La guerra del Vespro Siciliano vol. 1 - 08

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diplomi, e fatto uom di re Pietro, favoleggian costoro che venutogli
in mente il disegno di tor la Sicilia a re Carlo, da sè solo
cominciava a trattarlo con principi di fuori, e congiurati in casa. A
Costantinopoli si portò l'anno settantanove, com'uscito che cercasse
in quella corte asilo e stipendio; spacciandosi medico, ed uom di
stato, delle cose di Sicilia espertissimo. Trovò sì piana la via appo
il greco imperadore, che quegli in segreto luogo sopra una torre venne
ad abboccamento con esso: e quivi Procida il tentò con favellar degli
armamenti di Carlo a' danni suoi; a lui perduto d'animo e piangente
fe' balenare innanzi agli occhi una speranza. Onde Michele, che
l'imperio vedea sossopra, e Carlo sì intento e minaccioso a mala pena
trattenuto da papa Niccolò, avidamente abbracciava il partito di
turbargli i reami; e profferia centomila once d'oro: fermata
l'impresa, le porgerebbe. Si infinse allor Procida scacciato dalla
bizantina corte. Vestiti i panni di frate minore, furtivo in Sicilia
entrò, che per esser più oppressa, o più disposta per le città più
grosse, l'indole degli uomini, e la difesa dei mari, più opportuna gli
parve al gran colpo. Appena Procida a' noti suoi del sicilian
baronaggio disse di congiura, deliberati vi si tuffarono. Con lui
vengono a parlamento Gualtier da Caltagirone, Alaimo da Lentini,
Palmiere Abbate, ed altri valenti baroni: Procida accenna la via
d'uscire dall'insoffribil servaggio: rivela gli aiuti dell'imperatore
greco; i disegni sullo aragonese: ordina con loro che annodate tutte
{96} le fila, sollevin la Sicilia a ribellione: e richiedeli di
lettere credenziali, che della congiura re Pietro certificassero.
Avutele, sotto i panni stessi di frate, passa a corte di Roma.
Correa già l'anno milledugentottanta, e papa Niccolò a castel Soriano
soggiornava, quando un fraticello gli fe' chiedere occulta udienza; e
raccolto, incominciò ad avvolgersi in misteriosi parlari, toccando la
eccessiva potenza di Carlo, le ingiurie private al pontefice, le
condizioni d'Italia. Procida nominossi alfine: all'attonito pontefice
aperse quant'erasi ordito. Aggiungono, e par fola manifesta, ch'ei con
l'oro bizantino comperasse l'assentimento del papa; il quale sì
altamente ambiva, nè facea di mestieri corromperlo, perchè si volgesse
a' danni di Carlo[48]. Dicono, e la credo dello stesso conio,
ch'entrato nella congiura, Niccolò per segretissime lettere
confortasse l'Aragonese; e del siciliano reame investisselo. Ma
guadagnato il papa, sopraccorrea Giovanni in Catalogna; trovava re
Pietro lontano, così continuano quegli storici, da ogni speranza
dell'impresa; ed egli ne presentava il pensiero, esponea le trame
ordinate, mostrava i trattati e le lettere. Così svolse a' suoi
intenti il re d'Aragona. A ragguagliarne gli altri congiurati,
ripiglia il viaggio: sbarca a Pisa; rivede il pontefice a Viterbo; i
siciliani baroni a Trapani; quinci una galea veneziana sconosciuto il
reca a Negroponte; di lì a Costantinopoli. E vien ultimato col
Paleologo il trattato della guerra contro Carlo: a dar guarentigia più
salda, un altro se n'appicca di parentado tra le {97} corti di Grecia
e d'Aragona; il quale non si nasconde, ma serve di colore al Paleologo
per mandar legato un suo cavaliere, messer Accardo di Lombardia; cui
son affidate trentamila once d'oro delle promesse, che a Pietro le
rechi. Accardo e Procida insieme entrarono in nave.
In questo la morte di papa Niccolò fu per distrugger tutto l'ordito.
