare più stabile reggimento. Sperandosi
durevole il presente, si pensò contar nuov'era dal gran fatto della
rivoluzione; talchè in parecchi diplomi leggiamo l'intitolazione: «Al
tempo del dominio della sacrosanta romana Chiesa e della felice
repubblica, l'anno primo[61].»
A Procida, alla congiura, come nel capitol dinanzi accennammo, davano
alcune cronache l'onore di questa nobil riscossa; e l'han seguito i
più, talchè istorie e tragedie e romanzi e ragionari d'altro non
suonano ormai. Io sì il credea, finchè addentrandomi nelle ricerche di
queste istorie, mi accorsi dell'errore. Degli autori primi d'esso,
pochi sono contemporanei, gli altri qual più qual meno posteriori,
tutti sospetti da studio di parte, e vizio manifesto in alcuni fatti.
Ma i contemporanei di testimonianza più grave, e italiani e stranieri,
alcuno de' quali candidissimo, segnalato tra tutti Saba Malaspina, che
fu pur marcio guelfo, e segretario di papa Martino, e informato meglio
che niun altro de' casi di Sicilia, dicono al più di vaghi {143}
disegni di Pietro; della cospirazione con Siciliani non fan motto;
molto manco de' congiurati raccolti in Palermo: e portan come
gl'insulti de' Francesi in quel dì, e più la «mala signoria che sempre
accora i popoli soggetti, mosser Palermo»; che è la sentenza del
sovrumano intelletto d'Italia[62], contemporaneo, veggente più che
altr'uomo, e rigorosamente verace. Nè le scomuniche e i processi dei
papi, nè gli atti diplomatici susseguenti contengon l'accusa della
congiura motrice immediata del vespro; ma biasman Pietro d'aver preso
il regno dalle mani de' ribelli, e averli sollecitato per messaggi
dopo la rivoluzione. Concorre con l'autorità istorica la evidenza
delle cagioni necessarie d'altri fatti che son certi: Pietro non
essere uscito di Spagna, nè pronto, allo scoppio della rivoluzione: in
questa nessuno scrittore far menzione del Procida: niuno de' maggiori
feudatari primeggiar ne' tumulti, o nei governi che ne nacquero: la
repubblica, non il regno di Pietro, gridarsi, e per cinque mesi
mantenersi: popolani tutti gli umori: Pietro passar dopo tre mesi, e
non in Sicilia, ma in Affrica: allora, stringendo i perigli, i baroni
impadronitisi dell'autorità chiamarlo alfine al regno. Da questi e da
tutti gli altri particolari, si scorge essere stata la rivoluzione del
vespro un movimento non preparato, e d'indole popolana, singolare
nelle monarchie dei secoli di mezzo. Se no; baroni che congiurano con
un re, e gridan repubblica; cospiratori che senza essere sforzati da
pericolo, danno il segno quando non hanno in punto le forze; fazione
che vince, e abbandona lo stato ad uomini d'un ordine inferiore,
sarebbero anomalie inesplicabili, contrarie alla natura umana, non
viste al mondo giammai. Le varie narrazioni degli istorici, e i
ricordi diplomatici leggonsi nell'appendice. A me par se ne raccolga:
che Pietro {144} macchinava: che i baroni indettati con esso aizzavano
forse il popolo, ma non si sentivano per anco forti abbastanza, e
bilanciando e maturando forse non avrian mai fatto ciò che la
moltitudine compì senza rifletterci. Il popol era mosso senza saperlo
dall'antagonismo nazionale; ma ben sapea i suoi mali, e che rimedio ce
n'era un solo. Gli aggravî per l'impresa di Grecia, gli oltraggi della
settimana innanzi pasqua in Palermo, l'intollerabile insulto di
Droetto colmaron, colmaron la misura: si trovò tra le tante migliaia
una mente o leggiera o profonda, con una mano risoluta, che cominciò.
Prontissimo il popol di Palermo di mano e d'ingegno, si lanciò in un
attimo a quell'esempio, perchè tutti voleano a un modo, da parer
congiura a mediocre conoscitore, che non pensi come sendo disposti gli
animi, ogni fortuito caso accende sì eguale, che trama od arte nol
può. Que' che si fecer capi del popolo allora preser lo stato;
ordinaronlo a comune, come portavano gli umor loro; per la riputazione
del successo il tennero, finchè la influenza de' baroni lentamente
spiegossi, e il pericolo si fe' maggiore. Allora la monarchia
ristoravasi; allora esaltavan re Pietro; allora, io dico, operava la
congiura, se v'ebbe congiura; nel vespro non mai. Al meraviglioso
avvenimento poi tutto il mondo cercò una cagione meravigliosa del
pari: dopo breve tempo, il fatto del vespro e quel della venuta di
Pietro si ravvicinarono e si confusero: scorsi alquanti più anni,
trapelava qualche pratica anteriore: alcuno forse l'accrebbe,
vantandosi. E nel reame di Napoli, e nell'Italia guelfa, e in Francia
con maggiore studio si propalò quella voce della congiura; parendo
gittar biasimo su i Siciliani, e scemarne al reggimento angioino. Così
via corrompendosi il fatto, si passò dalla congiura di Procida con tre
potentati, a quelle strane favole della uccisione di tutti i Francesi
in Sicilia in un dì, anzi in un'ora, della cospirazione di una intera
nazione per {145} molti anni; non che non vere, impossibili cose.
