La guerra del Vespro Siciliano vol. 1 - 04

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prevalse. Sbigottite e poche le armi provenzali; poche e disordinate
quelle di don Federigo e di Capece; il malo studio delle parti,
entrato già in questa terra, non crescea forza ad alcuno de'
contenditori, ma sfogavasi in particolari vendette. Perocchè alla
venuta di re Carlo, un talento servile, o una speranza di guadagno e
autorità, molti precipitò a prostrarsi alla nuova dominazione, lor
viltà onestando sotto specie di parteggiare per quella; molti più
profondamente l'abborrirono. Ferracani i primi, Fetenti s'appellarono
gli altri: nomi d'ignota origine, che nelle nostre istorie son oscuri,
e mertanlo; perocchè s'udian solo in questa rivoluzione, l'uno e
l'altro per villani misfatti. Il mal governo poi di re Carlo fu {35}
amara ma certa medicina a dileguar queste fazioni in un
ferocissim'odio comune. E così nel vespro appena si vide un'ombra di
parte; ma restò solo per detto di contumelia e villania il nome di
Ferracano; che traditor della Sicilia suonava, e partigiano de'
tiranni stranieri.
Nè a particolareggiare i casi atroci di quest'anarchia del
sessantasette, vo' dilungarmi or io dal bello argomento propostomi.
Dirò solo quali odî seminassersi allora, che render doveano il vespro
più sanguinoso e più grande; perocchè spesso nasce il bene dai mali
estremi; e convien sia colma la misura a far che gli uomini tra lor
mense, e amori, e guadagni, e ambizionucce, ed ozi onesti, ed ozi
vituperevoli, ricordinsi d'esser cittadini, talchè, arrischiando per
poco questa vita sì breve e amara, nella causa pubblica risorgano. La
quale altra è che lo sciogliersi a misfare senza modo nè grande
intento, come allora in Sicilia avveniva. Baroni, borghesi, vassalli
con rapine e omicidî e violenze d'ogni maniera laceravansi tra loro: i
deboli, al solito oppressi da' nemici e dagli amici, non sapeano cui
ubbidire: era piena la Sicilia di sangue: di fame e di pestilenza
perivano i campati alla rabbia degli uomini. Invano qui venne per
Corradino il conte Federigo Lancia con una armatetta di galee pisane.
Invano per Carlo il prior Filippo d'Egly, degli Spedalieri, frati
combattenti, i quali in queste nostre risse mescolavansi più
volentieri che nelle sacre guerre di Palestina. Avversi ai carlisti i
popoli; i tre capi corradiniani disputavansi l'autorità suprema; e
loro forze dividendo, disertaron sè stessi e la causa del principe.
Queste parti dunque, delle quali niuna potea vigorosamente ordinarsi e
metter giù l'avversa, dilaniarono senza pro la misera Sicilia; finchè,
spento Corradino, venner da Napoli a risanarla i carnefici[2]. {36}
Non uso a questi subiti italiani movimenti, sbigottì Carlo a veder
mezza la penisola in romore per Corradino; la Sicilia perduta; la
Puglia piena d'umori di ribellione; e Corradino, che per diffalta di
danari era sostato dapprima a Verona, vincer sull'Arno, accrescersi in
Roma pe' favori d'Arrigo di Castiglia, e, non curando scomuniche,
minaccioso venire alla volta del regno con dieci migliaia di cavalli,
e più numero di fanti, tra tedeschi, spagnuoli, italiani, e usciti di
Puglia. Nè tanta moltitudine avea Carlo in sull'armi; ma eran Francesi
i più, e in migliore disciplina, e con altri capitani: ond'ei come
animoso, fè testa ai confini. Presso a Tagliacozzo si pugnò, nel pian
di San Valentino, a ventitrè agosto del sessantotto: ed era di
Corradino la giornata, quando la terza schiera francese instrutta dal
vecchio Alardo di Valery e da Guglielmo principe di Morea, diè dentro;
e ruppe e mietè i disordinati per fidanza della vittoria. Presi i
maggiori dell'esercito; scannata a frotte la plebe; nella quale
trovando parecchi Romani, Carlo {37} non fu contento della lor sola
morte, in vendetta del toltogli uficio di senatore della città.