Per viaggio seppela Giovanni da una nave pisana, e a messer Accardo la
occultò. Approdarono a Malta, come s'era ordinato prima co' baroni
siciliani: in segreto luogo i cospiratori adunaronsi. Ed eran muti,
ansiosi, parlavan sommesso della perdita del congiurato pontefice; e
chi temporeggiar volea, chi lasciar ogni pensiero della ribellione,
quando Procida surse a rampognarli, a confortarli: fosse amico o
avverso il papa novello, ormai non mancherebbero le forze: Accardo, e
loro il mostrava, non venirne ozioso spettatore: qui il sussidio
bizantino; pronti in Aragona guerrieri e naviglio; e che temeano?
perchè con animi sì femminili entrare in congiure? Ma a loro, già
intinti sì profondamente, non gioverebbe lo starsi; risaprebbesi la
trama, e morrebber da cani. Con tai rimbrotti li rapì seco all'estrema
conclusione. Fu in Aragona da poi; rappresentò a Pietro l'ambasciatore
di Grecia, e l'oro; vinse i rinascenti timori del re. Gli armamenti
affrettaronsi allora; il dì fermossi e il modo che la Sicilia
sorgerebbe a vendetta[49].
Tale il racconto della congiura, che dicon si conducesse per due o tre
anni. I particolari nè niego, nè affermo io, perchè non ne ho
fondamenti; ma non mi sembran verosimili {98} al tutto. Che tra Pietro
e 'l Paleologo si maneggiasse un trattato per togliere a Carlo il
reame di Sicilia, il tengo io certo, per quel che disse e fece poi
contro ambidue papa Martino; e perchè Tolomeo da Lucca afferma aver
veduto l'accordo; essere stato trattato da Giovanni di Procida e
Benedetto Zaccaria da Genova, con altri Genovesi dimoranti in terra
del Paleologo; e aver questi fornito danari allo Aragonese[50]. Le
trame con alcuni baroni di Sicilia, non rafforzate di valida autorità
istorica, il replico, probabili mi sembrano, ma non certe. Falso è che
la pratica, si strettamente condotta, fosse a punto riuscita a produrre
lo scoppio del vespro; perchè questi compilatori della congiura ci
pongon fole da romanzo, e imbattonsi in cento errori manifesti; perchè
i successi discordan dalla supposta cagione; perchè gli scrittori più
autorevoli il tacciono, come nel capitol seguente diremo, e più
largamente nell'appendice. Vagliate tutte le memorie de' tempi tornano
a questo: che Piero agognava alla corona di Sicilia: che s'armava: che
praticò per aiuti di danaro con l'imperator di Costantinopoli,
minacciato da re Carlo; che Procida fu tra i suoi messaggi: che si
tramò forse con alcun barone siciliano: ma che maturavano e
preparavano tuttavia, quando il popolo in Sicilia proruppe. In questo
intendimento al fil della istoria io torno; il quale non si smarrisce
per la dubbiezza di quelle pratiche tenebrose, che nella rivoluzione
punto o poco operarono[51]. {99}
Riseppersi innanzi la morte di papa Niccolò gli appresti del re
d'Aragona. Era nei porti suoi e di Majorca una fervid'opra a
costruire, a spalmar galee e navi da trasporto; fabbricar armi; adunar
vittuaglie: scriveansi i marinai; si prometteano stipendi per un anno
a chi militar volesse a cavallo o a pie': talchè per quanto Piero si
studiasse a far chetamente, il romore s'udiva da lungi. Onde i Mori di
Spagna e d'Affrica, avvezzi a questi aragonesi assalti,
affortificavansi alla meglio; nè stavan senza sospetto i cristiani
principi: tra i quali Carlo assai per tempo avvisò aversi a guardare
sì in questi domini italiani, e sì in Provenza; oppressa al paro,
vicina alla Spagna, e dai Catalani osteggiata altre volte[52].
