La guerra del Vespro Siciliano vol. 1 - 05

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beni; per costoro ariamo il suolo. Oh si lasciasse ai coltivatori un
tozzo di pane! Oh mangiassero, ma non divorassero! Ma no; le persone non
difendono i beni; nè i beni salvano le persone. Tutto bevono, tutto
succhiano questi vermi insaziabili. Appena ci è concesso disputare ai
corvi i brani delle carogne[28].»
Tra la moltitudine de' poveri straziata a tal modo, i ricchi non
compravano almeno la sicurezza delle persone col sacrifizio de' beni.
Pagavan le tasse, e non bastava; ricusandosi dagli officiali la
scritta del ricevuto, finchè non avessero una grossa mancia[29]. Il re
dal suo canto vuol da loro tutta la colletta del paese, immantinenti,
in moneta; pensin essi a riscuoter dagli altri. Chi ricusa, in
prigione, in catene, finchè non prenda l'uficio; nè esce poi per
questo, senza pagar nuova taglia per riscatto dalla prigione. Uno
n'esce; un altro sen trova, ch'è pelato con lo stesso argomento
fiscale: strano ed esorbitante peso in quei tempi, in cui sì alto
montavan le usure del danaro. Frequentissimi {55} inoltre i violenti
comandi a giustizieri, a portulani, a segreti per anticipazioni delle
tasse da riscuotersi; e non meno eran gli imprestiti, che da privati,
da comuni richiedea il re, e a sua voglia faceane i patti, e pagava a
sua voglia[30].
Peggiore, e universal danno recò l'alterazion delle monete, {56} tanto
o quanto ben governate dagli Svevi, mentre nella più parte degli stati
d'Europa il fisco ne traea grossa entrata; che è a dir le magagnava
grossamente[31]. E Carlo, imitatore degli Svevi nel mal solo, seguì in
questo gli esempi di fuori, e andò oltre com'ei solea. Fa coniare in
Napoli, in luogo degli antichi agostali, carlini e mezzi carlini
d'oro, con vocabolo preso dal suo nome e pervenuto infino a questi
presenti tempi, del medesimo valore degli agostali, com'affermava, e
di metallo purissimo; e nello editto stesso smentiasi, affidando il
corso di questo suo conio al terror de' supplizi; perchè comandava con
la solita immanità, che dando o ricevendo carlini di oro per valor
minore dello edittale, gli officiali suoi ne avessero pena la
pubblicazion de' beni e 'l taglio della mano; i privati fosser
marchiati in faccia con la propria moneta arroventata su i carboni
ardenti[32]. Ogni anno poi, e talvolta entro un anno più volte,
stampava a Messina ed a Brindisi la bassa moneta, d'una trista lega di
molto rame con pochissimi grani d'argento, di quella specie chiamata
un tempo erosa, ed or biglione; il qual conio addimandavasi danari, e
perchè altrimenti non si potea mettere in circolazione, si dispensava
per forza agli abitanti di ciascuna terra o città, che dovean torselo
al disorbitante valor edittale, e pagarne tanta buona moneta d'oro o
d'argento. Guadagnavaci il fisco l'ottanta per cento e più; perdeanci
i privati strabocchevolmente, {57} perchè nè comando nè supplizio mai
die' valore a ciò che non n'ha; onde a capo a quattro o cinque giorni
cinquanta danari valean sei, passata la settimana calavano ad uno[33].
I sinistri effetti di tali alterazioni credea menomare, ma li
aggravava il re, con un divieto all'uscita degli schietti metalli, e
di tutt'altra moneta che la sua[34]. Taglia questa non era, nè
balzello, ma pretta rapina {58} di falsario; e per giunta soffocava e
struggeva i commerci: non pur pensando l'avarizia cieca a
quell'avvenire non lontano, in cui invan farebbe prova a smugnere i
sudditi, condotti alle ultime stretture di povertà.
