La guerra del Vespro Siciliano vol. 1 - 10

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[54] Saba Malaspina, cont., pag. 342 a 345.
Montaner, cap. 44, 45, 46, 47.
[55] Ric. Malespini, cap. 208.
Cron. sic. della cospirazione di Procida, pag. 261.
[56] Saba Malaspina, cont., pag. 345.
[57] Saba Malaspina, cont., pag. 346.
Ric. Malespini, cap. 207, e gli altri contemporanei citati dal
Muratori, Ann. d'Italia, 1281.
[58] Saba Malaspina, lib. 6.
[59] Chron. Mon. S. Bertini, in Martene e Durand, Thes. Anecd., tom.
III, pag. 762.
Saba Malaspina, cont., pag. 349, 351.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 58.
[60] Surita, Annali d'Aragona, lib. 4, cap. 13 e 16.
[61] Cron. sic. della cospirazione di Procida, l. c., pag. 262.
Ric. Malespini, cap. 208.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 60.
Montaner, cap. 42, con qualche diversità. Al capitolo 49 porta
come data da Pietro al conte di Pallars quella risposta del mozzar
la mano sinistra se sapesse il segreto.
[62] Bart. de Neocastro, cap. 13.
[63] Raynald, Ann. ecc. 1281, §. 25, e 1282, §§. 5, 8, 9, 10, e nota
del Mansi al §. 13.
Tolomeo da Lucca, in Muratori, R. I. S., tom. XI, pag. 1186.
La scomunica del Paleologo si legge altresì nella cronaca di
Eberardo, pubblicata dal Canisio, antiche lezioni, tom. I, pag.
309.
[64] Gio. Villani, lib. 7, cap. 57.
Saba Malaspina, cont., pag. 350.
Il trattato di Carlo I con Venezia fu stipulato a 3 luglio 1281, e
si trova negli archivi di Francia, citato dal Buchon, Recherches
et matériaux pour servir à une histoire de la domination française
aux XIIIe, XIVe et XVe siècles, dans les provinces démembrées
de l'empire Grec. Première partie, p. 42.
[65] Saba Malaspina, cont., pag. 350.
[66] Gio. Villani, lib. 7, cap. 57.
Ric. Malespini, cap. 206.
Cron. sic. della cospirazione di Procida, pag. 251.
[67] Docum. VII.
[68] Saba Malaspina, cont., p. 352.
[69] Nangis, in Duchesne, Hist. fr. script., tom. V, pag. 357 e seg.
Muratori, Ann. d'Italia, 1282.
[70] Muratori, ibid.
[71] Saba Malaspina, cont., pag. 338, 339.
Le parole della profezia son queste: _Tempus adhuc videbit qui
vixerit, quod Scarabones ejicient de regno Gallicos et in
multitudine, etc._ Io ho creduto che _Scarabones_ suoni in
italiano masnadieri, saccardi, soldati irregolari; perchè questa
parola, che non si trova nel glossario del Du Cange, è identica a
_Scaranii_, _Scaramanni_, _Scamari_,
_Scarani_, _Scarafonus_, vocaboli che vengono dalla
radice _Scara_ (_acies_, _cuneus copiæ militares_),
o piuttosto da _Scara_, una delle angherie feudali, onde si
dicevano _Scaranii_, ec. i famigliari de' magistrati, i fanti
incaricati della riscossione di alcuni balzelli, e in generale gli
armigeri della più disordinata e spregevole maniera di milizia.
Indi l'italiano _scherani_.
[72] Diplomi dell'8 novembre 1280, 21 aprile e 27 giugno 1281 nel
catalogo delle pergamene del r. archivio di Napoli, tom. I, pag.
218, 222 e 227.
[73] Saba Malaspina, cont., pag. 350, 351.
[74] Ibid. pag. 355.
Anonymi Chr. sic., loc. cit., pag. 147.
Le leggi dell'imperator Federigo II, contro le eresie portano una
ventina di nomi diversi d'eretici; tra i quali v'hanno i paterini.
