La Divina Commedia di Dante - 13

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Appresso il fine ch’a quell’ inno fassi,
gridavano alto: ‘Virum non cognosco’;
indi ricominciavan l’inno bassi.
Finitolo, anco gridavano: «Al bosco
si tenne Diana, ed Elice caccionne
che di Venere avea sentito il tòsco».
Indi al cantar tornavano; indi donne
gridavano e mariti che fuor casti
come virtute e matrimonio imponne.
E questo modo credo che lor basti
per tutto il tempo che ’l foco li abbruscia:
con tal cura conviene e con tai pasti
che la piaga da sezzo si ricuscia.


Purgatorio
Canto XXVI

Mentre che sì per l’orlo, uno innanzi altro,
ce n’andavamo, e spesso il buon maestro
diceami: «Guarda: giovi ch’io ti scaltro»;
feriami il sole in su l’omero destro,
che già, raggiando, tutto l’occidente
mutava in bianco aspetto di cilestro;
e io facea con l’ombra più rovente
parer la fiamma; e pur a tanto indizio
vidi molt’ ombre, andando, poner mente.
Questa fu la cagion che diede inizio
loro a parlar di me; e cominciarsi
a dir: «Colui non par corpo fittizio»;
poi verso me, quanto potëan farsi,
certi si fero, sempre con riguardo
di non uscir dove non fosser arsi.
«O tu che vai, non per esser più tardo,
ma forse reverente, a li altri dopo,
rispondi a me che ’n sete e ’n foco ardo.
Né solo a me la tua risposta è uopo;
ché tutti questi n’hanno maggior sete
che d’acqua fredda Indo o Etïopo.
Dinne com’ è che fai di te parete
al sol, pur come tu non fossi ancora
di morte intrato dentro da la rete».
Sì mi parlava un d’essi; e io mi fora
già manifesto, s’io non fossi atteso
ad altra novità ch’apparve allora;
ché per lo mezzo del cammino acceso
venne gente col viso incontro a questa,
la qual mi fece a rimirar sospeso.
Lì veggio d’ogne parte farsi presta
ciascun’ ombra e basciarsi una con una
sanza restar, contente a brieve festa;
così per entro loro schiera bruna
s’ammusa l’una con l’altra formica,
forse a spïar lor via e lor fortuna.
Tosto che parton l’accoglienza amica,
prima che ’l primo passo lì trascorra,
sopragridar ciascuna s’affatica:
la nova gente: «Soddoma e Gomorra»;
e l’altra: «Ne la vacca entra Pasife,
perché ’l torello a sua lussuria corra».
Poi, come grue ch’a le montagne Rife
volasser parte, e parte inver’ l’arene,
queste del gel, quelle del sole schife,
l’una gente sen va, l’altra sen vene;
e tornan, lagrimando, a’ primi canti
e al gridar che più lor si convene;
e raccostansi a me, come davanti,
essi medesmi che m’avean pregato,
attenti ad ascoltar ne’ lor sembianti.
Io, che due volte avea visto lor grato,
incominciai: «O anime sicure
d’aver, quando che sia, di pace stato,
non son rimase acerbe né mature
le membra mie di là, ma son qui meco
col sangue suo e con le sue giunture.
Quinci sù vo per non esser più cieco;
donna è di sopra che m’acquista grazia,
per che ’l mortal per vostro mondo reco.
Ma se la vostra maggior voglia sazia
tosto divegna, sì che ’l ciel v’alberghi
ch’è pien d’amore e più ampio si spazia,
ditemi, acciò ch’ancor carte ne verghi,
chi siete voi, e chi è quella turba
che se ne va di retro a’ vostri terghi».
Non altrimenti stupido si turba
lo montanaro, e rimirando ammuta,
quando rozzo e salvatico s’inurba,
che ciascun’ ombra fece in sua paruta;
ma poi che furon di stupore scarche,
lo qual ne li alti cuor tosto s’attuta,
«Beato te, che de le nostre marche»,
ricominciò colei che pria m’inchiese,
«per morir meglio, esperïenza imbarche!
La gente che non vien con noi, offese
di ciò per che già Cesar, trïunfando,
“Regina” contra sé chiamar s’intese:
però si parton “Soddoma” gridando,
rimproverando a sé com’ hai udito,
e aiutan l’arsura vergognando.
