La carità del prossimo - 21
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orecchio mi possa udire, nemmeno quello della mia carissima Lisa.
Biale stette un momento affisando il genero con quel suo occhio franco
e penetrativo: poi accennò col capo d'acconsentire. Il custode che era
presente al colloquio contrastò allegando i regolamenti; ma una buona
mancia fece tacere i suoi scrupoli. Si ritrassero amendue da una
parte, e Gustavo cominciò tosto a favellare sommesso. Lisa, come
tramortita, guardava con occhio senza luce, quasi non si rendesse ben
conto delle condizioni in cui si trovava, nè di quanto le succedeva
dintorno.
--Signore, disse Gustavo non osando più dar titolo di padre al
capitano, bisogna che io mi salvi dall'ignominia d'un pubblico
giudizio, d'una pubblica condanna. Voglio morire. M'è fallita la mano
una volta, ma la seconda non mi fallirà più. Se voi avete ancora
alcuna pietà per me; se vi cale far salvo dall'estrema vergogna il mio
nome; se un poco sopravvive in voi dell'affetto che mi avete per tanto
tempo e con tanta generosità portato, usatemi la carità di procurarmi
modo da togliermi a questa vita, a quest'onta.
Biale rimase di nuovo un poco guardando fiso il genero senza parlare.
--Togliervi alla vita, diss'egli poi, fuggir l'espiazione dopo la
colpa! Non sapete voi che è viltà anche quella?
Pannini abbassò il capo e mormorò con accento pieno di terrore:
--L'espiazione!... Il patibolo, forse!... La gogna... la folla curiosa
e crudele... il mio nome appiccato coll'ignominiosa sentenza ai canti
delle vie... Oh no, no... non lasciatemi a questo troppo supplizio.
E il capitano con accento profondo:
--Voi non avreste il coraggio di affrontare la vostra condanna,
pentito, rassegnato, offrendovi esempio agli uomini, implorando
perdono dalla società e da Dio?
--No, no... E con voce ancora più bassa soggiunse: Sarei vile.
--La vostra mano e il cuore son fiacchi; già una volta fallirono alla
vostra volontà. Non avrete neppure il coraggio del suicida.
Gustavo levò alquanto il capo e rispose fermamente:
--L'avrò!
Il capitano esitò ancora un momento, poi curvandosi all'orecchio del
genero gli disse ratto:
--Va bene.
Poi tuttedue s'avvicinarono alla povera Lisa.
--È tempo di partire, le disse il padre.
Essa lo guardò attonita, come se non avesse ben capito.
--Salutate vostra moglie, Gustavo: rispose Biale.
Pannini s'accostò a Lisa e le pigliò una mano. Allora la donna si
riscosse tutta, e come se una segreta voce la preavvisasse di quanto
avea da succedere, la si buttò al collo del marito, sclamando per
disperata:
--Oh, non mi dividerò più da te! Oh, non voglio più lasciarti!
Povera donna! Ella amava: per lei non esisteva delitto, per lei non
c'era argomento che valesse contro l'amor suo. Il padre le si fece
dappresso, accennando volerla tirar seco per avviarsi.
--Un momento, ella esclamò; ancora un momento.
E tornando a baciare fra le lagrime il marito:--Quando ti rivedrò,
Gustavo?
--Fra pochi dì, s'affretto a dire il capitano. Vieni, Lisa; ora è
forza partire.
E così Gustavo vide allontanarsi da lui per l'ultima volta quella
donna cui amava pur tanto, l'infelice, colla quale avrebbe avuta
esistenza sì lieta se non lo avesse morso al cuore il funesto demone
dell'oro.
Il domani Biale ottenne di tornare al carcere, ma ci fu solo, e collo
stesso metodo del giorno precedente, cioè con una vistosa mancia,
riuscì a far scorrere nella mano del genero un piccolo involto. Quando
tornò a casa aveva la fronte più annuvolata e lo sguardo più scuro che
par l'innanzi. A Lisa disse che per parecchi giorni era impossibile
rivedere il prigioniero. Ella si tacque, ma il cuore aveva pieno di
spaventosi presentimenti. Il giorno di poi la infelice non osava
neppure pronunciare il nome del marito innanzi al padre taciturno e
più cupo che non fosse stato mai; ma il suo sguardo timoroso era una
continua e sollecita ed ansiosa interrogazione.
