La carità del prossimo - 20

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--Che cosa c'è? domandò il segretario stupito, e poco tranquillo di
quella invasione. Salicotto s'avanzò e cominciò un bel discorso in cui
Marone era acconciato pel dì delle feste: ma Rosina, che si stava
abbandonata e come sbalordita in un angolo, serrando a sè i suoi
bambini, sollevò la testa, vide Giovanni Selva, e di botto, con impeto
disperato, si slanciò verso di lui gridando:
--E mio marito? Dov'è? Che cosa è di lui?... Ditemelo per amor di Dio.
Quest'atto, queste parole, e l'accento con cui furono pronunziate,
commossero tutti.
--Cara signora Rosina, rispose Giovanni non senza imbarazzo ed
osservandola bene: io veramente non so bene... credo che suo marito
starà assente qualche tempo...
Messer Agapito frattanto s'era accostato al segretario e gli disse a
mezza voce in aria di mistero:
--Lasci tranquilla questa povera famiglia: il misero Vanardi è morto.
In altri momenti, altre parole, la Rosina non avrebbe udite; ma a quel
punto la terribile frase giunse chiara e precisa al suo orecchio. Essa
gettò un grido straziante e corse allo speziale.
--Morto!... Mio marito?... Lei lo ha detto... Lei lo sa!... O mio
Dio!... Mi dica tutto... mi dica il vero.
Agapito era più imbrogliato che un gatto nella stoppa; si strinse
nelle spalle, nicchiò, balbettò, si grattò il naso e finì per dire che
egli lo aveva inteso da Selva.
Allora Rosina tornò da quest'ultimo ansiosa, affannata, tremante,
disfatta nelle sembianze, come persona che attende sentenza di sua
vita o di sua morte.
Giovanni, all'aspetto di quel dolore, parve sentire un pentimento e
stette un poco in bilico, non sapendo come farla; poi rispose
esitando:
--Coraggio!... La non si disperi così... La cosa non è affatto
sicura... ho delle buone speranze che non sia...
La donna si abbandonò tutta al suo dolore. Strinse a sè i suoi piccini
e si diede a singhiozzare con tanto tormento che era una pena il
sentirla.
--Signori, disse il segretario, io non domanderei di meglio che
lasciar in pace questa sventurata famiglia: ma come si fa? Ho il mio
dovere da eseguire...
Lo speziale saltò in mezzo, il naso illuminato da una buona idea.
--Signori, signori, gridò: qui c'è un ingordo padron di casa che vuol
essere ad ogni modo pagato... Ebbene, propongo che si faccia una
colletta per pagarlo noi...
--Sì, sì! fu gridato da ogni parte: facciamo una colletta, e tutte le
mani corsero al borsellino.
Ma in questa una voce trafelata ed ansiosa si fece udire di dietro la
folla, gridando:
--Largo, largo, per carità.
Ed un uomo, facendosi dare il passo a spintoni, penetrava nella camera
e dirigendosi di botto al segretario, diceva:
--Faccia grazia, sospenda tutto; son qua io, pago tutto io.
Era il droghiere, zio e padrino d'Antonio.
Quella mattina questo signor zio aveva ricevuto per la posta dalla
città una lettera, la cui scrittura gli era affatto sconosciuta.
Apertala e lettala, gli si offuscò la vista, gli si misero a tremare
le gambe, e un forte pallore gl'imbiancò subitamente la faccia.
In quella lettera Giovanni Selva, che il droghiere conosceva di nome e
sapeva amicissimo di suo nipote, gli annunziava come Antonio, datosi
del tutto al disperato, fosse sparito, scrivendogli i fieri propositi
che aveva contro sè stesso, ed abbandonando nella più terribile
miseria la sua famiglia, la quale, non osando più raccomandarsi allo
zio, si raccomandava all'amico Selva; soggiungeva che di quel giorno
medesimo il padrone di casa e moglie e figli di Antonio avrebbe
scacciato e fatto vendere la roba loro; aver perciò pensato di
scrivere allo zio di cui conosceva il buon cuore, il quale non avrebbe
certo abbandonato quegl'innocenti che erano suo sangue e che portavano
il suo nome.