Apparecchiava Carlo in questa stagione la detta impresa di Soria; ma
non lasciò di munirsi in casa con forze navali, che guardasser le
costiere; e in Sicilia aumentò oltre il doppio le provvedigioni delle
regie fortezze[53]. Intanto bramoso d'investigar l'animo
dell'Aragonese, {100} a Filippo di Francia ei scrisse: e questi per
legati e lettere amichevolmente domandò a Pietro la cagion di tanto
{101} armamento; se contro infedeli, proffersegli aiuti d'uomini e
danari. S'avvolse allora in ambagi lo Spagnuolo: non accennare al re
di Francia per certo, nè a suoi collegati: a chi, vedrebbesi ai fatti:
ma prima, nol saprebbe persona al mondo: ch'ei s'armava senz'aiuti di
niuno, onde a niuno dovea spiacere il silenzio. Somiglianti risposte
ebber da lui il re di Majorca fratel suo, quel di Castiglia, quel
d'Inghilterra[54]. Invano il ritentò più vivo Filippo, con mandargli
anco moneta nel supposto dell'impresa contro i Mori[55]. Onde il re di
Sicilia incerto pur dello scopo, inviò in Provenza Carlo figliuol suo
principe di Salerno, in voce ad adunare armati per l'impresa
d'Oriente, in realtà per vegliar da vicino, e guardare il paese[56].
In questo momento la fortuna arrise a Carlo l'ultima volta. Tra que'
sospetti ch'egli avea di Pietro, ira contro il Paleologo, dispetto
della nimistà del papa, vide trapassare il papa d'agosto
milledugentottanta: e respirando, e non istando un attimo a
pensarsela, se alla morte di Gregorio avea tant'osato a governare il
conclave, or gittavasi ai più rotti partiti. Sommosse il popol di
Viterbo, sì che traea fuor dal conclave tre cardinali di casa Orsina.
Serrò il rimanente; tolse loro ogni cibo fuorchè pane e acqua[57]; e
{102} forse di furto, come in una elezione antecedente, recar fece
altre vivande ai cardinali francesi perchè stessero più forti a negare
il voto a quei di parte italiana[58]. Per queste arti, di febbraio
milledugentottantuno, Martino IV di nazione francese fu papa, o
ministro di Carlo. Congiunta dunque nel re la sua possanza, e la
smisurata del roman pastore, a grandi eventi si dava principio.
Divampò d'un subito in Italia la guelfa rabbia. Affidò il papa a
Francesi i governi tutti di Romagna; rifece Carlo senator di Roma; con
una crudele persecuzione de' Ghibellini servì a sue ambizioni[59].
Duro viso mostrava intanto a re Pietro. Come gli oratori di lui
veniano a complire per la esaltazione del papa, e sollecitavan la
canonizzazione di frate Ramondo da Pegnaforte, santo uomo spagnuolo,
gittando anco qualche parola su i dritti della Costanza al sicilian
reame, brusco replicava Martino: non isperasse il re d'Aragona mai
grazia alcuna dalla santa sede, se non pria soddisfattole il censo; il
quale la romana corte pretendea, interpretando per ligio omaggio la
pia peregrinazione d'un di quegli antichi principi a Roma[60]. Di lì a
poco, tentando nuov'arte, parve più dolce Martino. Mandò a Piero un
frate Jacopo dei predicatori, a richieder, tra autorevole e benigno,
contezza di quel sì occulto disegno; inibire ogni atto ostile contro
principi cristiani; contro infedeli profferire benedizioni e sussidi.
Ma chiuso, e pur non mendace, ringraziavalo Piero: pregasse il Cielo
per l'esito della guerra; lo scopo nol domandasse. «Tanto ho caro,
conchiudea, questo segreto, che se la mia manca il sapesse, con la
dritta la mozzerei.» All'ostinato silenzio crebber nella {103} parte
francese i sospetti. Ma poco vi stette sopra re Carlo, che teneasi
ormai secondo a Dio solo; onde sfogò con superbe parole: saper bene
falso e sleale questo Pietro; ma nascondesse il segreto a sua posta,
ei, Carlo d'Angiò, non curare sì picciol reame, nè principe sì
mendico[61].
