La Divina Commedia di Dante - 15

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Ed ella: «Certo assai vedrai sommerso
nel falso il creder tuo, se bene ascolti
l’argomentar ch’io li farò avverso.
La spera ottava vi dimostra molti
lumi, li quali e nel quale e nel quanto
notar si posson di diversi volti.
Se raro e denso ciò facesser tanto,
una sola virtù sarebbe in tutti,
più e men distributa e altrettanto.
Virtù diverse esser convegnon frutti
di princìpi formali, e quei, for ch’uno,
seguiterieno a tua ragion distrutti.
Ancor, se raro fosse di quel bruno
cagion che tu dimandi, o d’oltre in parte
fora di sua materia sì digiuno
esto pianeto, o, sì come comparte
lo grasso e ’l magro un corpo, così questo
nel suo volume cangerebbe carte.
Se ’l primo fosse, fora manifesto
ne l’eclissi del sol, per trasparere
lo lume come in altro raro ingesto.
Questo non è: però è da vedere
de l’altro; e s’elli avvien ch’io l’altro cassi,
falsificato fia lo tuo parere.
S’elli è che questo raro non trapassi,
esser conviene un termine da onde
lo suo contrario più passar non lassi;
e indi l’altrui raggio si rifonde
così come color torna per vetro
lo qual di retro a sé piombo nasconde.
Or dirai tu ch’el si dimostra tetro
ivi lo raggio più che in altre parti,
per esser lì refratto più a retro.
Da questa instanza può deliberarti
esperïenza, se già mai la provi,
ch’esser suol fonte ai rivi di vostr’ arti.
Tre specchi prenderai; e i due rimovi
da te d’un modo, e l’altro, più rimosso,
tr’ambo li primi li occhi tuoi ritrovi.
Rivolto ad essi, fa che dopo il dosso
ti stea un lume che i tre specchi accenda
e torni a te da tutti ripercosso.
Ben che nel quanto tanto non si stenda
la vista più lontana, lì vedrai
come convien ch’igualmente risplenda.
Or, come ai colpi de li caldi rai
de la neve riman nudo il suggetto
e dal colore e dal freddo primai,
così rimaso te ne l’intelletto
voglio informar di luce sì vivace,
che ti tremolerà nel suo aspetto.
Dentro dal ciel de la divina pace
si gira un corpo ne la cui virtute
l’esser di tutto suo contento giace.
Lo ciel seguente, c’ha tante vedute,
quell’ esser parte per diverse essenze,
da lui distratte e da lui contenute.
Li altri giron per varie differenze
le distinzion che dentro da sé hanno
dispongono a lor fini e lor semenze.
Questi organi del mondo così vanno,
come tu vedi omai, di grado in grado,
che di sù prendono e di sotto fanno.
Riguarda bene omai sì com’ io vado
per questo loco al vero che disiri,
sì che poi sappi sol tener lo guado.
Lo moto e la virtù d’i santi giri,
come dal fabbro l’arte del martello,
da’ beati motor convien che spiri;
e ’l ciel cui tanti lumi fanno bello,
de la mente profonda che lui volve
prende l’image e fassene suggello.
E come l’alma dentro a vostra polve
per differenti membra e conformate
a diverse potenze si risolve,
così l’intelligenza sua bontate
multiplicata per le stelle spiega,
girando sé sovra sua unitate.
Virtù diversa fa diversa lega
col prezïoso corpo ch’ella avviva,
nel qual, sì come vita in voi, si lega.
Per la natura lieta onde deriva,
la virtù mista per lo corpo luce
come letizia per pupilla viva.
Da essa vien ciò che da luce a luce
par differente, non da denso e raro;
essa è formal principio che produce,
conforme a sua bontà, lo turbo e ’l chiaro».


Paradiso
Canto III

Quel sol che pria d’amor mi scaldò ’l petto,
di bella verità m’avea scoverto,
provando e riprovando, il dolce aspetto;
e io, per confessar corretto e certo
me stesso, tanto quanto si convenne
leva’ il capo a proferer più erto;
ma visïone apparve che ritenne
a sé me tanto stretto, per vedersi,
che di mia confession non mi sovvenne.
Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
non sì profonde che i fondi sien persi,
tornan d’i nostri visi le postille
debili sì, che perla in bianca fronte
non vien men forte a le nostre pupille;
tali vid’ io più facce a parlar pronte;
per ch’io dentro a l’error contrario corsi
a quel ch’accese amor tra l’omo e ’l fonte.