Il buon droghiere, che in fondo amava pur sempre il suo figlioccio,
rimase come tramortito, voleva fare, voleva correre, e non sapeva nè
che cosa, nè dove: aveva un dolore che gli faceva groppo alla gola e
confusione alla mente. Si disse, maledicendosi, ch'egli, ch'egli solo
era cagione di tanta sciagura. Perchè era egli stato così crudele
verso il figlioccio? Suo figlioccio! Era lui che lo aveva tenuto a
battesimo. E con questo fatto, e con aperta parola, non aveva egli
preso impegno di vegliare continuo sulla sorte e sui giorni di quel
ragazzo? E' l'aveva promesso a suo fratello, al padre del piccino: ed
era così che aveva mantenuta la sua parola? La colpa d'Antonio che
prima gli pareva una montagna ora non era più che un granellino di
sabbia. Ricordava la buona indole del giovane e il rispetto che aveva
sempre avuto per lui; ricordava il brutto modo con cui egli l'aveva
accolto l'ultima volta che era venuto a supplicarlo. Ahimè! Quella era
pure stata l'ultima volta ch'ei l'aveva visto. Chè non poteva allora
tendergli le braccia e chiamarlo al suo seno nell'amplesso della
riconciliazione? Capiva, ora che gli era tolto, tutto il piacere che
avrebbe provato nel perdonare.
Ad un punto si alzò di scatto battendosi colla palma la fronte, e
cercò tutto affannato colle mani tremanti la sua mazza e il suo
cappello. Quando già fuori dell'uscio, tornò indietro, si riempì le
tasche di denaro e corse precipitoso verso la dimora del nipote. Gli
si era fatto presente che in quel giorno, forse in quel momento
medesimo, la povera famigliuola di Antonio veniva cacciata di casa.
Il sopraggiungere del droghiere pose fine alla scena che aveva avuto
luogo nell'abitazione del pittore. Per quanto fosse tenace la
curiosità di quella gente, dovettero pure sfilare tutti, lasciando
soli lo zio, la moglie e i figliuoli di Antonio e Giovanni Selva.
Il dolore dava alla Rosina le buone ispirazioni. Quando ebbe
conosciuto che quel vecchiotto soprarrivato era lo zio di Antonio, e
l'ebbe visto sì efficacemente soccorrer loro, ella, spingendosi
innanzi i suoi bimbi, venne a cadergli ai piedi, tutto lagrimosa, e
con quell'accento che parte dal cuore e giunge altresì commovente al
cuore altrui, gli disse:
--Il Cielo la benedica, o signore... Grazie, non per me, ma per questi
innocenti... Per loro la prego, per loro poverini; non per me che sono
causa di tutto il male: perdono, perdono!
E la povera donna, smarrita, chinava il capo sino al suolo nel più
umile atto di pentimento.
Quei due forti dolori furono di botto simpatici l'uno all'altro. Lo
zio ebbe dimenticato in un attimo tutte le sue ire passate: non vide
più che una povera donna amata dal caro e rimpianto nipote, e che gli
veniva innanzi come parte di lui. Per impulso interno sollevò la
misera, la prese tra le sue braccia e la strinse al seno. Piansero
amendue in quell'amplesso. Ella prese i suoi bimbi e li serrò alle
gambe del vecchio intenerito, e il più piccino gli pose in collo.
Quando Giovanni vide il buon droghiere seduto con sulle ginocchia i
figli d'Antonio che lo chiamavano zio e lì presso la Rosina che gli
baciava la mano, capì che era tempo d'andarsene anche per lui, e corse
via commosso e con tanta sollecitudine, che pareva s'affrettasse a
portare a qualcheduno la lieta novella.
Poche ore dopo tutta la famiglia del pittore era stabilita in casa
dello zio. La Rosina da quel giorno cominciò ad essere una tutt'altra
donna. Non c'è nulla che sublimi maggiormente l'animo umano che un
forte dolore fortemente sentito. Ogni volgarità, ogni meschinità,
quando in fondo la tempra sia buona, sparisce dall'animo colpito da
suprema sventura. Esso si rialza, ed estrinseca a così dire, tutte le
sue interne virtù affine di esser pari al suo stato, perocchè nulla
v'abbia di più osservabile al mondo dell'uomo che soffre.