Nostro peccato fu ermafrodito;
ma perché non servammo umana legge,
seguendo come bestie l’appetito,
in obbrobrio di noi, per noi si legge,
quando partinci, il nome di colei
che s’imbestiò ne le ’mbestiate schegge.
Or sai nostri atti e di che fummo rei:
se forse a nome vuo’ saper chi semo,
tempo non è di dire, e non saprei.
Farotti ben di me volere scemo:
son Guido Guinizzelli, e già mi purgo
per ben dolermi prima ch’a lo stremo».
Quali ne la tristizia di Ligurgo
si fer due figli a riveder la madre,
tal mi fec’ io, ma non a tanto insurgo,
quand’ io odo nomar sé stesso il padre
mio e de li altri miei miglior che mai
rime d’amore usar dolci e leggiadre;
e sanza udire e dir pensoso andai
lunga fïata rimirando lui,
né, per lo foco, in là più m’appressai.
Poi che di riguardar pasciuto fui,
tutto m’offersi pronto al suo servigio
con l’affermar che fa credere altrui.
Ed elli a me: «Tu lasci tal vestigio,
per quel ch’i’ odo, in me, e tanto chiaro,
che Letè nol può tòrre né far bigio.
Ma se le tue parole or ver giuraro,
dimmi che è cagion per che dimostri
nel dire e nel guardar d’avermi caro».
E io a lui: «Li dolci detti vostri,
che, quanto durerà l’uso moderno,
faranno cari ancora i loro incostri».
«O frate», disse, «questi ch’io ti cerno
col dito», e additò un spirto innanzi,
«fu miglior fabbro del parlar materno.
Versi d’amore e prose di romanzi
soverchiò tutti; e lascia dir li stolti
che quel di Lemosì credon ch’avanzi.
A voce più ch’al ver drizzan li volti,
e così ferman sua oppinïone
prima ch’arte o ragion per lor s’ascolti.
Così fer molti antichi di Guittone,
di grido in grido pur lui dando pregio,
fin che l’ha vinto il ver con più persone.
Or se tu hai sì ampio privilegio,
che licito ti sia l’andare al chiostro
nel quale è Cristo abate del collegio,
falli per me un dir d’un paternostro,
quanto bisogna a noi di questo mondo,
dove poter peccar non è più nostro».
Poi, forse per dar luogo altrui secondo
che presso avea, disparve per lo foco,
come per l’acqua il pesce andando al fondo.
Io mi fei al mostrato innanzi un poco,
e dissi ch’al suo nome il mio disire
apparecchiava grazïoso loco.
El cominciò liberamente a dire:
«Tan m’abellis vostre cortes deman,
qu’ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.
Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi qu’esper, denan.
Ara vos prec, per aquella valor
que vos guida al som de l’escalina,
sovenha vos a temps de ma dolor!».
Poi s’ascose nel foco che li affina.


Purgatorio
Canto XXVII

Sì come quando i primi raggi vibra
là dove il suo fattor lo sangue sparse,
cadendo Ibero sotto l’alta Libra,
e l’onde in Gange da nona rïarse,
sì stava il sole; onde ’l giorno sen giva,
come l’angel di Dio lieto ci apparse.
Fuor de la fiamma stava in su la riva,
e cantava ‘Beati mundo corde!’
in voce assai più che la nostra viva.
Poscia «Più non si va, se pria non morde,
anime sante, il foco: intrate in esso,
e al cantar di là non siate sorde»,
ci disse come noi li fummo presso;
per ch’io divenni tal, quando lo ’ntesi,
qual è colui che ne la fossa è messo.
In su le man commesse mi protesi,
guardando il foco e imaginando forte
umani corpi già veduti accesi.
Volsersi verso me le buone scorte;
e Virgilio mi disse: «Figliuol mio,
qui può esser tormento, ma non morte.
Ricorditi, ricorditi! E se io
sovresso Gerïon ti guidai salvo,
che farò ora presso più a Dio?
Credi per certo che se dentro a l’alvo
di questa fiamma stessi ben mille anni,
non ti potrebbe far d’un capel calvo.
E se tu forse credi ch’io t’inganni,
fatti ver’ lei, e fatti far credenza
con le tue mani al lembo d’i tuoi panni.
Pon giù omai, pon giù ogne temenza;
volgiti in qua e vieni: entra sicuro!».
E io pur fermo e contra coscïenza.