In un diploma suo dato di Padova il 22 febbraio duodecima ind. si
spiega così l'origine di quel nome di paterini: _Horum sectæ
veteribus vel ne in publicum prodeant non sunt notatæ nominibus,
vel quod est forte nefandius, non contentu, ut vel ab Arrio
Arriani, vel a Nestorio Nestoriani, aut a similibus similes
nuncupantur; sed in exemplum martyrum qui pro fide catholica
martiria subierunt, Patarenos se nominant, velut expositos
passioni_. In Luca Wadding, Ann. Minorum, tom. III, p. 340, §.
13.
[75] Dante Alighieri, De Vulgari Eloquio, lib. 1, cap. 12.
[76] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 3.
[77] Bart. de Neocastro, cap. 13.
Nic. Speciale, lib. 1, cap. 3.
[78] Nic. Speciale, lib. 1, cap. 2 e 4.
Epistola de' Siciliani a papa Martino, nell'Anonymi Chr. sic.,
cap. 40, l. c.
Bart. de Neocastro, cap. 13.
Docum. VII.
[79] Vita di Martino IV, in Muratori, R. I. S., T. III, pag. 609.
Mss. della vittoria di Carlo d'Angiò, in Duchesne, Hist. fr.
script., tom. V, pag. 851.
Cron. del Mon. di S. Bertino, in Martene e Durand, Thes. Anecd.
tom. III, pag. 762.
Francesco Pipino, Chron. lib. 4, cap. 29, in Muratori, R. I. S.,
tom. IX.


CAPITOLO VI.
Nuovi oltraggi de' Francesi in Palermo. Festa a Santo Spirito il dì 31
marzo: sommossa: eccidio feroce per la città. Gridasi la repubblica.
Sollevazione di altre terre. Adunanza in Palermo, e partiti gagliardi
che prende. Lettere de' Palermitani ai Messinesi, i quali seguon la
rivoluzione. Ordini pubblici con che si regge la Sicilia, e si prepara
alla difesa. Opinione sulla causa prossima di questa rivoluzione.--Marzo
a giugno 1282.

I Siciliani maledissero e sopportarono infino a primavera del
milledugentottantadue. Nè gli appresti di guerra in Ispagna si vedean
forniti; nè in Sicilia, se alcun era che li sapesse, potea aver luogo
a prossime speranze. Stavan sul collo al popolo gli smisurati
armamenti di re Carlo contro Costantinopoli: l'isola imbrigliavano da
quarantadue castelli regi, posti o in luoghi foltissimi, o nelle città
maggiori[1], e più numero che ne teneano i feudatari francesi[2]:
raccolti e in sull'arme gli stanziali: pronte a ragunarsi a ogni cenno
le milizie baronali, ch'erano in parte di suffeudatari stranieri. E in
tal condizione di cose, che i savi meditando e antiveggendo non
avrebbero eletto giammai ad un movimento, gli officiali di Carlo
prometteansi perpetua la pazienza, e continuavano a flagellare il
sicilian popolo.
La pasqua di resurrezione fu amarissima per nuovi oltraggi in Palermo;
capitale antica del regno, che gli stranieri odiarono sopra ogni altra
città, come più ingiuriata e {115} più forte. Sedeva in Messina
Erberto d'Orléans vicario del re nell'isola: il giustiziere di val di
Mazzara governava Palermo; ed era questi Giovanni di San Remigio,
ministro degno di Carlo. I suoi officiali, degni del giustiziere e del
principe, testè s'erano sciolti a nuova stretta di rapine e di
violenze[3]. Ma il popolo sopportava. E avvenne che cittadini di
Palermo, cercando conforto in Dio dalle mondane tribolazioni, entrati
in un tempio a pregare, nel tempio, nei dì sacri alla passione di
Cristo, tra i riti di penitenza e di pace, trovarono più crudeli
oltraggi. Gli scherani del fisco adocchian tra loro i debitori delle
tasse; strappanli a forza dal sacro luogo; ammanettati li traggono al
carcere, ingiuriosamente gridando in faccia all'accorrente
moltitudine: «Pagate, paterini, pagate.» E il popolo sopportava[4]. Il
martedì appresso la pasqua, cadde esso a dì trentuno marzo[5], una
festa si celebrò nella chiesa di Santo Spirito. Allora brutto
oltraggio a libertà fu principio; il popolo stancossi di sopportare.