Comandava nel primo boglimento di rabbia, che fosser mozzi i piè a
quei prigioni; ma per timore che portassero miserando spettacolo, da
rinfocare contro di lui gli animi in Roma, l'ordine rivocò, e chiuder
li fece entro una casa, e vivi brugiare. Quest'era il campion della
Chiesa! Corradino fuggendo fu conosciuto ad Astura, e preso a
tradimento. I partigiani ch'eran tuttavia grossi di numero, perdetter
l'animo a quella rotta; si sbrancarono; pensò ciascuno a salvar sè
solo; e tutti furon perduti[3]. Quel d'Angiò, come avea preso tanto
stato, così il mantenne, per una sola battaglia. Ma per che modo sì
assicurava e vendicava, m'è duro a narrarlo.
E comincio da Corradino, comechè pria del suo sangue scorresse già
quel de' sudditi a fiumi. Altri appone a Clemente il mal consiglio,
altri lo scolpa; io penso che il papa e il re d'un animo volesser la
morte del giovanetto, stimolati entrambi da rabbia d'aver tremato, e
sospetto dell'avvenire. Nè sicari in carcere, ma rappresentanti della
nazione in faccia alla nazione e a Dio, bruttavansi del comandato
assassinio. Convocò re Carlo un parlamento di baroni, e sindichi, e
buoni uomini delle città di Puglia; a scherno osservar fece tutte del
giudizio le forme: talchè par vedere altri tempi a leggere con che
sillogismi quella straordinaria corte dannava a morte Corradino e i
seguaci suoi, come in tali casi è costume. Ed ebbe animo ad opporsi un
Guidone da Suzara, famoso professor di dritto civile, che non era
suddito di re Carlo nè si curava della sua grazia; e lor coscienze
rimordean gli altri; e piangeano in cuore i buoni; i Francesi stessi
esecravano il crudele atto del re: ma il re volea, e tremavano i
giudici, onde ogni schermo fu vano. Un fanciullo di sedici anni,
ultimo erede di tanti imperatori {38} e re, dritto signore egli stesso
di Sicilia e di Puglia, il dì ventinove ottobre del sessantotto,
tratto era al patibolo in piazza di mercato a Napoli; seguendolo una
funata di vittime, perchè più largamente si vendicassero gli sturbati
ozi della tirannide. A paro a paro con esso veniva il duca d'Austria,
statogli compagno amantissimo dall'infanzia: biondi ambo e gentili,
impavidi nel sembiante, a fermo passo andavano al palco. Di porpora
era coperto il palco, quasi a regia pompa; con torvi armati
all'intorno; foltissimo il popolo in piazza; dall'alto d'una torre
guardava quella tigre di Carlo. Salì Corradino, mostrossi, e lettagli
in volto la sentenza che il chiamava sacrilego traditore, ne protestò
nobilmente al popolo e a Dio. A queste parole susurrava la moltitudine
un istante; e poi ghiacciata di paura tacque; stupida e scolorata
affisò Corradino. Il quale nell'abbassar lo sguardo su quell'onda di
spaventati volti infiniti, ghignò di amaro disprezzo, poi gli occhi
alzò al cielo, e ogni terren pensiero depose. Lo scosse un colpo: vide
il capo del duca d'Austria già tronco sul palco; ond'avidamente il
raccolse Corradino, se lo strinse al petto, il baciò cento volte,
baciò gli astanti, baciò il carnefice, pose il capo sul ceppo; e la
scure piombò. Narran che prima gittasse il guanto a significar la
investitura de' reami a Pier d'Aragona, genero di Manfredi; narran che
il conte di Fiandra, marito d'una figliuola di re Carlo, non reggendo
all'empio sagrifizio, di sua mano uccidesse Roberto di Bari fabbro e
dicitore della sentenza. Ben i bizzarri costumi dell'età
aggiugnerebber fede a cotesti fatti; ma più certi e atroci prendo io a
narrarne, affrettandomi a uscir di tanti orrori[4]. {39}
In terraferma quanti eran rimasi fedeli a Carlo, o, dubbiosi finchè fu