Quando mi vide star pur fermo e duro,
turbato un poco disse: «Or vedi, figlio:
tra Bëatrice e te è questo muro».
Come al nome di Tisbe aperse il ciglio
Piramo in su la morte, e riguardolla,
allor che ’l gelso diventò vermiglio;
così, la mia durezza fatta solla,
mi volsi al savio duca, udendo il nome
che ne la mente sempre mi rampolla.
Ond’ ei crollò la fronte e disse: «Come!
volenci star di qua?»; indi sorrise
come al fanciul si fa ch’è vinto al pome.
Poi dentro al foco innanzi mi si mise,
pregando Stazio che venisse retro,
che pria per lunga strada ci divise.
Sì com’ fui dentro, in un bogliente vetro
gittato mi sarei per rinfrescarmi,
tant’ era ivi lo ’ncendio sanza metro.
Lo dolce padre mio, per confortarmi,
pur di Beatrice ragionando andava,
dicendo: «Li occhi suoi già veder parmi».
Guidavaci una voce che cantava
di là; e noi, attenti pur a lei,
venimmo fuor là ove si montava.
‘Venite, benedicti Patris mei’,
sonò dentro a un lume che lì era,
tal che mi vinse e guardar nol potei.
«Lo sol sen va», soggiunse, «e vien la sera;
non v’arrestate, ma studiate il passo,
mentre che l’occidente non si annera».
Dritta salia la via per entro ’l sasso
verso tal parte ch’io toglieva i raggi
dinanzi a me del sol ch’era già basso.
E di pochi scaglion levammo i saggi,
che ’l sol corcar, per l’ombra che si spense,
sentimmo dietro e io e li miei saggi.
E pria che ’n tutte le sue parti immense
fosse orizzonte fatto d’uno aspetto,
e notte avesse tutte sue dispense,
ciascun di noi d’un grado fece letto;
ché la natura del monte ci affranse
la possa del salir più e ’l diletto.
Quali si stanno ruminando manse
le capre, state rapide e proterve
sovra le cime avante che sien pranse,
tacite a l’ombra, mentre che ’l sol ferve,
guardate dal pastor, che ’n su la verga
poggiato s’è e lor di posa serve;
e quale il mandrïan che fori alberga,
lungo il pecuglio suo queto pernotta,
guardando perché fiera non lo sperga;
tali eravamo tutti e tre allotta,
io come capra, ed ei come pastori,
fasciati quinci e quindi d’alta grotta.
Poco parer potea lì del di fori;
ma, per quel poco, vedea io le stelle
di lor solere e più chiare e maggiori.
Sì ruminando e sì mirando in quelle,
mi prese il sonno; il sonno che sovente,
anzi che ’l fatto sia, sa le novelle.
Ne l’ora, credo, che de l’orïente
prima raggiò nel monte Citerea,
che di foco d’amor par sempre ardente,
giovane e bella in sogno mi parea
donna vedere andar per una landa
cogliendo fiori; e cantando dicea:
«Sappia qualunque il mio nome dimanda
ch’i’ mi son Lia, e vo movendo intorno
le belle mani a farmi una ghirlanda.
Per piacermi a lo specchio, qui m’addorno;
ma mia suora Rachel mai non si smaga
dal suo miraglio, e siede tutto giorno.
Ell’ è d’i suoi belli occhi veder vaga
com’ io de l’addornarmi con le mani;
lei lo vedere, e me l’ovrare appaga».
E già per li splendori antelucani,
che tanto a’ pellegrin surgon più grati,
quanto, tornando, albergan men lontani,
le tenebre fuggian da tutti lati,
e ’l sonno mio con esse; ond’ io leva’mi,
veggendo i gran maestri già levati.
«Quel dolce pome che per tanti rami
cercando va la cura de’ mortali,
oggi porrà in pace le tue fami».
Virgilio inverso me queste cotali
parole usò; e mai non furo strenne
che fosser di piacere a queste iguali.
Tanto voler sopra voler mi venne
de l’esser sù, ch’ad ogne passo poi
al volo mi sentia crescer le penne.
Come la scala tutta sotto noi
fu corsa e fummo in su ’l grado superno,
in me ficcò Virgilio li occhi suoi,
e disse: «Il temporal foco e l’etterno
veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte
dov’ io per me più oltre non discerno.