Sùbito sì com’ io di lor m’accorsi,
quelle stimando specchiati sembianti,
per veder di cui fosser, li occhi torsi;
e nulla vidi, e ritorsili avanti
dritti nel lume de la dolce guida,
che, sorridendo, ardea ne li occhi santi.
«Non ti maravigliar perch’ io sorrida»,
mi disse, «appresso il tuo püeril coto,
poi sopra ’l vero ancor lo piè non fida,
ma te rivolve, come suole, a vòto:
vere sustanze son ciò che tu vedi,
qui rilegate per manco di voto.
Però parla con esse e odi e credi;
ché la verace luce che le appaga
da sé non lascia lor torcer li piedi».
E io a l’ombra che parea più vaga
di ragionar, drizza’mi, e cominciai,
quasi com’ uom cui troppa voglia smaga:
«O ben creato spirito, che a’ rai
di vita etterna la dolcezza senti
che, non gustata, non s’intende mai,
grazïoso mi fia se mi contenti
del nome tuo e de la vostra sorte».
Ond’ ella, pronta e con occhi ridenti:
«La nostra carità non serra porte
a giusta voglia, se non come quella
che vuol simile a sé tutta sua corte.
I’ fui nel mondo vergine sorella;
e se la mente tua ben sé riguarda,
non mi ti celerà l’esser più bella,
ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda,
che, posta qui con questi altri beati,
beata sono in la spera più tarda.
Li nostri affetti, che solo infiammati
son nel piacer de lo Spirito Santo,
letizian del suo ordine formati.
E questa sorte che par giù cotanto,
però n’è data, perché fuor negletti
li nostri voti, e vòti in alcun canto».
Ond’ io a lei: «Ne’ mirabili aspetti
vostri risplende non so che divino
che vi trasmuta da’ primi concetti:
però non fui a rimembrar festino;
ma or m’aiuta ciò che tu mi dici,
sì che raffigurar m’è più latino.
Ma dimmi: voi che siete qui felici,
disiderate voi più alto loco
per più vedere e per più farvi amici?».
Con quelle altr’ ombre pria sorrise un poco;
da indi mi rispuose tanto lieta,
ch’arder parea d’amor nel primo foco:
«Frate, la nostra volontà quïeta
virtù di carità, che fa volerne
sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta.
Se disïassimo esser più superne,
foran discordi li nostri disiri
dal voler di colui che qui ne cerne;
che vedrai non capere in questi giri,
s’essere in carità è qui necesse,
e se la sua natura ben rimiri.
Anzi è formale ad esto beato esse
tenersi dentro a la divina voglia,
per ch’una fansi nostre voglie stesse;
sì che, come noi sem di soglia in soglia
per questo regno, a tutto il regno piace
com’ a lo re che ’n suo voler ne ’nvoglia.
E ’n la sua volontade è nostra pace:
ell’ è quel mare al qual tutto si move
ciò ch’ella crïa o che natura face».
Chiaro mi fu allor come ogne dove
in cielo è paradiso, etsi la grazia
del sommo ben d’un modo non vi piove.
Ma sì com’ elli avvien, s’un cibo sazia
e d’un altro rimane ancor la gola,
che quel si chere e di quel si ringrazia,
così fec’ io con atto e con parola,
per apprender da lei qual fu la tela
onde non trasse infino a co la spuola.
«Perfetta vita e alto merto inciela
donna più sù», mi disse, «a la cui norma
nel vostro mondo giù si veste e vela,
perché fino al morir si vegghi e dorma
con quello sposo ch’ogne voto accetta
che caritate a suo piacer conforma.
Dal mondo, per seguirla, giovinetta
fuggi’mi, e nel suo abito mi chiusi
e promisi la via de la sua setta.
Uomini poi, a mal più ch’a bene usi,
fuor mi rapiron de la dolce chiostra:
Iddio si sa qual poi mia vita fusi.
E quest’ altro splendor che ti si mostra
da la mia destra parte e che s’accende
di tutto il lume de la spera nostra,
ciò ch’io dico di me, di sé intende;
sorella fu, e così le fu tolta
di capo l’ombra de le sacre bende.