Oltrechè Rosina s'accusava pure d'essere cagione di tanta sciagura,
ricordava ancor essa quell'ultima scena che aveva mandato fuor di sè
Antonio, e, che troppo aveva ella ragione di temere fosse stata
l'ultima spinta ai disperati propositi del marito. E questa le
chiamava in mente tutte le scene precedenti; e questo suo ultimo gran
torto le rifaceva vivi innanzi tutti gli altri suoi, ed essa capiva ad
un tratto come la sua condotta e il carattere e le maniere fossero
state riprensibili e disgraziate. Così in lei pure l'amore pel marito,
ora perduto, veniva manifestandosi tutto e maggiore d'assai di quello
che avrebbe creduto ella medesima: e quest'amore concentrandosi ne'
suoi bambini che le erano già sì cari, ne conseguiva che in essa,
verso lo zio che li aveva accolti e che facea loro godere agi cui non
avevano goduto mai, erano nate ed una riconoscenza sterminata ed
un'osservanza affettuosa che la facevano riguardosissima a non
dispiacergli per nissun modo. Di che ne conseguiva eziandio che ad
ogni giorno passasse, il droghiere, il quale era scevro da tanto tempo
della vita di famiglia, cui pure aveva così cara, ponesse maggior
affezione a quella donna e a quei ragazzi, e si lodasse sempre più di
averli seco.
Ah! s'egli avesse potuto ancora avere il caro Antonio!


XXVIII.

In alto d'una piccola collina, verso la frontiera, c'è un piccolo
villaggio, il quale, all'epoca della nostra storia, possedeva ancora
una posta di cavalli. Nessuna linea invaditrice di strade ferrate
s'era spinta tuttavia sin là a togliere ai poveri quadrupedi il
privilegio di sobbalzare i pochi viaggiatori che di quando in quando
passano anche adesso per quella strada, per lo più affatto deserta.
Appena superata la salita s'entra nel villaggio, e lì a capo c'è
subito un gran casone bianco, con una spianatella dinanzi da cui si
domina maravigliosamente la strada che si contorce al disotto sulla
falda del colle e la pianura che si stende a' suoi piedi.
Sopra il portone della casa un'insegna di latta verniciata che
strideva al vento continuo che soffia dai monti, portava scritta,
sotto un corno da caccia dipinto, la leggenda: _Albergo della Posta_.
La strada postale traversa per lo lungo la via maestra del villaggio,
e poi comincia, a poca distanza da questo, un'altra salita che si
caccia in una gola delle montagne, le quali si drizzano sublimi e
solenni a limitar molto presso l'orizzonte.
Tempo addietro quel passaggio era frequentatissimo, e le scuderie
della locanda albergavano buon numero di cavalli a cui l'accorrenza di
viaggiatori non lasciava troppo lungo il riposo, e il locandiere non
aveva grand'agio da stare, com'era al momento di cui vi parlo, sulla
soglia della sua casa, le mani dietro le reni, il berretto negli
occhi, l'aria di cattivo umore, sbadigliando inoperoso.
E sì che lo avrebbe dovuto rallegrare l'inopinato arrivo di due
viaggiatori che si trovavano appunto nello stanze superiori; un
signore ed una signora, de' quali il primo aveva detto si sarebbero
fermati per riposarsi un'ora. Ma che valeva ci fossero codestoro, se
avevano rifiutato di prendere la menoma refezione, defraudando così il
povero locandiere dell'onesto guadagno ch'egli aveva già immaginato di
fare sulle loro borse?
Vi dirò subito che quei due viaggiatori erano Orsacchio e sua moglie.
Sapete già come e perchè essi viaggiassero sempre per le strade meno
frequentate e con che sollecitudine il marito volesse ora portarsi
colla povera Gina fuori Stato. Non vi stupirete quindi nel trovarli in
questo rimoto villaggio, fermi per un'ora soltanto, affine di
riposarsi, come ne avevano assoluto bisogno, e riprendere poi la loro
rapida corsa, che meglio sarebbe chiamar fuga addirittura.
Nella scuderia c'erano giusto due buscalfane, alte, magre, sfiancate,
che mangiavano la profenda con dente affamato ed aria triste per aver
l'onore di fare di lì a poco una trottata sino all'altra posta a
benefizio degli inaspettati viaggiatori.
Gina, poichè la era stata spiccata da quel luogo a cui aveva posto
affezione, pareva scema del tutto e si lasciava regolare come un
bambino, senza volontà, senza forza, senza parola. Il marito,
facendola entrare in una delle camere di quella locanda, le aveva
detto:--Sedete; ed ella si era seduta. Quando egli fosse venuto a
comandarle:--Sorgete e seguitemi; ed ella ciò avrebbe fatto colla
stessa indifferenza. Ogni sensitività, come ogni intelligenza, pareva
non che smussata, distrutta in lei.
