La guerra del Vespro Siciliano vol. 1 - 02

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Sicilia, fortemente e ordinatamente il nuovo stato reggea. Titolo gli
diè poi {9} di reame un altro Ruggiero, figliuolo del conte, posciachè
con le arti e con le armi tolse Puglia e Calabria agli altri principi
normanni; e dai baroni quivi più possenti, e dal papa, e dallo
imperatore, gagliardamente difesele con le siciliane forze. Quindi fu
gridato dai parlamenti, e in fine, per amore o per forza, riconosciuto
dal papa, re di Sicilia, duca di Puglia e di Calabria, principe di
Capua. Costui ritirando ver la corona l'autorità dei magistrati,
contenendo i baroni, assestò il reame con ordini civili, ravvivò le
industrie, e vittoriosamente adoprò fuori le armi sue.
Due forze turbarono questa novella monarchia siciliana: che furono, il
baronaggio non sì gagliardo da mettere al nulla l'autorità regia, ma
baldanzoso abbastanza da provocarla; e la corte di Roma, la quale
attirò i nostri principi nelle contese italiane, or chiamandoli in
sostegno, or vantando dritti su lor province, e combattendoli
apertamente. Pure la monarchia, per la virtù della sua prima
fondazione, stette salda a que' colpi; si ristorò con migliori leggi
sotto il secondo Guglielmo; e avrebbe potuto per avventura dopo lunga
neutralità alzare un vero vessillo italiano, e messi giù lo imperatore
e il papa, da sè occupare o proteggere tutto il paese infino alle
Alpi: ma essa dal sangue normanno passò per nozze a casa sveva[3], che
tenea di que' tempi lo impero. Indi la potenza di Sicilia e di Puglia
prese le ingrate sembianze di ghibellina: e dopo il regno dello
imperatore Arrigo, che per essere stato breve ed atroce, nulla operò,
vidersi questi due reami avvolti nella gran lite d'Italia. Perchè dal
cominciamento al mezzo del secolo decimoterzo regnovvi Federigo II
imperatore, prò nelle armi, sagace e grande nei consigli, promotor
delle lettere italiane, costante nemico di Roma. {10} Raffrenò
Federigo i feudatari, che nella fanciullezza sua si eran prevalsi;
chiamò nei parlamenti nostri i sindichi della città; represse
nondimeno gli umori di repubblica; riordinò vigorosamente i
magistrati, vietò, primo in Europa, i giudizi ch'empiamente chiamavan
di Dio; dettò un corpo di leggi, ristorando o correggendo quelle dei
Normanni; le entrate dello stato ingrossò, e troppo. Macchiano la sua
gloria, severità e avarizia nel governo; e mal ne lo scolpa la
necessità di tender fortissimo i nerbi del principato, per aiutarsene
alla guerra di fuori.
Dondechè mentre i due potentati acerbamente si travagliavano con le
astuzie, con le armi, con gli scritti, e, incontrando varia fortuna,
or fean sembiante di venire agli accordi, or più feroci ripigliavan le
offese, crebbero nei reami di Sicilia e di Puglia pericolosissimi
umori; come avviene dal troppo tender l'arco che i governanti fanno,
sperando che pur sempre si pieghi. Innocenzo IV, pontefice di
altissimi spiriti, se ne accorse, e principiò a gridare il nome di
libertà, non che alle cittadi dell'Italia di sopra, ma nei reami
stessi di Federigo. E varcato già a mezzo il secolo decimoterzo,
aspirava sì gagliardamente alla vittoria, che, convocato un concilio
in Lione, denunziavagli la deposizione dallo impero; e tutte contro il
magnanimo Svevo ritorcea le folgori sacerdotali.

