La freccia nel fianco - 08

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loro merce sui parapetti dei ponti; e possedeva una coltura d'arte, di
storia, di geografia, disordinata ma vasta. Le sue lezioni eran
piacevoli conversari a proposito di qualunque cosa, d'una vettura che
passava, d'una vecchia cornice, d'un trampoliere del Giardino delle
Piante, d'una ragazza che strizzava l'occhio e che gli offriva il
paragone con la antica civiltà greca.
E Bruno sorbiva: sorbiva avidamente, quasi avesse intuito che toccava
a lui farsi tra quei due pazzi, il precettore bibliomane e il padre
polimane.
Sembrava precocemente animato dal pensiero, e più che dal pensiero,
dall'istinto d'armarsi per la vita, poi che tutto gli crollava
intorno. E lasciati prima del tempo i balocchi, quei soldatini che pur
ieri gli parevano vivi, non gradiva altri spassi che le visite al
Louvre, ai musei di storia e di costumi, alle gallerie d'arte e d'armi
e di gioielli e di maioliche e di vetri e di disegni.
Aveva mutato carattere; sentendo l'impossibilità di lottare contro la
volontà dei grandi, s'era chiuso; o li beffava, mettendo ogni cosa in
dubbio, spregiandone leggermente i discorsi e guardandosi con
diffidenza dalle loro promesse e dai loro progetti.
Usciva la mattina a cavallo col padre; questi montava una saura alla
quale aveva dato il nome di Virgo, e il fanciullo un morello bruciato,
piccolo e robusto, che chiamava Spillo.
Pel resto della giornata stava con Salapolli e si lasciava guidar da
lui; a Saint-Germain l'Auxerrois, la chiesa raccolta e nera, che
pareva trasudare il sangue della notte di San Bartolomeo e figurava
nella mente di Bruno come un gioiello pauroso, aveva avuto una lezione
di storia; e lontano, su in alto, nella Basilica del Sacro Cuore,
Salapolli s'era intrattenuto con Bruno a parlar di vetri, prendendo
ragione dalle vetrate di quella chiesa, arancione su fondo azzurro o
azzurro su fondo arancione, sulle quali era tratteggiata la leggenda
di Giovanna d'Arco.
Era quasi l'intero giorno in istrada, sotto la cupola di nebbia che
incombeva d'inverno perennemente sulla città; o partiva la mattina a
cavallo col conte Fabiano attraverso la nebbia greve e gialla come
dietro fossero state luci nascoste, mentre nelle case s'accendevano le
lampade, e tornava verso mezzogiorno, quando squarciata la nebbia, il
sole prorompeva e la vita si slanciava febbrile.
Faceva colazione e ripartiva con Salapolli, a zonzo, in cerca di
librai, al Palais Royal, spingendosi con la carrozza fino alla Butte
Montmartre, prendendo il tè all'Avenue de l'Opéra, guardando da una
finestra della sala i grossi omnibus cigolanti che andavano al
Giardino delle Piante. Ascoltava per le vie fracassose il trotto
pesante e corto dei cavalli che battevano il terreno; pareva che un
reggimento di grossa cavalleria passasse di continuo sul duro selciato
lubrico, sul fango nero.
Pranzava di frequente col padre in un caffè di grido. Le piccole
tavole erano ornate di fiori vivi, e in certe nicchie tra una sala e
l'altra eran cespi di fiori serici, su cui le lampadine elettriche
spruzzavan luci variate; e luce pioveva dall'alto, dorata sulle pareti
dorate, che chiudevano in cornici d'oro, tra decorazioni di pavoni, di
pesci e di granchi, alcune scene settecentesche.
E si davan di gomito in quelle sale la grande signora e la grande
mercenaria, il letterato celebre e il giornalista alla moda, l'uomo
politico in auge e l'uomo di Borsa, la cui vita era un giuoco
d'equilibrio. L'uomo di Borsa che sedeva spesso alla medesima tavola
di Fabiano, il quale conosceva tutti, sembrava a Bruno il più ambiguo.
Gli avevano indicato parecchie volte la Borsa in una bella piazza
sotto gli archi d'un palazzo severamente semplice. Le sue colonne,
nere da un lato di quel nerofumo che aveva morso e penetrato per
sempre Notre-Dame e Saint-Germain, e ancora bianche dall'altro,
rammentavano a Bruno i tronchi di pioppi argentei.