Tre quarti d'ora dopo l'arrivo d'Orsacchio e di sua moglie,
l'albergatore, che v'ho detto star sulla porta inoperoso ed
ingrognato, ebbe ragione di stupirsi molto e di rallegrarsi alcun
poco, vedendo nella pianura che si distendeva sotto quella collina,
sulla strada che conduceva al villaggio, un'altra carrozza che veniva
al trotto serrato di due cavalli cui la sferza del postiglione
sollecitava, proprio come se colla loro rapidità avessero da
guadagnargli una buona promessa mancia.
Il fatto era così straordinario che il buon ostiere si fregò gli occhi
due o tre volte, prima di credere alla loro testimonianza. Era da anni
ed anni che non aveva più visto il miracolo, che due carrozze in un
giorno passassero per quel villaggio.
La carrozza intanto aveva lasciato il trotto pel cominciare della
salita, che a giri tortuosi menava alla spianatella dell'albergo.
L'oste, il quale figgeva su quel legno l'occhio che uccel grifagno
figge sulla preda, vide la testa d'un uomo farsi fuori dello
sportello, come per guardare qual fosse la cagione di quella nuova
lentezza, poi volgersi al postiglione, e certo invitarlo a più
frettoloso andare, poichè quest'ultimo con una mezza dozzina di buone
sferzate obbligava le povere bestie, che apparivano stanchissime, a
sollecitare il passo su per l'erta.
Appena fermo il calesse innanzi la porta dell'albergo, quell'uomo, il
cui capo l'oste aveva visto porgersi in fuori dello sportello, saltò
giù. Era solo. Giovane, pallidissimo, le chiome arruffate, le
sembianze turbate, gli occhi inquieti ed incavati come chi da qualche
tempo non riposa ed è in continuo disagio o per fatica fisica o per
passione morale o per l'una e l'altra insieme.
E' si rivolse tosto all'oste, il quale gli era mosso all'incontro e
l'accoglieva con profondi inchini:
--Un boccon di colazione, disse, e presto. Fra mezz'ora al più voglio
ripartire.
--Sì, signore, come comanda: rispose il locandiere raddoppiando i suoi
inchini.
Il viaggiatore s'avviava per entrar nella casa; intanto il
postiglione, sceso di sella, erasi sollecitato a staccare i cavalli ed
aiutato da un mozzo venuto fuori al rumor della carrozza, in un attimo
s'era fornita la bisogna. Il postiglione, col suo cappello di cuoio in
mano, arrestò il giovane viaggiatore e gli chiese la mancia.
Il nuovo arrivato trasse di tasca il portamonete e vi prese dentro del
denaro; ma in quell'atto un'idea parve sovraccoglierlo.
--Voi volete tornare indietro subito? dimandò al postiglione.
--Signor sì: questi rispose.
Il viaggiatore si volse all'oste.
--Ci avete bene dei cavalli qui?
--Ne abbiamo due, cominciò a risponder l'oste; ma il postiglione che
ebbe tosto compreso tutto il pensiero del viaggiatore interruppe:
--Tanto e tanto con queste mie povere bestie non si potrebbe far più
un'altra posta. Appena se le avranno abbastanza di forza da tornarsene
a casa.
Il giovane non soggiunse più parola, diede la mancia al postiglione ed
entrò nell'albergo.
Sedette ad una tavola vicino alla finestra, a pian terreno; e mentre
stava aspettando, appoggiati i gomiti al desco e il mento nella palma
delle mani, si diede a guardar giù nel piano dove serpeggiava la
strada per cui egli era venuto. Ma parve che tosto un interno forte
pensiero sorgesse a dominarlo e lo distogliesse dalle cose
circonvicine, per portare la mente chi sa in quale regione, poichè il
suo sguardo si fece fiso e senza luce come quello d'occhio che non
vede, la fronte gli si annuvolò e le guancie gli si contrassero come
se fosse assorto in una profonda e dolorosa meditazione.
Ne lo riscosse l'oste, il quale venne a mettergli innanzi
l'asciolvere. Il giovane viaggiatore accennò volersi dar tutto a
codesta occupazione; si rassettò di meglio al desco, e volse un'ultima
sguardata a quella vista di paese che gli appariva dalla finestra.