NOTE
[1] Sconoscerei un dovere se non facessi qui menzione degli aiuti, che
ho trovato a queste ricerche nella Biblioteca comunale di Palermo
e nel regio archivio di Napoli. La biblioteca palermitana, dotata
un dì largamente dal comune, arrichita di libri da molti
cittadini, ristorata dal sommo Scinà, ed ora fiorente per lo amore
e l'intendimento con cui la governano i presenti deputati, mi è
stata schiusa come a chiunque; ma il valore de' bibliotecari ha
agevolate le mie ricerche; e massime debbo renderne merito al
sacerdote don Gaspare Rossi, lodatissimo per non comune perizia,
erudizione, memoria.
Una permissione del ministero degli affari interni mi die' adito
al regio archivio di Napoli: ove trovai molta cortesia in quanti
reggono questo prezioso stabilimento, e in particolare
nell'erudito professore signor Michele Baffi, capo dell'uficio al
quale appartengono i diplomi svevi e angioini.
[2] Così scrivo non ignorando pure che alcuno abbia voluto veder
concessioni feudali in tempi più rimoti; fantasie, come giudica il
di Gregorio, non solidi ragionamenti. D'altronde è da distinguere
feudalità da aristocrazia. Questa, dove più, dove meno, fu a un di
presso in tutti gli stati. La feudalità nacque, come sa ognuno,
dallo stabilimento de' barbari settentrionali, e fu un particolare
modo di governo di ottimati misto di monarchia.
[3] Chiamerò così, secondo l'uso comune, la dinastia degli
Hohenstauffen, duchi di Svevia.


CAPITOLO II.
Papa Innocenzo perseguita Corrado; e alla morte di lui occupa le
province di terraferma, e turba la Sicilia. Repubblica in Sicilia.
Manfredi ristora l'autorità regia; e l'usurpa. A spegner lui, la corte
di Roma pratica con Inghilterra e con Francia. In fine concede i reami
a Carlo conte di Angiò. Passata di Carlo in Italia. Manfredi è rotto,
e morto a Benevento. Carlo prende il regno--Dall'anno 1251 al 1266.

Alla morte di Federigo, pronto il pontefice assurse a schiantar
d'Italia l'emula casa sveva. E l'invidia dell'impero tenuto lungamente
da quella; e 'l sospetto della possanza che traea di Sicilia e Puglia,
valser tanto in Lamagna, rincalzati delle romane arti, che Corrado
figliuol di Federigo, ancorchè eletto re de' Romani, fu escluso
dall'imperial seggio. A torgli i domini meridionali, papa Innocenzo
rifaceasi a gridare ai popoli libertà; suscitava i baroni; esortava i
vescovi e 'l clero, bandiva la remissione delle peccata a chi si
levasse in arme per la corte di Roma; per brevi, per legati, ad ogni
ordine d'uomini promettea pace, e godimento di tutte lor franchige
sotto la protezion della Chiesa: istigazioni tentate indarno sul fin
del regno di Federigo. Pur lo zelo de' Ghibellini d'Italia, e la virtù
di Manfredi, bastardo dell'imperatore[1] e non tralignante dal paterno
animo, fecero che Corrado, spenti i nemici del suo nome, regnasse
alfine dal Garigliano al Lilibeo. Poc'oltre due anni regnò, che da
morte fu colto: lasciando di sè un sol bambino per nome Corrado, cui
disser poscia Corradino, perchè uscito appena di fanciullo, brillò e
fu morto. Raccomandavalo il padre, com'orfanello {12} e innocente,
alla paternale carità del pontefice; e questi più furiosamente che
prima riassaltava i reami suoi con seduzioni ed armi[2].
