La Divina Commedia di Dante - 20

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ma così o così, natura lascia
poi fare a voi secondo che v’abbella.
Pria ch’i’ scendessi a l’infernale ambascia,
I s’appellava in terra il sommo bene
onde vien la letizia che mi fascia;
e El si chiamò poi: e ciò convene,
ché l’uso d’i mortali è come fronda
in ramo, che sen va e altra vene.
Nel monte che si leva più da l’onda,
fu’ io, con vita pura e disonesta,
da la prim’ ora a quella che seconda,
come ’l sol muta quadra, l’ora sesta».


Paradiso
Canto XXVII

‘Al Padre, al Figlio, a lo Spirito Santo’,
cominciò, ‘gloria!’, tutto ’l paradiso,
sì che m’inebrïava il dolce canto.
Ciò ch’io vedeva mi sembiava un riso
de l’universo; per che mia ebbrezza
intrava per l’udire e per lo viso.
Oh gioia! oh ineffabile allegrezza!
oh vita intègra d’amore e di pace!
oh sanza brama sicura ricchezza!
Dinanzi a li occhi miei le quattro face
stavano accese, e quella che pria venne
incominciò a farsi più vivace,
e tal ne la sembianza sua divenne,
qual diverrebbe Iove, s’elli e Marte
fossero augelli e cambiassersi penne.
La provedenza, che quivi comparte
vice e officio, nel beato coro
silenzio posto avea da ogne parte,
quand’ ïo udi’: «Se io mi trascoloro,
non ti maravigliar, ché, dicend’ io,
vedrai trascolorar tutti costoro.
Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio,
il luogo mio, il luogo mio, che vaca
ne la presenza del Figliuol di Dio,
fatt’ ha del cimitero mio cloaca
del sangue e de la puzza; onde ’l perverso
che cadde di qua sù, là giù si placa».
Di quel color che per lo sole avverso
nube dipigne da sera e da mane,
vid’ ïo allora tutto ’l ciel cosperso.
E come donna onesta che permane
di sé sicura, e per l’altrui fallanza,
pur ascoltando, timida si fane,
così Beatrice trasmutò sembianza;
e tale eclissi credo che ’n ciel fue
quando patì la supprema possanza.
Poi procedetter le parole sue
con voce tanto da sé trasmutata,
che la sembianza non si mutò piùe:
«Non fu la sposa di Cristo allevata
del sangue mio, di Lin, di quel di Cleto,
per essere ad acquisto d’oro usata;
ma per acquisto d’esto viver lieto
e Sisto e Pïo e Calisto e Urbano
sparser lo sangue dopo molto fleto.
Non fu nostra intenzion ch’a destra mano
d’i nostri successor parte sedesse,
parte da l’altra del popol cristiano;
né che le chiavi che mi fuor concesse,
divenisser signaculo in vessillo
che contra battezzati combattesse;
né ch’io fossi figura di sigillo
a privilegi venduti e mendaci,
ond’ io sovente arrosso e disfavillo.
In vesta di pastor lupi rapaci
si veggion di qua sù per tutti i paschi:
o difesa di Dio, perché pur giaci?
Del sangue nostro Caorsini e Guaschi
s’apparecchian di bere: o buon principio,
a che vil fine convien che tu caschi!
Ma l’alta provedenza, che con Scipio
difese a Roma la gloria del mondo,
soccorrà tosto, sì com’ io concipio;
e tu, figliuol, che per lo mortal pondo
ancor giù tornerai, apri la bocca,
e non asconder quel ch’io non ascondo».
Sì come di vapor gelati fiocca
in giuso l’aere nostro, quando ’l corno
de la capra del ciel col sol si tocca,
in sù vid’ io così l’etera addorno
farsi e fioccar di vapor trïunfanti
che fatto avien con noi quivi soggiorno.
Lo viso mio seguiva i suoi sembianti,
e seguì fin che ’l mezzo, per lo molto,
li tolse il trapassar del più avanti.
Onde la donna, che mi vide assolto
de l’attendere in sù, mi disse: «Adima
il viso e guarda come tu se’ vòlto».
Da l’ora ch’ïo avea guardato prima
i’ vidi mosso me per tutto l’arco
che fa dal mezzo al fine il primo clima;
sì ch’io vedea di là da Gade il varco
folle d’Ulisse, e di qua presso il lito
nel qual si fece Europa dolce carco.
