La carità del prossimo - 14

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Durante il pasto, che non fu nè sontuoso nè abbondante, non si parlò
d'altro che di Tommaso Salicotto. Il padre era ansioso d'apprenderne
ogni cosa; lo speziale era curiosissimo di trarre di bocca a Matteo il
segreto delle relazioni che passavano fra lui e il figliuolo. Più
nissun dubbio rimaneva in Agapito che il cavaliere, sedicente
figliuolo d'un avvocato, non fosse il legittimo ed unico discendente
di quel villano, e si prometteva di avere da questo argomento
l'occasione d'una infinità di ciarle piacevoli ed interessanti con
tutto il vicinato, cogli avventori, coi medici che capitavano a
bottega.
Ma nel migliore delle sue suggestive interrogazioni a Matteo, ecco la
nipote interromperlo per annunziargli che c'era il signor Marone.
--Venga: disse lo speziale; poi volgendosi al contadino: Eh ve l'ho
detto io che l'avreste visto senza fallo, aspettandolo qui.
Marone si stupì molto di trovar lì il suo ortolano, prese la lettera
che questi gli porse, la lesse, meditò un poco, poi disse:
--Da qui a mezz'ora passate da me, dove io abito, e vi darò una
risposta da portare al signor Nicolazzo.
Poi si volse allo speziale domandandogli la pigione. Matteo comprese
che non aveva più nulla da far lì e tolse licenza. Agapito chiamò la
nipote, perchè lo scortasse fuori.
Quando furono all'uscio che metteva al pianerottolo, Anna disse
sottovoce e tremando a Matteo:
--Ripartite presto?
--Fra un'ora al più tardi.
La ragazza giunse le mani in atto di preghiera e levò gli occhi
lagrimosi in volto al villano con espressione così supplichevole che
egli se ne sentì commosso:
--Ho bisogno di parlarvi, diss'ella, tanto bisogno! È il cielo che ho
pregato così di cuore che vi ha mandato... Prima di partire, venite
qui, ve ne scongiuro, e battete un legger colpo colle dita nell'uscio,
io sarò dietro il battente ad aspettarvi... Venite per amor di Dio, ve
lo domando come una grazia.
--Va bene, rispose Matteo, ci verrò.
--Sicuro?
--Sì, sì, ve lo prometto.
--Dio vi benedica, compare Matteo.
A che cosa il buon villano avrebbe impiegata quella mezz'ora che gli
restava prima di andare a prendere la risposta scritta dal suo
padrone? Se ne venne nella strada, guardando di qua e di là, come uno
sfaccendato. Dallo speziale aveva appreso che nella casa precisamente
di facciata abitava suo figlio; e quando egli giunse all'altezza di
quel portone una forza superiore lo fece piantarsi là davanti, come se
ci avesse da mettere le radici.
Da tanto tempo non aveva più visto quel figlio che in fondo al cuore
gli era caro pur sempre! Chi sa che Tommaso non fosse pentito del suo
fallo, e una sola parola di lui, il solo vederlo, non glie lo gettasse
amoroso di nuovo fra le braccia! Senza un atto ben preciso di sua
volontà, Matteo pur tutta via entrò sotto il portone, e come il
portinaio che per caso usciva dalla sua loggia lo guardava con aria
interrogativa, egli disse, quasi balbettando:
--Il signor Salicotto abita qui?
--Il cavaliere Salicotto, rispose il portinaio, sta al primo piano
nobile.
Matteo salì le scale, suonò il campanello ed entrò nella casa del
figliuolo con quella emozione che potete immaginarvi.
Il domestico, che lo aveva introdotto in quel salotto in cui abbiamo
accompagnato Vanardi, passò nel gabinetto del padrone ad annunziargli
che un contadino cercava di lui.
Tommaso, come soleva fare per ogni nuovo visitatore gli capitasse, se
ne fece descrivere in digrosso le sembianze e il portamento. Il dubbio
che potesse esser suo padre nacque di subito in lui; s'accostò
cautamente all'uscio a vetri, e levò un poco una delle tendine per
veder nel salotto. Al primo sguardo gettato su quel vecchio di cui
l'impacciato contegno e il tremito delle mani che sostenevano il
cappello dinotavano la commozione profonda, Tommaso lo riconobbe. Il
primo pensiero di quel tristo, dello scellerato figliuolo, fu quello
di farnelo rinviare dal servo; poi temette il vecchio rompesse in
isdegnose parole che svelassero la verità e ne nascesse uno scandalo,
disse adunque al servitore:
--Andate pure ai fatti vostri; farò venir qui fra un momento
quell'uomo io stesso.
Quindi il miserabile stette alcuni minuti pensando quale accoglienza
gli fosse più utile di fare a suo padre, e si risolvette per una
brusca e scortese, affine di togliere al povero vecchio la volontà di
tornarci un'altra volta.
Aprì l'uscio del gabinetto e disse al padre in tono burbero:
--Venite.
Il buon vecchio, che ad una sola parola amorevole si sarebbe slanciato
verso il figliuolo a braccia aperte, ferito dolorosamente da
quell'accento, s'inoltrò esitando, quasi timoroso.
--Ah siete voi, rispose Tommaso; che volete?
Matteo vide svanire di botto tutte le illusioni che s'era fatte
venendo. Suo figlio non esisteva più per esso. Fissò ben bene i suoi
occhi sul volto scuro di Tommaso, e disse:
--Ero venuto per vedere se qui trovavo ancora mio figlio, vedo ch'io
non son più che un estraneo. Ho avuto torto a venire. Da voi non
voglio niente.
E si mosse per partire senz'altro.