Del memorabil evento or narreremo quanto gli storici più degni di fede
n'han tramandato.
A mezzo miglio dalle australi mura della città, sul ciglion del
burrone d'Oreto, è sacro al Divino Spirito un tempio[6]; del quale i
latini padri non lascerebber di notare, come il dì che sen gittava la
prima pietra, nel secol dodicesimo, per ecclisse oscuravasi il sole.
Dall'una banda {116} il dirupo e il fiume; dall'altra corre infino a
città la pianura, la quale in oggi ingombrasi per gran tratto di muri
e d'orti, e un chiuso, negro di cipressi, tutto scavato di tombe, e
sparso d'urne e di lapidi rinserra la chiesa con giusto spazio in
quadro; cimitero pubblico, che si costruì al cader del decimottavo
secolo, e la dira pestilenza del milleottocentotrentasette, esiziale a
Sicilia, in tre settimane orribilmente il colmò. Per questo allor
lieto campo, fiorito di primavera, il martedì a vespro, per uso e
religione, i cittadini alla chiesa traeano: ed eran frequenti le
brigate; andavano, alzavan le mense, sedeano a crocchi, intrecciavano
lor danze: fosse vizio o virtù di nostra natura, respiravan da' rei
travagli un istante, allorchè i famigliari del giustiziere apparvero,
e un ribrezzo strinse tutti gli animi. Con l'usato piglio veniano gli
stranieri a mantenere, dicean essi, la pace. A ciò mischiavansi nelle
brigate, entravano nelle danze, abbordavan dimesticamente le donne: e
qui una stretta di mano; e qui trapassi altri di licenza; alle più
lontane, parole e disdicevoli gesti. Onde chi pacatamente ammonilli se
n'andasser con Dio senza far villania alle donne, e chi brontolò; ma i
rissosi giovani alzaron la voce sì fieri, che i sergenti dicean tra
loro: «Armati son questi paterini ribaldi, ch'osan rispondere»; e però
rimbeccarono ai nostri più atroci ingiurie; vollero per dispetto
frugarli indosso se portasser arme; altri diede con bastoni o nerbi ad
alcun cittadino. Già d'ambo i lati battean forte i cuori. In questo
una giovane di rara bellezza, di nobil portamento e modesto[7], con lo
sposo, coi congiunti avviavasi al tempio. Droetto francese, per onta
{117} o licenza, a lei si fa come a richiedere d'armi nascose; e le dà
di piglio; le cerca il petto. Svenuta cadde in braccio allo sposo; lo
sposo, soffocato di rabbia: «Oh muoiano, urlò, muoiano una volta
questi Francesi!» Ed ecco dalla folla che già traea, s'avventa un
giovane; afferra Droetto; il disarma; il trafigge; ei medesimo forse
cade ucciso al momento, restando ignoto il suo nome, e l'essere, e se
amor dell'ingiuriata donna, impeto di nobil animo, o altissimo
pensiero il movessero a dar via così al riscatto. I forti esempi, più
che ragione o parola, i popoli infiammano. Si destaron quegli schiavi
del lungo servaggio: «Muoiano, muoiano i Francesi!» gridarono; e 'l
grido, come voce di Dio, dicon le istorie de' tempi, eccheggiò, per
tutta la campagna, penetrò tutti i cuori. Cadono su Droetto vittime
dell'una e dell'altra gente: e la moltitudine si scompiglia, si
spande, si serra; i nostri con sassi, bastoni, e coltelli
disperatamente abbaruffavansi con gli armati da capo a piè;
cercavanli; incalzavanli; e seguiano orribili casi tra gli apparecchi
festivi, e le rovesciate mense macchiate di sangue. La forza del
popolo spiegossi, e soperchiò. Breve indi la zuffa; grossa la strage
de' nostri: ma eran dugento i Francesi, e ne cadder dugento[8].