E quanto al commercio, nè era questo il sol danno, nè avea per misura
i soli errori economici della età, l'ingordigia con la quale re Carlo
mercatava egli stesso di molte derrate, e il traffico delle altre in
mille guise forzava. Riserbata al principe o da balzelli oppressa la
uscita del sale, de' grani, e di tutta vivanda: infinite le esazioni
de' porti, le visite, le investigazioni, i riti molestissimi, i
ladronecci de' doganieri, il terror degli officiali maggiori, che co'
beni e col capo doveano rendere ragione al re della osservanza di
tutti quegli ordinamenti[35]. E mentre così il fisco tiene {59} i
traffichi esterni, e li interdice agli altri, gl'interiori travaglia e
soffoca con quei, che nuovi statuti chiamò l'imperator Federigo, e
nuovi balzelli eran per vero su varie derrate, e privativi dritti del
vender sale, acciaio, seta, e altre merci[36]. Nei traffichi allora
addentrandosi re Carlo con quella guida delle angherie baronali, qui
fabbrica mulini, e comanda non possa alcuno macinar altrove i
frumenti; qui spianando pane, se ne fa ei solo venditore ai sudditi
l'amorevole monarca[37]. Forni, e mulini, e antiche gabelle, balzelli
nuovi, terratichi, multe, esazioni dell'amministrazione della
giustizia, ei dà in fitto ove il possa; ondechè l'ingordigia dei
pubblicani con la sua si mesce a travaglio de' popoli[38]. Ma, se
pubblicani non trova, adocchia i più ricchi uomini; sforzali a toglier
quegli ufici, come allor diceano, in credenza; cioè, che riscuotano
per loro, paghino al re quel tanto ch'ei ferma a suo arbitrio,
ragionando in tempi sì mutati e calamitosi il {60} ritratto
sull'ultim'anno del regno di Manfredi, nel quale al doppio e al triplo
dell'odierno sommava[39].
Nè mancò infine l'arte delle spugne di Tiberio. Da molti documenti
ritraesi che gli officiali, convinti di mal tolto nel dare i lor
conti, componeansi per danaro col re; il quale in tal guisa non
solamente rifaceasi del frodato a lui, ma anco partecipava de'
ladronecci su i popoli; e spesso fingea il mal tolto contro un ricco
uficiale per aver, come pareagli, onesta cagione a pelarlo[40].
Possedea vasti demani re Carlo. E i cortigiani[41] anelanti a precorre
il principe ne' suoi vizi, pieni di zelo con lui borbottavano:
dilapidarsi da' coloni que' suoi poderi; niun frutto ritrarsene;
essere i sudditi ricchi troppo; a questi addossasse il maneggio de'
beni, con patti accorti: non era egli il signore di lor vita e
sostanze? Società d'industria agraria delibera dunque il re: agli
agricoltori vicini dà in soccio a forza, tenute, e armenti, e greggi,
e scrofe, e polli, e gli sciami fin delle api. La quantità delle
produzioni o de' parti che a lui si debba, stabilisce egli a sua
posta: sia sterile poi l'anno o fecondo, mortifera o generativa la
stagione, {61} riscuote quel tanto, nè a mercè piegasi mai. Di questi
non dubbi guadagni anzi invogliato sempre più, non è nei poderi suoi
vil cosa cui non attenda; mette a entrata fine il letame delle
greggi[42], manda gli armenti a satollarsi nelle altrui terre, entro i
pascoli non pure, ma nei seminati più belli: e tristo chi si lagni di
sofferto dannaggio[43]!
