La guerra del Vespro Siciliano vol. 1 - 01

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LA GUERRA
DEL
VESPRO SICILIANO
o
UN PERIODO DELLE ISTORIE SICILIANE
DEL SECOLO XIII
PER
MICHELE AMARI
SECONDA EDIZIONE
ACCRESCIUTA E CORRETTA DALL'AUTORE
E CORREDATA DI NUOVI DOCUMENTI


PARIGI
BAUDRY, LIBRERIA EUROPEA
3, QUAI MALAQUAIS, PRÈS LE PONT DES ARTS
STASSIN ET XAVIER, 9, RUE DU COQ
1843


PREFAZIONE.

Questo libro si pubblicò in Palermo, non è ancora un anno, col titolo
un po' lungo e indeterminato di «Un periodo delle istorie siciliane
del secol XIII.» Non ebbe altro proemio che i due primi paragrafi del
primo capitolo. Ma nella presente edizione, perchè avvi qualche cosa
di nuovo, mi par bene intrattenerne il lettore per poche pagine.
E per cominciare da ciò che rileva meno, avverto che ho fatto alcune
correzioni di stile; senza presumere di essere pervenuto con ciò alla
forma, che a me stesso sembri la migliore. Anzi io, che pur troppo ne
debbo saper la cagione, veggo quanto niun altro, in molti squarci e in
due o tre capitoli interi, il dettato disuguale, febbrile, spezzato
come la parola di chi è tra i tormenti, tale da non correggersi che
scrivendo da capo: e così avrei fatto se avessi potuto o ritardar la
presente edizione, o posporre altri studi ai quali m'incalza un
ardente desiderio d'illustrar le memorie della Sicilia.
Ma col favor de' nuovi materiali, la più parte inediti, che ho
rinvenuto a Parigi, e sommano a un centinaio tra diplomi e altre
notizie, io ho potuto aggiungere o convalidare alcuni fatti di gran
momento. Molte memorie dovean qui restare, attenenti a una dominazione
che uscì dalla Francia; e che toccata quella fiera scossa della
rivolta di Sicilia, ebbe ricorso nuovamente alla Francia; la trasse
alla guerra di Spagna; e s'aiutò per venti anni della sua influenza
politica e delle sue armi. Fattomi, con questa {ii} certezza, a
cominciar le ricerche, le trovai facili pel favore de' molti egregi
Francesi e Italiani che m'aprivan le braccia in questa ospitalissima
Francia, usando meco non solamente con gentilezza, ma sì con
benevolenza, con sollecitudine, con affetto; i nomi de' quali non
ripeto, perchè quando si parla d'uomini sommi, anche la espressione
della gratitudine può parer vanità. Mercè d'essi e degli ordini sì
civili del paese, frugai gli archivi del reame di Francia, ove ognuno
è culto e gentile; e ne ho tratto diplomi assai importanti. La fortuna
mi portò alle mani due volumi di pregio non minore, quand'io volli
affacciarmi nell'immensa miniera de' Mss. della Biblioteca reale.
Altre carte ho cavato dalle opere degli spagnuoli Feliu, Capmany, e
Quintana; poche più da altri libri.