Alla quieta città corrono i sollevati, sanguinosi, ansanti, squassando
le rapite armi, gridando l'onta e la vendetta: {118} «Morte ai
Francesi!» e qual ne trovano va a fil di spada. La vista, la parola,
l'arcano linguaggio delle passioni, sommossero in un istante il popol
tutto. Nel bollor del tumulto fecero, o si fece dassè condottiero,
Ruggier Mastrangelo, nobil uomo: e il popolo ingrossava; spartito a
stuoli, stormeggiava per le contrade, spezzava porte, frugava ogni
angolo, ogni latebra: «Morte ai Francesi!» e percuotonli, e
squarcianli; e chi non arriva a ferire, schiamazza ed applaude. S'era
il giustiziere a tal subito romore chiuso nel forte palagio: e in un
momento, chiamandolo a morte, una rabbiosa moltitudine circonda il
palagio; abbatte i ripari; infellonita irrompe: ma il giustiziere le
sfuggì, che ferito in volto, tra le cadenti tenebre e 'l trambusto,
inosservato montando a cavallo con due famigliari soli, rapidissimo
s'involò. Intanto per ogni luogo infuriava la strage; nè posò per la
notte soppraggiunta; e rincrudì la dimane; e l'ultrice rabbia non pure
si spense, ma il sangue nemico fu che mancolle[9]. Duemila Francesi
furono morti in quel primo scoppio[10]. Negossi ai lor cadaveri la
sepoltura de' battezzati[11]; ma poi si scavò qualche carnaio ai
miserandi avanzi[12]; e la tradizione ci addita la colonna sormontata
di ferrea croce[13], che pose in un di quei luoghi la pietà cristiana,
forse assai dopo il tempo della {119} vendetta. Narra la tradizione
ancora, che il suon d'una voce fu la dura prova onde scerneansi in
quel macello i Francesi, come lo _shibbolet_ tra le ebree tribù; e che
se avveniasi nel popolo uom sospetto o mal noto, sforzavamo col ferro
alla gola a profferir _ciciri_, e al sibilo dell'accento straniero
spacciavanlo. Immemori di sè medesimi, e come percossi dal fato gli
animosi guerrieri di Francia non fuggiano, non adunavansi, non
combatteano; snudate le spade, porgeanle agli assalitori, ciascuno a
gara chiedendo: «Me, me primo uccidete»; sì che d'un gregario solo si
narra, che ascoso sotto un assito, e snidato coi brandi, deliberato a
non morir senza vendetta, con atroce grido si scagliasse tra la turba
de' nostri disperatamente, e tre n'uccidesse pria di cader egli
trafitto[14]. Nei conventi dei minori e dei predicatori irruppero i
sollevati; quanti frati conobber francesi trucidarono[15]. Gli altari
non furono asilo: prego o pianto non valse; non a vecchi si perdonò,
non a bambini, nè a donne. I vendicatori spietati dello spietato
eccidio d'Agosta, gridavano che spegnerebber tutta semenza francese in
Sicilia; e la promessa orrendamente scioglieano scannando i lattanti
su i petti alle madri, e le madri da poi, e non risparmiando le
incinte: ma alle siciliane gravide di Francesi, con atroce misura di
supplizio, spararono il corpo, e scerparonne, e sfracellaron
miseramente a' sassi il frutto di quel mescolamento di sangui
d'oppressori e d'oppressi[16]. Questa carnificina di tutti gli uomini
d'una {120} favella, questi esecrabili atti di crudeltà, fean
registrare il vespro siciliano tra i più strepitosi misfatti di
popolo: che vasto è il volume, e tutte le nazioni scrisservi
orribilità della medesima stampa e peggiori; le nazioni or più civili,
e nei tempi di gentilezza, e non solo vendicandosi in libertà, non
solo contro stranieri tiranni, ma per insanir di setta religiosa o
civile, ma ne' concittadini, ma ne' fratelli, ma in moltitudine tanta
d'innocenti, che spegneano quasi popoli interi. Ond'io non vergogno,
no di mia gente alla rimembranza del vespro, ma la dura necessità
piango che avea spinto la Sicilia agli estremi; insanguinata coi
supplizi, consunta dalla fame, calpestata e ingiuriata nelle cose più
care; e sì piango la natura di quest'uom ragionante e plasmato a
somiglianza di Dio, che d'ogni altrui comodo ha sete ardentissima, che
d'ogni altrui passione è tiranno, pronto ai torti, rabido alla
vendetta, sciolto in ciò d'ogni freno quando trova alcuna sembianza di
virtù che lo scolpi; sì come avviene in ogni parteggiare, di famiglia,
d'amistà, d'ordine, di nazione, d'opinion civile o religiosa.