E parendogli già sua la Grecia sospirata per dieci anni, smisurate
forze apparecchiava: bandìa la guerra; e la croce prendea, la croce
del ladrone, sclama Bartolomeo de Neocastro, non quella di Cristo[62].
L'afforzò il papa di scomuniche, e di danari; le prime contro il
Paleologo e i Greci indurati nello scisma; i danari presi dalle decime
ecclesiastiche, pretestandosi rivolte al racquisto di terrasanta le
pie armi del re[63]. Si collegaron con esso i Veneziani, per brama di
popol mercatante a tornar signore in quelle regioni sì commode a'
commerci: e forniano una flotta; e patteggiavano partizione de'
conquisti[64]. La Sicilia e la Puglia intanto s'empian di guerrieri:
suonavano di preparamenti di guerra. Immensi materiali raccolgonsi
nell'arsenal di Messina, e in altri porti dell'isola e di terraferma:
{104} sudano i valenti artigiani di Messina e Palermo a fabbricar arme
ed arnesi: scemansi a fornir la cavalleria gli armenti di val di
Mazzara; munizioni d'ogni sorta s'apprestano in ogni luogo[65]. Cento
galee di corso, dugento uscieri, che navi eran da trasporto, e teride,
e altri legni assai metteansi in punto. Capitanati da quaranta conti,
ben diecimila cavalli e un'oste innumerevole di fanti s'istruivano al
gran passaggio[66]. Debolmente potrebbe resistere il Paleologo;
sarebbe occupata Costantinopoli, la Morea, tutto l'impero; darrebbesi
corpo ai titoli regî d'Albania, di Gerusalemme. Non delirava Carlo, se
pensava a questo; e immaginava l'Italia spartita tra lui e il papa; e
vedea brillare nelle sue mani la spada di Belisario e lo scettro di
Giustiniano.
Ma l'Italia ch'era base a que' vasti disegni, già mancava a Carlo
d'Angiò. Dico di tutta l'Italia dal Lilibeo alle Alpi, perchè in tutta
veggo sparse uguali opinioni. L'amor patrio di municipio, che tanto
giovò, e tanto nocque alla Italia, per sua natura sdegnava le
dominazioni straniere; e tendeva a scacciarle, quando le avea messo su
l'interesse d'una fazione. I Guelfi stessi e i Ghibellini, mentre
nimicavano la nazione contraria a lor nome, non troppo si fidavano
dell'amica: e similmente la corte di Roma chiamava gli oltramontani
per signoreggiar l'Italia col mezzo loro, e non altro. Così tra il
tumulto di tante passioni di municipio, di parte, e del pontificato
stesso, parlava agli animi la segreta voce del sentimento nazionale
latino. La schiatta, il clima, le usanze, la postura de' luoghi, le
leggi di Roma, le lettere latine, le splendide tradizioni istoriche,
tutto destava questo pensiero; che non può sconoscersi {105}
nell'Italia del medio evo: ed era argomento ad alte speranze; perchè
gl'Italiani si sentian cuore quanto gli altri popoli, e civiltà assai
maggiore. I più vasti intelletti pertanto pensavano, che unite le
forze dell'Italia, si sarebbe non solo racquistata l'indipendenza, ma
fors'anco la gloria di Roma antica; e faceansi a sciorre il problema
in vari modi. Niccolò III divisava quattro reami italiani; Dante, poco
appresso, sospirava la ristorazione dell'impero romano sotto i re di
sangue germanico; Niccolò di Rienzo, non guari dopo, intraprese la
rigenerazione della repubblica in Campidoglio, e il Petrarca con
maschio canto esaltava l'impresa. Nè mancò nell'universale il
desiderio di quei grandi intelletti; che anzi s'era assai propagato a'
tempi della lega lombarda sotto il colore guelfo contro la schiatta
tedesca; e tutto si volse contro la francese, quando Carlo d'Angiò la
fece stanziare in Sicilia e Puglia, e in molte altre parti d'Italia, e
diè luogo al contrasto de' costumi, all'invidia dei privilegi, alla
insolenza degli uni, alla intolleranza degli altri, alla superbia
delle due genti venute a contatto. Cooperaronvi la resistenza misurata
di Gregorio X, la passione di Niccolò III, e per contraria ragione
l'ambizione di Carlo, la connivenza di papa Martino. S'accostava
questo novello sentimento agli umori di parte ghibellina, tendea
temporaneamente allo stesso scopo, ma in sè stesso era molto più
grande, più nobile, più puro. Esso rapì Dante a parte guelfa; esso
trovò un nome diverso dal ghibellino, come diversa era l'indole. Le
due genti con antichi vocaboli si chiamavano i Latini e i Gallici; ed
evocavano tutte le nimistà de' tempi di Brenno, anche quando avveniva
che si combattesse sotto una medesima bandiera guelfa, nelle relazioni
politiche di tanti piccioli stati.