E più mi fora discoverto il sito
di questa aiuola; ma ’l sol procedea
sotto i mie’ piedi un segno e più partito.
La mente innamorata, che donnea
con la mia donna sempre, di ridure
ad essa li occhi più che mai ardea;
e se natura o arte fé pasture
da pigliare occhi, per aver la mente,
in carne umana o ne le sue pitture,
tutte adunate, parrebber nïente
ver’ lo piacer divin che mi refulse,
quando mi volsi al suo viso ridente.
E la virtù che lo sguardo m’indulse,
del bel nido di Leda mi divelse,
e nel ciel velocissimo m’impulse.
Le parti sue vivissime ed eccelse
sì uniforme son, ch’i’ non so dire
qual Bëatrice per loco mi scelse.
Ma ella, che vedëa ’l mio disire,
incominciò, ridendo tanto lieta,
che Dio parea nel suo volto gioire:
«La natura del mondo, che quïeta
il mezzo e tutto l’altro intorno move,
quinci comincia come da sua meta;
e questo cielo non ha altro dove
che la mente divina, in che s’accende
l’amor che ’l volge e la virtù ch’ei piove.
Luce e amor d’un cerchio lui comprende,
sì come questo li altri; e quel precinto
colui che ’l cinge solamente intende.
Non è suo moto per altro distinto,
ma li altri son mensurati da questo,
sì come diece da mezzo e da quinto;
e come il tempo tegna in cotal testo
le sue radici e ne li altri le fronde,
omai a te può esser manifesto.
Oh cupidigia che i mortali affonde
sì sotto te, che nessuno ha podere
di trarre li occhi fuor de le tue onde!
Ben fiorisce ne li uomini il volere;
ma la pioggia continüa converte
in bozzacchioni le sosine vere.
Fede e innocenza son reperte
solo ne’ parvoletti; poi ciascuna
pria fugge che le guance sian coperte.
Tale, balbuzïendo ancor, digiuna,
che poi divora, con la lingua sciolta,
qualunque cibo per qualunque luna;
e tal, balbuzïendo, ama e ascolta
la madre sua, che, con loquela intera,
disïa poi di vederla sepolta.
Così si fa la pelle bianca nera
nel primo aspetto de la bella figlia
di quel ch’apporta mane e lascia sera.
Tu, perché non ti facci maraviglia,
pensa che ’n terra non è chi governi;
onde sì svïa l’umana famiglia.
Ma prima che gennaio tutto si sverni
per la centesma ch’è là giù negletta,
raggeran sì questi cerchi superni,
che la fortuna che tanto s’aspetta,
le poppe volgerà u’ son le prore,
sì che la classe correrà diretta;
e vero frutto verrà dopo ’l fiore».


Paradiso
Canto XXVIII

Poscia che ’ncontro a la vita presente
d’i miseri mortali aperse ’l vero
quella che ’mparadisa la mia mente,
come in lo specchio fiamma di doppiero
vede colui che se n’alluma retro,
prima che l’abbia in vista o in pensiero,
e sé rivolge per veder se ’l vetro
li dice il vero, e vede ch’el s’accorda
con esso come nota con suo metro;
così la mia memoria si ricorda
ch’io feci riguardando ne’ belli occhi
onde a pigliarmi fece Amor la corda.
E com’ io mi rivolsi e furon tocchi
li miei da ciò che pare in quel volume,
quandunque nel suo giro ben s’adocchi,
un punto vidi che raggiava lume
acuto sì, che ’l viso ch’elli affoca
chiuder conviensi per lo forte acume;
e quale stella par quinci più poca,
parrebbe luna, locata con esso
come stella con stella si collòca.
Forse cotanto quanto pare appresso
alo cigner la luce che ’l dipigne
quando ’l vapor che ’l porta più è spesso,
distante intorno al punto un cerchio d’igne
si girava sì ratto, ch’avria vinto
quel moto che più tosto il mondo cigne;
e questo era d’un altro circumcinto,
e quel dal terzo, e ’l terzo poi dal quarto,
dal quinto il quarto, e poi dal sesto il quinto.
Sopra seguiva il settimo sì sparto
già di larghezza, che ’l messo di Iuno
intero a contenerlo sarebbe arto.
Così l’ottavo e ’l nono; e chiascheduno
più tardo si movea, secondo ch’era
in numero distante più da l’uno;
e quello avea la fiamma più sincera
cui men distava la favilla pura,
credo, però che più di lei s’invera.