Tratto t’ho qui con ingegno e con arte;
lo tuo piacere omai prendi per duce;
fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte.
Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce;
vedi l’erbette, i fiori e li arbuscelli
che qui la terra sol da sé produce.
Mentre che vegnan lieti li occhi belli
che, lagrimando, a te venir mi fenno,
seder ti puoi e puoi andar tra elli.
Non aspettar mio dir più né mio cenno;
libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno:
per ch’io te sovra te corono e mitrio».


Purgatorio
Canto XXVIII

Vago già di cercar dentro e dintorno
la divina foresta spessa e viva,
ch’a li occhi temperava il novo giorno,
sanza più aspettar, lasciai la riva,
prendendo la campagna lento lento
su per lo suol che d’ogne parte auliva.
Un’aura dolce, sanza mutamento
avere in sé, mi feria per la fronte
non di più colpo che soave vento;
per cui le fronde, tremolando, pronte
tutte quante piegavano a la parte
u’ la prim’ ombra gitta il santo monte;
non però dal loro esser dritto sparte
tanto, che li augelletti per le cime
lasciasser d’operare ogne lor arte;
ma con piena letizia l’ore prime,
cantando, ricevieno intra le foglie,
che tenevan bordone a le sue rime,
tal qual di ramo in ramo si raccoglie
per la pineta in su ’l lito di Chiassi,
quand’ Ëolo scilocco fuor discioglie.
Già m’avean trasportato i lenti passi
dentro a la selva antica tanto, ch’io
non potea rivedere ond’ io mi ’ntrassi;
ed ecco più andar mi tolse un rio,
che ’nver’ sinistra con sue picciole onde
piegava l’erba che ’n sua ripa uscìo.
Tutte l’acque che son di qua più monde,
parrieno avere in sé mistura alcuna
verso di quella, che nulla nasconde,
avvegna che si mova bruna bruna
sotto l’ombra perpetüa, che mai
raggiar non lascia sole ivi né luna.
Coi piè ristetti e con li occhi passai
di là dal fiumicello, per mirare
la gran varïazion d’i freschi mai;
e là m’apparve, sì com’ elli appare
subitamente cosa che disvia
per maraviglia tutto altro pensare,
una donna soletta che si gia
e cantando e scegliendo fior da fiore
ond’ era pinta tutta la sua via.
«Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore
ti scaldi, s’i’ vo’ credere a’ sembianti
che soglion esser testimon del core,
vegnati in voglia di trarreti avanti»,
diss’ io a lei, «verso questa rivera,
tanto ch’io possa intender che tu canti.
Tu mi fai rimembrar dove e qual era
Proserpina nel tempo che perdette
la madre lei, ed ella primavera».
Come si volge, con le piante strette
a terra e intra sé, donna che balli,
e piede innanzi piede a pena mette,
volsesi in su i vermigli e in su i gialli
fioretti verso me, non altrimenti
che vergine che li occhi onesti avvalli;
e fece i prieghi miei esser contenti,
sì appressando sé, che ’l dolce suono
veniva a me co’ suoi intendimenti.
Tosto che fu là dove l’erbe sono
bagnate già da l’onde del bel fiume,
di levar li occhi suoi mi fece dono.
Non credo che splendesse tanto lume
sotto le ciglia a Venere, trafitta
dal figlio fuor di tutto suo costume.
Ella ridea da l’altra riva dritta,
trattando più color con le sue mani,
che l’alta terra sanza seme gitta.
Tre passi ci facea il fiume lontani;
ma Elesponto, là ’ve passò Serse,
ancora freno a tutti orgogli umani,
più odio da Leandro non sofferse
per mareggiare intra Sesto e Abido,
che quel da me perch’ allor non s’aperse.
«Voi siete nuovi, e forse perch’ io rido»,
cominciò ella, «in questo luogo eletto
a l’umana natura per suo nido,
maravigliando tienvi alcun sospetto;
ma luce rende il salmo Delectasti,
che puote disnebbiar vostro intelletto.
E tu che se’ dinanzi e mi pregasti,
dì s’altro vuoli udir; ch’i’ venni presta
ad ogne tua question tanto che basti».
«L’acqua», diss’ io, «e ’l suon de la foresta
impugnan dentro a me novella fede
di cosa ch’io udi’ contraria a questa».