Spicca negli scritti siciliani, si vede manifestamente ne' fatti di
quel tempo, il sentimento nazionale latino. Esso {106} fu che nel
primo assedio di Messina, nella tempesta dello assalto universale che
dava l'esercito angioino, misto d'oltramontani e di abitatori del
reame di Napoli e d'altre province italiane, consigliò ai Messinesi di
risparmiar nei tiri le schiere italiane, che certo combatteano con
uguale riguardo. Veggiamo indi Pier d'Aragona cogliere l'util politico
della carità latina, e liberare i prigioni di questa nazione. Veggiamo
i popoli in Calabria e in Puglia sforzarsi per tanti anni a seguire la
rivoluzione siciliana. Nè ricorderò le parole degli altri scrittori,
che sono noti, e si allegheran sovente in appresso; ma, quelle della
rimostranza de' Siciliani contro la prima bolla di papa Martino che li
ammonì a tornare sotto il giogo, sono sì opportune e significative,
che meritano special menzione. Perchè l'orgoglio del lignaggio
italiano anima e infoca tutta questa epistola, che s'indirizzava al
collegio de' cardinali quasi fosse il senato di Roma. Gl'improvera il
favore dato ai Francesi contro gl'Italiani; mette a riscontro
distesamente i costumi delle due nazioni; incolpa gli stranieri del
loro clima, della barbarie delle nazioni vicine; e di libidine,
d'avarizia, d'ebbrezza, di crapula, d'ogni torto che aveano, d'ogni
torto che non aveano. Si compiace al contrario a ricordare la doppia
nobiltà del lignaggio d'Italia, che allude all'etrusco e al troiano, o
al romano e al greco; a notar la prudenza, il contegno, la prontezza
degli intelletti, la serenità de' volti, e con aperto errore anche la
tolleranza degli animi italiani; chiama in aiuto Lucrezia, Virginio,
Scipione; motteggiando i Francesi perchè prendessero a imitare più
tosto le ispide genti del settentrione, che la civile moderazione e
libertà degl'Italiani; e mostrando che la sorte dà i regni, ma la
virtù li mantiene, e che più si guadagna con la saviezza che con la
forza. Questo scritto batte con una stessa sferza i governi angioini
di Sicilia, di Napoli, di Romagna; allude al vespro col {107} vanto
che gli stranieri non avesser dato il guasto impunemente alle campagne
d'Italia: sclama al papa con veemenza: «Sdegna, o padre, l'Italia,
sdegna le dominazioni straniere!» L'autore imbrattò questo nobil
pensiero con l'arroganza tutta e la ferocia de' Quiriti; com'ei
mescolò alla giusta difesa della rivoluzione, l'apologia di orrori che
dovea condannare; ma non men fortemente ciò prova che il sentimento
latino era sparso in Italia[67].