Parve ci vedesse alcun che di spaventoso, poichè diede in un sussulto
e le sue sembianze si turbarono forte. Si mosse di subito come dietro
impeto irriflessivo, per levarsi e partirne; ma si trattenne, facendo
forza a sè stesso, guardò con occhio irrequieto l'oste, e poi di nuovo
la campagna, e sforzandosi a parer calmo, disse:
--Sarà bene che incominciate a far attaccare i cavalli alla mia
carrozza.
L'oste si grattò dietro l'orecchia tutto impacciato.
--Signore, balbettò egli, ci ha bene, come ho detto, due cavalli, ma
il guaio è che....
--Che cosa? interruppe vivamente il giovane, di cui lo sguardo pareva
non potersi più spiccare da ciò che stava mirando nella sottoposta
pianura.
--Che sono già allogati ad un viaggiatore arrivato prima di lei, e che
sta per partire a momenti.
Il giovane gittò là bruscamente la salvietta e si levò di scatto,
tutto turbato.
--E non ce ne sono altri?
--Signor no.
Il forastiero guardò nuovamente giù nella campagna, poi pigliando
l'oste pel braccio e traendolo seco nel cortile, soggiunse:
--Conviene assolutamente ch'io parta subito. Quel signore non può
certo aver tanta fretta quanta ho io. Qui ci sono due napoleoni d'oro
per voi, se fra due minuti io posso partire.
E senza aspettare fece scorrere nella mano del locandiere le promesse
monete. Siffatto argomento persuase affatto quel brav'uomo che si pose
egli stesso con molto zelo ad aiutare lo stalliere nell'opera
dell'allestire i cavalli.
Il viaggiatore uscì sulla spianata, e tornò a guardar giù con ansietà.
Due carabinieri a cavallo erano giunti appiè della collina e
cominciavano a salir lentamente su per l'erta che menava al villaggio.
Questo viaggiatore ho io bisogno di dirvi chi fosse? Era Gustavo
Pannini perseguitato già dal rimorso e dalla paura dell'umana
giustizia. Partitosi, come vi ho narrato, con un treno di ferrovia,
non aveva tardato a pentirsi d'aver scelto questo mezzo di fuga:
troppe erano le persone che ci s'incontravano. Alla prima stazione
abbandonò quella strada e quella direzione, e si diede a studiare come
farla, camminando solo traverso la campagna. Stabilì, nel primo luogo
in cui ciò gli fosse possibile, di procurarsi una carrozza e di
affrettarsi con essa, per istrade meno usate e più fuori mano, verso
la frontiera.
Giunse appunto in una piccola città in cui gli venne fatto di eseguire
il suo disegno. Comprò un paio di pistole, risoluto in ogni caso,
prima ad uccidersi che cascar vivo nelle mani della giustizia; si
procurò un calesse da viaggio, e via con tutta la rapidità che gli
concedevano le strade e i mezzi di trasporto: ed ecco di qual guisa
era arrivato quel mattino al villaggio, dove, spinto da ragioni presso
che le medesime, colla medesima intenzione era già Orsacchio.
Questi stava appunto per chiamar l'oste ed ordinargli attaccasse i
cavalli, quando udito lo scalpitar di questi nel cortile, si fece alla
finestra e vistili usciti dalla scuderia coi fornimenti si persuase
che si allestisse la carrozza di lui alla partenza. Fece quindi levare
la povera Gina, e con essa discese le scale e s'avviò fuori del
portone sulla spianata, dove in vero una carrozza da viaggio stava
bella e pronta a partire.
Ma colà giunto Orsacchio s'avvide che la carrozza non era la sua, e
che un altro viaggiatore sollecitava gli stallieri che finivano di
attaccare i cavalli. Si volse all'oste aggrottando in modo molto
minaccioso le sopracciglia.
--Non è dunque per me che si allestiscono questi cavalli.
L'albergatore si inchinò molto impacciato.
--Signor no: rispose.
Orsacchio proruppe con violenza:
--E per me, quando si vuole aspettare? L'ora che avevo detta è
passata. Fuori altri cavalli e si attacchino subito al mio legno.
Il locandiere si fece piccin piccino, si curvò nelle spalle con aria
desolata e confessò che di cavalli non ce n'erano altri che quelli.
Orsacchio dalla collera divenne rosso come un tacchino. S'aggiunse che
in quella il suo occhio corse a caso giù per la scesa della strada e
ci vide i due carabinieri che ne avevano già superato un buon terzo.