Volgeasi per le campagne il guardo, e da per tutto era bandita del re;
non a sollazzo suo, a dispetto de' popoli. Occupansi a capriccio i
côlti de' privati; tramutansi in foreste; proclamasi il fatal bando
della caccia; ed è uom perduto chi non pure un cervo uccida o un
camoscio, ma solamente in que' luoghi soggiorni o passi, e a'
boscaiuoli regi non aggradi. Incessanti perquisizioni fan quelli, per
fame e selvatichezza più intristiti: alla insolenza aggiugnendo
l'insidia, spesso ripongon di furto ne' tuguri alcuna pelle o altro
avanzo di cacciagione; e frugan poi; s'infingon trovarlo, e la misera
famigliuola inabbissano. Lor parchi allargavan anco i baroni ad
esempio del re; con pari giustizia acquistandoli, con pari umanità
guardandoli. Infinita la molestia dunque: e ben era ragione che per
procacciar {62} un'ora di diporto a quegli eletti, lagrimasse e
affamasse lunghi anni la vile bordaglia[44].
Il gran Federigo, aggravando le tasse, disusato avea i servigi almeno;
ineguali maniere di contribuzione, ai sudditi molestissime,
disdicevoli al governo, e male accordantisi con quel sì ordinato
dispotismo, ch'avea egli in mente. Or la nuova avarizia assottigliata
in ogni parte, i servigi richiese, senza tor le gravezze poste in
luogo di quelli. Onde non solo volle il militare servigio, e
l'armamento delle navi, non mai discontinuati per l'addietro, ma solo
talvolta ricattati con la contribuzione ch'adoa appellavasi o
adoamento; ma cento altri ne ricercò de' più riposti e strani.
Scrivonsi a servir sulle regie navi marinai e non marinai: chi
s'asconde o fugge, è perseguitato senza mercede: i genitori, i
fratelli, le sorelle imprigionansi, affinchè il contumace per amor
loro si dia volontariamente nelle rabide mani de' commissari[45].
Intanto costretti i comuni a mandar il danaro delle collette in ogni
luogo ove al re piaccia[46]: costretti i cittadini a portarlo tra i
rischi e i disagi, fabbricati dal mal governo medesimo. Se attende uom
quetamente a sua industria, il mandan corriero con lettere e spacci, o
a custodir prigioni; e sol per danaro trar si può di briga[47]. Alle
vetture, alle barche dan piglio gli officiali, i famigliari del re,
de' magistrati, dell'azienda pubblica, de' castellani, dei feudatari:
e servigio gridan del {63} re, servigio del barone; traggon giù i
padroni; sforzanli a remigare o a far da guida; e dan percosse in
mercede, e a lor agio s'accomodan essi[48]. Così senza prezzo la
vivanda tolgono in mercato, ch'è mestieri, dicono, al fisco; i vini
suggellan così, toccando al re, a' suoi tutti la scelta, agli abbietti
proprietari il rifiuto: ma per danaro si mitigan poi[49]. In mille
così vilissimi aggravî, per le piazze, per le osterie, nel lezzo delle
taverne la cupidigia degli infimi famigliari si spazia, rivaleggiando
con quella dei potenti. Grandi ed infimi, che in tante bisogne della
uggiosa signoria svolazzavan per Sicilia tutta a stormi, s'intrudeano
nelle case de' cittadini, abusando quel già gravoso dritto d'albergo.
Entrano a dritto o a torto; scaccian la famiglia; sciupan letti,
masserizie, vestimenta, quanto trovano; poi, se lor talenta, il portan
via, se no, il buttano in faccia agli ospiti, e vanno[50]. L'ingiuria
de' servigi personali passò ogni costumanza, ogni limite della stessa
ingiuria sociale della feudalità, e venne all'eccesso del capriccio,
del più strano e brutale dispetto. Vidersi nobili e onorandi uomini
costretti vilmente a recar su le spalle vivande e vini alle mense
degli stranieri; vidersi nobili giovanetti tenuti in lor cucine a
girar lo spiedo come guatteri o schiavi[51]! {64}
Ma se di ragione alcun parla, se d'aggravio si lagna, se di presente
non ubbidisce, alzan lo staffile i protervi, snudano il ferro; di
ferro cinti essi sempre, inermi i nostri per feroce divieto: e
percuotono, uccidono; o peggio del ferire, traggono in prigione gli
oltraggiati cittadini che osin parlare; e alla violenza privata allor
sottentra la violenza pubblica, e se non si ripara con danaro, il
magistrato invocando la legge e Dio condanna a morte, a prigione, ad
esiglio[52]. Di qui dunque ci avvieremo ad esaminar l'amministrazione
della giustizia.