Il capitano uscì, ma non istette guari a ritornare. Era sì
terribilmente turbato che Lisa comprese di botto una suprema sciagura
essere avvenuta; venne innanzi al padre bianca più che cadavere, le
labbra illividite, e senza potere articolar parola fissò con ansia il
volto del capitano, ponendogli la destra sopra il braccio.
--Gustavo, disse Biale solennemente, si è sottratto alla giustizia
degli uomini per sottomettersi direttamente a quella di Dio.
Lisa non comprese. Continuò a star lì a quel modo, fissa, immobile:
solamente le sue labbra tremanti si agitarono come per parlare, ma
senza pur mandare un suono. Il padre aspettò un istante; poi, visto
che la tremenda luce del vero pareva non balenare nemmanco alla mente
intorpidita della infelice, soggiunse:
--Gustavo è morto...
La donna gettò un grido straziante, e cadde riversa, come fulminata.
XXX.
Giovanni Selva tutti i giorni andava in casa dello zio d'Antonio a
vedere la moglie e i figli di codestui. Era graditissimo a tutti, e il
droghiere si compiaceva parlare con lui del perduto nipote. Giovanni,
trascorso un po' di tempo, s'appigliò ad un modo singolarissimo per
consolare lo zio e la moglie del pittore scomparso, e fu quello di
porre in dubbio, prima apertamente, poi non espresse parole la morte
d'Antonio, e far nascere in loro la speranza che un giorno o l'altro
l'avrebbero potuto rivedere vivo e sano, in questo mondo. Infatti la
morte di lui non era menomamente provata; di cadavere nè in Po nè
altrove non se n'era trovato: non poteva egli invece che uccidersi
essere andato in lontano paese?
In quella, ecco diffondersi la voce del fatto di Pannini e
dell'uccisione d'Orsacchio in quel rimoto villaggio. Selva pensò tosto
alla povera Gina che sarebbe stata là sola senza sapersi trarre
d'impaccio e senza avere alcuno che si curasse di lei: e tenne a
questo proposito una lunga conferenza con una persona che da parecchi
giorni egli teneva accuratamente nascosta nelle sue camere.
Non farò il torto alla vostra sagacia, cari lettori, di dirvi che
questa persona era Antonio Vanardi, non morto altrimenti, ma d'accordo
coll'amico Giovanni decisosi a scomparire per un poco alla vista del
mondo, affine di eccitare in favor suo quella carità della gente che
sempre si commuove quando non è più a tempo.
In seguito a questa conferenza fu stabilito che i due amici
partirebbero subito alla volta di quel villaggio, dove era succeduta
la catastrofe, per pigliar Gina quando la ci fosse ancora, o scoprire
almeno che fosse divenuta e dove andata; e perchè in questa fatta
impresa una donna è sempre più acconcia, deliberarono condur seco la
moglie di Giovanni, la quale, buona e pietosa com'era, appena udito il
fatto, s'affrettò a consentire di gran cuore.
Antonio voleva prima riabbracciare la moglie, i bambini e lo zio; ma
Giovanni nol permise, parendogli che meglio fosse il tardare anche
pochi giorni a restituirsi loro, che, restituito appena, ripartirne
subito per altri interessi. Però, a tranquillare vieppiù i parenti del
pittore, Selva fu da loro e disse, avere scoperto finalmente dove
Antonio s'era ritirato coll'animo di non ritornare mai più se lo zio
non gli perdonava; partir tosto per raggiungerlo e rimenarlo nelle
braccia de' suoi cari, fra pochi giorni l'aspettassero pure, ch'egli
giurava l'avrebbe dato ai loro amplessi.
Fu immensa la gioia nel droghiere e in Rosina. Lo zio volle
promettesse da sua parte ad Antonio ogni maggior cosa; non che perdono
gli avrebbe concesso assoluta padronanza in sua casa; venisse
solamente, e non più un zio ed un padrino avrebbe trovato in lui, ma
un amorosissimo padre.