E che l'antagonismo di nazione fosse reciproco, e che fosse sentito in
tutta l'Italia, si vede, tra cento altri fatti, dalle parole di
Guglielmo l'Estendard, vicario di re Carlo in Roma; il quale, poco
innanzi l'ottantadue, ascoltando un nobile romano che si lagnava della
misera condizione della patria, non ebbe rossore a risponder preciso,
squarciando il velo della tirannide: non credesse al fine che spiaceva
al re veder consunto e dissipato quel popolo turbolento; Roma fatta
una bicocca[68]. In quel medesimo tempo una rissa accesa in Orvieto
tra Latini e Francesi, divenne tumulto; e vi si gridò morte ai
Francesi; e Ranieri capitano della città, portato dagli umori di
nazione più che da que' dell'uficio, negossi con un pretesto dal
racchetarla[69]. Non andò guari che in Forlì cadeano da due mila
Francesi, o per una frode di guerra, o per una meditata vendetta, che
non si sa bene, ma in ogni modo è manifesto l'odio più che di giusta
guerra che portò questa strage; e le favole stesse che l'attribuirono
a Guido Bonati astrologo e filosofo, mostrano in che bollore fosse
l'opinione pubblica[70]. S'era insinuato l'odio di nazione già da gran
tempo ne' penetrali della corte di Roma, tra il contegno e la senile
prudenza de' fratelli del sacro collegio; {108} che si divisero non in
Guelfi e Ghibellini, ma in Latini e Francesi; e lottavano nelle
elezioni de' pontefici; ed erano a tale innanti l'esaltazione di
Martino, che senza la scoperta forza di Carlo, qualche altro fier
latino succedeva a Niccolò III. Nel pontificato di Niccolò, la romana
corte s'era data già a lacerare apertamente il nome francese. Tra gli
altri un Bertrando, arcivescovo di Cosenza, uom di lettere, pratico
del mondo e dabbene, nel biasimar severamente i soprusi della gente di
Carlo, si fece una volta a profetarle sterminio. «Chi avrà vita, disse
Bertrando, chi avrà vita vedrà masnadieri abietti sorger contro questi
superbi, e scacciarli dal regno, e abbatter loro dominazione: e tempo
verrà che si creda offrir olocausto a Dio al trucidare un
Francese[71].» Così la politica romana o presagiva o affrettava il
passaggio da' pensieri alla vendetta e alle armi! I pensieri eran
comuni a tutta l'Italia: particolari cagioni ne fecero scoppiare in
Sicilia la rivoluzione del vespro.
Con gli appresti alla guerra di Grecia, crebbero le estorsioni,
crebbero gli aggravî; e quindi a dismisura la mala contentezza de'
popoli. Sono sforzati i baroni a fornir non solo le milizie feudali,
ma anco le navi; se alcun tarda, gli si occupano i beni[72]; nobili e
vassalli, obbligati e non {109} obbligati al militare servigio,
strascinansi all'esercito. Cominciarono indi in Sicilia a prorompere
disperate voci; lagnandosi il popolo, che dovesse portar guerra alla
Grecia amica, in servigio dell'oppressor francese; e mormorando lo
scarso stipendio per tre mesi soli, al quale si darebbe fondo prima di
giugnere in Romania, senza lasciar pure di che vivere alle famiglie in
Sicilia. Ripugnavano alla impresa; ma tremavan al re. «Oh fuggiamo!