La ferocità del vespro, togliendo ai mezzani partiti ogni via, fu pur
salute a Sicilia. Quella insanguinata notte medesima del trentuno
marzo, tra la superbia della vendetta, e lo spavento del proprio
audacissimo fatto, il popolo di Palermo adunato a parlamento si
slancia di lunga più innanti: disdice il nome regio per sempre:
statuisce di reggersi a comune, sotto la protezion della romana
Chiesa. Alla quale deliberazione il mosse quel mortalissim'odio {121}
contro re Carlo e suoi governi; e la rimembranza del duro fren degli
Svevi; e per lo contrario quella sì gradita della libertà del
cinquantaquattro; e l'esempio delle toscane e lombarde repubbliche; e
il rigoglio di possente cittade, che infranto da sè stessa il giogo,
nella propria virtù s'affida. Il nome della Chiesa s'aggiunse a
disarmar l'ira papale, o piuttosto a tentar l'ambizione, o ad onestar
la ribellione sotto specie che scacciando il pessimo signore
immediato, non si violasse lealtà al sovrano onde quegli teneva il
regno. Ruggier Mastrangelo, Arrigo Barresi, Niccoloso d'Ortoleva
cavalieri, e Niccolò di Ebdemonia, furono gridati capitani del popolo,
con cinque consiglieri[17]. Al {122} baglior delle faci, sul terreno
insanguinato, tra una romoreggiante calca d'armati, con la sublime
pompa del tumulto s'inaugurò il repubblican magistrato; e i suonatori
dìer nelle trombe e nei moreschi taballi; e migliaia di voci
gioiosamente gridarono «Buono stato e libertà!» L'antico vessillo
della città, l'aquila d'oro in campo rosso, a nuova gloria fu
spiegato; e ad ossequio della Chiesa v'inquartaron le chiavi[18].
A mezza notte Giovanni di San Remigio si restò dalla rapida fuga a
Vicari[19], castello a trenta miglia dalla capitale; dove a fretta e
furia picchiando, la gente del presidio avvinazzata nelle medesime
feste che avean partorito tanta strage in Palermo, a stento
riconobbelo; e ammettendolo, stralunava a veder il giustiziere fuor di
lena, insanguinato, senza stuolo, a tal'ora venirne. Tacque allor
Giovanni: la mattina a dì appellava alle armi i Francesi tutti de'
contorni, agguerrita gente, e vera milizia feudale; e, rotto il
silenzio, confortavali a scansare e vendicar forse il fato dei lor
compagni. Ed ecco l'oste di Palermo, che a cercar del fuggente s'era
mossa co' primi albori, entrata sulla traccia, a gran passo a Vicari
giugne. Accerchiò confusamente la terra: bruciava di slanciarsi, e non
sapea veder modo all'assalto: perciò diessi a minacciare, e intimar la
resa; profferendo salve le persone, e che Giovanni e sua gente, poste
giù le armi potessero imbarcasi per Acquamorta di Provenza. Essi
sdegnando tai patti, e spregiando l'assaltante bordaglia, fanno impeto
in una sortita. E al primo {123} l'arte soldatesca vincea; e
sparpagliavansi i nostri: se non che entrò nella battaglia una potenza
maggiore dell'arte, il furor del vespro, rinfiammatosi a un tratto
nelle sparse turbe, che arrestansi, guardansi in viso: «Morte ai
Francesi, morte ai Francesi!» e affrontatili con urto irresistibile,
rincacciano nella rocca laceri e sgarati i vecchi guerrieri. Vana
prova indi fu de' Francesi a riparlar d'accordo. Sconoscendo tutta
ragion di guerra, i giovani arcadori di Caccamo saettarono il
giustiziere affacciatosi dalle mura; e lui caduto, avventossi la gente
tutta all'assalto; occuparon la fortezza; trucidarono tutti i soldati;
i cadaveri gittarono in pezzi ai cani e agli avvoltoi. Tornossi l'oste
in Palermo[20].