E intorno stava sempre una folla d'uomini. Tutti urlavano; molte mani
eran levate in alto, e qualcuno in fondo, innanzi a una tabella
azzurra dalle diciture bianche, scriveva. Di tanto in tanto l'urlìo
saliva di tono, la folla si commoveva violentemente, le mani
s'agitavano convulse, e gli uomini sul fondo scrivevano sempre; poi
riprendeva il gridare spezzato e insistente.
Lo spettacolo di quegli uomini che schiamazzavano in coro lo aveva
arrestato di botto, la prima volta; e suo padre gli aveva detto che
stavan facendo il denaro.
Eran gli stessi uomini che sedevano a tavola con lui; la mattina
avevan fatto gridare gli altri, la sera mangiavano copiosamente e
ridevano.
Bruno attraversava la vita in quell'epoca ad occhi sbarrati, per
vedere tutto e comprendere.
S'era abituato a Parigi come a una sua città, e si diceva che da tempo
immemorabile tutto vi era stato disposto per fargli piacere.
Colore e movimento per rallegrargli gli occhi; uomini e donne che
correvano lungo i boulevards, s'arrampicavano sull'imperiale d'un
omnibus, sgusciavan di furia tra un veicolo e l'altro, popolavan le
trattorie e i caffè, s'indugiavano a guardar le mostre, sparivan
sotterra per raggiungere una stazione del métro, non eran che figurine
rappresentative.
La folla su cui la carrozza del conte gettava passando la sua polvere
e nei giorni di pioggia lasciava andare una frustata di fango e di
spruzzi; negozii e teatri aperti perchè Bruno potesse scegliere;
giornali gridati con voci gutturali dagli strilloni perchè Bruno li
leggesse e li traducesse con Salapolli; tutto era stato fatto e
disposto per dagli piacere.
Parigi era la sua Parigi; i boulevards i suoi boulevards.
Vi passava con la carrozza tratta da due bai in certi giorni d'inverno
denso con lo stesso animo col quale vi passava in primavera. E se al
Pré Catalan gli alberi erano sfrondati e i tronchi non più adorni di
rosai rampicanti che salivano fin dove la pianta lanciava intorno la
fronda verde; e se al Giardino del Lussemburgo la cintura graziosa
d'anfore e di vasi era spenta di colore e non v'eran più che le
foglie, Bruno si distraeva in altri spettacoli.
Perchè tutto lo interessava: anche il fango, alto un dito e pastoso,
che copriva la strada; anche il rigagnolo giallastro che correva lungo
il marciapiede; anche la pioggerella minuta ch'egli lasciava stillare
sul pastrano per sentir l'autunno preannunziare le feste; la pace
silenziosa della riva sinistra, l'eleganza severa della via Royale,
della piazza Vendôme, della via de la Paix; il fracasso da fiera, la
vita bruciante, grottesca, instabile, continuamente rinnovata dei
boulevards.
Non era meno avido di sensazioni che di cognizioni.
E sognava in quella baraonda ch'era ormai per lui la vita, sognava i
suoi sogni, e si faceva a poco a poco impenetrabile.
Aveva portato per lunghi mesi nel cuore il desiderio di tornare da
Nicla, e negli occhi la visione della fanciulla; e non ne aveva
parlato che nei primi giorni di lontananza. Poi sdegnando di
supplicare invano, s'era taciuto.
Ma dentro gli occhi la visione era rimasta ancora ostinatamente per
altri mesi, netta e viva come la figura d'un quadro.
Era Nicla seduta sopra un tronco abbattuto, rossa nel tramonto di
fiamma; era Nicla tutta chiusa in un abito color d'acciaio, con un
cappello morbido piantato di traverso sulla testa a guisa del feltro
d'un arlecchino; era Nicla curva ad accarezzarlo, con gli occhi
smarriti nella gioia pura d'un'ingenua amicizia, con l'anima aperta a
cantar la poesia misteriosa.
Era Nicla che vegliava il sonno di lui, che salutava il suo risveglio
al mattino; era per Nicla ch'egli studiava, voleva sapere e vedere;
per Nicla non commetteva imprudenze, montava a cavallo saviamente,
senza far bravate; a Nicla avrebbe raccontato le sue gesta e confidato
le sue impressioni; a Nicla avrebbe descritto le donne che tornavano a
passar per casa, belle esse pure, e tuttavia a lui indifferenti, e
tuttavia egli era loro spesso ostile; mancavano di qualche virtù
preziosa e arcana, che si leggeva negli occhi limpidi, sulla bocca
soave della fanciulla.