dubbia la vittoria, or voleansi purgar dal sospetto, fecersi giudici
insieme e carnefici degli scoperti ribelli. Il parlamento avea offerto
regie vittime al re; gli uomini delle province immolavangli i
partigiani, e guadagnavan possessioni in premio della fedeltà o de'
misfatti[5]. Presero i beni, rapirono, uccisero, accecarono,
straziarono: fu tanto, che Carlo trattenne al fin lo immane zelo che
facea del regno un deserto, perdonò al fine[6]. Ma ai Siciliani nulla
mercè[7]. A farne macello manda i suoi baroni francesi: e Guglielmo
l'Estendard era il primo; uom {40} di guerra e di strage, che la pietà
avea a scherno, più crudele d'ogni crudeltà, dice Saba Malaspina, e di
sangue ebbro, e tanto più sitibondo quanto più ne versasse. Costui
valicò lo stretto con un drappello di Provenzali fortissimi, e di
forti Siciliani l'accrebbe a vergogna nostra; abbattè senza ostacolo
la parte di Corradino, cui speranza non restava alcuna. Ma in Agosta
mille cittadini in sull'armi, con dugento cavalli toscani, fieramente
difendeansi, aiutati dal sito inespugnabile; onde Guglielmo, postovi
il campo, gran pezza indarno affaticossi: e a tanti doppi ne crescea
quella sua natural ferità. Sfogolla alfine senza battaglia, perchè sei
traditori, schiusa di notte una postierla della città, indifeso
diergli in preda quel valente presidio: ed ei nè valore rispettò, nè
innocenza, nè ragione d'uomini alcuna. Ivano i suoi per la città,
contaminando ogni luogo con uccisioni, stupri, saccheggi; cercavano
lor vittime per fin entro le cisterne e le fosse del grano. Ma dopo la
prima strage, quando fu satollo il furor de' soldati, non si spense
nel crudo animo del ministro del re. Chiama al macello un manigoldo
d'estrema forza: al quale adduconsi legati gli Agostani; e quegli li
spaccia con un largo brando; e quand'è spossato gli si porgon colmi
nappi di vino, che tracanna insieme col sudore e sangue di che gronda
tutto; e con fresche forze ripiglia l'opera scellerata. Alzò sulla
marina una catasta di capi e di tronchi; dove tra le misere vittime
loro andavano a monte i sei figliuoli di Giuda, ben premiati così da
Guglielmo. Non rimase persona viva in Agosta. Molti fuggendo al mare,
sì precipitosamente accalcaronsi sopra un legnetto, che diè alla banda
e si sommerse. Gavazzavano intanto i Francesi nella insanguinata
città, che deserta e squallida fu poi per lunghissimi anni[8]. Nè
queste immani stragi, nè questi immani tripudi ricordavano {41} i più
degli storici narrando con tanto studio la strage del vespro, che
misura fu per misura! A quella carnificina tenner dietro negli altri
luoghi i supplizi. Corrado Capece s'affortificò in Centorbi: ma visto
balenare i suoi, uscì solo a darsi nelle mani di Guglielmo; e quegli
il fe' accecare, e trarre a Catania, e per la gola impiccare. Marino e
Giacomo fratelli di lui periano anco sulle forche a Napoli; per altri
casi gli altri principali partigiani: sol campò Federigo di Castiglia,
che si difese in Girgenti, ma Guglielmo come congiunto di re Carlo gli
diè di partirsi con una nave. Sulle misere città di Sicilia, o state
ribelli, o state fedeli, piombò intanto la rapace man d'Estendard, con
imprestiti e altri mal dissimulati ladronecci[9]. Lucera di Puglia,
ove i Saraceni siciliani fatto avean sì bella difesa, s'arrendè poco
appresso per gli strazi d'orribilissima fame: trionfò Carlo da per
tutto senz'alcun freno. Così crescon per doma ribellione e peggiorano
i principi, stimolati da sdegno e sospetto, nè mansuefatti da timore
alcuno de' sudditi; i quali per diffidar l'un dell'altro e spossamento
comune, forz'è che lungo tempo servano, e stiansi.