Ond’ ella: «Io dicerò come procede
per sua cagion ciò ch’ammirar ti face,
e purgherò la nebbia che ti fiede.
Lo sommo Ben, che solo esso a sé piace,
fé l’uom buono e a bene, e questo loco
diede per arr’ a lui d’etterna pace.
Per sua difalta qui dimorò poco;
per sua difalta in pianto e in affanno
cambiò onesto riso e dolce gioco.
Perché ’l turbar che sotto da sé fanno
l’essalazion de l’acqua e de la terra,
che quanto posson dietro al calor vanno,
a l’uomo non facesse alcuna guerra,
questo monte salìo verso ’l ciel tanto,
e libero n’è d’indi ove si serra.
Or perché in circuito tutto quanto
l’aere si volge con la prima volta,
se non li è rotto il cerchio d’alcun canto,
in questa altezza ch’è tutta disciolta
ne l’aere vivo, tal moto percuote,
e fa sonar la selva perch’ è folta;
e la percossa pianta tanto puote,
che de la sua virtute l’aura impregna
e quella poi, girando, intorno scuote;
e l’altra terra, secondo ch’è degna
per sé e per suo ciel, concepe e figlia
di diverse virtù diverse legna.
Non parrebbe di là poi maraviglia,
udito questo, quando alcuna pianta
sanza seme palese vi s’appiglia.
E saper dei che la campagna santa
dove tu se’, d’ogne semenza è piena,
e frutto ha in sé che di là non si schianta.
L’acqua che vedi non surge di vena
che ristori vapor che gel converta,
come fiume ch’acquista e perde lena;
ma esce di fontana salda e certa,
che tanto dal voler di Dio riprende,
quant’ ella versa da due parti aperta.
Da questa parte con virtù discende
che toglie altrui memoria del peccato;
da l’altra d’ogne ben fatto la rende.
Quinci Letè; così da l’altro lato
Eünoè si chiama, e non adopra
se quinci e quindi pria non è gustato:
a tutti altri sapori esto è di sopra.
E avvegna ch’assai possa esser sazia
la sete tua perch’ io più non ti scuopra,
darotti un corollario ancor per grazia;
né credo che ’l mio dir ti sia men caro,
se oltre promession teco si spazia.
Quelli ch’anticamente poetaro
l’età de l’oro e suo stato felice,
forse in Parnaso esto loco sognaro.
Qui fu innocente l’umana radice;
qui primavera sempre e ogne frutto;
nettare è questo di che ciascun dice».
Io mi rivolsi ’n dietro allora tutto
a’ miei poeti, e vidi che con riso
udito avëan l’ultimo costrutto;
poi a la bella donna torna’ il viso.


Purgatorio
Canto XXIX

Cantando come donna innamorata,
continüò col fin di sue parole:
‘Beati quorum tecta sunt peccata!’.
E come ninfe che si givan sole
per le salvatiche ombre, disïando
qual di veder, qual di fuggir lo sole,
allor si mosse contra ’l fiume, andando
su per la riva; e io pari di lei,
picciol passo con picciol seguitando.
Non eran cento tra ’ suoi passi e ’ miei,
quando le ripe igualmente dier volta,
per modo ch’a levante mi rendei.
Né ancor fu così nostra via molta,
quando la donna tutta a me si torse,
dicendo: «Frate mio, guarda e ascolta».
Ed ecco un lustro sùbito trascorse
da tutte parti per la gran foresta,
tal che di balenar mi mise in forse.
Ma perché ’l balenar, come vien, resta,
e quel, durando, più e più splendeva,
nel mio pensier dicea: ‘Che cosa è questa?’.
E una melodia dolce correva
per l’aere luminoso; onde buon zelo
mi fé riprender l’ardimento d’Eva,
che là dove ubidia la terra e ’l cielo,
femmina, sola e pur testé formata,
non sofferse di star sotto alcun velo;
sotto ’l qual se divota fosse stata,
avrei quelle ineffabili delizie
sentite prima e più lunga fïata.
Mentr’ io m’andava tra tante primizie
de l’etterno piacer tutto sospeso,
e disïoso ancora a più letizie,
dinanzi a noi, tal quale un foco acceso,
ci si fé l’aere sotto i verdi rami;
e ’l dolce suon per canti era già inteso.
O sacrosante Vergini, se fami,
freddi o vigilie mai per voi soffersi,
cagion mi sprona ch’io mercé vi chiami.