Qualche cosa di tutto questo egli diceva già nelle sue lettere, che
gli costavan molta fatica; ma avrebbe detto il più a voce, con la
guancia appoggiata alla guancia di Nicla.
Poi il sogno erasi disperso, l'edificio crollato rumorosamente.
Nicla non era più Nicla. Il matrimonio l'aveva fatta ritornar
Nicoletta, e un uomo stava a lei vicino.... La baciava!...
Bruno non aveva idea del tempo; non sapeva che mentre egli diventava,
la fanciulla doveva vivere, ch'egli andava incontro alla giovinezza ed
ella se ne allontanava, che a un certo punto quella medesima fanciulla
la quale è una giovane signora se si marita, è una vecchia zitella se
il marito non c'è.
Egli sapeva ch'ella offriva la bocca a un uomo e appoggiava la guancia
alla guancia d'un uomo, forse in quella medesima campagna, per i
meandri fronzuti di quel medesimo bosco il quale apparteneva al
fanciullo, e, sacro alla sua storia, era stato arco e cornice al
lontano idillio.
Non scrisse più a Nicla; aveva dovuto infine scrivere suo padre,
pregato dalla giovane, la quale chiedeva notizie dopo mesi di
silenzio; e Bruno si ribellò all'ordine di riprendere la
corrispondenza.
--Non so nulla, io!--dichiarò a suo padre.--Non ho niente da scrivere.
--Ma Nicla, non ti ricordi più della tua Nicla, tanto bella, tanto
buona?--chiese il conte Fabiano.
--Scrivile tu, se è bella!--rimbeccò Bruno.
E alzava le spalle, duro e ostinato, sorridendo alla maraviglia di suo
padre.
S'era dovuto concludere un patto, per rispondere alla premura di
Nicoletta Barbano, la quale di tempo in tempo chiedeva notizie
inquieta: avrebbe scritto Salapolli.
E Salapolli scriveva con molta solennità, perdendosi a illustrare il
talento precoce, l'originalità di carattere e di idee che
distinguevano il suo allievo; solo rammaricandosi che egli fosse
taciturno, un poco sempre diffidente, un poco troppo orgoglioso.
Bruno stava, in verità, dritto e solo in mezzo a una folla.
Era la folla dei bellimbusti, dei gaudenti, delle femmine, degli
uomini di penna e di spada che passava incessantemente per la casa,
dando l'impressione di sbatacchiar tutte le porte, di spalancar gli
usci e le finestre; cosicchè pareva che il conte e suo figlio fossero
essi medesimi ospiti fra gli ospiti; e tutti comandavano; e i
domestici non sapendo a chi obbedire, badavano ad arrotondare il
gruzzolo; e la tavola era apparecchiata la mattina, il giorno, la
sera, la notte.
Se non avesse avuto in quel periodo di tempo una testarda e
formidabile vena che lo sosteneva al giuoco e gli dava quasi la magìa
della divinazione, il conte sarebbe stato divorato in un batter
d'occhio; ma vinceva a tutti i giuochi, incuteva rispetto ai più
audaci, arrischiava colpi pazzeschi, e li guadagnava imperturbabile; e
sentiva col presentimento misterioso del giuocatore di razza che il
colpo era giusto e poteva annunziarlo un attimo innanzi che si
effettuasse.
Bruno seguiva qualche volta il suo giuoco, divertendosi allo stupore
degli altri.
--Finirai come Elia Polacco,--gli disse un giorno beffardamente.--A
furia di pelare, resterai pelato!--E lanciò uno sguardo ai capelli già
radi del conte.
Egli non aveva alcun timore di suo padre.
Le parti s'erano invertite. Era il figlio che di tanto in tanto, di
ritorno da una gita al Louvre, da una corsa alla biblioteca, da una
scarrozzata, ancora gli occhi pieni di visioni che erano sue e che
fermentavano nel suo cervello, andava a dare un'occhiata al padre e
agli amici di lui. Stringeva la mano alle ragazze, alcune delle quali
erano vecchie conoscenze, e s'intratteneva a discorrere con gli
ufficiali.