NOTE
[1] Questa ragione della nimistà d'Arrigo di Castiglia è riferita da
Bernardo D'Esclot, Istoria di Catalogna, cap. 60, ed. Buchon, 1840.
[2] Saba Malaspina, lib. 4, cap. 3 e seg.
Bart. de Neocastro, cap. 8 e 9.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 20 al 23.
Raynald, Ann. eccl. 1267, §§. 2, 12 e seg., 1268, §§. 2 a 29.
Nic. di Jamsilla, in Murat. R. I. S. tom. VIII, pag. 614 e seg.
Veggansi anche i seguenti diplomi del r. archivio di Napoli:
Diploma di Carlo I, dato di Viterbo 11 aprile undecima Ind. (1268)
al segreto di Sicilia, per le spese di fra Filippo d'Egly dello
Spedale di S. Giov. di Gerusalemme. Reg. di Carlo I, segnato 1268,
O fog. 18.
Altro dato dal campo sotto Lucera il 2 giugno undecima Ind. (1268)
a Falcone di Puy-Richard vicario di Sicilia, perchè munisse con
estrema cura Messina, _tamquam portum et portam Sicilie_.
Ibid. fog. 18.
Altro dato di Capua a 10 dicembre duodecima Ind. (1268) pel castel
di Licata, che avea sostenuto assai guasti da' ribelli. Ibid. fog.
22.
Conti resi da Bartolomeo di Porta giustiziere della Sicilia di là
dal Salso, per l'amministrazione dal 14 ottobre 1268, a tutto
novembre 1269. Ibid. fog. 75.
Da una partita di questo conto si scorge, che il giustiziere
mandava al re, Nicolò di Marchisano a chiarirgli falsa la voce
dello sbarco del re di Tunisi in favor de' ribelli; e che avea
pagato un'oncia a Lorenzo di Trapani, il quale con la sua barca
portò questo corriere da Palermo in Principato, ov'era il re.
[3] Gio. Villani, lib. 7, cap. 24 al 27.
Bart. de Neocastro, cap. 9.
Saba Malaspina, lib. 4, cap. 13.
[4] Bart. de Neocastro, cap. 9 e 10.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 28 e 29.
Saba Malaspina, lib. 4.
Frate Francesco Pipino, lib. 3, cap. 9.
Ricobaldo Ferrarese, Hist. imp. an. 1268, etc.
Un verso di Dante, se bene o mal interpretato non importa, diè
luogo ai primi comentatori poco discosti dal secol XIII a narrare
un aneddoto intorno la morte di Corradino. Nella loro età dicessi,
che Carlo I d'Angiò, per superstizione mezzo pagana venuta di
Grecia, avesse fatto cuocere una zuppa, e mangiatola su i cadaveri
di Corradino e degli altri guastati con esso; il quale rito s'avea
per fermo che purgasse il peccato dell'omicidio, o troncasse il
corso alla vendetta. Il verso è questo:
.... Ma chi n'ha colpa creda,
Che vendetta di Dio non teme suppe. _Purg_., c. 33.
Io non rido di tal comento come fa il Biagioli, perchè tutte le
memorie degli uomini portano superstizioni, empie e ridicole almen
quanto il mangiare una zuppa sul cadavere dell'ucciso. Nè Carlo I
d'Angiò fu spirito forte, come diremmo in oggi. Ma non trovando
questo fatto in alcuno degli scrittori contemporanei di parte
contraria a lui, conchiudo che, o la favola nacque dopo la loro
età, o ch'essi come favola manifesta la tacquero. Perciò ho
lasciato indietro questo, che pur sarebbe un forte tratto di
pennello sul carattere di Carlo, su i tempi, e sulla natura della
condannagione di Corradino. Su le opere di Guidone da Suzara, veg.