Illustre fu dator di leggi l'imperator Federigo: le forme d'applicarle
ei dettò con senno e dottrina; se non che mescolovvi l'ingordigia
fiscale. Così gli ordini giudiziali al governo angioino pervennero;
nel quale essendo avarizia maggiore, e non altezza alcuna di
consiglio, il buono ei contaminò di quegli ordini, il tristo ne
accrebbe; e i tempî d'Astrea fe' bordelli. A magistrati affidolli, di
que' che ben allignano sotto la tirannide; e più venali allor erano,
perchè a' giudici annuali delle terre, anzichè darsi stipendio,
richiedeasi un dritto per la loro elezione[53]. Strani decreti {65}
Carlo dettò secondo i parziali bisogni; ogni misura passò; ogni dritto
confuse. E già dissi come a' satelliti suoi la giustizia fosse
strumento e non freno: onde suonano ipocrisia brutta quanti statuti ne
restano, che fan sembiante di protegger persone e proprietà, da quelli
manomesse a man salva[54]. Leggiamo così, nè per volger di secoli ne
inganna re Carlo, i severi gastighi da uno statuto suo minacciati agli
occupatori dei beni altrui per frode o forza[55]. Così ne rivelano gli
effetti del mal reggimento, e non la cura o efficacia di quello, le
promulgate leggi contro i rubatori di strada: che prove qualunque
bastassero a condannarli: che le città o terre ristorassero de' furti
avvenuti in contado: che non armandosi gli abitanti a scacciare i
masnadieri, il comune si componesse per danaro col fisco: le ville, le
case rustiche arderebbersi ove que' trovassero asilo, o a denunziarli
non si corresse. Verghe, marchio, e bando pei furti infino al valor di
uno augustale[56]; infino a un'oncia taglio della mano; oltre un'oncia
la morte[57]. Applicavasi al fisco la terza parte de' furti
ricuperati[58]. {66} Una grossa multa in ragion della popolazione si
riscuotea sulle terre, ove, seguito un omicidio, il reo non si
scoprisse: per la occultazione studiata, gastighi maggiori[59]. E
avvenia che il magistrato (giustiziere chiamavasi, e girava per tutta
la provincia) intendendo il misfatto, correa, minacciava, investigava;
addottogli l'accusato, negava di rilasciarlo sotto malleveria, ch'era
beneficio della legge[60]; ma strettosel tra le ugne e pelatolo,
l'assolvea spesso poi per moneta; e il re godeane, riscuotendo la
multa sul comune, come per non trovato delinquente[61]. Le prigioni di
tal giustizia penale ognuno le immagini, e condanni d'esagerazione poi
la rimostranza de' Siciliani che citammo di sopra! «Altri, essa dice,
è inghiottito dall'abisso di perpetuo carcere; carcere non quale
costruì la giustizia, o la severità stessa delle leggi, a custodia,
non a gastigo de' malfattori. È vinta la umana immaginativa dagli
orrori ch'io vidi. Giace a Napoli sotto il pendio d'immensa rupe una
spelonca, fatta carcere da questi stranieri, tetra e negra oltre
natura, flagellata sempre dal mare che la circonda, scrollata e
minacciata dalle tempeste. Orrida è di torture, di supplizi: che
mostrano a' prigioni qual termine s'apparecchi a lor guai: un acerbo
dolore ti trafigge all'udirvi gemiti, stridi, sospiri, aneliti de'
languenti in catene. Questo fu tanti anni il covile de' miseri
abitanti del regno; il sollazzo de' tiranni. Lo costruì il furor della
spada: or passiamo alla fame dell'oro,» dice lo scritto, e continua le
{67} maledizioni[62], meritate dal governo in cui la trasgressione
delle leggi s'ammendava con la crudeltà; l'avarizia del fisco, la
corruzione de' magistrati, la rapacità de' lor famigliari
moltiplicando senza limite que' disordini, rendean prima sorgente di
mali l'amministrazione della giustizia, che del viver civile esser dee
legame e comodo primo[63].