L'ignoranza, le difficili comunicazioni, la rarità delle cronache, gli
animi inchinati sempre più al meraviglioso che al vero, diffusero anco
l'errore; come nei tempi nostri, in condizioni materiali che son tutto
il contrario, avviene ancora. Gl'istorici successivi copiaronsi l'un
altro; molti riferirono, senza dar giudizio, le due opinioni della
congiura, e della sommossa spontanea. Tacendo qui gli altri, noterò
come Gibbon dubitò, e solo perchè fu ingannato da uno anacronismo;
Voltaire della congiura si rise. Non è baldanza dunque se affidato in
tutte queste ragioni e autorità, la espressata opinione io
sostengo[63].

NOTE
[1] Veggansi le liste de' castelli regi a p. 99 e seg.
[2] Parlandosi di tempi feudali questo non ha bisogno di prova.
Nondimeno ricorderò il castel di Calatamauro, alla cui distruzione
collegaronsi i Corleonesi e i Palermitani; e quel di Sperlinga,
ove i Francesi fecer testa: i quali erano fortissimi senza dubbio,
e pur non leggonsi nella lista dei castelli del re.
[3] Bart. de Neocastro, cap. 14.
[4] Anon. Chron. sic., cap. 38.
[5] È certo che in quell'anno la pasqua si celebrò a dì 29 marzo.
Giovanni Villani porta il fatto di Palermo il lunedì 30 marzo,
lib. 7, cap. 61; Bartolomeo de Neocastro similmente il 30 marzo,
capit. 14. Ma Niccolò Speciale, lib. 1, cap. 4, dice il 31; la
storia anonima della cospirazione di Procida, e Bernardo D'Esclot,
cap. 81, il martedì appresso la pasqua; e l'Anon. Chron. sic., l.
cit., p. 145, e gli Annali di Genova, Muratori R. I. S., tom. VI,
portano espressamente il 31 marzo, martedì appresso la pasqua. Ho
seguito dunque questa autorità.
[6] Allora apparteneva a un monastero di Cisterciensi.
[7] I contemporanei tacciono il nome di costei, e della famiglia.
Mugnos, scrittor del secento e favoloso, la disse figliuola di
Ruggier Mastrangelo. Perchè ei non cita autore alcuno de' tempi,
nè d'altronde si raccomanda per alcun lume di critica, nol citerò
nè in questo, nè in altro luogo della narrazione.
[8] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 4.
Bart. de Neocastro, cap. 14.
Saba Malaspina, cont., pag. 354.
Montaner, cap. 43.
D'Esclot, cap. 81.
Annali Genovesi, in Muratori, R. I. S. Tom. VI, pag. 576.
Giachetto Malespini, cap. 209.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 61.
Cron. anonima della cospirazione di Procida, loc. cit, pag. 264.
Nello Speciale si legge l'insulto del Francese altrimenti, e con
troppa chiarezza: _temerarius illam in.... titillavit_.
Veggansi ancora gli altri contemporanei citati nell'appendice.
[9] Bart. de Neocastro, cap. 14 e 15.
Saba Malaspina, cont., pag. 355.
Veggansi ancora Montaner e d'Esclot ne' luoghi citati.
Il palagio di Palermo era una importante fortezza, come si scorge
dal diploma del 6 agosto 1278, citato sopra a pag. 99, nota 2.
[10] Bart. de Neocastro, cap. 22.
La Cron. anonima della cospirazione dice tremila, a pag. 265.
[11] Bart. de Neocastro, cap. 15.
[12] Fazello, Istoria di Sicilia, deca 2, lib. 8, cap. 4.
Ai tempi del Fazello si mostravan di queste sepolture presso la
chiesa di San Cosmo e Damiano.
[13] Questa colonna restò lungo tempo in piazza Valguarnera; e oggi,
rimossa dal centro, si vede nell'angolo orientale dell'isolato del
convento di Sant'Anna la Misericordia. È assai rozza, nè gli
artisti la credono del secolo XIII. Ma ciò non dee
toglier fede alla tradizione; perchè la colonna potè essere
alzata, o rinnovata molto tempo appresso.
[14] Saba Malaspina, cont., pag. 355.
[15] Cron. anonima della cospirazione di Procida, loc. cit., pag.
264, ove leggesi: «_Andaru, a li lochi di frati minuri, e frati
predicaturi, e quanti ci ndi truvaru chi parlassiru cu la lingua
francisca li aucisiru 'ntra li clesii._» Ciò si riscontra con
la tradizione dell'uccider cui parlava con l'accento straniero.