Prontissima tal foco trovò l'esca, per l'odio partorito agli Svevi, e
al principato con essi, da quella lor dominazione avara e rigida,
spesso anco crudele, e testè esacerbata nei contrasti all'avvenimento
di Corrado. I baroni tendeano a scatenarsi, pe' vizi radicali della
feudalità e i mali esempi di fuori. Increscea il freno alle maggiori
città, aspiranti alle franchige di Toscana e di Lombardia, delle quali
avean preso vaghezza per gli spessi commerci con l'Italia di sopra, e
per sentirsi forti anch'esse di sostanze e di popolo, e ravvivate
della virtù delle lettere e de' leggiadri esercizi, che fioriron sotto
Federigo. Inoltre eran use al municipal reggimento, avanzo di più
felici tempi, non dileguato dalla romana conquista, nè sotto l'impero,
nè forse anco per la saracena dominazione; il qual reggimento
provvedendo alla più parte de' bisogni pubblici, alla libertà politica
non restava che un passo. E suol sempre all'autorità dello stato
incerta o vacillante sottentrar la municipale, che più si avvicina
alla semplicità de' naturali ordini del vivere in comunanza, e i
popoli, come cosa {13} propria, l'odian manco. Però in tanto
scompiglio ne crebbe la riputazione delle municipalità, e con essa la
brama dello stato libero. La quale fors'era più viva in Sicilia che in
terraferma, per lo numero delle città grosse, e i meglio raffrenati
baroni[3]. {14}
Spiegò Innocenzo in tal punto il vessillo della Chiesa, correndo
l'anno milledugentocinquantaquattro; occupò Napoli con l'esercito;
mandò oratori e frati a sollevare i {15} popoli per ogni luogo: ed era
il re in fasce in Lamagna; il reggente straniero e dappoco; Manfredi
senza forze, nè dritto alla corona. Andaron sossopra dunque i reami:
chi si trovò presso al potere li die' di piglio, dove a nome del re,
del papa, del comune, e dove di niuno. Quindi a poco a poco surse
Manfredi, praticò col papa, e pugnò; e morto a Napoli Innocenzo, e
rifatto pontefice Alessandro IV, gioviale, dice una cronaca[4],
rubicondo, corpulento, non uomo da sostenere i disegni del fiero
antecessore, lo Svevo, savio e animoso, a ripigliar lo stato si
condusse. Ma perchè l'anarchia avea preso in Sicilia le sembianze di
repubblica, e fu questo lo esempio agli ordini che gridavansi poi nel
riscatto del vespro, io narrerò questo avvenimento il più largamente
che si possa su le scarse memorie de' tempi.
Sedea vicerè in Sicilia da molti anni, e governava sì le Calabrie,
Pietro Rosso o Ruffo. L'imperator Federigo da vil famigliare l'avea
levato a' sommi gradi, com'avviene in corte a' più temerari e
procaccianti. Pensò Corrado che per opera di costui gli fosse rimasa
in fede la Sicilia nei turbamenti desti alla morte di Federigo; onde
il fe' conte di Catanzaro, gli prolungò il governo, e crebbegli la
baldanza: chè superbamente ei reggeva, a nome del re, a comodo
proprio; fattosi trapotente per dovizie e clientela, da osar
disubbidire a faccia scoperta lo stesso monarca. Pertanto alla morte
di Corrado, a' rivolgimenti che seguitarono, duravane i primi impeti
il conte di Catanzaro, e una certa autorità mantenea, non ostante
quell'universale pendio alla repubblica; non contrastandolo, ma
temporeggiandosi, e procacciando in vista gl'interessi de' popoli.
Anzi con la solita audacia, nel torbido aspirò a cose maggiori. Come
papa Innocenzo caldamente i Siciliani istigava {16} a gridare il nome
della Chiesa, e allettava Messina con le vecchie lusinghe di
privilegi, il vicerè intrigossi con gl'inviati delle città di Sicilia
a trattare col papa; proponea, rifiutava patti; e mandò al papa con
gli ambasciadori di Messina, e col vescovo di Siracusa, un suo nipote;
tramando sottomano farlo re di Sicilia, che dal pontefice la tenesse,
e pagassegli il censo. Gonfio di questi pensieri, quando Manfredi
risurto a Lucera chiamavalo all'antica obbedienza, non assentì il
conte che ad una confederazione con reciproci patti. E fidavasi tra 'l
principato, il pontefice, e 'l popolo traccheggiar sì maestro, che
dell'un contro l'altro s'aiutasse a' propri disegni.