E la detta fin qui parrebbe mansuetudine e clemenza, al paragone de'
procedimenti contro i delitti di maestà. Vinto Corradino, il dicemmo,
orribilmente vendicavasi il re; ma al superbo animo non bastava.
Comandò che per volger di tempo non si lasciasse giammai la caccia de'
ribelli: presi, s'impiccassero tosto per la gola: alle forche con loro
chi pietoso li ricettasse: chi veggendoli non facesse la spia, ad
arbitrio del re sarebbe punito[64]. Generali intanto e parziali
inquisizioni criminali, sitibonde, infaticabili, inaccesse a pietà,
sovr'ambo i reami si stendono[65]; fanno a gara con le inquisizioni
dell'azienda; alle persone miran dapprima, ai beni poi de' sospetti;
registrano sottilmente tutte le entrate; rintracciano le decorse; ai
mobili dan di piglio[66]. Tutto confisca il re: divide la preda co'
suoi; e {68} loro assicura il mal dato con una prescrizione brevissima
alle ragioni dei terzi su que' beni[67]. E i signori in questo mezzo,
trucidati cadeano, o trafugavansi in esiglio; scacciate dalle avite
case le lor famiglie, nobili già e opulente, accattavan per Dio, o,
dolor più acerbo, invan supplici al re per alcuno scarso sussidio[68];
e il re il ricusava spesso; e spogliò d'ogni cosa una moglie che delle
proprie sostanze l'esule sposo avea sovvenuto[69]. Questa rabbia
infine confondendo ogni principio, portò Carlo a una legge: che i
figliuoli de' rei di stato non potessero maritarsi senza espressa
licenza del re, quasi razza d'animali feroci da non lasciarsi
riprodurre senza pericolo[70]. Pari divieto, guidate dalla feudal
ragione, stabiliron già le nostre leggi normanne per le eredi de'
feudi; usollo Federigo severamente; e a suo costume abusaval re Carlo.
Ma congiunti or quei due statuti, davano all'autorità pubblica
l'assentir o vietare la più parte de' matrimoni. Qui perchè i feudi
ricadano al fisco, re Carlo condanna a celibato perpetuo le eredi.
Qui, trapassandosi da abuso ad abuso, le più ricche o leggiadre
donzelle sono sforzate a nozze con gli odiosi stranieri, coi
partigiani loro vilissimi, o se talvolta si concede il matrimonio con
uomo italiano, si tolgono i beni[71]. Natura, società, {69} religione,
i più santi legami violava quella insensata tirannide!