Tiraboschi, Storia letteraria d'Italia, tom. IV. Suzara è città
nel distretto di Mantova.
[5] Veggansi le molte concessioni di feudi e altri beni fatte da re
Carlo in questo tempo, che leggonsi nel r. archivio di Napoli,
reg. di Carlo I, segnato 1269, D, fog. 1 ed 8. Tra gli altri si
trova a fog. 6, a t. e duplicato al 114, a t. un diploma del 15
genn. tredicesima Ind. (1269) pel quale furon date all'arcivescovo
di Palermo le case che possedeva in Napoli Matteo de Termulis,
fellone.
[6] Saba Malaspina, lib. 4, cap. 17.
Capitoli del regno di Napoli, pag. 14. _Misericordiam_, etc.
[7] Capitoli del regno di Napoli, pag. 16. Nel preambolo si legge
essere stati i ribelli di Sicilia, _conculcati, et gladio ultori
perempti_.
[8] Saba Malaspina, lib. 4, cap. 17.
[9] Conto reso da Bartolomeo de Porta giustiziere della Sicilia di là
dal Salso. Nel archivio r. di Napoli, reg. di Carlo I (1268), O,
fog. 75.
Da questo si veggono gl'imprestiti sforzati fatti per ordinamento
di Guglielmo Estendard, maresciallo e vicario generale in Sicilia,
di Guglielmo di Beaumont, ammiraglio, e di Fulcone di Puy-Richard.
Un altro argomento di estorsione, come si ricava da' medesimi
conti, fu l'assedio di Sciacca, non so bene se quel del primo
sbarco di Federigo di Castiglia, o un secondo quando trionfò la
parte angioina. Richiedeansi le città di mandar forze a
quest'assedio, e invece d'uomini si prendea da esse denaro. Sul
cumulo di queste composizioni furono assegnate all'ammiraglio per
ordine del re once 621.
Da' medesimi conti ricavasi, che in questo tempo il prezzo del
grano montò a venti tarì a salma.


CAPITOLO IV.
Re Carlo continua e trapassa gli abusi della dominazione sveva.
Immunità ecclesiastiche. Novello baronaggio. Gravezze, e modi del
riscuoterle. Demani, e bandite. Servigi, e soprusi che nascon da
quelli. Amministrazione della giustizia, crimenlese, matrimoni,
violenze alle donne. Violazione dei dritti politici. Riscontro delle
condizioni di Sicilia e di Puglia. 1266-1282.

Temperavansi a vicenda nell'antica siciliana costituzione il
principato e 'l baronaggio; nè illimitati dritti avea questo sulle
persone, nè gravissimi sulle facoltà: i villani men servi che altrove;
non eran servi i rustici; i borghesi e cittadini, fin delle terre
feudali, sentivano lor libertà, lor immunità sosteneano[1]. Il poter
giudiziale dipendendo direttamente dal principe, non serviva a tutte
voglie della feudalità. Comportabili le gabelle; miti i servigi;
rarissimi gli universali tributi: e i parlamenti soli accordavan
questi; i parlamenti conoscean solennemente le leggi dal re dettate.
In questi termini, dopo ondeggiar molto del potere tra i baroni e 'l
principe, il buon Guglielmo ristorò gli ordini politici: la feudalità
di nuovo turbolli: Federigo imperatore più monarchicamente li assestò,
come nel capitolo {43} primo s'è detto. Molti statuti e savi ei dettò,
fiaccando i baroni: bandì, or col voto dei parlamenti ed or senza, le
universali contribuzioni, ch'erano per ordine fondamentale limitate ai
noti quattro casi feudali[2], ed ei per violenza le rese più
frequenti: moltiplicò le gabelle sulle derrate: di alcune merci
riserbossi esclusivo lo spaccio; accrescendo così senza modo le
entrate regie. Pentito in ultimo, o infigendosi, per testamento abrogò
queste violazioni alla costituzione: disdisserle anco i suoi
figliuoli; e le praticaron pure, sospinti dai bisogni della guerra[3].