Gina da quel nuovo colpo della sorte aveva ricevuta una forte scossa,
che invece di nuocere aveva piuttosto giovato alla sua ragione. Le
sorse di botto il pensiero che ella era libera finalmente di quella
tirannia feroce che l'opprimeva, di quella vendetta implacabile e
crudele che le affannava ogni istante della vita. Un tale rimutamento
si fece in lei, che mentre agli occhi della gente parve stupidita
dalla capitatale sciagura, nel suo interno avveniva un travaglio per
cui si ricostruiva, a così dire, la sua ragione. Che cosa le toccava
di fare? Era sola, era libera, senza affetti al mondo, senza legami di
sorta. Dove andare? Non aveva luogo a cui niente l'avvincesse più.
Ricordò con alcun aggradimento la quiete dell'ultimo suo asilo, e le
parve quello fosse il solo luogo in cui potrebbe vivere. Decise
recarsi colà a passarvi quella vita che Iddio le avrebbe ancora voluto
concedere.
Selva, sua moglie e Vanardi trovarono ancora Gina a quel villaggio, e
la ricondussero tutti insieme alla villa di Marone.
Ed ora in poche parole mi sbrigherò di quanto ancora mi rimane a
dirvi.
Vanardi ha rinunziato all'arte e fa il droghiere. Il suo padrino è
felicissimo, e Rosina è diventata molto migliore. Marone continua a
fare il torcicollo ed ha venduto la sua villa alla vedova d'Orsacchio,
la quale prese con sè come dama di compagnia Anna, la nipote dello
speziale, e conserva come coltivatori Matteo e Teresa. Questi non
parlano mai di loro figlio Tommaso, ma non vi dico che non ci pensino,
e quando ci pensano sospirano dolorosamente. Il cavaliere Tommaso
Salicotto fa sempre il filantropo e guadagna denari: è deputato, sarà
ministro. Vi pare felice? Solo, senz'affetti, finirà nella vecchiaia
del celibe egoista, a cui nessuno s'interessa, e che anima al mondo
non ama.
E in questa condizione trascina i suoi dì lo speziale Agapito, il
quale è cascato sotto le unghie di una governante quasi giovane, mezzo
belloccia, che lo tiranneggia e lo ruba a man salva. Egli trova ogni
suo spasso e consolazione nel dir male di tutti e nel fare degli
stupidi giuochi di parole.
La moglie di Gustavo è sopravissuta. Suo padre l'ha menata seco
lontana da Torino. Poveretti! Perchè in questo mondo gl'innocenti
hanno sì spesso da espiare le colpe altrui?
FINE.
Biale stette un momento affisando il genero con quel suo occhio franco
e penetrativo: poi accennò col capo d'acconsentire. Il custode che era
presente al colloquio contrastò allegando i regolamenti; ma una buona
mancia fece tacere i suoi scrupoli. Si ritrassero amendue da una
parte, e Gustavo cominciò tosto a favellare sommesso. Lisa, come
tramortita, guardava con occhio senza luce, quasi non si rendesse ben
conto delle condizioni in cui si trovava, nè di quanto le succedeva
dintorno.
--Signore, disse Gustavo non osando più dar titolo di padre al
capitano, bisogna che io mi salvi dall'ignominia d'un pubblico
giudizio, d'una pubblica condanna. Voglio morire. M'è fallita la mano
una volta, ma la seconda non mi fallirà più. Se voi avete ancora
alcuna pietà per me; se vi cale far salvo dall'estrema vergogna il mio
nome; se un poco sopravvive in voi dell'affetto che mi avete per tanto
tempo e con tanta generosità portato, usatemi la carità di procurarmi
modo da togliermi a questa vita, a quest'onta.
Biale rimase di nuovo un poco guardando fiso il genero senza parlare.
--Togliervi alla vita, diss'egli poi, fuggir l'espiazione dopo la
colpa! Non sapete voi che è viltà anche quella?
Pannini abbassò il capo e mormorò con accento pieno di terrore:
--L'espiazione!... Il patibolo, forse!... La gogna... la folla curiosa
e crudele... il mio nome appiccato coll'ignominiosa sentenza ai canti
delle vie... Oh no, no... non lasciatemi a questo troppo supplizio.
E il capitano con accento profondo:
--Voi non avreste il coraggio di affrontare la vostra condanna,
pentito, rassegnato, offrendovi esempio agli uomini, implorando
perdono dalla società e da Dio?
--No, no... E con voce ancora più bassa soggiunse: Sarei vile.
--La vostra mano e il cuore son fiacchi; già una volta fallirono alla
vostra volontà. Non avrete neppure il coraggio del suicida.