Nè d'un solo essa era; del principe era, de' baroni, de' seguaci, dei
partigiani suoi tutti. Supplivansi i vizi a vicenda, chè non ne
mancasse un solo a strazio de' popoli: onde se tra que' di Carlo non
si noverava la libidine, l'ammendavano i suoi con usura; per un
principe non licenzioso, dissoluti manigoldi a migliaia. Di seduzione,
di violenza ogni mezzo è in lor mano. Le ospitalità forzate,
l'esercizio e la riputazion del comando, e 'l vietar nozze o
assentirle, e le perquisizioni, gl'imprigionamenti per casi di stato,
per leve marittime, per debiti delle collette, per mille torte
cagioni, e l'esser tra gli spolpati popoli sol essi ricchi, schiudon
loro e case disoneste e case oneste; agli ingiuriosi amoreggiamenti
dan via. Qui alle arti di seduzione la violenza è sviluppo; rapiscon
qui senza maschera alcuna; insultan le donne al cospetto de' mariti;
non riguardano a candor di donzella, a castità di vedova; minacciano,
o feriscono i parenti, o col braccio dell'autorità pubblica li
allontanano: ridonsi de' pianti; della virtù si fan gabbo; menano al
paro le ingannate, le dubbiose, le riluttanti vittime; a quegli
abbominevoli amori ritegno alcuno non è[72]. {70}
E il principe sì religioso e austero si fa sordo a' richiami; e
fieramente ributta chi si lagni di villania, di rapina, di mortal
ferita: dolenti vanno a lui i sudditi e dolentissimi sen tornano,
quando in pena della temerità non li chiude il carcere, non li punisce
il bastone, o non li calpestano i cavalli degli uomini d'arme, mentre
essi si sforzano a giugnere sino ai piè del tiranno. Così la
rimostranza già citata. Carlo sorride ai focosi suoi sgherri:
giovanili trapassi que' loro, o giuste vendette; le querele e'
richiami son calunnie di gente ribelle[73]. Invano Clemente parlò,
scrisse, mandò legati a Carlo più volte[74], fin pregò re Ludovico che
il moderasse: Gregorio X invano nel ripigliò in Toscana, e l'ira del
cielo minacciogli, e 'l flagello d'inaspettato tiranno che piomberebbe
su lui. «Che suoni tiranno, rispondea Carlo, io lo ignoro; ma so che
il sommo Iddio mi ha guidato, e così ho fidanza che mi regga sempre.»
E raddoppiò i balzelli su i Templari e gli Spedalieri; e si rise delle
rimostranze che Marino arcivescovo di Capua fea tuonar poco appresso
nel concilio di Lione; e dell'orrore desto tra quei prelati al suo
dire; de' legati che il concilio deputava a correggerlo; e delle
epistole del papa a re Filippo di Francia[75].
Un dì avrebbe forse il sicilian parlamento chiesto riparazione a tanti
torti; e '1 voto solenne de' rappresentanti della nazione, avria fatto
impallidire quel Carlo[76]; ma il {71} parlamento più non era, ch'ei non
l'adunò in Sicilia mai, come sopra si è detto. E più: se i re normanni
furon tutti coronati ed unti in Palermo; se qui soggiornarono, coi
grandi uficiali della corona, con la maestà tutta del regno; e se gli
Svevi non mutavan punto di quegli augusti ordini, ancorchè secondo i
casi delle guerre lungi dalla metropoli vagassero; or Carlo presa la
corona dell'usurpazione oltre il Garigliano, continuò bene a chiamar
Palermo capo e sede del regno, a far protestazioni menzognere del grande
amor che le portasse[77], ma insieme trapiantava primo la regia sede in
Napoli, non per legge, di fatto; perchè a Francia, a Provenza, alla
corte del papa, alla agognata Italia di sopra, più vicin fosse, nè
chiuso dai mari. Perciò non solamente offendea la dignità e 'l dritto
della Sicilia, ma anco i materiali interessi. Spegnea le industrie,
fondate in sul lusso della corte e de' baroni; quanti per gli ordini
antichi viveano d'un modo o d'un altro, dannava a squallida povertà; le
ricchezze traea fuori senza scambio; il danaro delle tasse sperdea, da
non lasciarne ricader nè una gocciola sola a refrigerio de'
contribuenti. E con ciò la pestilenza de' reggitori subalterni; la
disuguale amministrazione della giustizia; l'izza del governo, che
odiato odiava, tra i sospetti ognor travagliandosi. Pertanto più acerbi
assai della Sicilia i mali, che delle province di terraferma, ancorchè
le stesse mani governasserle, straniere e crudeli. Ma in terraferma il
novello acquisto della sede {72} del governo rattemperava que' danni; e
quanto la Sicilia perdea, la Puglia acquistava. Fioria Napoli per lo
soggiorno della corte, per l'affluenza di tante faccende: ristorò Carlo
la sua università degli studi, la ornò di splendidi edifizi, di feste e
di spettacoli la fe' lieta. Lagrime, e terrore nell'isola intanto.