Ma poi che pur al mondo fu rivolta
contra suo grado e contra buona usanza,
non fu dal vel del cor già mai disciolta.
Quest’ è la luce de la gran Costanza
che del secondo vento di Soave
generò ’l terzo e l’ultima possanza».
Così parlommi, e poi cominciò ‘Ave,
Maria’ cantando, e cantando vanio
come per acqua cupa cosa grave.
La vista mia, che tanto lei seguio
quanto possibil fu, poi che la perse,
volsesi al segno di maggior disio,
e a Beatrice tutta si converse;
ma quella folgorò nel mïo sguardo
sì che da prima il viso non sofferse;
e ciò mi fece a dimandar più tardo.


Paradiso
Canto IV

Intra due cibi, distanti e moventi
d’un modo, prima si morria di fame,
che liber’ omo l’un recasse ai denti;
sì si starebbe un agno intra due brame
di fieri lupi, igualmente temendo;
sì si starebbe un cane intra due dame:
per che, s’i’ mi tacea, me non riprendo,
da li miei dubbi d’un modo sospinto,
poi ch’era necessario, né commendo.
Io mi tacea, ma ’l mio disir dipinto
m’era nel viso, e ’l dimandar con ello,
più caldo assai che per parlar distinto.
Fé sì Beatrice qual fé Danïello,
Nabuccodonosor levando d’ira,
che l’avea fatto ingiustamente fello;
e disse: «Io veggio ben come ti tira
uno e altro disio, sì che tua cura
sé stessa lega sì che fuor non spira.
Tu argomenti: “Se ’l buon voler dura,
la vïolenza altrui per qual ragione
di meritar mi scema la misura?”.
Ancor di dubitar ti dà cagione
parer tornarsi l’anime a le stelle,
secondo la sentenza di Platone.
Queste son le question che nel tuo velle
pontano igualmente; e però pria
tratterò quella che più ha di felle.
D’i Serafin colui che più s’india,
Moïsè, Samuel, e quel Giovanni
che prender vuoli, io dico, non Maria,
non hanno in altro cielo i loro scanni
che questi spirti che mo t’appariro,
né hanno a l’esser lor più o meno anni;
ma tutti fanno bello il primo giro,
e differentemente han dolce vita
per sentir più e men l’etterno spiro.
Qui si mostraro, non perché sortita
sia questa spera lor, ma per far segno
de la celestïal c’ha men salita.
Così parlar conviensi al vostro ingegno,
però che solo da sensato apprende
ciò che fa poscia d’intelletto degno.
Per questo la Scrittura condescende
a vostra facultate, e piedi e mano
attribuisce a Dio e altro intende;
e Santa Chiesa con aspetto umano
Gabrïel e Michel vi rappresenta,
e l’altro che Tobia rifece sano.
Quel che Timeo de l’anime argomenta
non è simile a ciò che qui si vede,
però che, come dice, par che senta.
Dice che l’alma a la sua stella riede,
credendo quella quindi esser decisa
quando natura per forma la diede;
e forse sua sentenza è d’altra guisa
che la voce non suona, ed esser puote
con intenzion da non esser derisa.
S’elli intende tornare a queste ruote
l’onor de la influenza e ’l biasmo, forse
in alcun vero suo arco percuote.
Questo principio, male inteso, torse
già tutto il mondo quasi, sì che Giove,
Mercurio e Marte a nominar trascorse.
L’altra dubitazion che ti commove
ha men velen, però che sua malizia
non ti poria menar da me altrove.
Parere ingiusta la nostra giustizia
ne li occhi d’i mortali, è argomento
di fede e non d’eretica nequizia.
Ma perché puote vostro accorgimento
ben penetrare a questa veritate,
come disiri, ti farò contento.
Se vïolenza è quando quel che pate
nïente conferisce a quel che sforza,
non fuor quest’ alme per essa scusate:
ché volontà, se non vuol, non s’ammorza,
ma fa come natura face in foco,
se mille volte vïolenza il torza.
Per che, s’ella si piega assai o poco,
segue la forza; e così queste fero
possendo rifuggir nel santo loco.
Se fosse stato lor volere intero,
come tenne Lorenzo in su la grada,
e fece Muzio a la sua man severo,
così l’avria ripinte per la strada
ond’ eran tratte, come fuoro sciolte;
ma così salda voglia è troppo rada.