La donna mia, che mi vedëa in cura
forte sospeso, disse: «Da quel punto
depende il cielo e tutta la natura.
Mira quel cerchio che più li è congiunto;
e sappi che ’l suo muovere è sì tosto
per l’affocato amore ond’ elli è punto».
E io a lei: «Se ’l mondo fosse posto
con l’ordine ch’io veggio in quelle rote,
sazio m’avrebbe ciò che m’è proposto;
ma nel mondo sensibile si puote
veder le volte tanto più divine,
quant’ elle son dal centro più remote.
Onde, se ’l mio disir dee aver fine
in questo miro e angelico templo
che solo amore e luce ha per confine,
udir convienmi ancor come l’essemplo
e l’essemplare non vanno d’un modo,
ché io per me indarno a ciò contemplo».
«Se li tuoi diti non sono a tal nodo
sufficïenti, non è maraviglia:
tanto, per non tentare, è fatto sodo!».
Così la donna mia; poi disse: «Piglia
quel ch’io ti dicerò, se vuo’ saziarti;
e intorno da esso t’assottiglia.
Li cerchi corporai sono ampi e arti
secondo il più e ’l men de la virtute
che si distende per tutte lor parti.
Maggior bontà vuol far maggior salute;
maggior salute maggior corpo cape,
s’elli ha le parti igualmente compiute.
Dunque costui che tutto quanto rape
l’altro universo seco, corrisponde
al cerchio che più ama e che più sape:
per che, se tu a la virtù circonde
la tua misura, non a la parvenza
de le sustanze che t’appaion tonde,
tu vederai mirabil consequenza
di maggio a più e di minore a meno,
in ciascun cielo, a süa intelligenza».
Come rimane splendido e sereno
l’emisperio de l’aere, quando soffia
Borea da quella guancia ond’ è più leno,
per che si purga e risolve la roffia
che pria turbava, sì che ’l ciel ne ride
con le bellezze d’ogne sua paroffia;
così fec’ïo, poi che mi provide
la donna mia del suo risponder chiaro,
e come stella in cielo il ver si vide.
E poi che le parole sue restaro,
non altrimenti ferro disfavilla
che bolle, come i cerchi sfavillaro.
L’incendio suo seguiva ogne scintilla;
ed eran tante, che ’l numero loro
più che ’l doppiar de li scacchi s’inmilla.
Io sentiva osannar di coro in coro
al punto fisso che li tiene a li ubi,
e terrà sempre, ne’ quai sempre fuoro.
E quella che vedëa i pensier dubi
ne la mia mente, disse: «I cerchi primi
t’hanno mostrato Serafi e Cherubi.
Così veloci seguono i suoi vimi,
per somigliarsi al punto quanto ponno;
e posson quanto a veder son soblimi.
Quelli altri amori che ’ntorno li vonno,
si chiaman Troni del divino aspetto,
per che ’l primo ternaro terminonno;
e dei saper che tutti hanno diletto
quanto la sua veduta si profonda
nel vero in che si queta ogne intelletto.
Quinci si può veder come si fonda
l’esser beato ne l’atto che vede,
non in quel ch’ama, che poscia seconda;
e del vedere è misura mercede,
che grazia partorisce e buona voglia:
così di grado in grado si procede.
L’altro ternaro, che così germoglia
in questa primavera sempiterna
che notturno Arïete non dispoglia,
perpetüalemente ‘Osanna’ sberna
con tre melode, che suonano in tree
ordini di letizia onde s’interna.
In essa gerarcia son l’altre dee:
prima Dominazioni, e poi Virtudi;
l’ordine terzo di Podestadi èe.
Poscia ne’ due penultimi tripudi
Principati e Arcangeli si girano;
l’ultimo è tutto d’Angelici ludi.
Questi ordini di sù tutti s’ammirano,
e di giù vincon sì, che verso Dio
tutti tirati sono e tutti tirano.
E Dïonisio con tanto disio
a contemplar questi ordini si mise,
che li nomò e distinse com’ io.
Ma Gregorio da lui poi si divise;
onde, sì tosto come li occhi aperse
in questo ciel, di sé medesmo rise.
E se tanto secreto ver proferse
mortale in terra, non voglio ch’ammiri:
ché chi ’l vide qua sù gliel discoperse
con altro assai del ver di questi giri».