Per tal modo nel cap. II, ho potuto far menzione d'un disegno assai
grave, ancorchè non mandato ad effetto, cioè una partizione delle
province del reame di Puglia, proposta da Urbano IV a Carlo d'Angiò,
prima della nota concessione feudale. La notizia d'un'atroce prigione
di stato che Carlo tenea in Napoli, e altri particolari della sua
tirannide, aumentano la descrizione ch'io n'abbozzava nel cap. IV. Il
cap. V. risguardante le relazioni politiche esteriori, e l'opinion del
popolo è rimaneggiato e accresciuto molto. Perchè alcune notizie
pubblicate recentemente intorno al Sordello della Divina Commedia, e
la relazione Ms. ch'io trovai d'una ambasceria della corte di Francia
per la crociata del 1270, ritraggon sempre meglio le sembianze niente
amabili di Carlo d'Angiò. È determinata la patria dello ammiraglio
Ruggier Loria: è ammesso a riputazione letteraria il nome di Giovanni
di Procida, per un'opuscolo di filosofia morale, ch'ei tradusse dal
greco o compilò. {iii} In fine ho avuto luogo a riferire il vespro,
non solamente alla reazione degli oppressi contro gli oppressori, ma
anche all'antagonismo della nazion latina, che s'era sviluppato contro
i Francesi per tutta l'Italia. Il mostra assai chiaramente una
epistola de' Siciliani, piena di poesia e di fuoco, dalla quale ho
tolto, per accennare l'opinione pubblica del tempo, alcune frasi, di
quelle vere e viventi che l'immaginazione de' posteri invano si sforza
a ritrovare.
Il medesimo documento mi ha fornito un altro fatto nel cap. VII; ch'è
accresciuto ancora dalla lettera di Carlo d'Angiò, che diè contezza
dalla rivoluzione a Filippo l'Ardito, e gli domandò soccorso; senza
accennare il menomo sospetto di Pietro d'Aragona o d'alcuna congiura,
e senza punto ingannarsi su le difficoltà del racquisto della Sicilia.
Non manca qualche notizia cavata dalle nuove carte nei cap. VIII, IX,
X ed XI; come le negoziazioni di Filippo l'Ardito con Genova; di
Pietro d'Aragona co' cittadini di Roma, e col re di Tunis; le
preghiere che Carlo d'Angiò moribondo indirizzava al re di Francia,
ec. È rimutato il principio del cap. XII per alcuni diplomi che svelan
le pratiche della corte di Francia su la guerra d'Aragona. Un breve di
Martino IV, tra gli altri, dà a vedere come il parlamento di Francia
fosse l'arbitro di questa impresa; e con che audacia la contrastasse.
E scorrendo i cap. XIII e XIV si potrebbero osservare qua e là, altri
particolari su le negoziazioni che portarono i re d'Aragona ad
abbandonar la Sicilia; onde questa innalzò al trono Federigo II. Una
poesia provenzale di Federigo, con la risposta d'un suo cavaliere, mi
fecero aggiugnere alcuni righi nel cap. XV; come altri versi
provenzali mi avean suggerito qualche parola ne' cap. V, XII e XIII,
su Carlo d'Angiò, {iv} Pietro e Giacomo d'Aragona. Nello stesso cap.
notansi altri documenti su l'ammiraglio Loria; nel XVII confermansi i
particolari della battaglia della Falconarìa, con una lettera di Carlo
II di Napoli a Filippo il Bello, piena di lusinghe e di preghiere, per
ottener novelli soccorsi dalla corte di Francia. Infine molte notizie
su l'ultimo sforzo che fu affidato a Carlo di Valois, aumentano il
cap. XIX; tra le quali non è da tacersi un diploma di Carlo II, che
prevedea la necessità della pace con la Sicilia, e un altro intorno i
dritti ch'or chiameremmo d'albinaggio, che rinnegaronsi in teoria, e
rinunziaronsi in fatto, su i beni de' Francesi dell'esercito del
Valois, che venissero a morte nelle terre soggette al re di Napoli.
Nuove autorità ho aggiunto alla appendice, destinata al minuto esame
delle memorie storiche su la supposta congiura. Per tutto il corso
dell'opera ho fatto menzione soltanto nelle note, di quei documenti,
che nulla mutavano ne' fatti raccontati. E seguendo lo stesso metodo
di pubblicare i documenti inediti più importanti, ne ho aggiunto
tredici a que' della prima edizione: e sono numerati VI, VII, XIV,
XXIV, XXXII e dal XXXVII al XLIV.