Intanto volando strepitosa la fama di terra in terra, fu prima in que'
contorni Corleone a levarsi, come principale di popolazione e
importanza, e anco per cagion de' molti lombardi nimici al nome
angioino e guelfo[21], e degli insoffribili aggravî che le avea
portato la vicinanza de' poderi del re. Questa città, soprannominata
poi l'animosa, gittandosi certo con grande animo appresso alla
capitale, mandavale oratori Guglielmo Basso, Guglielmo Corto, e
Guigliono de Miraldo, ad offrir patti di unione, fedeltà e fratellanza
tra le due cittadi; scambievole aiuto con arme, persone, e danaro;
reciprocità de' privilegi di cittadinanza, e della franchigia di tutte
gravezze poste su i non cittadini. Ignoriamo or noi se venne da'
reggitori repubblicani di Palermo o dai patriotti di Corleone il
pensiero della lega, ma a chiunque si debba, esso per certo dà a veder
preponderante in que' primi principî l'elemento municipale, e
sostituito alla connessione feudale il legame federale {124} de'
comuni, che fu il vessillo sotto il quale la rivoluzione del vespro
occupò tutta l'isola. Convocato il popol di Palermo, assente a una
voce que' patti; e per suo comando, i capitani e 'l consiglio della
città giuranti sul vangelo co' legati di Corleone a dì tre aprile, e
stendonsi in forma d'atto pubblico[22]; promettendo anco Palermo
aiutar l'amica città alla distruzione del fortissimo castel di
Calatamauro[23]. Intanto un Bonifazio eletto capitan del popolo di
Corleone, con tremila uomini uscì a battere il paese d'intorno: dove
fur messi a ruba e a distruzione i poderi del re; domati all'uopo
della siciliana rivoluzione gli armenti che si nudriano con tanta cura
per l'esercito d'Oriente; espugnate le castella dei Francesi;
saccheggiate le case; e tanto spietata corse la strage, che al dir di
Saba Malaspina, parea ch'ogni uomo avesse a vendicar la morte d'un
padre, d'un fratello o d'un figlio; o fermamente credesse far cosa
grata a Dio a scannare un Francese[24]. Così {125} propagavasi in
pochissimi dì il movimento per molte miglia all'intorno, da medesimità
di umori, prepotenza d'esempio, e vigor de' sollevati. Ebbe pure in
parecchi luoghi una sembianza, che inesplicabile sarebbe a chi volesse
non ostante il detto di sopra trovar ordimento e cospirazione in
codesti tumulti. Perchè le popolazioni di gran volontà mettevano al
taglio della spada gli stranieri, ma dubbiavan poi a disdire il nome
di re Carlo[25]. Per altro pochi giorni tentennarono, che le rapì
quell'una comun passione, e la forza dei ribelli: onde a mano a mano
chiarironsi anch'esse, scelsero i condottieri di loro forze a
combattere i Francesi, scelsero lor capitani di popolo; e questi alla
capitale inviarono, la cui riputazione le avea fatto sì audaci, e
tutte in essa or affidavansi e speravano[26].
Raccolto in Palermo questo nocciol primo dei rappresentanti della
nazione, ispirolli quel valor medesimo onde in una breve notte erasi
innalzato a grandezza di rivoluzione il tumulto palermitano.