Paradiso
Canto XXIX

Quando ambedue li figli di Latona,
coperti del Montone e de la Libra,
fanno de l’orizzonte insieme zona,
quant’ è dal punto che ’l cenìt inlibra
infin che l’uno e l’altro da quel cinto,
cambiando l’emisperio, si dilibra,
tanto, col volto di riso dipinto,
si tacque Bëatrice, riguardando
fiso nel punto che m’avëa vinto.
Poi cominciò: «Io dico, e non dimando,
quel che tu vuoli udir, perch’ io l’ho visto
là ’ve s’appunta ogne ubi e ogne quando.
Non per aver a sé di bene acquisto,
ch’esser non può, ma perché suo splendore
potesse, risplendendo, dir “Subsisto”,
in sua etternità di tempo fore,
fuor d’ogne altro comprender, come i piacque,
s’aperse in nuovi amor l’etterno amore.
Né prima quasi torpente si giacque;
ché né prima né poscia procedette
lo discorrer di Dio sovra quest’ acque.
Forma e materia, congiunte e purette,
usciro ad esser che non avia fallo,
come d’arco tricordo tre saette.
E come in vetro, in ambra o in cristallo
raggio resplende sì, che dal venire
a l’esser tutto non è intervallo,
così ’l triforme effetto del suo sire
ne l’esser suo raggiò insieme tutto
sanza distinzïone in essordire.
Concreato fu ordine e costrutto
a le sustanze; e quelle furon cima
nel mondo in che puro atto fu produtto;
pura potenza tenne la parte ima;
nel mezzo strinse potenza con atto
tal vime, che già mai non si divima.
Ieronimo vi scrisse lungo tratto
di secoli de li angeli creati
anzi che l’altro mondo fosse fatto;
ma questo vero è scritto in molti lati
da li scrittor de lo Spirito Santo,
e tu te n’avvedrai se bene agguati;
e anche la ragione il vede alquanto,
che non concederebbe che ’ motori
sanza sua perfezion fosser cotanto.
Or sai tu dove e quando questi amori
furon creati e come: sì che spenti
nel tuo disïo già son tre ardori.
Né giugneriesi, numerando, al venti
sì tosto, come de li angeli parte
turbò il suggetto d’i vostri alimenti.
L’altra rimase, e cominciò quest’ arte
che tu discerni, con tanto diletto,
che mai da circüir non si diparte.
Principio del cader fu il maladetto
superbir di colui che tu vedesti
da tutti i pesi del mondo costretto.
Quelli che vedi qui furon modesti
a riconoscer sé da la bontate
che li avea fatti a tanto intender presti:
per che le viste lor furo essaltate
con grazia illuminante e con lor merto,
si c’hanno ferma e piena volontate;
e non voglio che dubbi, ma sia certo,
che ricever la grazia è meritorio
secondo che l’affetto l’è aperto.
Omai dintorno a questo consistorio
puoi contemplare assai, se le parole
mie son ricolte, sanz’ altro aiutorio.
Ma perché ’n terra per le vostre scole
si legge che l’angelica natura
è tal, che ’ntende e si ricorda e vole,
ancor dirò, perché tu veggi pura
la verità che là giù si confonde,
equivocando in sì fatta lettura.
Queste sustanze, poi che fur gioconde
de la faccia di Dio, non volser viso
da essa, da cui nulla si nasconde:
però non hanno vedere interciso
da novo obietto, e però non bisogna
rememorar per concetto diviso;
sì che là giù, non dormendo, si sogna,
credendo e non credendo dicer vero;
ma ne l’uno è più colpa e più vergogna.
Voi non andate giù per un sentiero
filosofando: tanto vi trasporta
l’amor de l’apparenza e ’l suo pensiero!
E ancor questo qua sù si comporta
con men disdegno che quando è posposta
la divina Scrittura o quando è torta.
Non vi si pensa quanto sangue costa
seminarla nel mondo e quanto piace
chi umilmente con essa s’accosta.
Per apparer ciascun s’ingegna e face
sue invenzioni; e quelle son trascorse
da’ predicanti e ’l Vangelio si tace.
Un dice che la luna si ritorse
ne la passion di Cristo e s’interpuose,
per che ’l lume del sol giù non si porse;
e mente, ché la luce si nascose
da sé: però a li Spani e a l’Indi
come a’ Giudei tale eclissi rispuose.