E per queste parole, se ricolte
l’hai come dei, è l’argomento casso
che t’avria fatto noia ancor più volte.
Ma or ti s’attraversa un altro passo
dinanzi a li occhi, tal che per te stesso
non usciresti: pria saresti lasso.
Io t’ho per certo ne la mente messo
ch’alma beata non poria mentire,
però ch’è sempre al primo vero appresso;
e poi potesti da Piccarda udire
che l’affezion del vel Costanza tenne;
sì ch’ella par qui meco contradire.
Molte fïate già, frate, addivenne
che, per fuggir periglio, contra grato
si fé di quel che far non si convenne;
come Almeone, che, di ciò pregato
dal padre suo, la propria madre spense,
per non perder pietà si fé spietato.
A questo punto voglio che tu pense
che la forza al voler si mischia, e fanno
sì che scusar non si posson l’offense.
Voglia assoluta non consente al danno;
ma consentevi in tanto in quanto teme,
se si ritrae, cadere in più affanno.
Però, quando Piccarda quello spreme,
de la voglia assoluta intende, e io
de l’altra; sì che ver diciamo insieme».
Cotal fu l’ondeggiar del santo rio
ch’uscì del fonte ond’ ogne ver deriva;
tal puose in pace uno e altro disio.
«O amanza del primo amante, o diva»,
diss’ io appresso, «il cui parlar m’inonda
e scalda sì, che più e più m’avviva,
non è l’affezion mia tanto profonda,
che basti a render voi grazia per grazia;
ma quei che vede e puote a ciò risponda.
Io veggio ben che già mai non si sazia
nostro intelletto, se ’l ver non lo illustra
di fuor dal qual nessun vero si spazia.
Posasi in esso, come fera in lustra,
tosto che giunto l’ha; e giugner puollo:
se non, ciascun disio sarebbe frustra.
Nasce per quello, a guisa di rampollo,
a piè del vero il dubbio; ed è natura
ch’al sommo pinge noi di collo in collo.
Questo m’invita, questo m’assicura
con reverenza, donna, a dimandarvi
d’un’altra verità che m’è oscura.
Io vo’ saper se l’uom può sodisfarvi
ai voti manchi sì con altri beni,
ch’a la vostra statera non sien parvi».
Beatrice mi guardò con li occhi pieni
di faville d’amor così divini,
che, vinta, mia virtute diè le reni,
e quasi mi perdei con li occhi chini.


Paradiso
Canto V

«S’io ti fiammeggio nel caldo d’amore
di là dal modo che ’n terra si vede,
sì che del viso tuo vinco il valore,
non ti maravigliar, ché ciò procede
da perfetto veder, che, come apprende,
così nel bene appreso move il piede.
Io veggio ben sì come già resplende
ne l’intelletto tuo l’etterna luce,
che, vista, sola e sempre amore accende;
e s’altra cosa vostro amor seduce,
non è se non di quella alcun vestigio,
mal conosciuto, che quivi traluce.
Tu vuo’ saper se con altro servigio,
per manco voto, si può render tanto
che l’anima sicuri di letigio».
Sì cominciò Beatrice questo canto;
e sì com’ uom che suo parlar non spezza,
continüò così ’l processo santo:
«Lo maggior don che Dio per sua larghezza
fesse creando, e a la sua bontate
più conformato, e quel ch’e’ più apprezza,
fu de la volontà la libertate;
di che le creature intelligenti,
e tutte e sole, fuoro e son dotate.
Or ti parrà, se tu quinci argomenti,
l’alto valor del voto, s’è sì fatto
che Dio consenta quando tu consenti;
ché, nel fermar tra Dio e l’omo il patto,
vittima fassi di questo tesoro,
tal quale io dico; e fassi col suo atto.
Dunque che render puossi per ristoro?
Se credi bene usar quel c’hai offerto,
di maltolletto vuo’ far buon lavoro.
Tu se’ omai del maggior punto certo;
ma perché Santa Chiesa in ciò dispensa,
che par contra lo ver ch’i’ t’ho scoverto,
convienti ancor sedere un poco a mensa,
però che ’l cibo rigido c’hai preso,
richiede ancora aiuto a tua dispensa.
Apri la mente a quel ch’io ti paleso
e fermalvi entro; ché non fa scïenza,
sanza lo ritenere, avere inteso.