Tali son le differenze di questa sopra la prima edizione: ciò che non
è mutato, nè mutabile io spero, è la coscienza che guidò il mio
lavoro. L'intrapresi per fare un saggio di quelle istorie particolari,
che sopra tutt'altre convengono a' tempi nostri. Scelsi il vespro
siciliano come il più grande avvenimento della Sicilia del medio evo:
il che se si chiamasse umor municipale, sarebbe mal detto; perchè la
Sicilia parmi assai grande per una città; e l'amore del proprio paese,
il rammarico de' suoi mali, e il desiderio della sua prosperità
comunque possan portarla gli eventi, non si {v} dee confondere con
l'egoismo di municipio che dilaniò un tempo l'Italia; passione
funesta, dileguata per sempre, io lo spero, insieme con l'ambizione di
tirannide d'ogni popolo italiano sopra l'altro. Guardando il vespro da
vicino, lo trovai più grande; si dileguarono la congiura e il
tradimento; l'eccidio si presentò come cominciamento e non fine d'una
rivoluzione; trovai l'importanza nella riforma degli ordini dello
stato; nelle forze morali e sociali che la rivoluzione creò; nei
valenti uomini che spinse per vent'anni tra i combattimenti e i negozi
politici: vidi estendersi in altri reami, e perpetuarsi in Sicilia, e
fors'anche nel resto d'Italia, gli effetti del vespro. Donde potea
bene accendersi in me il severo zelo della verità istorica; e poteva
io difendermi dall'inganno delle mie passioni nell'esame de' fatti,
ancorchè punto non mi sforzassi ad occultarle nelle parole.
Giovanni di Procida, per amor della patria e vendetta privata, si
propone di toglier la Sicilia a Carlo d'Angiò; l'offre a Pietro re
d'Aragona, che vantava su quella i dritti della moglie; cospira con
Pietro, col papa, con l'imperatore di Costantinopoli, coi baroni
siciliani: quando è in punto ogni cosa, i congiurati danno il segno;
uccidono i Francesi; esaltan Pietro al trono di Sicilia. Tale è stata,
poco più, poco meno, l'istoria del vespro siciliano: e sempre si è
arrestata al caso del vespro, o tutto al più, alla mutazione di
dinastia che ne seguiva. Per vero alcuni storici moderni, la più parte
oltramontani, dubitarono d'una trama sì vasta, segreta, felice; ma non
prendendo a investigare minutamente i fatti, perchè scorreano
vastissimi tratti di storia, prevalse sempre quella credenza, ripetuta
a gara da tutti gli altri storici, e da' Siciliani soprattutto; e si
continuò a fabbricare su la congiura. {vi}
Io credo aver dimostrato che il vespro non nacque da alcuna congiura;
ma fu un tumulto al quale diè occasione l'insolenza de' dominatori, e
diè origine e forza la condizione sociale e politica d'un popolo nè
avvezzo nè disposto a sopportare una dominazione tirannica e
straniera. I novelli documenti che possono sparger luce su l'origine
della rivoluzione, la lettera dello stesso Carlo, quella de'
Siciliani, non poche altre bolle papali inedite, confermano certamente
questa conchiusione. Al suo popolo, non ai potenti, la Sicilia dee
quella rivoluzione che nel secol XIII la salvò dalla estrema vergogna
e miseria, dalla corruzione servile, dall'annientamento. Al vespro di
Sicilia dee il reame di Napoli una riforma di governo, che moderò per
qualche tempo i suoi mali, ma non potè poi allignare. Il vespro
risparmiò a tutta l'Italia molti fieri contrasti con la dominazione
angioina, che potea conturbare la penisola, non mai ridarla sotto uno
scettro: il vespro, per tristissimo compenso, aprì in Italia la strada
alla dominazione spagnuola. Esso voltò il corso degli avvenimenti in
Levante, disarmando l'ambizione di Carlo: esso per poco non mutò le
sorti dell'Europa occidentale, dando occasione alla prima guerra di
conquista tentata dalla Francia su la penisola spagnuola. Ma lasciando
di considerare le conseguenze esteriori del movimento di questo
popolo, che or somma a due milioni, e non n'era forse la metà nel
secolo XIII, e restandoci agli effetti nella Sicilia stessa,
importantissimi li vedremo; perchè la rivoluzione che mutò prima la
forma del governo, poi la dinastia, indi la persona del principe,
rimasta salda e vittoriosa al finir della guerra, tramandò alle età
avvenire, in mezzo a tanti mali inevitabili, due fatti da non si
dileguare sì tosto: una gran {vii} tradizione; e uno statuto politico
che molto ristrinse l'autorità regia.