Non ha Fiorenza tanti Lapi e Bindi
quante sì fatte favole per anno
in pergamo si gridan quinci e quindi:
sì che le pecorelle, che non sanno,
tornan del pasco pasciute di vento,
e non le scusa non veder lo danno.
Non disse Cristo al suo primo convento:
‘Andate, e predicate al mondo ciance’;
ma diede lor verace fondamento;
e quel tanto sonò ne le sue guance,
sì ch’a pugnar per accender la fede
de l’Evangelio fero scudo e lance.
Ora si va con motti e con iscede
a predicare, e pur che ben si rida,
gonfia il cappuccio e più non si richiede.
Ma tale uccel nel becchetto s’annida,
che se ’l vulgo il vedesse, vederebbe
la perdonanza di ch’el si confida:
per cui tanta stoltezza in terra crebbe,
che, sanza prova d’alcun testimonio,
ad ogne promession si correrebbe.
Di questo ingrassa il porco sant’ Antonio,
e altri assai che sono ancor più porci,
pagando di moneta sanza conio.
Ma perché siam digressi assai, ritorci
li occhi oramai verso la dritta strada,
sì che la via col tempo si raccorci.
Questa natura sì oltre s’ingrada
in numero, che mai non fu loquela
né concetto mortal che tanto vada;
e se tu guardi quel che si revela
per Danïel, vedrai che ’n sue migliaia
determinato numero si cela.
La prima luce, che tutta la raia,
per tanti modi in essa si recepe,
quanti son li splendori a chi s’appaia.
Onde, però che a l’atto che concepe
segue l’affetto, d’amar la dolcezza
diversamente in essa ferve e tepe.
Vedi l’eccelso omai e la larghezza
de l’etterno valor, poscia che tanti
speculi fatti s’ha in che si spezza,
uno manendo in sé come davanti».


Paradiso
Canto XXX

Forse semilia miglia di lontano
ci ferve l’ora sesta, e questo mondo
china già l’ombra quasi al letto piano,
quando ’l mezzo del cielo, a noi profondo,
comincia a farsi tal, ch’alcuna stella
perde il parere infino a questo fondo;
e come vien la chiarissima ancella
del sol più oltre, così ’l ciel si chiude
di vista in vista infino a la più bella.
Non altrimenti il trïunfo che lude
sempre dintorno al punto che mi vinse,
parendo inchiuso da quel ch’elli ’nchiude,
a poco a poco al mio veder si stinse:
per che tornar con li occhi a Bëatrice
nulla vedere e amor mi costrinse.
Se quanto infino a qui di lei si dice
fosse conchiuso tutto in una loda,
poca sarebbe a fornir questa vice.
La bellezza ch’io vidi si trasmoda
non pur di là da noi, ma certo io credo
che solo il suo fattor tutta la goda.
Da questo passo vinto mi concedo
più che già mai da punto di suo tema
soprato fosse comico o tragedo:
ché, come sole in viso che più trema,
così lo rimembrar del dolce riso
la mente mia da me medesmo scema.
Dal primo giorno ch’i’ vidi il suo viso
in questa vita, infino a questa vista,
non m’è il seguire al mio cantar preciso;
ma or convien che mio seguir desista
più dietro a sua bellezza, poetando,
come a l’ultimo suo ciascuno artista.
Cotal qual io lascio a maggior bando
che quel de la mia tuba, che deduce
l’ardüa sua matera terminando,
con atto e voce di spedito duce
ricominciò: «Noi siamo usciti fore
del maggior corpo al ciel ch’è pura luce:
luce intellettüal, piena d’amore;
amor di vero ben, pien di letizia;
letizia che trascende ogne dolzore.
Qui vederai l’una e l’altra milizia
di paradiso, e l’una in quelli aspetti
che tu vedrai a l’ultima giustizia».
Come sùbito lampo che discetti
li spiriti visivi, sì che priva
da l’atto l’occhio di più forti obietti,
così mi circunfulse luce viva,
e lasciommi fasciato di tal velo
del suo fulgor, che nulla m’appariva.
«Sempre l’amor che queta questo cielo
accoglie in sé con sì fatta salute,
per far disposto a sua fiamma il candelo».