[16] Saba Malaspina, cont., pag. 355 e 356.
Cron. anon., loc. cit., pag. 265.
Bart. de Neocastro, cap. 14.
Chron. S. Bert. in Martene e Durand, Anec., tom. III, pag. 762.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 61.
Ricobaldo Ferrarese, in Muratori, R. I. S., tom. IX, pag. 142.
Franc. Pipino, ibid., pag. 686.
Giachetto Malespini, cap. 209.
E gli altri citati nell'appendice.
[17] Bart. de Neocastro dice Mastrangelo capitano con parecchi
consiglieri. Questi furono, Pierotto da Caltagirone, Bartolotto de
Milite, notaio Luca di Guidalfo, Riccardo Fimetta milite, e
Giovanni di Lampo. I quali nomi e quei degli altri tre capitani di
popolo, si leggono nel diploma riportato, Docum. IV.
Questo diploma, inedito e poco o niente conosciuto, ci mostra
anche il principio della federazione tra le nascenti repubbliche
siciliane, e la forma del novello governo municipale di Palermo.
Il bajulo, negli ordini normanni e svevi, era il magistrato d'ogni
comune, con giurisdizion civile, e carico della riscossione delle
entrate regie, e di quella che in oggi si dice amministrazione
civile. Nell'esercizio della giurisdizione l'assisteano uno o più
giudici. Su le faccende più rilevanti, deliberavano talvolta i
cittadini adunati a consiglio. Nella rivoluzione, preso dal popolo
il poter politico, la parte esecutiva s'affidò a quegli stessi
capitani di popolo che l'imperator Federigo avea vietato tanto
severamente, e ad alcuni consiglieri. In fatti la proposta della
lega con Corleone è fatta a questi nuovi magistrati, stando
presenti soltanto il bajulo e i giudici; ma questi ultimi poi
nella stipolazione dell'atto federativo che contenea anche
reciprocità di franchige dalle tasse municipali, non restarono
spettatori oziosi, nè intervennero per la sola forma come il
notaio e i testimoni, ma insieme col capitano e i consiglieri, e
tutti a nome e per mandato del popolo, fermarono i patti, e
giuraronli. Anzi i loro nomi sono scritti immediatamente dopo que'
de' capitani e prima de' consiglieri. Donde è chiaro che
nell'affidarsi il novello potere a' nuovi magistrati, si lasciò
agli antichi il maneggio della parte amministrativa, perchè era
tempo da pensare ad altro che a riforme di questa natura.
Del capitan del popolo di Palermo dopo il vespro, d'Esclot non
dice il nome, ma che fu un cavaliere savio e valente. Saba
Malaspina nomina il Mastrangelo, che forse fu il principale, ed
ebbe tutta la riputazione. Montaner lo confonde con Alaimo da
Lentini.
[18] Bart. de Neocastro, cap. 14.
Anon. Chron. sic., pag. 147.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 4.
[19] Il castel di Vicari in fatto si legge tra le fortezze regie di
Sicilia nel citato diploma del 6 agosto 1278.
[20] Bart. de Neocastro, cap. 15; e con errori la Cron. anon. sic., a
pag. 264.
[21] Veggasi il diploma del 20 febbraio 1248, citato qui appresso,
cap. 13.
[22] Veggasi il documento IV. Corleone era città di molta importanza.
Oltre le tante memorie che ne dà l'istoria, non è superfluo notare
che addimandavasi di Corleone un antico ponte su l'Oreto, del
quale gli avanzi ritengono l'antico nome, e si veggono a mezzo
cammino a un di presso tra i novelli due ponti della Grazia e
delle Teste. Si ricordi che nella distribuzione di moneta del 1279
(Docum. III), Corleone fu tassata poco men che il terzo di
Palermo, e quasi al paro di Trapani. Questo rincalza la
testimonianza del Malaspina pe' 3,000 nomini che Corleone mandò in
oste pochi giorni dopo il vespro.
[23] Castello a dieci o dodici miglia da Corleone, tra i comuni di
Contessa e Santa Margherita; e or i contadini il chiamano
Calatamaviri. Se ne veggono le rovine sulla sommità di un poggio
di base triangolare, inaccessibile da due lati, aspro ed erto del
terzo, che sta a cavaliere alla strada tra quei due comuni, a
manca di chi dal primo vada al secondo. Due ordini di grosse mura
cingeano per tutta la larghezza quella sola costa accessibile del
monte; sorgea sulla cima una torre, della quale restan le
vestigia, e sì delle case sparse ne' due ricinti. Entro il secondo
v'ha una cisterna capace, ben costruita, e ben conservata. Da tai
ruderi si può anche argomentare la importanza di questa fortezza,
che tenea in molto sospetto i vicini.
[24] Saba Malaspina, cont., pag. 356.
[25] Bart. de Neocastro, cap. 18.
[26] Saba Malaspina, loc. cit.
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