Il filantropo non si commosse punto. Soltanto, quando il padre aveva
già una mano sulla gruccia della serratura, tese la destra verso di
lui e disse:
--Le nostre esistenze corrono in due strade affatto diverse: sono
quindi le circostanze, e non la mia volontà, che ci separano. Se mi
ostinassi a voler camminare accosto a voi, farei danno alla mia
fortuna, senz'altro pro. Che volete? Il mondo è così fatto...
Queste frasi spazientirono il vecchio contadino; rialzò egli la testa
più risoluto, ed interruppe:
--Va bene. Risparmiate le vostre belle parole ch'io non capisco. Voi
non volete aver più nulla di comune colla vostra famiglia, e checchè
avvenga di noi ve ne lavate le mani. Che v'importa che vi sieno due
poveri vecchi soli al mondo, senza conforto nessuno nella loro età
cadente? È giustissimo: avete ragione: l'educazione signorile vi ha
forse mostrato di queste belle cose, che noi gente alla buona
chiameremmo... Ah! Dio mi perdoni!...
Il pover'uomo cominciava a scaldarsi. Tommaso fraintese affatto il
sentimento del vecchio dabbene, e soggiunse col piglio dolcereccio da
impostore con cui soleva smaltire le sue filantropiche tiritere:
--Io non ho mai detto di volervi abbandonare nei vostri bisogni. Voi
forse siete venuto da me per avere denaro, ed io...
Ma il padre non lo lasciò continuare. Era l'amore del figlio, era la
doverosa di lui gratitudine ch'egli era venuto a cercare. Diede sfogo
a tutto lo sdegno doloroso che da tanti anni la condotta del figliuolo
verso i genitori aveva ammassato nel suo animo. La verità parlò per la
bocca di lui coll'accento della più viva rampogna, e la severa
condanna paterna cadde, come una maledizione, sull'ingrato figliuolo.
Tommaso incrociò le braccia al petto e si mise a passeggiare pel
gabinetto con fredda indifferenza.
--Dopo questa intemerata, pensava egli, ne sarò liberato per sempre.
Ma come l'intemerata durava troppo, ed egli cominciava a stancarsene,
il tristo decise di farla finita. E poi, gli pareva che alcuno fosse
entrato nel vicino salotto, e troppo temeva che quella scena facesse
scandalo. Si piantò innanzi al padre e gli disse in tono risoluto:
--Ora basta. Sono in casa mia ed ho il diritto di farmi rispettare.
Il vecchio volle insistere.
--Basta! gridò più forte il figliuolo. Ho il diritto a chicchessia
m'oltraggi di mostrare la porta.
Matteo indietreggiò d'alcuni passi, innanzi al viso fosco del
figliuolo.
--Voi mi scacciate! esclamò egli. E sia: ma il cielo...
--Si: interruppe Tommaso con rea ironia; facciamo il cielo giudice fra
noi. Ci acconsento, e intanto la sia finita.
Il misero padre uscì dal gabinetto e dalla casa del figliuolo in
quella guisa che vi ho narrato nell'altro capitolo. L'angoscia del suo
cuore chi la potrebbe esprimere? Ma nel piangere fra le braccia del
buon Vanardi che, senza pur conoscerlo, gli aveva mostrato tanta
pietà, alcun sollievo n'era disceso all'anima del povero vecchio:
--Via, fatevi animo: dicevagli Antonio; venite meco, appoggiatevi al
mio braccio; avete bisogno d'un qualche corroborante. Andiamo lì dallo
speziale...
Ma l'idea di ricomparire innanzi ad Agapito in quel momento riuscì
assai sgradevole all'ortolano.
--No, diss'egli, piantandosi in mezzo la strada. Non ho bisogno di
nulla.
Il nostro pittore era così commosso della sciagura e del dolore del
povero vecchio che non l'avrebbe lasciato andare per tutto l'oro del
mondo.
--Sì, sì che avete bisogno di qualche cosa: insistette egli, venite
dal liquorista a prendere almeno un bicchierino.
E nella foga della sua caritatevole premura il dabbene dimenticava che
non aveva allato nemmeno un centesimo.
--Grazie, grazie: rispose Matteo; ma non ho tempo da indugiarmi.
Conviene ch'io vada in cerca del mio padrone per riceverne una
lettera, e poi tosto che me ne parta.
In quella Giovanni Selva usciva dalla porta da via di Vanardi, vedeva
costui e lo accostava sollecito.
--Una novità: gli disse affrettato: una brutta novità...
--Che cosa? domandò con isgomento il pittore avvezzo dall'infelicità
della sorte a temer sempre il peggio. O Dio! ci è capitata qualche
altra disgrazia?
--Non a te nè ai tuoi, rispose Giovanni. Rassicurati: la disgrazia
c'è, ma è piombata addosso al signor Marone.
A questo nome l'ortolano allargò le orecchie.
--Il signor Marone! Che cosa gli è accaduto?
--Egli è costassù in casa tua, sul tuo letto, con una gamba rotta o
slogata che sia.
--La vuol dire il proprietario di questa casa? domandò Matteo
intromettendosi.
--Precisamente.
--Egli è appunto il mio padrone di cui debbo cercare.
--Ebbene, lo troverete lassù al sesto piano che grida come un dannato.
--Ma come fu? chiese Vanardi.
--È scivolato giù dalla scala. Il piede gli è smucciato sopra un
ghiacciolo. Ti racconterò poi meglio la cosa. Ora corro in fretta a
far venire una barella per trasportarlo e ad avvisare la serva di lui,
perchè prepari l'occorrente.
E scappò via con tutta sollecitudine.
--Non avete di meglio a fare, disse Vanardi a Matteo, che venir su
meco a vedere che cosa è capitato, poichè quello è il vostro padrone.
L'ortolano accettò il partito.
Ed ecco in che modo era avvenuta la disgrazia.