Quella tradizione, quelle franchige, ressero a un secolo d'anarchia
feudale; a tre di governo spagnuolo; duraron tutto il secolo
decimottavo, e gran tratto del decimonono. Nè alcuno troverà ch'io
porti esempi, come or diciamo, liberali, quando parlo di Carlo V e di
Filippo II; nè ch'io cerchi autorità sospette o leggiere, quando cito
il professor tedesco Ranke, e le sue considerazioni su gli Osmanlis e
la monarchia spagnuola ne' secoli XVI e XVII. E pure in quest'opera si
dimostra la pertinace resistenza della nazion siciliana contro
l'autorità regia ai tempi di que' principi sì dispotici e duri; e con
che difficoltà il parlamento di Sicilia consentisse loro alcuno scarso
sussidio, mentre il reame di Napoli, la Lombardia, i Paesi Bassi, la
medesima Castiglia, tutta la monarchia infine, dall'Aragona in fuori,
era oppressa dalle imposte, e dalla novella austerità del governo.
Que' nostri ordini pubblici restarono sotto Carlo III, quando i due
reami di Napoli e di Sicilia si divisero dalla Spagna; quegli ordini
furono cangiati nella forma e non certo nella sostanza, pe' mutamenti
del 1812: ed è bizzarra cosa a riflettere, che nel 1815 il congresso
di Vienna, rimescolando tutte le masse minori, tarpando e scorciando,
come in ogni altro stato d'Italia, le franchige della Sicilia, non
seppe annullarle del tutto. Gli statuti degli 8 e 11 dicembre 1816,
dettati, come pur furono in quanto alla Sicilia, dal solo potere
esecutivo senza partecipazione del legislativo, unirono, egli è vero,
i due reami di Napoli e di Sicilia più strettamente che ai tempi di
Carlo III, dileguarono per via di fatto le forme costituzionali o
rappresentative, ch'erano state in Sicilia senza {viii} interruzione
infin dal secolo XI, ma par cucirono nelle nuove fogge, pochi stracci
dell'antico manto di porpora; perchè non si potè fare a meno di
mantener qualche ultima franchigia nell'ordine giudiziale e
amministrativo della Sicilia: e franchigia è per certo, la promessa
data chiaramente nello statuto dell'11 dicembre, che il re
convocherebbe il parlamento di Sicilia, se dovesse accrescere i pesi
pubblici oltre la somma decretata dall'ultimo parlamento.
Così veggonsi per cinque secoli e mezzo, non solamente nel dritto
pubblico, ma fino nel fatto degli ordini pubblici di Sicilia, comechè
sempre decrescenti, gli effetti di quel potente movimento popolare del
secol XII. Se ne potrebbero al pari scerner le vestigie nell'indole
del sicilian popolo d'oggi, se fosse agevole, come quella delle
istituzioni, l'analisi delle cagioni naturali e sociali onde nascono i
costumi d'un popolo. Ma in tale investigazione gli effetti del vespro
andrebbero confusi con l'indole che produsse il vespro; della quale
ognun può vedere i lineamenti nella generazione che vive. E forse
perchè son nato in Sicilia e in Palermo, io ho potuto meglio
comprendere la sollevazione del 1282 sì com'essa nacque, repentina,
uniforme, irresistibile, desiderata ma non tramata, decisa e fatta al
girar d'uno sguardo.