Vestito il più spesso di scuro, pallido e olivastro nel volto magro,
con un cappello morbido dalla penna di fagiano, stava a guardare e
sorrideva. Gli pareva assurdo, ridicolo, che uomini da lui conosciuti
fin da quando aveva sei anni, corressero ancora dietro a una
combinazione cieca di carte; e impallidissero e sudassero e si
perdessero per quegli stupidi segni rossi o neri: e dovessero correre
ancora, per altri anni, vittime e zimbelli e carnefici a un tempo.
Il conte Fabiano aveva allora una bella amante, Paulette Demours, che
sembrava palpitar veramente per lui: e spaventata dalla fortuna
vertiginosa, ne temeva il crollo da un istante all'altro.
Ella supplicava il conte di smettere; aveva ammassato un patrimonio,
per un infernale capriccio della sorte; non doveva forzarla di più, o
la sorte gli si sarebbe ribellata, vendicandosi atrocemente. E qualche
giorno impediva davvero ch'egli tentasse colpi, non più arditi, ma
assurdi.
Bruno sapeva tutto; e dopo aver dato un'occhiata in giro, andava da
Paulette, e indicando il padre, le diceva negligentemente:
--Bada che non commetta stupidaggini!
La ragazza prometteva con un cenno del capo; e seguiva degli occhi
avidamente il fanciullo vestito di scuro, pallido e olivastro nel
volto magro, col cappello dalla piuma di fagiano.
Gli amici di casa non avevano mai capito se Paulette fosse innamorata
del padre o del figlio.


XVI.

Trascorsero mesi, trascorsero anni, così, in quella vita che aveva
tutta l'apparenza d'un giubilo festoso, d'un tripudio giocondo, ed era
per Bruno un isolamento selvatico.
Da Parigi era stato più volte a Bruxelles, dove suo padre contava i
migliori amici, scelti, come ovunque, tra i più famosi scapestrati del
regno; era stato più volte a Berlino e a Vienna con sua madre, per
consenso del conte Fabiano.
Ma la lingua tedesca gli dispiaceva, la cucina tedesca gli dispiaceva,
gli ufficiali tedeschi che parevano considerare il mondo come un
dominio loro proprio, il quale sarebbe stato presto o tardi tagliato a
fette dalla loro spada, gli dispiacevano più che la lingua e la
cucina.
A Vienna aveva trovato genti meno diverse, che sapevano l'eleganza e
la grazia; le donne erano sottili, molto bionde, nervose; i
divertimenti avevano carattere di qualche bellezza, lontano dalle
sguaiataggini francesi e dalla brutalità tedesca.
Il professore Salapolli che accompagnava Bruno in quei viaggi non vi
si era mai abituato; gli mancava il pane dei vecchi libri; non era
fatto per gli svaghi; e la contessa Clara Dolores lo interrogava
troppo sovente intorno alla vita che il conte Fabiano menava a Parigi.
L'ultima volta Bruno aveva incontrato sua madre a Vienna, e gli era
parso che anche la casa di lei fosse aperta a mezzo mondo.
Una governante ungherese aveva la direzione, ma la volontà di Clara
Dolores, stravagante e impronta, scompigliava ogni cosa.
Si combinavan partite di piacere a tavola, tra dame e gentiluomini, e
si effettuavano sul momento, correndo alla campagna di pieno inverno.
Si parlava di pattinaggio e mezz'ora appresso tutti dovevano essere al
_ring_.
Qualche volta Bruno tornava a casa con Salapolli per far colazione, e
la governante lo pregava di raggiungere subito la contessa all'altro
capo della città, in un ristorante celebre; la trovava con altre
signore e con un nugolo di uomini, uno dei quali aveva una specie di
tutela su di lei, una tutela che gli altri parevano rispettare.
Clara Dolores non scriveva mai: telegrafava, per la città e per fuori.
Si faceva arrivare dall'Italia, dalla Francia, dall'Inghilterra gli
oggetti che le occorrevano o che il suo capriccio chiedeva.
Andava dicendo che voleva Bruno, che intendeva ritornare in Italia e
riprendere la sua vita più riposata, anche pel bene del giovinetto; ma
se ne dimenticava poi, sospinta da una specie di fretta che si
rispecchiava nella volubilità dei suoi propositi, nella instabilità
delle sue idee.
Un tempo, quando era con suo padre, Bruno desiderava ritornare a sua
madre; e quando era con sua madre, desiderava ritornare con suo padre.