Ma perchè non è felice poi sempre l'inganno, costui non valse a
raggirare a lungo le siciliane città: e porse egli stesso l'occasione
a prorompere; perchè volendo coprirsi con le sembianze della
legittimità, finchè non fosse matura l'usurpazione, battè moneta a
nome di Corrado secondo; ch'era un disdir netto la repubblica.
Spezzata allora con esso ogni pratica, le città gridaron repubblica
sotto la protezion della Chiesa: prima a ciò Palermo; seconda Patti,
mossa dal vescovo; ed altre terre seguitaronle. Il vicerè spacciava
ambasciatori a Palermo, ed eran respinti; vedea le città dell'Etna
levarsi tutte, e con esse Caltagirone, che pose a guasto e a sacco i
vicini poderi della corona; non restava che a tentare la forza.
Raccolto dunque di Messinesi, e di quanti rimaneangli in fede un
grosso di genti, il vicerè assalisce Castrogiovanni, che tentennava;
e, dubbiamente difesa, la espugna. Ma quel dì medesimo Nicosia
sollevasi, e poco stante molte altre terre; fino i Messinesi
dell'esercito levavano in capo: una stessa brama avea preso i
Siciliani tutti, nè bastava a trattenerli il veleno delle divisioni
municipali. In tal disposizione d'animi, un picciolo intoppo die' il
tracollo al conte di Catanzaro. Appena ributtato da uno assalto ad
Aidone, {17} le genti sue stesse il costrinsero a tornarsi a Messina;
e trovò a Messina una congiura, per disperder la quale invano
affrettossi a entrare in città, invano fe' sostenere in palagio
Leonardo Aldighieri[5] e parecchi altri cittadini de' quali più temea.
Infellonisce il popolo; ridomanda gl'imprigionati; e ottenutili non
s'acqueta, ma reca Leonardo in trionfo; capitan del popolo il grida;
«Viva il comune, fuori il vicerè!» con lui fermansi i patti, che dia
alcune castella in sicurtà, e libero sen vada con l'avere e la
famiglia. Così fu scacciata l'ultim'ombra della regia autorità.
Partitosi il conte, il popolo saccheggiò le sue case; ed ei, non
osservati gli accordi, attese in Calabria ad affortificarsi. Ma quivi
lo inseguiano le armi di Messina; imbatteasi ancora in quelle di
Manfredi: e, com'e' meritava, cacciato dalle une e dalle altre,
vagando senza aiuto nè consiglio, rifuggiasi in fine vergognosamente
alla corte del papa.
La Sicilia intanto senz'altri ostacoli alla bramata condizione si
condusse. Messina affratellata nel comun brio, diessi tutta, come
città rigogliosa, alle virtù e ai vizi delle italiane repubbliche.
Volle un podestà straniero; al quale uficio primo chiamò Iacopo de
Ponte, romano. Presa poi dalla sete delle conquiste, assalse e spianò
Taormina, ricusante d'ubbidirle; in Calabria occupò molti luoghi, e
tenne vivo il suo nome. E Palermo sospinta dagli stessi umori,
occupava il castel di Cefalù, e certo anco alcun'altra terra di mezzo.
Ma, quel che più rileva, intesa all'universale ordinamento, avea già
mandato oratore al papa a Napoli un Iacopo Salla, ad annunziare il
reggimento a comune sotto la protezion della Chiesa, assentito
dall'isola {18} tutta. Incontanente il papa spacciò vicario Ruffin da
Piacenza, de' frati minori: il quale era a grandissimo onore raccolto
in Palermo, in Messina, e per ogni luogo, e onorato con feste
popolaresche; al venir suo tripudianti gli si feano incontro
cittadini, e sacerdoti, e vecchi, e fanciulli; di palme e di rami
d'ulivo spargeangli il sentiero, come a liberator del paese; tutti si
inebriavan di gioia e di speranza nel nuovo stato. Richiamaronsi
allora un conte Guglielmo d'Amico, un Ruggiero Fimetta, ed altri
Siciliani usciti fin da' tempi dell'imperator Federigo, per umori
guelfi, o di libertà. Libertà gridavan tutti: le città, terre, e
castella si strinsero con patti reciproci: e su questa confederazione
il vicario pontificio comandava nel nome della Chiesa. Così intorno a
due anni si visse in Sicilia, dal cinquantaquattro al cinquantasei. In
Puglia e in Calabria, nel medesimo tempo, fu più contrastata la
dominazione tra i principi, che bramata dai popoli la libertà; perchè
men disposti v'erano che que' di Sicilia, e il papa, e Manfredi, ambo
vicini, a vicenda sforzavanli a ubbidire.