Non fur più tosto dentro a me venute
queste parole brievi, ch’io compresi
me sormontar di sopr’ a mia virtute;
e di novella vista mi raccesi
tale, che nulla luce è tanto mera,
che li occhi miei non si fosser difesi;
e vidi lume in forma di rivera
fulvido di fulgore, intra due rive
dipinte di mirabil primavera.
Di tal fiumana uscian faville vive,
e d’ogne parte si mettien ne’ fiori,
quasi rubin che oro circunscrive;
poi, come inebrïate da li odori,
riprofondavan sé nel miro gurge,
e s’una intrava, un’altra n’uscia fori.
«L’alto disio che mo t’infiamma e urge,
d’aver notizia di ciò che tu vei,
tanto mi piace più quanto più turge;
ma di quest’ acqua convien che tu bei
prima che tanta sete in te si sazi»:
così mi disse il sol de li occhi miei.
Anche soggiunse: «Il fiume e li topazi
ch’entrano ed escono e ’l rider de l’erbe
son di lor vero umbriferi prefazi.
Non che da sé sian queste cose acerbe;
ma è difetto da la parte tua,
che non hai viste ancor tanto superbe».
Non è fantin che sì sùbito rua
col volto verso il latte, se si svegli
molto tardato da l’usanza sua,
come fec’ io, per far migliori spegli
ancor de li occhi, chinandomi a l’onda
che si deriva perché vi s’immegli;
e sì come di lei bevve la gronda
de le palpebre mie, così mi parve
di sua lunghezza divenuta tonda.
Poi, come gente stata sotto larve,
che pare altro che prima, se si sveste
la sembianza non süa in che disparve,
così mi si cambiaro in maggior feste
li fiori e le faville, sì ch’io vidi
ambo le corti del ciel manifeste.
O isplendor di Dio, per cu’ io vidi
l’alto trïunfo del regno verace,
dammi virtù a dir com’ ïo il vidi!
Lume è là sù che visibile face
lo creatore a quella creatura
che solo in lui vedere ha la sua pace.
E’ si distende in circular figura,
in tanto che la sua circunferenza
sarebbe al sol troppo larga cintura.
Fassi di raggio tutta sua parvenza
reflesso al sommo del mobile primo,
che prende quindi vivere e potenza.
E come clivo in acqua di suo imo
si specchia, quasi per vedersi addorno,
quando è nel verde e ne’ fioretti opimo,
sì, soprastando al lume intorno intorno,
vidi specchiarsi in più di mille soglie
quanto di noi là sù fatto ha ritorno.
E se l’infimo grado in sé raccoglie
sì grande lume, quanta è la larghezza
di questa rosa ne l’estreme foglie!
La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza
non si smarriva, ma tutto prendeva
il quanto e ’l quale di quella allegrezza.
Presso e lontano, lì, né pon né leva:
ché dove Dio sanza mezzo governa,
la legge natural nulla rileva.
Nel giallo de la rosa sempiterna,
che si digrada e dilata e redole
odor di lode al sol che sempre verna,
qual è colui che tace e dicer vole,
mi trasse Bëatrice, e disse: «Mira
quanto è ’l convento de le bianche stole!
Vedi nostra città quant’ ella gira;
vedi li nostri scanni sì ripieni,
che poca gente più ci si disira.
E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni
per la corona che già v’è sù posta,
prima che tu a queste nozze ceni,
sederà l’alma, che fia giù agosta,
de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia
verrà in prima ch’ella sia disposta.
La cieca cupidigia che v’ammalia
simili fatti v’ha al fantolino
che muor per fame e caccia via la balia.
E fia prefetto nel foro divino
allora tal, che palese e coverto
non anderà con lui per un cammino.
Ma poco poi sarà da Dio sofferto
nel santo officio; ch’el sarà detruso
là dove Simon mago è per suo merto,
e farà quel d’Alagna intrar più giuso».


Paradiso
Canto XXXI

In forma dunque di candida rosa
mi si mostrava la milizia santa
che nel suo sangue Cristo fece sposa;
ma l’altra, che volando vede e canta
la gloria di colui che la ’nnamora
e la bontà che la fece cotanta,
sì come schiera d’ape che s’infiora
una fïata e una si ritorna
là dove suo laboro s’insapora,
nel gran fior discendeva che s’addorna
di tante foglie, e quindi risaliva
là dove ’l süo amor sempre soggiorna.
Le facce tutte avean di fiamma viva
e l’ali d’oro, e l’altro tanto bianco,
che nulla neve a quel termine arriva.