Gustavo levò alquanto il capo e rispose fermamente:
--L'avrò!
Il capitano esitò ancora un momento, poi curvandosi all'orecchio del
genero gli disse ratto:
--Va bene.
Poi tuttedue s'avvicinarono alla povera Lisa.
--È tempo di partire, le disse il padre.
Essa lo guardò attonita, come se non avesse ben capito.
--Salutate vostra moglie, Gustavo: rispose Biale.
Pannini s'accostò a Lisa e le pigliò una mano. Allora la donna si
riscosse tutta, e come se una segreta voce la preavvisasse di quanto
avea da succedere, la si buttò al collo del marito, sclamando per
disperata:
--Oh, non mi dividerò più da te! Oh, non voglio più lasciarti!
Povera donna! Ella amava: per lei non esisteva delitto, per lei non
c'era argomento che valesse contro l'amor suo. Il padre le si fece
dappresso, accennando volerla tirar seco per avviarsi.
--Un momento, ella esclamò; ancora un momento.
E tornando a baciare fra le lagrime il marito:--Quando ti rivedrò,
Gustavo?
--Fra pochi dì, s'affretto a dire il capitano. Vieni, Lisa; ora è
forza partire.
E così Gustavo vide allontanarsi da lui per l'ultima volta quella
donna cui amava pur tanto, l'infelice, colla quale avrebbe avuta
esistenza sì lieta se non lo avesse morso al cuore il funesto demone
dell'oro.
Il domani Biale ottenne di tornare al carcere, ma ci fu solo, e collo
stesso metodo del giorno precedente, cioè con una vistosa mancia,
riuscì a far scorrere nella mano del genero un piccolo involto. Quando
tornò a casa aveva la fronte più annuvolata e lo sguardo più scuro che
par l'innanzi. A Lisa disse che per parecchi giorni era impossibile
rivedere il prigioniero. Ella si tacque, ma il cuore aveva pieno di
spaventosi presentimenti. Il giorno di poi la infelice non osava
neppure pronunciare il nome del marito innanzi al padre taciturno e
più cupo che non fosse stato mai; ma il suo sguardo timoroso era una
continua e sollecita ed ansiosa interrogazione.
Il capitano uscì, ma non istette guari a ritornare. Era sì
terribilmente turbato che Lisa comprese di botto una suprema sciagura
essere avvenuta; venne innanzi al padre bianca più che cadavere, le
labbra illividite, e senza potere articolar parola fissò con ansia il
volto del capitano, ponendogli la destra sopra il braccio.
--Gustavo, disse Biale solennemente, si è sottratto alla giustizia
degli uomini per sottomettersi direttamente a quella di Dio.
Lisa non comprese. Continuò a star lì a quel modo, fissa, immobile:
solamente le sue labbra tremanti si agitarono come per parlare, ma
senza pur mandare un suono. Il padre aspettò un istante; poi, visto
che la tremenda luce del vero pareva non balenare nemmanco alla mente
intorpidita della infelice, soggiunse:
--Gustavo è morto...
La donna gettò un grido straziante, e cadde riversa, come fulminata.
XXX.
Giovanni Selva tutti i giorni andava in casa dello zio d'Antonio a
vedere la moglie e i figli di codestui. Era graditissimo a tutti, e il
droghiere si compiaceva parlare con lui del perduto nipote. Giovanni,
trascorso un po' di tempo, s'appigliò ad un modo singolarissimo per
consolare lo zio e la moglie del pittore scomparso, e fu quello di
porre in dubbio, prima apertamente, poi non espresse parole la morte
d'Antonio, e far nascere in loro la speranza che un giorno o l'altro
l'avrebbero potuto rivedere vivo e sano, in questo mondo. Infatti la
morte di lui non era menomamente provata; di cadavere nè in Po nè
altrove non se n'era trovato: non poteva egli invece che uccidersi
essere andato in lontano paese?
In quella, ecco diffondersi la voce del fatto di Pannini e
dell'uccisione d'Orsacchio in quel rimoto villaggio. Selva pensò tosto
alla povera Gina che sarebbe stata là sola senza sapersi trarre
d'impaccio e senza avere alcuno che si curasse di lei: e tenne a
questo proposito una lunga conferenza con una persona che da parecchi
giorni egli teneva accuratamente nascosta nelle sue camere.