E ciò sol si ritrae dagli storici de' tempi. Quali fossero gli ordini
delle novelle repubbliche di Sicilia, se popolani, se misti
d'oligarchia, ne è ignoto. Forse nessuno ben saldo se ne statuì; forse
come i cittadini adunati a consiglio, deliberavano per l'addietro su i
negozi municipali, come i maestrali per l'addietro li amministravano,
fecesi allora in tutte le altre parti del governo. I vincoli scambievoli
delle città, i limiti dell'autorità del papa e del legato, i consigli
pubblici che a questo fosser compagni, non ricorda la istoria; se non
che abbiam documenti di concessioni feudali in Sicilia, fatte dal papa a
baroni parteggianti per esso; la qual cosa dimostrerebbe piuttosto la
confusione o l'usurpazione dei poteri pubblici, che l'esercizio di
quelli a buon dritto stabiliti. Nè alcuno scrittore ci ha tramandato
{19} in che stato rimanessero i feudatari; ma li veggiamo quale
appigliarsi di gran volontà a questa novazione, e quale ubbidirla tacito
e torvo, aspettando tempo; talchè è manifesto, che gli umori guelfi e
ghibellini divideano già il sicilian baronaggio. Mezz'anarchia fu
quella, e imperfetta lega di feudatari forti e parteggianti, di città
aduggiate dalle radici dell'aristocrazia e del principato; e debolmente
il nome della Chiesa li rannodava. Potea il tempo consolidar quello
stato, al par delle italiane repubbliche; ma il principato repente
risorto lo spense. E dalle novazioni i popoli voglion frutto più
prestamente che la natura non porta; e delusi gittansi allo estremo
opposto; l'invidia morde i privati; la parte che ama gli ordini vecchi
rimbaldanzisce. Questo in Sicilia seguì. Risorgea Manfredi in
terraferma; la parte pontificia mancava; trionfava in fine la sveva. A
ciò levaronsi i feudatari, che per costume, interesse e orgoglio
teneano, la più parte, pel re; i repubblicani si sgomenarono; e sì
rapido fu il precipizio, che pochi anni appresso, repubblica di vanità
l'appellava Bartolomeo di Neocastro.
Ondechè mentre Federigo Lancia riducea le Calabrie con un esercito per
parte sveva, un altro se n'accozzò di feudatari in Sicilia. Arrigo
Abate con esso entrò in Palermo; e imprigionò il legato del papa, e
quanti parteggiavano per lo stato libero. Corse per l'isola poi
vittorioso; ruppe a Lentini Ruggiero Fimetta, principal sostenitore
della repubblica, o de' feudi che per tal riputazione gli avea
largamente dato papa Alessandro: ma a Taormina trovò Arrigo assai duro
il riscontro; e si bilanciavan le sorti, se non era per la rotta che
toccarono i Messinesi in Calabria. Perocchè l'esercito loro, grosso di
cavalli e di fanti, osteggiando in quelle province i manfrediani, fu
colto con improvvisa fazione da Lancia, quando saccheggiata Seminara
sbadatamente movea per lo pian di Corona; e attenagliato {20} tra due
schiere, e con grande uccisione fu sbaragliato. Federigo Lancia a
questa vittoria insignoritosi al tutto della Calabria, minacciava
Messina, e con sue pratiche fomentava per Sicilia tutta la parte
regia. Prevalendo questa dunque in Messina, nè restando armi alla
difesa, il podestà, per dappocaggine o necessità, si fuggia;
rinnalzavasi il vessillo svevo; arrendeasi a Lancia la città. Pugnaron
ultime per la libertà Piazza, Aidone, e Castrogiovanni, e furono
soggiogate[6]. Così Manfredi tutti ridusse i popoli e di {21}
terraferma, e dell'isola; e breve tratto per Corradino regnò. Poi lo
scettro ripigliato col valor suo, render nol seppe a un fanciullo; diè
voce che questi fosse morto in Lamagna; e creduto o non creduto,
com'erede solo di Federigo, incoronossi in Palermo a dì undici agosto
milledugentocinquantotto.