Ormai non desiderava più nè l'una cosa nè l'altra; ma delle due
preferiva ancora la vita a Parigi col conte Fabiano. Sua madre menava
la stessa esistenza di lui, salvochè le persone intorno svegliavano in
Bruno una sorda avversione, forse per l'assoluta disparità di razza.
Non riusciva a comprendere come Clara Dolores potesse intedescarsi a
quel modo; gli pareva altra da quella che aveva conosciuta e amata da
bambino. Era più attenta a tutte le minuzie dell'eleganza, più gelosa
della propria bellezza, e le visite della pettinatrice, della
manicure, e il massaggio e il bagno le rubavano tre quarti della
giornata.
Bruno aveva osservato che le labbra di lei avevano un rosso
inverosimile e che troppo sovente apriva una scatola d'oro legata a
una catenella che le pendeva dal fianco e guardandosi in uno specchio
piccolo, si passava sul viso, rapidissimo, un minuscolo piumino.
La governante non godeva in casa alcuna autorità innanzi alla manicure
e alla pettinatrice, le quali ordinavano a nome della contessa ogni
giorno nuove acque e nuovi cosmetici mirifici. Veniva di tanto in
tanto anche un medico, specialista di segreti per la bellezza
femminile, che alla sua scienza aveva dato nome di Kallotrofia. E per
ordinar ricette costose, il Kallotrofo era impareggiabile.
Giovane ancora, bella di nobil bellezza, Clara Dolores si lasciava
ciurmare per leggerezza da quegli empirici; e sul suo viso ancora
fresco e roseo andava stendendo una maschera che, non potendo
aggiungere, toglieva il colorito naturale, e a poco a poco alterava le
linee e avvizziva le carni.
Bruno notò un giorno, mentr'erano a tavola, le mani di sua madre,
affusolate e bianche, coronate da unghie d'un colore sì acceso che per
certo il pennello vi era passato.
--Hai le unghie dipinte?--chiese Bruno.
Ella non rispose.
--Le ho già viste,--seguitò Bruno, aggrondando le sopracciglia.--Le ho
viste già, a Parigi...
E sua madre sentì nella voce di lui un quasi impercettibile tremito.
Ella si guardò le unghie e rispose:
--È smalto del Serraglio....
La voce di Bruno si fece beffarda, d'un tratto, e osservò con finto
candore:
--Del serraglio dove ci sono le bestie?...
Clara Dolores, non appena sentiva un'ostilità nell'animo del figlio,
ne parlava col professore Salapolli.
--È il carattere del conte!--diceva.--Ne sono spaventata. Ogni volta
che il conte mi ha detto una insolenza, non ho potuto ribatterla, e
nemmeno rilevarla. Era più nella voce che nelle parole; più in un
doppio senso che nel senso diretto.... Bruno ha la stessa arte, lo
stesso sarcasmo, lo stesso amore della beffa. E quando penso che vive
con quegli esempii sotto gli occhi, con quel grande modello
innanzi...! Tocca a lei, professore, dare al ragazzo un'educazione che
gli serva da contravveleno. Non desidero tanto che sia dotto quanto
che sia diverso da suo padre!...
Il professore faceva un gesto di promessa.
Egli teneva per il conte e per Bruno. Gli pareva che sua madre non
sapesse apprezzare il talento e il carattere di quel ragazzo
straordinario e che volesse ridurlo a una mediocrità grigia, al
figurino di ragazzo che si vedeva al Prater come pel viale dei Tigli
come al Bosco di Boulogne: un'oca per bene.
Il sarcasmo! la beffardaggine! l'ironia! Ma era ciò che tacitamente
più ammirava il Salapolli, il quale non era mai stato capace di
sorridere per tutti i suoi cinquant'anni di vita. Il sarcasmo! la
beffardaggine! l'ironia! Ma era il colpo di spada con cui Bruno
istintivamente troncava una questione, uccideva un avversario.... Fin
che taceva o s'irritava o si commoveva, l'uomo e la questione eran
vivi nel suo cervello. Quando vi gettava contro l'acido del suo
spirito, la questione e l'uomo eran ben morti.
Sua madre non poteva comprendere queste sottigliezze, perchè fra tutti
era la persona che meno conosceva Bruno; forse il gusto per le cose
belle ed eleganti veniva da lei e s'era trasformato in inclinazione
d'arte; forse a lei doveva Bruno la mobilità dell'ingegno, la vivacità
dell'imaginazione, la squisita sensibilità.