Esse dettero a Manfredi il crollo; esse a Carlo d'Angiò preparavanlo.
Giurato avea Carlo tra le condizioni della pontificia investitura, di
cessar gli abusi, di ridurre il governo ai termini del Buon Guglielmo;
e i tempi del Malo ricondusse, e fe' peggio, non sapendo astenersi da
tanto comando, da tanta moneta. Sottilmente anzi investigando tutti i
mal'usi, che dritti si dicean del fisco, accrebbe peso e molestia: poi
dalla ribellione per Corradino trasse pretesto a scioglier sè e' suoi
ad ogni misfare. Le leggi e i registri che ne restan di lui; quelle
che dopo il nostro vespro a moderar la pessima signoria promulgaronsi
in Puglia dagli angioini, da que' di Aragona in Sicilia; e le
rimostranze de' Siciliani al papa; i brevi pontificî; gli attestati
degli storici contemporanei, fosser nostri o avversi, tutte ne
mostrano scolpitamente le calamità della Sicilia in quei tempi.
Fremendo io le scrivo; ma ne racconterò la vendetta[4].
E prima dirò della slealtà con la Chiesa. Avea Clemente {44} conceduto
il regno a patto che gli ecclesiastici godessero tutte lor pretese
franchezze, dagli Svevi negate; e che si rendessero i beni occupati
dagli Svevi a chiese o usciti. Giurollo Carlo, e da re nol dovea:
preso il regno poi, avarizia il vinse a romper la fede; non già
negando apertamente, {45} ma peggio, con cavillare in parole, e
persister nei fatti. Perciò, lagnandosi invano papa Clemente, le
comuni gravezze ei riscosse dai chierici, e da lor case; nè sazio a
questo, ai beni ecclesiastici diè di piglio; i dritti dei porti di
Cefalù, Patti, e Catania occupati dagli Svevi nella guerra con Roma,
nella pace ei ritenne[5]. E non potè contendere che un legato,
inquisitore, o esecutore (così intitolavasi) della Santa Sede nel
reame di Sicilia sopra la restituzione de' beni ad esuli, chierici, e
chiese, il quale fu dapprima Rodolfo vescovo d'Albania, rendesse
ragione d'autorità del papa; non seppe nè anco ricusare i rescritti
che dessero virtù esecutiva a quelle sentenze; ma lascionne la più
parte senza effetto, come avvenne per lo casal di Calatabiano, che
Vassallo d'Amelina a nome del re prese violentemente alla chiesa di
Messina, e per un altro casale e un podere della medesima, che il
fisco tenea, nè per decisione del legato, nè per ammonizion dei papi,
e in particolare di Gregorio X, si disserravano a renderli le avare
mani di Carlo[6]. Gli Spedalieri, e i Templari che nei {46} suoi reami
veniano, taglieggiò senza rispetto; alla corte stessa di Roma non
n'ebbe, quando giunse a vietar che i suoi sudditi con gli stati di
quella mercatassero[7]. Così adoperava coi papi. La siciliana
repubblica dell'ottantadue, incontanente redintegrò la chiesa di
Messina nel possesso di quei beni[8]: e la corte di Roma fieramente
malediva la siciliana repubblica, perchè si ristorasse la prepotenza
di Carlo[9]!