Due cose si convegnono a l’essenza
di questo sacrificio: l’una è quella
di che si fa; l’altr’ è la convenenza.
Quest’ ultima già mai non si cancella
se non servata; e intorno di lei
sì preciso di sopra si favella:
però necessitato fu a li Ebrei
pur l’offerere, ancor ch’alcuna offerta
sì permutasse, come saver dei.
L’altra, che per materia t’è aperta,
puote ben esser tal, che non si falla
se con altra materia si converta.
Ma non trasmuti carco a la sua spalla
per suo arbitrio alcun, sanza la volta
e de la chiave bianca e de la gialla;
e ogne permutanza credi stolta,
se la cosa dimessa in la sorpresa
come ’l quattro nel sei non è raccolta.
Però qualunque cosa tanto pesa
per suo valor che tragga ogne bilancia,
sodisfar non si può con altra spesa.
Non prendan li mortali il voto a ciancia;
siate fedeli, e a ciò far non bieci,
come Ieptè a la sua prima mancia;
cui più si convenia dicer ‘Mal feci’,
che, servando, far peggio; e così stolto
ritrovar puoi il gran duca de’ Greci,
onde pianse Efigènia il suo bel volto,
e fé pianger di sé i folli e i savi
ch’udir parlar di così fatto cólto.
Siate, Cristiani, a muovervi più gravi:
non siate come penna ad ogne vento,
e non crediate ch’ogne acqua vi lavi.
Avete il novo e ’l vecchio Testamento,
e ’l pastor de la Chiesa che vi guida;
questo vi basti a vostro salvamento.
Se mala cupidigia altro vi grida,
uomini siate, e non pecore matte,
sì che ’l Giudeo di voi tra voi non rida!
Non fate com’ agnel che lascia il latte
de la sua madre, e semplice e lascivo
seco medesmo a suo piacer combatte!».
Così Beatrice a me com’ ïo scrivo;
poi si rivolse tutta disïante
a quella parte ove ’l mondo è più vivo.
Lo suo tacere e ’l trasmutar sembiante
puoser silenzio al mio cupido ingegno,
che già nuove questioni avea davante;
e sì come saetta che nel segno
percuote pria che sia la corda queta,
così corremmo nel secondo regno.
Quivi la donna mia vid’ io sì lieta,
come nel lume di quel ciel si mise,
che più lucente se ne fé ’l pianeta.
E se la stella si cambiò e rise,
qual mi fec’ io che pur da mia natura
trasmutabile son per tutte guise!
Come ’n peschiera ch’è tranquilla e pura
traggonsi i pesci a ciò che vien di fori
per modo che lo stimin lor pastura,
sì vid’ io ben più di mille splendori
trarsi ver’ noi, e in ciascun s’udia:
«Ecco chi crescerà li nostri amori».
E sì come ciascuno a noi venìa,
vedeasi l’ombra piena di letizia
nel folgór chiaro che di lei uscia.
Pensa, lettor, se quel che qui s’inizia
non procedesse, come tu avresti
di più savere angosciosa carizia;
e per te vederai come da questi
m’era in disio d’udir lor condizioni,
sì come a li occhi mi fur manifesti.
«O bene nato a cui veder li troni
del trïunfo etternal concede grazia
prima che la milizia s’abbandoni,
del lume che per tutto il ciel si spazia
noi semo accesi; e però, se disii
di noi chiarirti, a tuo piacer ti sazia».
Così da un di quelli spirti pii
detto mi fu; e da Beatrice: «Dì, dì
sicuramente, e credi come a dii».
«Io veggio ben sì come tu t’annidi
nel proprio lume, e che de li occhi il traggi,
perch’ e’ corusca sì come tu ridi;
ma non so chi tu se’, né perché aggi,
anima degna, il grado de la spera
che si vela a’ mortai con altrui raggi».
Questo diss’ io diritto a la lumera
che pria m’avea parlato; ond’ ella fessi
lucente più assai di quel ch’ell’ era.
Sì come il sol che si cela elli stessi
per troppa luce, come ’l caldo ha róse
le temperanze d’i vapori spessi,
per più letizia sì mi si nascose
dentro al suo raggio la figura santa;
e così chiusa chiusa mi rispuose
nel modo che ’l seguente canto canta.