Rincoravanli col brio dei maschi petti la plebe, mescolata de'
sollevati di tutte le altre terre, che discorrea la città raccontando
impetuosamente d'uno in uno i durati oltraggi e la vendetta, e alto
gridando: «Morte pria che servire a' Francesi.» Onde appena congregato
il parlamento de' sindichi della più parte di val di Mazzara,
assentiva il reggimento a repubblica sotto il nome della Chiesa,
«Evviva, romoreggiava il popolo interno, evviva! libertà e buono
stato;» e tutti ad osar tutto accendeansi, quando Ruggier Mastrangelo,
a rapirseli sì innanzi che potesser dominare gli eventi, risoluto
sorgeva ad orare in questa sentenza:
«Forti parole, terribili sagramenti ascolto, o cittadini, ma
all'operare niun pensa, come se questo sangue che si versò, compimento
fosse di vittoria, non provocazione a {126} lotta lunga, mortale! E
Carlo, il conoscete voi, e i manigoldi suoi mille, e vi trastullate a
dipingere insegne! Lì in terraferma le genti, le navi pronte alla
guerra di Grecia; lì brucian di vendetta i Francesi; entro pochi dì su
noi piomberanno. Trovin porti schiusi allo sbarco; trovin l'aiuto de'
nostri vizi; ed ecco che si spargono per la Sicilia; gl'incerti popoli
sforzano con l'arme; ingannanli co' nostri odî malnati; seduconli a
promesse; li strascinano a tutt'obbrobrio di servitù, e a impugnar
contro noi l'armi parricide. Libertà o morte or giuraste; e schiavitù
avrete, e non tutti avrete la morte: chè stanchi alfine i carnefici,
serbano a lor voglie il gregge de' vivi. Siciliani! ai tempi di
Corradino pensate. Sterminio ne sarà lo starci; l'oprare, gloria e
salvezza. Col nerbo di nostre forze, bastiamo a levar tutto infino a
Messina il paese; e Messina or no, non sarà dello straniero: comuni
abbiano legnaggio, e favella, e glorie passate, e ignominia presente,
e coscienza che la tirannide e la miseria delle divisioni son frutto.
Insanguinata la Sicilia tutta nelle vene degli stranieri; forte nel
cuor dei suoi figli, nell'asprezza de' monti, nella difesa de' mari,
chi fia che vi ponga pie' e non trovi aperta la fossa? Il Cristo che
bandìa libertà agli umani, ei che ispirovvi questo santo riscatto, ei
vi stende il braccio onnipossente se da uomini or voi vi aiutate.
Cittadini, capitani dei popoli, io penso che per messaggi si
richieggan tutte le altre terre di collegarsi con esso noi nel buono
stato comune: che con le armi, con la celerità, con l'ardire s'aiutino
i deboli, si rapiscano i dubbiosi, combattansi i protervi. A ciò
spartiti in tre schiere corriam l'isola tutta a una volta. Un
parlamento generale maturi i consigli poi, unisca le volontà, e
decreti gli ordini pubblici; chè Palermo, ne attesto Iddio, Palermo
non sogna dominio; ma la comun libertà cerca, e per sè l'onor solo de'
primi perigli.»