Di gran momento sembrami in cotesto nuovo principato la novazione del
baronaggio. Perchè il picciol signore d'Angiò e di Provenza, armando
per tanta macchina di guerra, avea tolto in presto molto danaro, molte
schiere condotto di speranza più che di stipendio; onde gli era forza
soddisfare a' conquistatori e sostegni del suo trono; e appena messovi
il piè, al gran lotto diede opera[10]. E nulla erano gli ufici
pubblici lucrativi, ancorchè a' soli suoi li serbasse; nulla i
benefici ecclesiastici, che conferiva a quei soli; di terreni, di
feudi facea d'uopo. Entrò Carlo dunque in una inchiesta strettissima
dei demanî, de' baronaggi tutti, delle sostanze di Manfredi e de'
suoi; non a cercare, ma a trovare vero o supposto vizio nel
possedimento. A ciò {47} i veltri del fisco, affamati, sagaci,
invidiosi, ivano in traccia, svolgean vecchie carte, su dritti e
usanze cavillavano, vinceano in diligenza lo stesso re. A vetustà di
possesso, a prescrizione non s'attende; richieggonsi i titoli de'
feudi tutti; minacciano spogliamento gl'ingordi ministri, e per danaro
acquetansi. L'hanno, e all'inchiesta, all'espilazione dopo breve
tratto ritornano: feudo non fu, nè baronia che due o tre volte non si
fosse ricattato in tal guisa[11]. Con severità maggiore si ricercò de'
regi demanî: orribili furono le confiscazioni per crimenlese, come
innanzi dirassi. Perilchè occupando terre, e castella, e poderi
innumerevoli, largheggiavane re Carlo co' suoi per feudale
concessione[12]; e tanti diplomi ce ne rimangon ora, che alcuno, senza
badare al rapace acquisto, nè alla sforzata liberalità coi maggiori
dell'esercito, magnifico ne dice il re. I novelli baroni poi a lor
uomini gratificavano con subalterne concessioni: così i condottieri, i
soldati d'oltremonti prendeano stanza nelle nostre terre; sospettosi,
odiosi, pronti a ripigliare le armi; e ritraente dalla primitiva
occupazione de' barbari, una feudalità novella sorgeva {48} appo noi.
Essa fu incentivo grandissimo ai turbamenti dell'ottantadue, perchè e
l'insolenza portava della vittoria, e 'l dispetto di signoria
forastiera, e l'uso a dritti o angherie, radicati in Francia, ignoti
in Sicilia[13]. Però insopportabili qui rendeansi i novelli feudatari.
Con insolite esazioni aggravavano le industrie; rapiano apertamente;
taglieggiavano vassalli, e viandanti; tenean private carceri pei
colpevoli e più per gl'innocenti; intrigavansi di forza ne' negozi de'
comuni; ad ogni eccesso le violente mani stendeano[14]. Del che più
largamente diremo, divisando i soprusi de' famigliari e degli altri
officiali del re; ch'essi e' feudatari eran di una genía tutti, senza
ragione nè patria, tutti accozzati di varie genti, Francesi,
Provenzali, Fiamminghi, e trapiantati nell'inimico paese, presero come
venturiera masnada una sembianza propria e nuova, un'indole rapace,
crudele, pessima; nè Francesi li direi, se non fossero stati i più, e
l'uso delle tradizioni e istorie nostre non mi sforzasse. Rimessi se
ne stavano intanto i baroni siciliani, dal re bersagliati e dai feroci
compagni, ed usi a vivere negli antichi termini co' vassalli. Quanto
del baronaggio dico io dunque, s'intenda del nuovo. Nè maravigli
alcuno a vederlo sì sfrenato sotto sì dispotico principe; avvegnachè,
riguardo all'autorità regia, tenealo egli a segno; i dritti sovrani
geloso {49} riserbavasi nelle concessioni[15], ed esercitavali, non
perdonando a tributo, nè a servigio; infino a sancir la morte contro
gli usurpatori de' demani, e a dichiarare, e per questo soltanto, che
regnicoli e Provenzali e Francesi senza distinzione ubbidissero[16].
Abbandonava nel resto il freno, perchè diverso dagli altri principi
dell'età sua Carlo regnava. Quelli con la riputazione delle
municipalità, sforzavansi a raffrenare i baroni; ei condottiero ancora
del suo baronaggio, da quello era mantenuto sul trono[17]. Nimici {50}
ambo de' popoli, ambo s'affaticavano insieme a tenerli sotto il giogo,
e 'l sangue sugger loro e i midolli, come vivamente dice, e famigliar
del papa era e guelfo, l'istorico Saba Malaspina[18].