Ma ella era lontana da lui; e al professore Salapolli pareva che la
contessa non fosse più tanto spaventata dall'idea dei cattivi esempii
e dei grandi modelli di sarcasmo che stavano sotto gli occhi di Bruno
a Parigi. Eran passati i tempi in cui Clara Dolores sguinzagliava
avvocati e sciupava lettere e telegrammi e carta bollata per avere
seco il figlio.
Fiutando in aria e guardandosi intorno e vedendo gentiluomini e
ganzerini che frequentavano in gran numero la casa, il modesto
bibliomane aveva anche indovinato perchè Bruno poteva stare e poteva
andarsene, senza gioia soverchia e senza eccessivo dolore della madre.
Infatti, non appena egli espresse il desiderio di tornare da suo
padre, Clara Dolores annuì.
Egli aveva allora quattordici anni; portava i capelli lunghi fino alle
orecchie e tagliati a tondo; era sottile ma ben costrutto; vestiva
spesso di velluto, coi calzoni chiusi sopra il ginocchio, le calze
fini, le scarpette scollate. Se metteva in capo il suo berretto
preferito con la penna di fagiano, dava l'idea d'un paggio.
Le ragazze che frequentavano l'appartamento di via Glück lo guardavano
con un sorriso un po' inquieto, ed egli non le guardava punto; o per
vero dire, le guardava tutte nella stessa maniera, con una cortese
indifferenza.
Il conte che ne era superbo, teneva l'occhio piuttosto sulle ragazze
che su di lui; teneva l'occhio specialmente sopra una leggiadra
bionda, esile, con grandi occhi grigi, mademoiselle Armande Jeoffroy,
dal fine profilo e dalla testa balzana. Aveva ventidue anni, era
l'amante d'un ufficiale d'artiglieria che giuocava sempre e perdeva
forte.
Armande era stata presa per Bruno da un'affezione che al conte
sembrava smodata; e di tanto in tanto, battendo lievemente sulla
spalla di lei e indicando con gli occhi il ragazzo l'avvertiva:
--Glissons, mademoiselle, n'appuyons pas!
Fu in quei giorni che Bruno si battè in duello col conte Gastone de la
Jonchère, altro sbarazzino della sua età.
Bruno era andato a trovarlo; pieno la testa dei classici ai quali
s'era dato con ardore da qualche tempo e della grande letteratura,
egli aveva espresso alcuni giudizii laudativi sulla lingua, che
Gastone aveva subito rimbeccato. Bruno sosteneva che la più perfetta
lingua del mondo era l'italiana; Gastone ch'era la francese,
l'italiana essendo povera e stentata; Bruno osservava che in francese
una parola aveva tre, quattro, cinque significati; e che in italiano
ogni idea aveva la sua parola, e si avevano più parole per un solo
oggetto; Gastone s'era messo allora a scimmiottar la cadenza italiana
e Bruno a beffar la cadenza francese; fin che, avendo detto Gastone
che l'italiana era lingua da miserabili maccheroni, Bruno perdette il
senno e lasciò andare un potentissimo manrovescio al suo amico.
Ma Gastone già sapeva comportarsi cavallerescamente; senza scendere a
violenze manesche, chiese immediata soddisfazione.
E ambedue si recarono in sala di scherma, staccarono dalla
rastrelliera due fioretti, si misero in guardia e cominciarono il
combattimento.
Non v'eran testimonii; la sera calava e nella sala viveva appena una
luce penombrosa; s'udivano i ferri battere secchi e i due ragazzi
ansare; già saltando e attaccando e respingendo, mutavano il duello in
giuoco, e ridevano ambedue senza poter toccarsi.
Ma d'un tratto risuonò un grido e i due fioretti caddero a terra
pesantemente.
Bruno era stato colpito in bocca e mandava sangue copioso.
Gastone si gettò fuori a chiedere aiuto, urlando, più pallido del
ferito.
Accorsero i domestici, accorse il conte de la Jonchère, fu chiamato il
medico, il quale constatò che si trattava di cosa da nulla; una larga
graffiatura al palato, che sanguinava abbondantemente; mezzo
centimetro più giù, e Bruno sarebbe rimasto fulminato.
Il ragazzo fu ricondotto a casa, accompagnato da Gastone, che doveva
chiedere scusa al conte Fabiano; poi per riguardo alle famiglie, si
tentò di nascondere la cosa, e non se ne parlò che sottovoce.