«E il popolo di Corleone, ripigliò Bonifazio, seguirà {127} le sorti
di questa generosa città, della Sicilia ornamento e presidio. Tremila
suoi prodi Corleone qui manda, a vincere o morir con voi. Sì, ma se
morir dovremo, cada insieme chiunque patteggi per lo straniero
nell'ora del sicilian riscatto. Ruggiero, animoso tu nella pugna,
savio tu nel consiglio, la parola di salvezza parlavi. Orsù tradisce
la patria chi tarda; prendiamo l'armi, ed andiamo.[27]»
«Andiamo andiamo!» risposegli tonante la voce del popolo[28]: e con
meravigliosa prestezza cavalcarono i corrieri, s'adunarono gli armati,
e in tre schiere spediti mossero. L'una a manca ver Cefalù, l'altra a
dritta su Calatafimi prese la via, la terza s'addentrò nel cuor
dell'isola per Castrogiovanni[29]: e le insegne spiegavano del comune,
con le chiavi della Chiesa dipinte intorno intorno; e la fama
precorreale, e il desio degli animi. Indi senza contrasto ogni terra
disdisse il nome di re Carlo; con una concordia bella, se non era anco
nello spargimento del sangue francese. A' Francesi dieron la caccia
per monti e selve; li oppugnarono ne' castelli; perseguitaronli in
cento guise, con tal rabbia che ai campati dalle mani dei nostri venne
in odio la vita, e dalle più munite rocche, dagli asili più riposti si
dier nelle mani del popolo che chiamavali a morte; taluno dall'alto di
una torre si lanciò. In qualche luogo per vero furono, per virtù loro
o fortuna, {128} scacciati soltanto, spogli sì d'ogni cosa; e
rifuggiansi questi a Messina[30]. Ma avrà eterna fama il caso di
Guglielmo Porcelet, feudatario o governatore di Calatafimi, stato
giusto ed umano tra lo iniquo sfrenamento de' suoi. Nell'ora della
vendetta e nei primi impeti, giunta a Calatafimi l'oste di Palermo,
non che perdonar la vita a Guglielmo e ai suoi, lo confortò e onorò
molto, e rimandollo in Provenza: il che mostri come il popolo degli
eccessi suoi n'ha ben d'onde[31].
A guadagnar Messina in questo mezzo ogni sforzo fu posto[32], non
essendo chi non vedesse l'importanza del sito, del porto, della grossa
e opulenta città; nella quale stava il nodo della guerra; e necessità
stringea di trarsela amica, o piombar tutti disperatamente su lei. Di
Messina temeasi per le ruggini antiche; ma se ne sperava per essersi
aperti gli animi nelle afflizioni recenti, ed anco per aver molti
Messinesi in Palermo soggiorno, e cittadinanza, e appicco di commerci
e parentele. Si die' opera alle pratiche dunque; che delle private e
più efficaci non è passata infino a noi la memoria; delle pubbliche ne
resta una lettera data di Palermo il tredici aprile, che fu spacciata
per messaggi, e incomincia: «Ai nobili cittadini dell'egregia Messina,
sotto re Faraone schiavi nella polve e nel fango, i Palermitani
salute, e riscossa dal servil giogo col braccio di libertà. E sorgi,
dice l'epistola, sorgi o figliuola di Sionne, ripiglia l'antica
fortezza.... abbian fine i lamenti che partoriscon dispregio; dà di
piglio alle armi tue, l'arco e la faretra; sciogli i vincoli dal tuo
collo;» e Carlo or va chiamando Nerone, lupo, lione, immane drago; e
or volta {129} alla città di Messina sclama: «Già Iddio ti dice: togli
in collo il tuo giaciglio e va, che sei sana,» or i cittadini esorta
«a pugnare con l'antico serpente, e rigenerati nella purezza de'
bambini, succhiare il latte di libertà, cercar giustizia, fuggire
calamità e vergogna[33].» Mentre i Palermitani con tai faville
bibliche tentavano que' cittadini, Erberto d'Orléans s'afforzava nelle
armi straniere, e nei nobili Messinesi di parte angioina, che s'eran
prevalsi in cento soprusi contro i lor concittadini, ond'ora
strettamente per lo vicario teneano. E dapprima inviò ad osteggiar
Palermo sette galee messinesi, sotto il comando di Riccardo Riso,
colui che nel sessantotto con poche navi aveva osato affrontar tutta
l'armata pisana, e or correa nella guerra civile a perder l'onore di
cittadino e il nome di prode. Perchè congiuntosi con quattro galee
d'Amalfi, che ubbidiano a Matteo del Giudice e Ruggier da Salerno, a
bloccare il porto di Palermo si pose: e com'altro non potea,
approcciato {130} alle mura facea gridare il nome di Carlo, e a'
nostri minacce e villanie. Ma rispondean essi nella mansuetudine dei
forti: «Nè le ingiurie renderebbero, nè i colpi: fratelli i Messinesi
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