Parigi, aprile, 1843.


LA GUERRA
DEL
VESPRO SICILIANO.


CAPITOLO PRIMO.
Intendimento dell'opera. Viver civile del secolo XII. Potenza della
Chiesa e della corte di Roma. Condizioni d'Italia e dei reami di
Sicilia e di Puglia infino alla metà del secolo. Federigo II
imperatore, e papa Innocenzo IV.

La riputazione della forza, per la quale si tengon gli stati,
mutabilissima è; donde avvien talvolta, che la cosa pubblica, quando
più irreparabilmente sembra perduta, d'un tratto ristorasi, per virtù
di principe, o impeto di popolo. Splendono allora egregi fatti in
città e in oste, cresce a tanti doppi la potenza della nazione, e
spezzansi ingiuriosi legami stranieri, si abbatte al di dentro una
viziosa macchina, e in riforme salutari si assoda lo stato. Questa, al
veder de' savi, è la gloria vera delle genti. Questa è degna che si
riduca spesso alla memoria loro, per francheggiare gli abbattuti e
vergognosi animi. Del rimanente, che portan gli annali de' popoli, se
non disuguaglianza di leggi, o inefficacia e avarizia, atroci guerre,
paci bugiarde, sedizioni, tirannidi, e sempre pochi che vogliono e
fanno, moltissimi che si lagnan solo, e immolato, il ben comune da
contraria tendenza delle cupidigie {2} private? E sarebbero argomenti
da ammaestrar gli uomini sì, ma di tal dottrina, che li volge a
disdegnosa accidia, anzi che prontarli a virtude.
Però mi son proposto, io Siciliano, di narrare la mutazion di
dominio, che seguì nella mia patria al cader del secolo decimoterzo.
E in vero, lasciati i tempi rimoti troppo, difformi per costumi,
religione, linguaggio, e tutt'altra parte di civiltà, veggo dal
milledugentoottantadue infino al trecentodue le glorie maggiori della
Sicilia; e venti anni innanzi un tal eccesso di tirannide, che rade
volte si è sopportato l'uguale: nè parmi che alcuno scrittore abbia
tutto abbracciato questo memorevol periodo, nè dirittamente
investigatolo, nè degnamente descritto. Ciò non presumo compier io,
ma certo vi porrò ogni sforzo. Non asconderò nè l'amore, nè l'ira;
perchè uomo invano promette spogliarsene ove narri i fatti degli
uomini. Ben mi guarderò che quelle passioni non mi tirino a sfigurare
la storia contro mia volontà; nè dico del falsarla, che sarebbe,
secondo il fine, o fanciullaggine o malignità e colpa sempre, anche
verso la patria, cui van ricordate con ugual candore le virtù, gli
errori e i misfatti, i lieti e i tristi giorni delle generazioni che
tennero un tempo questi nostri medesimi focolari. Io so, che
scrivendo di età lontane, spesso viensi, come dice un felicissimo
ingegno, a far l'indovino del passato. Ma mi studierò a dare alla
immaginativa il men che si possa. E perchè i fatti, e là dov'essi
manchino, le induzioni, abbiano saldo fondamento, non ritrarrò i
primi altrimenti che da scrittori contemporanei o diplomi[1]. Delle
{3} memorie repugnanti tra loro, seguirò quelle di maggior autorità,
sia per sè medesime, sia perchè si accordino con le necessità degli
uomini e de' tempi.