Paradiso
Canto VI

«Poscia che Costantin l’aquila volse
contr’ al corso del ciel, ch’ella seguio
dietro a l’antico che Lavina tolse,
cento e cent’ anni e più l’uccel di Dio
ne lo stremo d’Europa si ritenne,
vicino a’ monti de’ quai prima uscìo;
e sotto l’ombra de le sacre penne
governò ’l mondo lì di mano in mano,
e, sì cangiando, in su la mia pervenne.
Cesare fui e son Iustinïano,
che, per voler del primo amor ch’i’ sento,
d’entro le leggi trassi il troppo e ’l vano.
E prima ch’io a l’ovra fossi attento,
una natura in Cristo esser, non piùe,
credea, e di tal fede era contento;
ma ’l benedetto Agapito, che fue
sommo pastore, a la fede sincera
mi dirizzò con le parole sue.
Io li credetti; e ciò che ’n sua fede era,
vegg’ io or chiaro sì, come tu vedi
ogni contradizione e falsa e vera.
Tosto che con la Chiesa mossi i piedi,
a Dio per grazia piacque di spirarmi
l’alto lavoro, e tutto ’n lui mi diedi;
e al mio Belisar commendai l’armi,
cui la destra del ciel fu sì congiunta,
che segno fu ch’i’ dovessi posarmi.
Or qui a la question prima s’appunta
la mia risposta; ma sua condizione
mi stringe a seguitare alcuna giunta,
perché tu veggi con quanta ragione
si move contr’ al sacrosanto segno
e chi ’l s’appropria e chi a lui s’oppone.
Vedi quanta virtù l’ha fatto degno
di reverenza; e cominciò da l’ora
che Pallante morì per darli regno.
Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora
per trecento anni e oltre, infino al fine
che i tre a’ tre pugnar per lui ancora.
E sai ch’el fé dal mal de le Sabine
al dolor di Lucrezia in sette regi,
vincendo intorno le genti vicine.
Sai quel ch’el fé portato da li egregi
Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro,
incontro a li altri principi e collegi;
onde Torquato e Quinzio, che dal cirro
negletto fu nomato, i Deci e ’ Fabi
ebber la fama che volontier mirro.
Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi
che di retro ad Anibale passaro
l’alpestre rocce, Po, di che tu labi.
Sott’ esso giovanetti trïunfaro
Scipïone e Pompeo; e a quel colle
sotto ’l qual tu nascesti parve amaro.
Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle
redur lo mondo a suo modo sereno,
Cesare per voler di Roma il tolle.
E quel che fé da Varo infino a Reno,
Isara vide ed Era e vide Senna
e ogne valle onde Rodano è pieno.
Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna
e saltò Rubicon, fu di tal volo,
che nol seguiteria lingua né penna.
Inver’ la Spagna rivolse lo stuolo,
poi ver’ Durazzo, e Farsalia percosse
sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo.
Antandro e Simeonta, onde si mosse,
rivide e là dov’ Ettore si cuba;
e mal per Tolomeo poscia si scosse.
Da indi scese folgorando a Iuba;
onde si volse nel vostro occidente,
ove sentia la pompeana tuba.
Di quel che fé col baiulo seguente,
Bruto con Cassio ne l’inferno latra,
e Modena e Perugia fu dolente.
Piangene ancor la trista Cleopatra,
che, fuggendoli innanzi, dal colubro
la morte prese subitana e atra.
Con costui corse infino al lito rubro;
con costui puose il mondo in tanta pace,
che fu serrato a Giano il suo delubro.
Ma ciò che ’l segno che parlar mi face
fatto avea prima e poi era fatturo
per lo regno mortal ch’a lui soggiace,
diventa in apparenza poco e scuro,
se in mano al terzo Cesare si mira
con occhio chiaro e con affetto puro;
ché la viva giustizia che mi spira,
li concedette, in mano a quel ch’i’ dico,
gloria di far vendetta a la sua ira.
Or qui t’ammira in ciò ch’io ti replìco:
poscia con Tito a far vendetta corse
de la vendetta del peccato antico.
E quando il dente longobardo morse
la Santa Chiesa, sotto le sue ali
Carlo Magno, vincendo, la soccorse.
Omai puoi giudicar di quei cotali
ch’io accusai di sopra e di lor falli,
che son cagion di tutti vostri mali.
L’uno al pubblico segno i gigli gialli
oppone, e l’altro appropria quello a parte,
sì ch’è forte a veder chi più si falli.