Anche a lui premeva sfuggirli, ancor egli aveva buone ragioni per
credere cercassero di lui; lasciò Gina là dove si trovava e corse da
Gustavo che stava appunto per salire nella carrozza.
--Signore, questi cavalli erano promessi a me: diss'egli bruscamente,
arrestandolo pel braccio; ed io ho fretta di partire.
Gustavo fece a sciogliersi dalla stretta d'Orsacchio, ma nol potè.
--Anch'io ho fretta, rispos'egli. Mi lasci andare... Che modo è
codesto?
Orsacchio colla coda dell'occhio vedeva i carabinieri avanzarsi sempre
più.
--Le dico che non sarà lei a partire, ma io...
Anche Gustavo osservava con ansia l'avvicinarsi sempre più degli
agenti della forza pubblica.
--Signor no: interruppe egli col tono di uomo risoluto a tutto. Mi
lasci, o guai per lei!
E con uno strappo si liberò dalle mani di Orsacchio e saltò nel legno;
ma Orsacchio lo prese ai panni.
--Mi lasci, urlò di nuovo Gustavo che vedeva i carabinieri sempre più
presso.
--No, rispondeva con pari accanimento Orsacchio spinto dalla ragione
medesima: no per Dio!
--Avanti! gridò Pannini al postiglione, il quale già in sella, la
frusta in mano, stava rivolto a veder quella scena: avanti... e di
galoppo.
Il postiglione accennò colla frusta ad Orsacchio che era mezzo nella
carrozza colla sua persona.
--Vuole ch'io schiacci questo signore?
E Gustavo, quasi fuor di sè, lottando sempre a respingere Orsacchio:
--Due napoleoni se tu parti tosto di galoppo.
--Quattro, gridò il marito di Gina furibondo, se tu scendi da cavallo.
Il postiglione pareva infradue senza sapere a quale obbedire.
Gustavo guardò nuovamente giù della scesa; il suo aspetto si sconvolse
vieppiù; gli occhi balenarono; trasse di tasca le sue pistole e le
appuntò al petto d'Orsacchio.
--Si ritragga o sparo.
Orsacchio, invece d'arretrarsi, tentò abbrancare le canne delle
pistole. Un colpo partì: vi rispose un grido soffocato. Gustavo fu
libero; sorse in piedi, s'abbrancò al piccolo schienale del seggiolo
del cocchiere e puntando la pistola al postiglione, gli gridò:
--A te ora... di galoppo o ti spacco il cranio.
Orsacchio era caduto sanguinoso; a quello sparo, a quella vista, Gina
si riscuoteva tutta, mandava un urlo e si rappiattava spaventata
contro la parete della casa. L'oste sul ciglio della spianata chiamava
colla voce e coll'agitar delle braccia i carabinieri, i quali
all'udire quel colpo avevano alzato la testa e stavano guardando qua e
là per vedere che fosse. La carrozza partiva di gran galoppo.
Pochi istanti dopo, i carabinieri, i quali ai cenni dell'oste avevano
sollecitato il passo delle loro cavalcature, giungevano sul luogo.
Orsacchio era morto sul colpo. Gina dalla vista di quel sangue era
mandata in una di quelle crisi che l'assalivano di quando in quando. I
carabinieri, udito sommariamente il fatto, cacciarono gli speroni ne'
fianchi ai cavalli, e via di gran corsa dietro la carrozza di Gustavo,
la quale era già sparita al fine della strada che attraversava il
villaggio.


XXIX.

Già erano parecchi dì che sopra il volto severo e patito del capitano
Biale non appariva più cosa che pur di lontano somigliasse a un
sorriso; come poi la povera Lisa fosse dal suo dolore distrutta ve lo
lascio immaginare, essendo cosa più facile figurarsi che dire. Pure un
giorno, il capitano venne innanzi alla moglie di Gustavo con una cera
tanto più disfatta del solito, che essa tutta si scosse pel subito
timore d'ogni peggior male: mandò un grido, si gettò perdutamente
sopra il seno del padre, affissandone ansiosa le sembianze, e non
osando o non avendo tampoco la forza di formulare le varie affannose
interrogazioni che si accalcavano sulle labbra, tutte le espresse in
una sola parola che parve le erompesse proprio dal fondo dell'anima:
--Gustavo?