E fortemente regnò Manfredi; e placar non potendo a niun patto la
corte di Roma, disperatamente la combattea. Si fe' capo dei
Ghibellini: rinnalzolli in Lombardia; fomentolli in Toscana; in Roma
stessa ebbe seguito, la quale non sottomessa per anco ai pontefici, e
reggendosi per un senatore, avea chiamato nuovamente a questo uficio
Brancaleone, uomo di alto animo, che si era, per comunanza di nimistà,
col ghibellino re collegato. Per le quali cose, non bastando ormai la
romana corte alla tenzone, affrettossi a compiere un antico disegno.
Già fin dalla morte del secondo Federigo, papa Innocenzo, perchè non
sentia nel sacerdotale braccio tanto vigore da regger Sicilia e
Puglia, nè troppo affidavasi in su quegli umori repubblicani, avea
cercato in ponente chi conquistasse con armi proprie lo stato, e con
nome di re dalla Chiesa tenesselo in feudo, e pagassele censo, e
servigio militare le prestasse. Così innalzato avrebbe in Italia un
possente capo di parte guelfa, {22} e campion della Chiesa. Donde,
mentr'ei qui chiamava i popoli a libertà, mercatavali come gregge,
prima con Riccardo conte di Cornovaglia, fratel del terzo Arrigo
d'Inghilterra; poi con Carlo conte d'Angiò e di Provenza, fratel di
Lodovico IX di Francia; e in fine col fanciullo Edmondo, figliuolo del
medesimo Arrigo. Autentiche ne restano le bolle d'Innocenzo e dei
successori suoi, le epistole dei re, che queste pratiche rivelan
tutte, dalla romana corte per sedici anni condotte a cauto passo,
quand'ira o terrore non la stimolavano. E indefessa con brevi o legati
a sollecitare i principi, tirare a sè i cortigiani, promettere di ogni
maniera indulgenze, sparnazzare le decime ecclesiastiche di
cristianità tutta alla occupazione di Sicilia e Puglia, a questo
bandir la croce, a questo commutare i voti presi da re e da popoli per
la sacra guerra di Palestina. Spesso tra coteste pratiche, la corte di
Roma per bisogno di moneta, e necessità di difendersi o voglia
d'occupare alcuna provincia di Puglia, accattava danari con sicurtà su
i beni delle chiese d'oltremonti; e que' prelati sforzava a
soddisfarli; ai riluttanti mostrava la folgore delle censure. Alcuna
volta prendeva a permutar la bolla d'investitura con somme assai
grosse di danaro: poi la brama più forte di abbatter Manfredi, rimaner
la facea da cotesti guadagni. A lungo tuttavia si differì l'impresa,
come superiore alle forze di cui la trattava, e disperata quasi per la
potenza e virtù di Manfredi.
Di gran volontà s'era accinto a questa guerra di ventura Arrigo,
cupido dell'altrui, ma dappoco, e alla Gran Carta spergiuro, perciò
contrariato e travagliato da quegli indomiti propugnatori delle
libertà inglesi. Arrigo fermò i patti col papa, e la investitura
s'ebbe per Edmondo suo, e le armi faceasi a preparare; ma a tanti atti
ne venne arbitrari e stolti, e tanto increbbero in Inghilterra le
esazioni di Roma, che il parlamento pria trattenne il re dall'impresa;
{23} poi richiamandosi di questi e di mille altri torti, lo spogliò
del governo, lo calpestò: e in aspre guerre civili s'avvolse il reame.