Faccian li Ghibellin, faccian lor arte
sott’ altro segno, ché mal segue quello
sempre chi la giustizia e lui diparte;
e non l’abbatta esto Carlo novello
coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli
ch’a più alto leon trasser lo vello.
Molte fïate già pianser li figli
per la colpa del padre, e non si creda
che Dio trasmuti l’armi per suoi gigli!
Questa picciola stella si correda
d’i buoni spirti che son stati attivi
perché onore e fama li succeda:
e quando li disiri poggian quivi,
sì disvïando, pur convien che i raggi
del vero amore in sù poggin men vivi.
Ma nel commensurar d’i nostri gaggi
col merto è parte di nostra letizia,
perché non li vedem minor né maggi.
Quindi addolcisce la viva giustizia
in noi l’affetto sì, che non si puote
torcer già mai ad alcuna nequizia.
Diverse voci fanno dolci note;
così diversi scanni in nostra vita
rendon dolce armonia tra queste rote.
E dentro a la presente margarita
luce la luce di Romeo, di cui
fu l’ovra grande e bella mal gradita.
Ma i Provenzai che fecer contra lui
non hanno riso; e però mal cammina
qual si fa danno del ben fare altrui.
Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina,
Ramondo Beringhiere, e ciò li fece
Romeo, persona umìle e peregrina.
E poi il mosser le parole biece
a dimandar ragione a questo giusto,
che li assegnò sette e cinque per diece,
indi partissi povero e vetusto;
e se ’l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe
mendicando sua vita a frusto a frusto,
assai lo loda, e più lo loderebbe».


Paradiso
Canto VII

«Osanna, sanctus Deus sabaòth,
superillustrans claritate tua
felices ignes horum malacòth!».
Così, volgendosi a la nota sua,
fu viso a me cantare essa sustanza,
sopra la qual doppio lume s’addua;
ed essa e l’altre mossero a sua danza,
e quasi velocissime faville
mi si velar di sùbita distanza.
Io dubitava e dicea ‘Dille, dille!’
fra me, ‘dille’ dicea, ‘a la mia donna
che mi diseta con le dolci stille’.
Ma quella reverenza che s’indonna
di tutto me, pur per Be e per ice,
mi richinava come l’uom ch’assonna.
Poco sofferse me cotal Beatrice
e cominciò, raggiandomi d’un riso
tal, che nel foco faria l’uom felice:
«Secondo mio infallibile avviso,
come giusta vendetta giustamente
punita fosse, t’ha in pensier miso;
ma io ti solverò tosto la mente;
e tu ascolta, ché le mie parole
di gran sentenza ti faran presente.
Per non soffrire a la virtù che vole
freno a suo prode, quell’ uom che non nacque,
dannando sé, dannò tutta sua prole;
onde l’umana specie inferma giacque
giù per secoli molti in grande errore,
fin ch’al Verbo di Dio discender piacque
u’ la natura, che dal suo fattore
s’era allungata, unì a sé in persona
con l’atto sol del suo etterno amore.
Or drizza il viso a quel ch’or si ragiona:
questa natura al suo fattore unita,
qual fu creata, fu sincera e buona;
ma per sé stessa pur fu ella sbandita
di paradiso, però che si torse
da via di verità e da sua vita.
La pena dunque che la croce porse
s’a la natura assunta si misura,
nulla già mai sì giustamente morse;
e così nulla fu di tanta ingiura,
guardando a la persona che sofferse,
in che era contratta tal natura.
Però d’un atto uscir cose diverse:
ch’a Dio e a’ Giudei piacque una morte;
per lei tremò la terra e ’l ciel s’aperse.
Non ti dee oramai parer più forte,
quando si dice che giusta vendetta
poscia vengiata fu da giusta corte.
Ma io veggi’ or la tua mente ristretta
di pensiero in pensier dentro ad un nodo,
del qual con gran disio solver s’aspetta.
Tu dici: “Ben discerno ciò ch’i’ odo;
ma perché Dio volesse, m’è occulto,
a nostra redenzion pur questo modo”.
Questo decreto, frate, sta sepulto
a li occhi di ciascuno il cui ingegno
ne la fiamma d’amor non è adulto.
Veramente, però ch’a questo segno
molto si mira e poco si discerne,
dirò perché tal modo fu più degno.
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