E su i tempi rivolgendo indietro lo sguardo, io non dirò, per esser
cose a tutti notissime, nè gli ordini del governamento feudale che
ingombrava l'Europa, nè i vizi di quello, nè i passi che moveansi alla
riforma nel secolo decimoterzo. Quali nascer possono da poter civile,
non già diviso ma senza misura fatto a brani e fluttuante, da estrema
disuguaglianza ne' dritti e negli averi, e poco men che universale
ignoranza, deturpata religione, leggi impotenti, e uso alla violenza,
e necessità della frode; e tali erano i costumi: nè la riforma, dubbia
e tarda, li moderava per anco. Necessaria è per natura, nei costumi
de' popoli, una mescolanza di buono e di tristo, della quale per leggi
ed esempi mutansi alquanto le proporzioni, e non si spegne pur mai
nessuno degli elementi; ma in quella età forse al peggio si
traboccava, sopra il biasimo de' tempi nostri. Certo egli è, che in
tal mezza barbarie, sciolti gli uomini dalla menzogna delle infinite
forme, che oggidì ne inceppano a ogni passo nel viver domestico e
civile, le grandi passioni, o buone o triste, più rigogliose sorgeano,
e più operavano.
Tra così fatti uomini, tra la divisione e debolezza degli stati, il
sacerdozio giganteggiava; raccogliendo i frutti della mansueta pietà
dei tempi apostolici, del fervore delle prime crociate, della
ignoranza lunghissima dei popoli. Fu la religione di Cristo nei secoli
di mezzo sola luce e {4} conforto ai buoni; seguita anco dai pravi,
perchè feano a metà: calpestavanla nelle opere, la onoravano della
fede e del culto, a quetar la cieca paura delle loro coscienze. I
ministri perciò dello altare, crebbero di riputazione, crebbero di
ricchezze; chè vantaggiavano inoltre i laici per lume di scienza, e
adopravan destri ambo le chiavi, e non pochi la purità del Vangelo
contaminavano con la superstizione, che ai barbari è più grata. A
puntellarsi di loro autorità pasceanli i grandi; i popoli indifesi
teneano a loro, credendo trovar sostegno, e in realtà ne davano: ma
soprattutto fu la corte di Roma che consolidò la smisurata possanza.
Perchè assicuratosi non disputato comando su le chiese d'Occidente, le
medesime arti che adopravan quelle in minor campo, spiegò ardita e
sapiente tra i reami; nel cui scompiglio tenne dritto il corso a' suoi
disegni; trapassò dai dommi e dalla morale, ai civili negozi. Indi,
fortificandosi a vicenda il papa e 'l clero, questo per tutta Europa
imbaldanziva e prevaleasi, come milizia di possente dominazione;
quegli, come capitano d'immense forze, sopra ogni altro principe si
levò.
Non è che molti umori non sorgessero contro la romana corte nel secolo
decimoterzo. Perciocchè un desiderio novello movea gl'ingegni;
prendeansi a ricercar tutte le parti dell'umano sapere; si arricchiano
i savi di antiche lettere e dottrine: i quali, ancorchè pochi
dapprima, e più radi ove lo stato più discostavasi da libertà, per
ogni luogo pure la scintilla del sacro fuoco accendeano. Sollevaronsi
pertanto gl'intelletti più audaci a meditare sulla mistura delle due
potestà, a contemplare i costumi del clero; nè fu lieve incitamento la
gelosia de' reggitori degli stati, svegliata da tanti fatti. Quindi
mostravano già il viso alla corte di Roma que' ch'erano più avvezzi a'
suoi colpi; il gregge provocato, si voltava con aspri insulti contro
il pastore; gli anatemi, per troppo usarsi, perdean forza; {5}
pensavano gli uomini e parlavano arditamente di cose tenute in pria
sacre come la fede istessa. Nascean così le idee, che Dante tuonò di
tal forza; e a fatica si faceano strada tra le inerti masse, dove
allignarono infine, e amari frutti portarono alla corte di Roma.