E meglio stan queste amare parole ove si risguardi alla
amministrazione delle pubbliche entrate, levate non per bisogni
pubblici, ma da istinto d'avarizia e disegni d'ambizione; la quale
rapacità copriano i partigiani di Carlo con dir ch'era uopo dimagrar
que' contumaci sudditi, affinchè contro il principe non alzasser la
cresta[19]. Era nei tempi feudali, altrimenti che ai nostri, ordinata
l'azienda degli stati; e più discrete apparian le gravezze a cagion
de' minori bisogni, e degli usi sotto i quali esse ascondeansi. Perchè
i demani[20] somministravano la più parte delle spese della corte; a
quelle del pubblico suppliano i popoli, non pur con danaro, ma sovente
col servigio delle persone, e delle cose loro. Così gli eserciti, le
navi, dai feudatari forniansi e dalle città; così era debito albergar
le corti del principe e de' maestrali; così ai lavori pubblici andavan
tenuti gli uomini di minor taglia, ai trasporti, e a somiglianti
disagi. Servigi s'appellavan questi; e collette le contribuzioni
dirette e generali; gabelle poi le tasse sulle derrate, che per
privativa nella vendita sovente si riscuoteano. Delle quali parti
l'entrata dello stato componeasi in Sicilia ancora; ma la moderata
costituzione tutti i pesi rattemprava. Turbaron gli Svevi quella
bilancia, sì come io notai: Carlo le diè il tracollo, arso, dice
dolorando il suo istorico, arso d'idropica sete di danaro[21]; e ne
venne quasi all'aperta rapina. {51}
Ne restan di Clemente quarto, a lui indirizzate nei primi principî del
regno, due epistole, che son modello di politica prudenza e umanità; ma
Carlo sen rise, come fanno i despoti ad ogni buon consiglio. Toccatisi
in quelle tutti gli ordini dell'amministrazion dello stato; e sulle
tasse illegalmente levate: «consigliamti, o figliuolo, scrivea il papa,
che, chiamati i baroni, i prelati, e i maggiori uomini delle città, i
tuoi bisogni lor esponga, e l'utilità del difendersi, e con
l'assentimento di essi stabilisca il sussidio a te dovuto. Di quello
poi, e de' tuoi dritti sia tu contento; lascia tu liberi i sudditi...
Ordina col parlamento in quali casi richieder possa la colletta ai
vassalli tuoi o de' baroni»[22]. E il pio re, nè parlamenti adunando, nè
misura osservando alcuna, nè per bisogno pubblico, bandiva l'un
sull'altro, più fiate entro un anno, quegli universali tributi; or
aggravando e spesseggiando i consueti; ora speculandone nuovi e
insoliti, come fu quello de' legnami e marinai: e talvolta tumido e
frettoloso lasciava ai ministri suoi che a lor talento ordinasserli[23].
Si promulgan {52} così gli editti; saltan fuora i riscotitori; non
bastando i {53} sudori della industria[24] alla gravezza diretta,
spessa, immite, fuggono i miseri dai lor focolari[25]; e se non ne han
cuore, strappansi il pan dalla bocca, pagano una parte, e veggonsi pure
rapir le suppellettili, e gli animali, e gli strumenti della
agricoltura[26], e fin diroccare le case, le persone trarre in carcere.
Ivi son incatenati con manette di ferro; lor negasi il cibo e il bere;
popolani e nobili, {54} vecchi, fanciulli, adulti, donzelle serransi
alla rinfusa come un sol gregge; occasione, o pretesto a violenze
maggiori[27]. «Mille nuove arti (sclama, trasportandosi a' tempi del
servaggio, una rimostranza de' Siciliani ammoniti dopo il vespro a
tornarvi), mille nuove arti insegnava a costoro l'inestinguibil sete, il
furore dell'avarizia. Sulle liste dei riscuotitori gli uomini son
cresciuti; ma ben le liste di proscrizione li scemano. Nostri non sono i
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