Manomessa la nazione, manomessi i privati; non magistrato che rendesse
ragione; non principe che riparasse i torti; nè un domestico asilo
rimanea dove l'abbominato accento straniero non penetrasse a ricordare
più scolpitamente la servitù. Delle facoltà loro non eran padroni;
vilipesi nelle persone; ingiuriati nelle donne; della vita in sospetto
sempre e in periglio. A tanto la Sicilia venne per le violate leggi, e
'l dominio straniero! Tal era nel secolo decimoterzo una tirannide!

NOTE
[1] Non proverò con citazioni questi ordini notissimi del nostro
dritto pubblico. Quanto a' doveri de' vassalli verso i feudatari,
è bene ricordare ciò che scrive Ugone Falcando al proposito delle
pretensioni d'alcuni novelli baroni francesi in tempo de'
Guglielmi, cioè nel secol XII, e delle risposte de'
vassalli siciliani. _At illi libertatem civium oppidanorum
Siciliæ prætendentes, nullos se reditus aiebant, nullas exactiones
debere, sed aliquoties dominis suis, urgente qualibet necessitate,
quantum vellent sponte et libera voluntate servire: e appresso:
multorum civium et oppidanorum odia suscitarent, dicentes: id eum
proponere ut universi populi Siciliæ reditus annuos et exactiones
solvere cogerentur juxta Galliæ consuetudinem, quæ cives liberos
non haberet._ In Caruso, Bibl. sic. tom. I, pag. 475. Gli abusi
feudali per altro furon seguiti in Francia dalla famosa
rivoluzione comunale del secolo XII.
[2] Erano, come ognun sa: 1º. invasione o grave ribellione nel
regno: 2º. prigionia del re: 3º. armamento a cavaliere di lui, o
del figliuolo: 4º. nozze della figliuola, o sorella del re.
[3] Capitoli di re Corrado I, dati in Foggia di febbraio 1251.
[4] Non credo che in questo quadro generale si debba far parola delle
leggi suntuarie della città di Messina, confermate da Carlo per
diploma del 16 giugno 1272, sulla domanda che ne fe' il comune per
ambasciadori apposta: Gallo, Annali di Messina, tom. II, pag. 102;
e Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. G. 2.
Tralascio ancora, come di niuna importanza, un frivolo privilegio
di re Carlo I al comune di Palermo, al quale, per la sua dignità,
e lealtà nelle recenti turbazioni di Corradino, lasciò la elezione
dei maestri di piazza, catapani, e altri uficiali minori. Diploma
dato di Napoli a 24 ottobre 1270, tra' Mss. della Bibl. com. di
Palermo Q. q. G. 2. Nello stesso volume si trova un altro diploma
dei 28 settembre 1275 dato di Venosa, in cui re Carlo mezzo
confermava e mezzo no un privilegio dell'imperator Federigo ai
Palermitani, per le inquisizioni dei giustizieri nei delitti
pubblici e privati.
Nè si farà menzione de' nomi dei vicari che ressero la Sicilia per
Carlo, oscuri ministri di un pessimo principe, non segnalatisi nè
anco per iniquità che passasse la volgare. Furono, se alcuno pur
ama saperli, Fulcone di Puy-Richard, Guglielmo di Beaumont, Adamo
Morhier, Erberto d'Orléans. Caruso, Storia di Sicilia, parte 1ª,
tom. II.