Ma queste opinioni ristrette a pochi, se urtavano talvolta la sua
possanza, non la menomavano per anco nel tempo ond'io scrivo. Mentre
le ambizioni de' chierici passavano ogni misura, mentre cupidigia, e
simonia, e libidine lussureggiavano nella vigna del Signore, tremavan
del clero i popoli, e il successor di Pietro stendea la mano su i
reami e su i re. Che se tal fiata prevalse la brutal forza sulla
morale, la prepotente opinione fece risorger tosto più gagliardo il
pontefice. Sì il veggiamo oltremonti levare a sua posta il vessillo
de' re o de' popoli, ed accender guerre, e cessarle, e trar tesori, e
dove moderare le dominazioni, dove dare o strappar corone: quanto più
lontano, più venerando e terribile. In Italia intanto, trasportato dai
turbini delle contese civili, più fiero pugnava coll'oro di
cristianità tutta; e chiamava straniere nazioni, e opponea l'una
all'altra; t'innalzava oggi, diman ti spegnea.
Avvegnachè il bel paese già si disputava acerbamente tra la Chiesa e
l'impero. Dietro la occupazion di Carlo Magno e degli Ottoni, la più
parte d'Italia era rimasa sotto la signoria feudale degl'imperatori
d'Occidente. Succedettero i dappoco a quei forti; i grandi feudatari
laceraron l'impero; tosto divenne nulla o nominale di qua dalle Alpi
la tedesca dominazione. E in questo, crescea la Chiesa, e confortava
gl'Italiani alla riscossa, con lo scritturale spirito di uguaglianza e
di libertà. In questo, la industria, il commercio, le scienze, le
lettere rinasceano in Italia a mutare le sorti del mondo. Quegli
esercizi, quelle discipline, trasser fuora dalla cieca moltitudine di
plebi, vassalli, e nobili minori, un'ordine nuovo: il popolo, ch'è
solo fondamento {6} ad uguaglianza e viver libero. Donde, volgendo
prestamente la feudalità all'anarchia feudale, e questa nel nuovo
ordine imbattendosi, sursero nel secolo undecimo repubbliche
mercantesche; nel seguente e nel decimoterzo, la Lombardia e la
Toscana fioriron di città industri e guerriere, che scosso ogni giogo,
si governarono a comune: e i feudatari si fecero cittadini o
condottieri, alla lor volta richiedendo il sostegno delle città
divenute più forti. E quando il reggimento di pochi o di un solo
occupava alcuna città, d'altra fatta esso rinasceva, e meno tendente a
barbarie; perchè non più n'era fondamento la ignava necessità del
vassallaggio, ma la divisione o l'inganno de' cittadini; i quali, se
metteansi il giogo sul collo, non mutavano i modi del vivere, nè
perdeano la virtù di affranchirsi. Rinnovellandosi in tal guisa gli
ordini civili, fortificossi la virtù guerriera; si rianimarono le
virtù cittadine; si apersero gl'ingegni agli alti concetti della
filosofia e della politica; una forza ignota agli oltramontani
solidamente feroci, scorse di nuovo per le vene dell'italian popolo,
stato dianzi signore del mondo. Il perchè gagliardamente ributtaronsi
gl'imperatori accaniti con loro masnade a ripigliare il dominio; ma
non tolleraronsi gli ordini, che poteano scacciarli per sempre. E 'l
rapido accrescimento dell'ordine popolare ne fu cagione. Perocchè in
altre nazioni, generandosi lentamente, fu adulto assai secoli
appresso, quando la monarchia, domi i baroni, avea consolidato e reso
uno il reame; onde il popolo, riscotendosi, fu animato da virtù
nazionale. Ma in Italia surse mentre province e città erano più
stranamente divise dall'anarchia feudale; laonde, non veggendo altro
che i propri confini, quei popoli presero umori e virtù municipali.