Non farò il torto alla vostra sagacia, cari lettori, di dirvi che
questa persona era Antonio Vanardi, non morto altrimenti, ma d'accordo
coll'amico Giovanni decisosi a scomparire per un poco alla vista del
mondo, affine di eccitare in favor suo quella carità della gente che
sempre si commuove quando non è più a tempo.
In seguito a questa conferenza fu stabilito che i due amici
partirebbero subito alla volta di quel villaggio, dove era succeduta
la catastrofe, per pigliar Gina quando la ci fosse ancora, o scoprire
almeno che fosse divenuta e dove andata; e perchè in questa fatta
impresa una donna è sempre più acconcia, deliberarono condur seco la
moglie di Giovanni, la quale, buona e pietosa com'era, appena udito il
fatto, s'affrettò a consentire di gran cuore.
Antonio voleva prima riabbracciare la moglie, i bambini e lo zio; ma
Giovanni nol permise, parendogli che meglio fosse il tardare anche
pochi giorni a restituirsi loro, che, restituito appena, ripartirne
subito per altri interessi. Però, a tranquillare vieppiù i parenti del
pittore, Selva fu da loro e disse, avere scoperto finalmente dove
Antonio s'era ritirato coll'animo di non ritornare mai più se lo zio
non gli perdonava; partir tosto per raggiungerlo e rimenarlo nelle
braccia de' suoi cari, fra pochi giorni l'aspettassero pure, ch'egli
giurava l'avrebbe dato ai loro amplessi.
Fu immensa la gioia nel droghiere e in Rosina. Lo zio volle
promettesse da sua parte ad Antonio ogni maggior cosa; non che perdono
gli avrebbe concesso assoluta padronanza in sua casa; venisse
solamente, e non più un zio ed un padrino avrebbe trovato in lui, ma
un amorosissimo padre.
Gina da quel nuovo colpo della sorte aveva ricevuta una forte scossa,
che invece di nuocere aveva piuttosto giovato alla sua ragione. Le
sorse di botto il pensiero che ella era libera finalmente di quella
tirannia feroce che l'opprimeva, di quella vendetta implacabile e
crudele che le affannava ogni istante della vita. Un tale rimutamento
si fece in lei, che mentre agli occhi della gente parve stupidita
dalla capitatale sciagura, nel suo interno avveniva un travaglio per
cui si ricostruiva, a così dire, la sua ragione. Che cosa le toccava
di fare? Era sola, era libera, senza affetti al mondo, senza legami di
sorta. Dove andare? Non aveva luogo a cui niente l'avvincesse più.
Ricordò con alcun aggradimento la quiete dell'ultimo suo asilo, e le
parve quello fosse il solo luogo in cui potrebbe vivere. Decise
recarsi colà a passarvi quella vita che Iddio le avrebbe ancora voluto
concedere.
Selva, sua moglie e Vanardi trovarono ancora Gina a quel villaggio, e
la ricondussero tutti insieme alla villa di Marone.
Ed ora in poche parole mi sbrigherò di quanto ancora mi rimane a
dirvi.
Vanardi ha rinunziato all'arte e fa il droghiere. Il suo padrino è
felicissimo, e Rosina è diventata molto migliore. Marone continua a
fare il torcicollo ed ha venduto la sua villa alla vedova d'Orsacchio,
la quale prese con sè come dama di compagnia Anna, la nipote dello
speziale, e conserva come coltivatori Matteo e Teresa. Questi non
parlano mai di loro figlio Tommaso, ma non vi dico che non ci pensino,
e quando ci pensano sospirano dolorosamente. Il cavaliere Tommaso
Salicotto fa sempre il filantropo e guadagna denari: è deputato, sarà
ministro. Vi pare felice? Solo, senz'affetti, finirà nella vecchiaia
del celibe egoista, a cui nessuno s'interessa, e che anima al mondo
non ama.
E in questa condizione trascina i suoi dì lo speziale Agapito, il
quale è cascato sotto le unghie di una governante quasi giovane, mezzo
belloccia, che lo tiranneggia e lo ruba a man salva. Egli trova ogni
suo spasso e consolazione nel dir male di tutti e nel fare degli
stupidi giuochi di parole.
La moglie di Gustavo è sopravissuta. Suo padre l'ha menata seco
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