Il Sismondi nella Istoria delle repubbliche italiane, tom. II,
cap. 7, afferma, che sotto la dominazione di Carlo I, i baroni
siciliani malcontenti furono spogliati e oppressi, ma nè tutti
presi, nè tutti cacciati dall'isola; e che i Francesi facean
soggiorno nelle città e su le costiere, ma osavan di raro
addentrarsi nelle montagne interiori, ove i signori al par de'
contadini serbavan tutta la loro indipendenza. A provar questi due
fatti sì gravi non allega alcun documento; nè per vero ne potea;
nè percorrendo le memorie del tempo sapremmo apporci quale abbia
potuto dar luogo al Sismondi a credere limitata e contrastata la
dominazione dei Francesi in Sicilia. Per lo contrario tutti gli
avvenimenti, le leggi, gli atti di questo governo mostrano, che
dal 1268 al 1281 senza la menoma eccezione o resistenza, levò per
tutta la Sicilia quanti danari volle, fè concessioni feudali ai
baroni francesi nei luoghi più riposti dell'isola, e per ogni
luogo comandò, vessò, ingiuriò. Se dunque il Sismondi non parla
de' baroni che malediceano e obbedivano, come tutti gli altri
Siciliani, senza dubbio la inesatta narrazione del Villani intorno
la congiura di Giovanni di Procida, e la ignoranza di molti
particolari di Alaimo di Lentini, furon quelli che il portarono a
conchiudere frettolosamente, che restassero nell'isola, dopo i
tempi di Corradino, baroni in istato d'aperta ribellione. L'altro
supposto, ch'è di molto più fallace, forse fu suggerito dalle
parole di Saba Malaspina su gli abitatori «de' monti de' Lombardi»
e la prontezza della colonia lombarda di Corleone a seguir il
tumulto palermitano. Ma Saba Malaspina in quel luogo narra
largamente gli aggravi sofferti da' Corleonesi al par d'ogni altro
Siciliano, o peggio. E ciò mostra piuttosto quanto poco si godesse
in quelle contrade la indipendenza che ci vede il Sismondi.
[5] Saba Malaspina, lib. 6, cap. 2.
Per la chiesa di Cefalù Carlo ritenne i dritti del porto, a quella
tolti dagli Svevi, come si legge in un diploma del 14 luglio 1266,
tra' Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. G. 12, pubblicato dal
Pirro, Sic. sacra, tom. II, pag. 806. Lo stesso ritraesi per
Catania, da un diploma del 10 settembre 1266. Pirro, Sic. sacra,
tom. I, pag. 535.
[6] Diplomi de' 24 marzo e 24 settembre 1267. Breve del 13 dicembre
1274. Nei Mss. della Bibl. com. di Palermo Q. q. H. 4, fog. 83,
85, 91.
Il diploma in cui fu resa esecutiva e trascritta la sentenza del
legato sopra la restituzione di vari beni alle chiese di Messina,
Catania, ec. si trova nel r. archivio di Napoli, registro di Carlo
I, segnato 1268, O fog. 19, a t. e fog. 6, che per mal accurata
legatura del volume è la continuazione del detto foglio 19. La
data del diploma è del 9 agosto undecima Ind. (1268).
[7] Saba Malaspina, lib. 6, cap. 3.
Nic. Speciale, lib. 1. cap. 11.
[8] Diploma del .... 1282 ne' citati Mss. della Bibl. com. di Palermo
Q. q. H. 4, fog. 117.
[9] La rimostranza de' Siciliani, ch'io pubblico al doc. VII
s'intrattiene lungamente su i torti fatti dal governo angioino
agli ecclesiastici.
[10] Parecchi diplomi spargon luce su questo punto. Uno dato di Napoli
a 20 febbraio tredicesima Ind. (1299), accetta che Elia di
Gesualdo milite si fosse esposto a gravi pericoli per Carlo I
nella guerra con Manfredi, e gli avesse fornito in prestito una
grossa somma di danaro, senza la quale Carlo non avrebbe potuto
compiere la impresa; ond'ei gli diè in merito la baronia di
Gesualdo, confermata poi da Carlo II col presente diploma. Nel r.
archivio di Napoli, reg. di Carlo II, segnato 1299-1300, C. fog.
54, a t.
Si vegga ancora ciò che dicemmo a pag. 33 per lo imprestito di
Arrigo di Castiglia, riferito dal d'Esclot.
[11] Saba Malaspina, lib. 6.
Capitoli del regno di Sicilia, cap. 23 di re Giacomo.
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