Il padre la strinse molto affettuosamente al petto e reclinò su di lei
la faccia commossa:
--Vive: rispose egli con un sospiro che pareva rimpiangesse il fatto;
è ferito, ma vive.
--È ferito? esclamò con profondo sgomento l'infelice.
E il padre con amarezza:
--Una ferita leggiera... Partirò quest'oggi stesso per andarlo a
vedere dove si trova.
Lisa si sciolse dall'amplesso, e disse ratto:
--Anch'io... Partiremo insieme... Non negarmelo!... Lo voglio.
Il capitano esitò un momento: il suo primo pensiero fu quello di
contrastare, ma poi tosto, ravvisatosi, disse:
--E sia.
Partirono. Gustavo inseguito e raggiunto dai carabinieri aveva tentato
uccidersi sparandosi la pistola contro il petto; ma la mano tremò in
quel punto allo sciagurato, e la palla non fece che sfiorargli il
torace. Era stato preso e condotto alle carceri di ***, e colà
arrivarono sua moglie e il suocero, muniti dell'opportuna licenza per
poterlo vedere.
L'elegante Pannini era cambiato in guisa da non poterlo riconoscere
più. Nel volto dimagrato e impallidito, nell'occhio irrequieto,
affondato entro la livida occhiaia, nelle labbra scolorate, tremanti
quasi di continuo, apparivano tutti i tormenti incessanti della sua
anima corrosa dal rimorso. Del non aver saputo uccidersi dolevasi seco
stesso come della maggiore sua sciagura. Pensate qual fosse il suo
animo al momento di comparire innanzi a Lisa ed al capitano! Un
istante pensò di rifiutarvisi; ma poi non n'ebbe il cuore. Un tremito
maggiore l'assalse: ed egli, che per debolezza della ferita recatasi
poteva a stento camminare, entrò nella stanza ove l'attendevano i
suoi, più pallido e più turbato che mai, la fronte per vergogna madida
di sudore, il passo vacillante, gli occhi fitti alla terra, senza
forza, senza voce, quasi senza respiro.
Ma benchè gli occhi tenesse bassi, pure travide di presente la fronte
severa del suocero che stava dritto colla sua alta statura all'altra
estremità della stanza in molto nobile e dignitoso contegno, e quella
vista lo atterrò anche più; gli parve l'aspetto stesso della virtù e
dell'onestà, cui egli aveva abbandonate con tanto infame trascorso;
avrebbe voluto sprofondare. Lisa stette un poco, quasi esitante, quasi
non riconoscesse subito in quella larva che le veniva dinanzi
l'adorato marito; poi l'impeto dell'affetto successe sollecito e
veemente; si gittò al collo di Gustavo e pianse lagrime dirotte, e
parlò incomposte parole di traboccante passione.
Anch'egli si stemperò in lagrime così abbracciato da sua moglie;
quindi, come non potendo regger più in piedi, si lasciò calar
ginocchioni per terra, e tendendo le due braccia verso il capitano,
che punto non si era mosso, esclamò con voce arrangolata:
--Perdono! perdono!
Biale s'avanzò lentamente verso il colpevole, muto, severo, solenne.
Il suo sguardo piombava inesorabile e grave sopra il reo; e questi
curvava il capo sotto di esso e si rannicchiava al suolo, da toccar
quasi colla fronte lo spazzo.
--Sciagurato! disse il capitano, quando gli fu presso, fermandoglisi
innanzi. Che hai tu fatto dell'onor nostro?
--Perdono! perdono! ripetè balbettando il miserabile.
--Perdono?... Sapete voi che l'onore era la sola nostra ricchezza e
tutta la mia superbia? E doveva io allevarvi e farvi due volte mio
figlio perchè voi ne lo rapiste? Meno ingrato sareste, meno infame, se
mi aveste ucciso. In nome di vostro padre, onoratissimo uomo, vi
rinnego e vi maledico.
Lisa gittò un grido e fece a cingere colle sue braccia il capo del
marito, come per difenderlo dalla maledizione paterna; ma Gustavo ne
la rimosse, si alzò, le lagrime aveva rasciutte, il volto più bianco,
le mascelle contratte, e una nuova risoluzione appariva in lui. Si
volse allo suocero e parlò con voce ferma e pacata.
--Fui traviato. Sono un infame; non ho discolpa, lo so. Non merito il
vostro perdono, non lo chiedo più nemmanco. Solo un'ultima grazia
imploro, e conviene che la dimandi a voi solo, che nessun altro
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