Ma se ne parlò molto; il conte Fabiano rimase un paio di giorni come
atterrito; il professore Salapolli fu rapito in estasi. Arrischiar la
pelle per la supremazia della lingua nazionale! farsi infilare per il
vocabolario! Non aveva mai udito nulla di simile: la letteratura aveva
dato il suo battesimo di sangue all'alunno prediletto.
E guardandosi intorno, e non trovando alcuno che la pensasse come lui
e che volesse dare a quell'avvenimento un significato più largo e
simbolico di quel che non meritasse una ragazzata, il Salapolli si
ricordò che da molto tempo, da anni, la corrispondenza con Nicla era
stata interrotta.
Giudicò che la signora fosse un'ammiratrice di Bruno; e scrisse un
lungo particolareggiato racconto dell'avventura sorprendente «alla
signora Nicoletta Barbano, casa Barbano, via Santa Margherita, Milano
(Italie)».
Due giorni appresso ebbe una risposta, la quale lo confermò nel tacito
disprezzo intellettuale ch'egli nutriva per le donne del mondo intero.
La signora non aveva capito niente.
Scriveva accorata senz'alcuna parola ammirativa, esprimendo il più
vivo timore per la sorte del «bambino». Ella ricordava che parecchi
anni addietro voleva uccidere o fare uccidere un signore che non gli
piaceva; e supplicava di vigilarlo, di mettergli in cuore la pietà e
la bontà. Del vocabolario e della supremazia della lingua nazionale
non teneva conto alcuno.
Salapolli ne rimase così mortificato che non disse nulla a Bruno.
Il giovinetto non faceva più parola, e da anni, di Nicoletta.
Nei suoi occhi la visione della fanciulla che cantava, diritta e
sottile sullo sfondo del bosco, la poesia dei balsami arcani, era
andata lentamente scolorandosi e poi era scomparsa. Qualche volta gli
pareva ch'ella appartenesse a quel mondo fantastico dell'infanzia in
cui tutte le cose hanno un significato di miracolo, e un ruscello è un
mare, e un arbusto è una selva, e una fanciulla è una fata.
Non già che l'avesse interamente dimenticata; ma non la comprendeva
più; non sapeva più s'ella fosse una creatura ornata di tutte le
bellezze, viva e vera, o non piuttosto una stupenda creazione del suo
sogno.
Egli era tutto preso da un desiderio d'essere diverso, che lo studio
dei classici e la biografia degli uomini grandi gli avevan messo in
cuore non appena aveva potuto comprendere che ciascun uomo, come gli
diceva Salapolli, teneva chiuso nel pugno il proprio destino.
Ciascun uomo serrava nella sinistra la debolezza e la volgarità; nella
destra la virtù e la grandezza. Non valeva lagnarci della nostra
sorte; era un lagnarci di noi medesimi; era un confessare che non
avevamo voluto essere ciò che desideravamo.
E il giovinetto, guardando i suoi amici curvi da anni al tavoliere,
contenti o disperati per la sciocca vicenda delle carte, sentiva che
nelle massime del Salapolli c'era qualche verità.
Aveva scritto un romanzo, non uno di quei romanzi di cui, quand'era
fanciullo, annunziava a Nicla l'idea e scombiccherava le parole dietro
le paginette dell'albo di suo padre; ma un romanzo vero, la storia
d'un uomo povero che vince tutte le difficoltà le più aspre e diventa
Re d'un grande popolo.
Era breve, e Salapolli opinava che si potesse chiamarlo novella
piuttosto che romanzo; ma il maestro era rimasto stupefatto per certe
pagine; per una, tra le altre, in cui Bruno comparava il cammino
dell'uomo che lotta al cammino del viandante in una campagna folta di
nebbia, fredda e senz'orizzonte. La descrizione della natura desolata
e dell'ansia e dell'ira che prendevan l'uomo il quale voleva giungere
alla meta, eran parse al Salapolli eccezionali per intuizione e
verità.
--Degne di stampa!--esclamava.--Degne di stampa!--andava gridando.
E ancora una volta gli era frullato pel capo di scriverne alla signora
Nicoletta Barbano; ma non ne aveva fatto poi nulla, pensando che la
signora chiamava «bambino» ostinatamente l'autore, ed era rimasta a
otto anni addietro.
Contava allora Bruno sedici anni all'incirca; da poco Armande
Jeoffroy, la giovane amica dell'ufficiale d'artiglieria, gli aveva
insegnato l'amore.
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