Spezzavasi la pratica con Francia per niente simil cagione: chè quivi
obbedienti i popoli, mite e non debole il re, d'alto animo, ristorator
delle leggi, savio moderator del governo, e di pietà sì rara, che alla
morte sua fu canonizzato tra' santi. L'occupazione straniera menomava
la Francia in ponente; la usurpazione de' grandi feudatari dagli altri
lati; insanguinata riposava appena da una crociata infelicissima; pur
quello che più forte la distolse dalla siciliana impresa, fu l'animo
del re, abborrente dal guerreggiar con cristiani, e dar di piglio
nell'altrui. Però pertinacemente ricusava quel giusto: a lungo la
romana corte si dondolava tra lui e l'Inglese, da forza rattenuto, non
da coscienza. Ma quando vide costui prostrato, e sè stessa condotta
agli estremi dai Ghibellini e da Manfredi, la romana corte, come
disperata, adoprò tutt'arti a sforzar Lodovico. Drizzavasi a Carlo
d'Angiò, e alla donna sua, che, sorella a tre regine, avrebbe dato la
vita per cingersi un istante a fianco ad esse il diadema dei re[7]: e
mostrava a quegli ambiziosi animi spianato ogni ostacolo, fuorchè
l'ostinazione di Lodovico. Il papa indettò con vari accorgimenti
tutt'uomo che più valesse a corte di Francia. Strinse il re dal lato
più fiacco. Ammonivalo con lettere sopra lettere: non indurasse il suo
cuore; esser ormai irriverente e {24} presuntuosa la ripulsa, e ch'ei
laico dubbiasse a entrare in un'impresa chiarita onesta e giusta dal
successore degli apostoli, e da' cardinali suoi. Pennelleggiava la
Chiesa schiantata d'Italia per Manfredi, mezzo saracino, dissoluto
tiranno; l'eresia pullulante; profanati i sacri tempî; manomessi
vescovi e sacerdoti; spregiati gli anatemi; chiusa la via di
Terrasanta finchè la Sicilia stesse ribelle al pontefice[8]. Così
svolsero {25} all'impresa il re di Francia. Si trattavano insieme i
patti della concessione, tra i quali il papa pretendeva il dominio non
solo di Benevento e Pontecorvo co' loro contadi, ma quasi di tutta la
regione ch'oggi comprendesi ne' distretti di Napoli, Pozzuoli,
Caserta, Nola, Sora, Gaeta, e inoltre qua {26} e là per lo reame altre
città e terre[9]: ma infine moderandosi da Roma il prezzo, Carlo
comprò; e fu fermato il negozio con lo stesso Urbano IV; e per la sua
morte, decretato solennemente da Clemente IV, francese, appena ei salì
al pontificato. Urbano e Clemente seguivano entrambi l'antico studio
della romana corte a mutare per lo meno in signoria feudale quell'uso
di consiglio e di protezione negli affari temporali, ch'era divenuto
quasi comando in vari reami cristiani; la qual signoria tentò prima in
Inghilterra, poscia in Aragona, e più assiduamente su le italiane
province a mezzogiorno del Garigliano. Clemente promulgò a venticinque
febbraio milledugentosessantacinque la bolla, per la quale «il reame
di Sicilia, e la terra che si stende tra lo stretto di Messina e i
confini degli stati della Chiesa, eccetto Benevento,» furono conceduti
a Carlo, in feudo dalla Chiesa, per censo di ottomila once di oro
all'anno, e servigio militare al bisogno. Cento patti sottilissimi
dettò il papa a vietare l'ingrandimento del re: che nè allo impero
aspirasse, nè ad altra signoria in Italia, a sicurtà della {27} romana
corte, la quale il volea possente sì, ma non da soverchiare lei
stessa. Con ciò mutilati i dritti del principe nelle elezioni ai
vescovadi e agli altri beneficî ecclesiastici; toltigli i frutti delle
sedi vacanti; tolta ogni partecipazione nelle cause ecclesiastiche, e
riserbatene le appellazioni a Roma; fermata la franchigia de' chierici
dalle ordinarie giurisdizioni e dai tributi; e altre condizioni men
rilevanti. Tra quegli squisiti accorgimenti di regno, si risovenne pur
Clemente degli uomini del paese non suo che vendea: stipulò per loro i
privilegi goduti già sotto Guglielmo II, il re più mite e giusto, e
temperante dallo aver dei sudditi, che nelle siciliane istorie si
registrasse[10].