Or convien che Elicona per me versi,
e Uranìe m’aiuti col suo coro
forti cose a pensar mettere in versi.
Poco più oltre, sette alberi d’oro
falsava nel parere il lungo tratto
del mezzo ch’era ancor tra noi e loro;
ma quand’ i’ fui sì presso di lor fatto,
che l’obietto comun, che ’l senso inganna,
non perdea per distanza alcun suo atto,
la virtù ch’a ragion discorso ammanna,
sì com’ elli eran candelabri apprese,
e ne le voci del cantare ‘Osanna’.
Di sopra fiammeggiava il bello arnese
più chiaro assai che luna per sereno
di mezza notte nel suo mezzo mese.
Io mi rivolsi d’ammirazion pieno
al buon Virgilio, ed esso mi rispuose
con vista carca di stupor non meno.
Indi rendei l’aspetto a l’alte cose
che si movieno incontr’ a noi sì tardi,
che foran vinte da novelle spose.
La donna mi sgridò: «Perché pur ardi
sì ne l’affetto de le vive luci,
e ciò che vien di retro a lor non guardi?».
Genti vid’ io allor, come a lor duci,
venire appresso, vestite di bianco;
e tal candor di qua già mai non fuci.
L’acqua imprendëa dal sinistro fianco,
e rendea me la mia sinistra costa,
s’io riguardava in lei, come specchio anco.
Quand’ io da la mia riva ebbi tal posta,
che solo il fiume mi facea distante,
per veder meglio ai passi diedi sosta,
e vidi le fiammelle andar davante,
lasciando dietro a sé l’aere dipinto,
e di tratti pennelli avean sembiante;
sì che lì sopra rimanea distinto
di sette liste, tutte in quei colori
onde fa l’arco il Sole e Delia il cinto.
Questi ostendali in dietro eran maggiori
che la mia vista; e, quanto a mio avviso,
diece passi distavan quei di fori.
Sotto così bel ciel com’ io diviso,
ventiquattro seniori, a due a due,
coronati venien di fiordaliso.
Tutti cantavan: «Benedicta tue
ne le figlie d’Adamo, e benedette
sieno in etterno le bellezze tue!».
Poscia che i fiori e l’altre fresche erbette
a rimpetto di me da l’altra sponda
libere fuor da quelle genti elette,
sì come luce luce in ciel seconda,
vennero appresso lor quattro animali,
coronati ciascun di verde fronda.
Ognuno era pennuto di sei ali;
le penne piene d’occhi; e li occhi d’Argo,
se fosser vivi, sarebber cotali.
A descriver lor forme più non spargo
rime, lettor; ch’altra spesa mi strigne,
tanto ch’a questa non posso esser largo;
ma leggi Ezechïel, che li dipigne
come li vide da la fredda parte
venir con vento e con nube e con igne;
e quali i troverai ne le sue carte,
tali eran quivi, salvo ch’a le penne
Giovanni è meco e da lui si diparte.
Lo spazio dentro a lor quattro contenne
un carro, in su due rote, trïunfale,
ch’al collo d’un grifon tirato venne.
Esso tendeva in sù l’una e l’altra ale
tra la mezzana e le tre e tre liste,
sì ch’a nulla, fendendo, facea male.
Tanto salivan che non eran viste;
le membra d’oro avea quant’ era uccello,
e bianche l’altre, di vermiglio miste.
Non che Roma di carro così bello
rallegrasse Affricano, o vero Augusto,
ma quel del Sol saria pover con ello;
quel del Sol che, svïando, fu combusto
per l’orazion de la Terra devota,
quando fu Giove arcanamente giusto.
Tre donne in giro da la destra rota
venian danzando; l’una tanto rossa
ch’a pena fora dentro al foco nota;
l’altr’ era come se le carni e l’ossa
fossero state di smeraldo fatte;
la terza parea neve testé mossa;
e or parëan da la bianca tratte,
or da la rossa; e dal canto di questa
l’altre toglien l’andare e tarde e ratte.
Da la sinistra quattro facean festa,
in porpore vestite, dietro al modo
d’una di lor ch’avea tre occhi in testa.
Appresso tutto il pertrattato nodo
vidi due vecchi in abito dispari,
ma pari in atto e onesto e sodo.