Operose virtù, che prodigiosamente aumentarono la possanza di ogni
città; ma tolsero al tutto che l'universale in reggimento durevole
s'assestasse. Così se in alcuna provincia si feano accordi a comune
{7} difesa, nè alle altre si estendeano, nè duravano oltre l'immediato
bisogno. Difformi i reggimenti, e mutabili, e incerti; e qual città si
ricattava, qual ricadea sotto immane tirannide. Brulicavano in Italia
cento e cento piccoli stati, pieni di passioni, di vita, di sospetti,
di nimistà; pronti a servir ciecamente ad ambizioni maggiori, che nel
parteggiare trovavan campo, e più rinfocavano a parteggiare.
Ondechè la corte di Roma, conscia delle sue forze, agognò alla
dominazione, or mettendo innanzi concessioni e diritti, or sotto
specie di farsi scudo a libertà; e gl'imperatori tedeschi, com'e'
poteano, al racquisto del bel giardino sforzavansi. Elettivo allora di
Germania il re, che re de' Romani per vanità pur s'appellava, e
imperatore, quando assentialo il papa, arrogantesi dar questo titolo e
questa corona; ma disputata e mutila, sotto il gran nome de' Cesari,
l'autorità. Tenean ogni possanza in Lamagna i grandi feudatari, e le
città libere; indocili, gelosi, di lor franchige superbi. Donde nè
gagliardi, nè continui gli sforzi degl'imperatori su l'Italia; imprese
di venturieri, non guerre di poderosa nazione: e scorati e stanchi
avrebbero forse i Tedeschi lasciato quest'ambizione, se l'Italia
medesima non si fosse precipitata ad aiutarli con quella maladizion
delle parti, i cui nomi a maggior vergogna si tolsero da due case
tedesche. I Guelfi allo inerme pontefice, gli altri allo straniero
lontano, davan fomite e forza; tra loro atrocemente dilaniavansi; e a
questo eran paghi, di libertà, di servitù non curandosi. E quasi non
bastassero a lor passioni insociali quelle divisioni, le tramutavano
in altre di nomi e sembianze diverse; nelle repubbliche vi si
mescolavano le usate parti di nobili e popolani: era per tutto una
confusione, una rissa brutale. Così stoltamente sciupossi quel nerbo
di valor politico ond'era rigogliosa l'Italia; l'Italia si preparò
secoli, e chi sa quanti? di servitù senza quiete. {8}
La Sicilia, e la penisola di qua dal Garigliano poco diverse dagli
altri popoli italiani per gente, linguaggio, tradizioni e costumi,
reggeansi pure con altri ordini. Mentre nel rimanente d'Europa la
progenie settentrionale, perdute le virtù de' barbari, ne ritenea solo
i vizi, ebbe la Sicilia, al par che la Spagna, il dominio degli Arabi,
culti se non civili, attivi e pronti come popolo testè rigenerato. La
regione di terraferma, or invasa dai barbari, or dagli imperatori
greci ripigliata, divideasi in vari stati, sotto reggimenti diversi,
alcun dei quali pigliava la forma delle nascenti repubbliche italiane,
quando una man di venturieri normanni venuta a difendere, si fe'
occupatrice, e istituì gli ordini feudali. Altri di questa gente
passando in Sicilia allo scorcio del secolo undecimo, e scacciando i
Saraceni, nimicati dagli altri abitatori per la diversa religione e lo
straniero dominio, fondaronvi un novello principato, e primi recaronvi
la feudalità[2]. La quale, perchè in Europa già piegava a riforma, qui
surse più civile e giusta; temperandola ancora la virtù e riputazione
di Ruggiero duce de' vincitori, la influenza delle grosse città, e i
molti poderi che s'ebber le chiese nelle prime caldezze della
cristiana vittoria, le proprietà allodiali, le ricchezze, il numero
de' Saracini venuti a patti più che spenti, e de' cristiani stessi di
Sicilia. Così il conte Ruggiero, principe di liberi uomini, non capo
di turbolento baronaggio, e vestito dell'autorità di legato
pontificio, ch'è infino ai dì nostri egregio dritto della corona di
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