A furia allor si misero in punto le armi, e gli armati per la guerra a
Manfredi. Corsi erano ormai diciassette anni dalla sconfitta
dell'esercito crociato: ridondava la Francia {28} di baroni, e
cavalieri, e uomini d'arme, fastiditi del viver civile sotto le leggi,
bramosi di operare, e di acquistar gloria e sustanze. Veniano di
Fiandra per la cagione stessa altri guerrieri di ventura. Venian di
Provenza, la quale appartenne negli antichi tempi al reame di Francia;
spiccossene dietro la morte di Carlo Magno nel secol nono; fu feudo
dello impero; poi, rompendo il debil freno, si resse {29} per suoi
conti sovrani; ed or da Beatrice, ultima di quel sangue, era stata
recata in dote a Carlo d'Angiò. Quell'acerba signoria, onde la Puglia
poi pianse e la Sicilia insanguinossi, spaziavasi già in Provenza:
fraude e forza aveano spogliato di lor franchige repubblicane
Marsiglia, Arles, Avignone: tra cupida dell'altrui avere, e tremante
del suo tiranno, correa Provenza alle armi per aggrandirlo. Smugneanla
di danari Carlo e Beatrice; costei fino i suoi gioielli impegnò; altra
moneta fornì re Lodovico; altra ne tolse in presto il conte d'Angiò da
Arrigo di Castiglia, e da mercatanti e baroni. Così raggranellando di
che provvedere ai preparamenti, si raccolsono i guerrieri, ai quali il
bando della croce era pretesto, scopo l'acquisto: e venivano sotto la
insegna di ventura dell'Angioino, chi condotto per soldo, chi
conducendo del suo un picciol drappello, quasi messa di gioco o di
commercio, per guadagnar poderi nell'assaltato reame. Sommavano a
trentamila, tra cavalli e fanti: e però esercito lo appellano le
istorie, non masnada di ladroni, congregati di là dei monti a
riversarsi in Italia, a scannar per rubare, e comandar poi, e
ribellione chiamar la difesa.
Per arrisicato viaggio di mare, schivando l'armata fortissima di
Manfredi, Carlo con un pugno d'uomini venne in Italia: di giugno
milledugentosessantacinque prese l'uficio di senator di Roma,
assentitogli temporaneamente dal papa: d'autunno le sue genti,
valicate le Alpi, non trovarono {30} riscontro nei Ghibellini
d'Italia; dei quali chi fu compro, e chi tremò. E così la fortuna, che
annulla d'un soffio gli umani consigli, volgea le spalle a Manfredi.
Le divisioni d'Italia a lui nocquero fieramente, risorgendo i Guelfi a
quelle novità; nocquegli la possanza della Chiesa; ma il voltabile
animo de' suoi baroni fu che disertollo; e la mala contentezza dei
popoli, causata dalle spesse e gravi collette, dal piover degli
anatemi, dai mali tanti che la lotta con Roma avea partorito. Sdegno e
necessità di assicurarsi, aveano cacciato innanzi Manfredi in tutto il
tempo del suo regno; nè avea ascoltato i richiami de' popoli, che
lunghi anni si sprezzano, ma suona un'ora alfine che morte ne scoppia
e sterminio.
Quest'ora già rapiva Manfredi: e sentiala il grande, ma volle mostrare
il volto alla fortuna. Tedeschi e Italiani accozzava, e quanti
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