gridavano; fuggiamo dalle case nostre, per asconderci in boschi e in
caverne; e sarà viver men duro. Anzi di Sicilia si fugga, ch'è terra
di dolore, di povertà, di vergogna. Non fu più schiavo di noi il popol
d'Israello sotto re Faraone: e risentissi, e spezzò le catene. E ne
narran poi le glorie degli antichi nostri! Vili bastardi siam noi;
snervati dalle divisioni, da' vizi: noi di cristianità il popol più
abbietto![73]»
E quanti si tenean da più del volgo impetuoso, non isgannati da
sperienza, ritentavan pure la ignobil via delle querele. A Roma si
volsero, non ostante le ostili opinioni che la Sicilia avea contro la
corte di Roma più che tutto altro popolo cristiano, senza perciò
vacillare nella fede di Cristo. Sì fatte opinioni eran sì vive, che i
Francesi per villania chiamavanci paterini[74]; e segno non men dubbio
ne {110} danno gli scritti nostri di quel tempo, ne' quali il rozzo
stile, al toccar della corte di Roma, rinfocasi a un tratto, sfavilla
d'immagini scritturali, suona le aspre parole del ghibellin poeta. Il
che nascea in parte dagli universali umori d'Italia; e dalla cultura
delle lettere, in cui primo tra gli altri popoli italiani s'esercitò
quel di Sicilia sotto gli Svevi[75]; in parte dall'antica indipendenza
de' nostri principi dal papa, dagli spessi contrasti loro, dalle
spregiate censure, dalle vicende stesse della repubblica del
cinquantaquattro, messa su dai papi e abbandonata dai papi; e dal
tristo dono infine di quest'angioino re. Nondimeno, perch'ei, come
usurpatore, conoscea feudal signore il papa, e la religione a quei dì
teneasi come pauroso fantasma, non patto di giustizia e di pace, parve
ai nostri, che il sommo pontefice solo riparar potesse lor torti,
pastor egli e sovrano. Perciò allo scoppiare del vespro i Siciliani
poi gridavano il nome della Chiesa. Perciò al francese Martino
supplici or ne venivano a nome di Sicilia tutta, due sacerdoti eletti
tra i più venerandi e savi del regno. Bartolomeo vescovo di Patti, e
frate Bongiovanni de' predicatori fur questi. Forniano con grande
animo la missione consigliata da credula miseria. A corte del papa,
presente Carlo, orarono: e «Mercè, Bartolomeo cominciava, mercè o
figlio di David; il demonio la figliuola mia fieramente travaglia:» e
tra pianti e rampogne sponea la grave istoria. Superfluo è a dire che
si fe' sordo Martino. Carlo dissimulò: ma usciti i due oratori dal
palagio, i suoi scherani li circondarono; trasserli in duro carcere.
Macerato da quello il frate espiò a lungo la sua virtù cittadina;
corruppe i custodi il vescovo di Patti, e fuggissi[76].
E niente domato dalla violenza, tornò in Messina; e contò {111} i suoi
casi: e la gente all'udirli, piangea di rabbia. In questo mezzo quanti
vengan da Napoli affermano essere al colmo l'ira del re, per quella
contumace ripugnanza alla guerra di Grecia, per quella missione al
papa; ch'ei volgerebbe l'adunato esercito contro la Sicilia; che
vorrebbe sterminar questa genia querula e incontentabile; dar la terra
ad altri abitatori, e farla colonia[77]. Queste voci spargeansi per
insensata iattanza di cortigiani, o tema di popol tiranneggiato; ed
eran se non altro misura dell'odio. Il quale, per comunanza di mali e
di brame, avea dileguato ogni ruggine tra le nostre città, tra le
famiglie, tra i vassalli e i siciliani feudatari. Pochi pel re
teneano; talchè accresceangli l'odio, non le forze. Il clero seguiva o
precorrea l'opinione pubblica; com'è manifesto dalla missione di
Bartolomeo e Bongiovanni, e dallo zelo con che andò in tutto il corso
della rivoluzione, ad onta delle infinite scomuniche papali. I nobili
siciliani, pochi e oppressi, non potendo far parte da sè medesimi,
ingrossavan la popolare: quanti eran complici, s'anco si voglia, di re
Pietro, ammalignavan le piaghe, suggeriano sommesso qualche speranza.