Quando scendean nel fior, di banco in banco
porgevan de la pace e de l’ardore
ch’elli acquistavan ventilando il fianco.
Né l’interporsi tra ’l disopra e ’l fiore
di tanta moltitudine volante
impediva la vista e lo splendore:
ché la luce divina è penetrante
per l’universo secondo ch’è degno,
sì che nulla le puote essere ostante.
Questo sicuro e gaudïoso regno,
frequente in gente antica e in novella,
viso e amore avea tutto ad un segno.
O trina luce che ’n unica stella
scintillando a lor vista, sì li appaga!
guarda qua giuso a la nostra procella!
Se i barbari, venendo da tal plaga
che ciascun giorno d’Elice si cuopra,
rotante col suo figlio ond’ ella è vaga,
veggendo Roma e l’ardüa sua opra,
stupefaciensi, quando Laterano
a le cose mortali andò di sopra;
ïo, che al divino da l’umano,
a l’etterno dal tempo era venuto,
e di Fiorenza in popol giusto e sano,
di che stupor dovea esser compiuto!
Certo tra esso e ’l gaudio mi facea
libito non udire e starmi muto.
E quasi peregrin che si ricrea
nel tempio del suo voto riguardando,
e spera già ridir com’ ello stea,
su per la viva luce passeggiando,
menava ïo li occhi per li gradi,
mo sù, mo giù e mo recirculando.
Vedëa visi a carità süadi,
d’altrui lume fregiati e di suo riso,
e atti ornati di tutte onestadi.
La forma general di paradiso
già tutta mïo sguardo avea compresa,
in nulla parte ancor fermato fiso;
e volgeami con voglia rïaccesa
per domandar la mia donna di cose
di che la mente mia era sospesa.
Uno intendëa, e altro mi rispuose:
credea veder Beatrice e vidi un sene
vestito con le genti glorïose.
Diffuso era per li occhi e per le gene
di benigna letizia, in atto pio
quale a tenero padre si convene.
E «Ov’ è ella?», sùbito diss’ io.
Ond’ elli: «A terminar lo tuo disiro
mosse Beatrice me del loco mio;
e se riguardi sù nel terzo giro
dal sommo grado, tu la rivedrai
nel trono che suoi merti le sortiro».
Sanza risponder, li occhi sù levai,
e vidi lei che si facea corona
reflettendo da sé li etterni rai.
Da quella regïon che più sù tona
occhio mortale alcun tanto non dista,
qualunque in mare più giù s’abbandona,
quanto lì da Beatrice la mia vista;
ma nulla mi facea, ché süa effige
non discendëa a me per mezzo mista.
«O donna in cui la mia speranza vige,
e che soffristi per la mia salute
in inferno lasciar le tue vestige,
di tante cose quant’ i’ ho vedute,
dal tuo podere e da la tua bontate
riconosco la grazia e la virtute.
Tu m’hai di servo tratto a libertate
per tutte quelle vie, per tutt’ i modi
che di ciò fare avei la potestate.
La tua magnificenza in me custodi,
sì che l’anima mia, che fatt’ hai sana,
piacente a te dal corpo si disnodi».
Così orai; e quella, sì lontana
come parea, sorrise e riguardommi;
poi si tornò a l’etterna fontana.
E ’l santo sene: «Acciò che tu assommi
perfettamente», disse, «il tuo cammino,
a che priego e amor santo mandommi,
vola con li occhi per questo giardino;
ché veder lui t’acconcerà lo sguardo
più al montar per lo raggio divino.
E la regina del cielo, ond’ ïo ardo
tutto d’amor, ne farà ogne grazia,
però ch’i’ sono il suo fedel Bernardo».
Qual è colui che forse di Croazia
viene a veder la Veronica nostra,
che per l’antica fame non sen sazia,
ma dice nel pensier, fin che si mostra:
‘Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace,
or fu sì fatta la sembianza vostra?’;
tal era io mirando la vivace
carità di colui che ’n questo mondo,
contemplando, gustò di quella pace.
«Figliuol di grazia, quest’ esser giocondo»,
cominciò elli, «non ti sarà noto,
tenendo li occhi pur qua giù al fondo;
ma guarda i cerchi infino al più remoto,
tanto che veggi seder la regina
cui questo regno è suddito e devoto».
Io levai li occhi; e come da mattina
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