L’un si mostrava alcun de’ famigliari
di quel sommo Ipocràte che natura
a li animali fé ch’ell’ ha più cari;
mostrava l’altro la contraria cura
con una spada lucida e aguta,
tal che di qua dal rio mi fé paura.
Poi vidi quattro in umile paruta;
e di retro da tutti un vecchio solo
venir, dormendo, con la faccia arguta.
E questi sette col primaio stuolo
erano abitüati, ma di gigli
dintorno al capo non facëan brolo,
anzi di rose e d’altri fior vermigli;
giurato avria poco lontano aspetto
che tutti ardesser di sopra da’ cigli.
E quando il carro a me fu a rimpetto,
un tuon s’udì, e quelle genti degne
parvero aver l’andar più interdetto,
fermandosi ivi con le prime insegne.


Purgatorio
Canto XXX

Quando il settentrïon del primo cielo,
che né occaso mai seppe né orto
né d’altra nebbia che di colpa velo,
e che faceva lì ciascun accorto
di suo dover, come ’l più basso face
qual temon gira per venire a porto,
fermo s’affisse: la gente verace,
venuta prima tra ’l grifone ed esso,
al carro volse sé come a sua pace;
e un di loro, quasi da ciel messo,
‘Veni, sponsa, de Libano’ cantando
gridò tre volte, e tutti li altri appresso.
Quali i beati al novissimo bando
surgeran presti ognun di sua caverna,
la revestita voce alleluiando,
cotali in su la divina basterna
si levar cento, ad vocem tanti senis,
ministri e messaggier di vita etterna.
Tutti dicean: ‘Benedictus qui venis!’,
e fior gittando e di sopra e dintorno,
‘Manibus, oh, date lilïa plenis!’.
Io vidi già nel cominciar del giorno
la parte orïental tutta rosata,
e l’altro ciel di bel sereno addorno;
e la faccia del sol nascere ombrata,
sì che per temperanza di vapori
l’occhio la sostenea lunga fïata:
così dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva
e ricadeva in giù dentro e di fori,
sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva.
E lo spirito mio, che già cotanto
tempo era stato ch’a la sua presenza
non era di stupor, tremando, affranto,
sanza de li occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse,
d’antico amor sentì la gran potenza.
Tosto che ne la vista mi percosse
l’alta virtù che già m’avea trafitto
prima ch’io fuor di püerizia fosse,
volsimi a la sinistra col respitto
col quale il fantolin corre a la mamma
quando ha paura o quando elli è afflitto,
per dicere a Virgilio: ‘Men che dramma
di sangue m’è rimaso che non tremi:
conosco i segni de l’antica fiamma’.
Ma Virgilio n’avea lasciati scemi
di sé, Virgilio dolcissimo patre,
Virgilio a cui per mia salute die’mi;
né quantunque perdeo l’antica matre,
valse a le guance nette di rugiada,
che, lagrimando, non tornasser atre.
«Dante, perché Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non piangere ancora;
ché pianger ti conven per altra spada».
Quasi ammiraglio che in poppa e in prora
viene a veder la gente che ministra
per li altri legni, e a ben far l’incora;
in su la sponda del carro sinistra,
quando mi volsi al suon del nome mio,
che di necessità qui si registra,
vidi la donna che pria m’appario
velata sotto l’angelica festa,
drizzar li occhi ver’ me di qua dal rio.
Tutto che ’l vel che le scendea di testa,
cerchiato de le fronde di Minerva,
non la lasciasse parer manifesta,
regalmente ne l’atto ancor proterva
continüò come colui che dice
e ’l più caldo parlar dietro reserva:
«Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d’accedere al monte?
non sapei tu che qui è l’uom felice?».
Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba,
tanta vergogna mi gravò la fronte.
Così la madre al figlio par superba,
com’ ella parve a me; perché d’amaro
sente il sapor de la pietade acerba.
Ella si tacque; e li angeli cantaro
di sùbito ‘In te, Domine, speravi’;
ma oltre ‘pedes meos’ non passaro.
Sì come neve tra le vive travi
per lo dosso d’Italia si congela,
soffiata e stretta da li venti schiavi,
poi, liquefatta, in sé stessa trapela,
pur che la terra che perde ombra spiri,
sì che par foco fonder la candela;
così fui sanza lagrime e sospiri
anzi ’l cantar di quei che notan sempre
dietro a le note de li etterni giri;
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