Il malcontento mise in un fascio le persone de' governanti e i
principî del governo, e die' alla parte popolare tal forza, tal
numero, che avanzava d'assai le condizioni ordinarie, e che sollevava
la Sicilia mezza feudale alle idee de' più democratici popoli
italiani. Faceansi a ricordare i tempi del buon Guglielmo, tempi di
pace, e dovizie, e franchezze; a deplorare la svanita repubblica del
cinquantaquattro; e abbellito dall'immaginativa, con invidia a
dipingere il viver lieto delle italiane cittadi, senza re, senza
feudatari, senza Francesi. Nè solo travagliavali il martello di
povertà, e gli aggravî nell'avere e nelle persone, e 'l timore del
peggio; ma sopra tutto la gelosia delle donne, usurpate {112} dagli
stranieri per forza, o prezzo, o seduzione di vanità e di fortuna. Era
stampato in tutti gli animi inoltre quel Carlo, brusco, vecchio,
avaro, crudele, spregiator d'ogni dritto, alla Sicilia nimicissimo. Il
viver di violenza, in sedici anni avea potentemente operato
sull'indole niente morbida del sicilian popolo, e n'avea tramutato le
sembianze. Di festevole si fe' tetro: increbbero i conviti, i canti,
le danze: «e mute pendeano (scrissero i Siciliani poscia a papa
Martino ) pendean mute l'arpe dal caprifico e dal salice
infruttuoso.»--«Febbrili battean tutti i polsi, dice un'altra
rimostranza del misero popolo; dubbiosi scorreano i giorni, ansie le
notti, e fino i sogni conturbati dalle minacciose sembianze degli
oppressori; nè viver si potea, nè pur morire tranquillo.» Quel poetico
brio degli animi siciliani, a cupa meditazione die' luogo, a
tristezza, a vergogna, a nimistà profonda, a brama ardentissima di
vendetta. Feroci passioni, che propagaronsi da chi soffriva le
ingiurie in sè, a chi le vedea solo in altrui; dalli svegliati a'
tardi; dagl'iracondi ai miti; dagli animosi a' dappoco; e invasarono
ogni età, ogni sesso, ogni ordine d'uomini. La foga delle passioni
private, l'abbaco de' privati interessi, tacquero un istante, o
anch'essi drizzaronsi a quel fitto universal pensiero; più possente di
ogni macchina di congiura, perchè spregia il vegliar sospettoso de'
governanti, e li soperchia a cento doppi di forze[78]. Così entrava in
Sicilia l'anno milledugentottantadue. Alcuni cronisti, pargoleggiando
col volgo, notavano, che di febbraio, mentr'era papa Martino in
Orvieto, una foca presa alle spiagge di Montalto, e portata a corte
del {113} papa come nuova generazione di belva, mise muggiti sì
lamentevoli e paurosi, che la gente n'agghiacciò di orrore; e dietro i
successi di Sicilia, non restò dubbio esser venuto quel mostro a
presagire al papa le calamità che pendeano[79].

NOTE
[1] D'Esclot, cap. 64.
Cronica di Morea, lib. 2.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 57.
Paolino di Pietro, in Muratori R. I. S. tom. XXVI, ag.
Montaner, cap. 71.
Benvenuto da Imola, comento alla Divina Commedia, al verso:
Cantando con colui dal maschio naso. _Purgat_., c. 7.

Carlo d'Angiò, con quest'indole niente poetica, fece pure qualche
verso, perchè n'avea sempre agli orecchi nella corte di Provenza.
Il sig. C. Fauriel, ne' cenni biografici intorno a Sordello,
Bibliothèque des Chartes, tom. IV, nov. et déc. 1842, ha dato una
traduzione della risposta ritmica di Carlo ad alcuni versi di
Sordello che il tacciavano d'ingratitudine. Sordello vivea alla
corte del conte di Provenza; l'avea seguito all'impresa contro
Manfredi; ma ammalatosi in Novara di Piemonte, vi restò lungo
tempo dimenticato, in preda alla malattia e alla povertà. Le
istorie di Francia ci danno molti esempi della sfacciata avarizia
mostrata da Carlo in Francia, prima che la potesse spiegare in più
vasto campo sul trono di Sicilia e di Puglia; e ci attestano
insieme la giustizia di san Luigi che l'obbligava a rendere il mal
tolto.
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