XIX.

La lettera che Matteo aveva recata a Marone era del tenore seguente:

«_Pregiatissimo sig. Marone,_
«Vengo a sollecitarla ancora una volta a proposito di quel tal quadro,
di cui ella non mi ha più fatto saper nulla.
«Il mio desiderio di possederlo si è accresciuto a mille doppi, ed io
sono disposto a pagarlo qualunque prezzo. Siccome non vorrei a niun
modo trovarmi a fronte di quel Vanardi, ho accettato volentieri
l'offerta che ella mi ha fatta di agire in questa occorrenza per conto
mio; ma sono troppo impaziente per istar tanto tempo ad attendere
senza risultato. Abbia dunque la compiacenza di mandarmi scritto
qualche cosa intorno a ciò pel medesimo ortolano al suo ritorno qui, e
mi creda
«Suo devotissimo
«NICOLÒ NICOLAZZO.»

Marone, in conseguenza di questa lettera, esatti dallo speziale i
denari della pigione, si era risoluto ad andare di bel nuovo in casa
il pittore, a tentare la prova.
Saputo dalla portinaia che Antonio era uscito, tanto più sollecito e
volentieri il padron di casa aveva salite le tante scale che
conducevano all'alloggio del pittore, in quanto che sapeva che l'uomo
era poco disposto a spogliarsi di quella tela e sperava invece molto
più arrendevole la moglie. Rosina infatti trovò una proposta degna di
accettazione quella che le venne fatta di dare quel quadro in
pagamento dell'affitto dovuto, ma pur tuttavia non osò acconsentire al
patto senza prima averne parlato col marito.
Marone adunque doveva partirsene senza aver nulla concluso; e se ne
andava per rispondere al signor Nicolazzo: quando in alto di
quell'ultima ripidissima branca di scala che metteva nel corridoio
delle soffitte si trovò faccia a faccia con Giovanni Selva che saliva.
Quest'incontro gli piacque poco; avrebbe desiderato che non si fosse
saputo di questa sua venuta, e tanto meno da codesto amico del pittore
con cui aveva avuto pochi giorni prima, riguardo a quel ritratto,
l'abboccamento che fu narrato. Marone salutò in fretta: si strinse al
muro, e fu sua intenzione sgusciar via per discendere sollecito; ma
egli non aveva più l'agilità d'un giovinetto, e sugli scalini eravi
ghiacciata l'acqua caduta dalle secchie portate su dai casigliani: al
povero Marone mancarono di botto i piedi di sotto, ed egli rotolò con
tutto il peso della sua grossa persona quasi fino al fondo di quella
branca di scala.
Giovanni corse a ricoglierlo su, chè l'altro urlando disperatamente
non poteva levarsi da solo. Ma quando si trattò di star sulle gambe e
di muovere il passo, non ne fu niente: un piede gli doleva di guisa
che non poteva nemmanco appoggiarlo per terra. Marone gridava più
forte che mai, e Selva non sapeva che cosa farsene.
Tutte le comari delle soffitte, all'udire il rumore della caduta e le
grida, erano corse fuori a vedere che fosse, e fra loro prima la
Rosina, che a capo scala mandava esclamazioni, interjezioni e parole
ammirative, offrendo però con quel buon cuore, che era sua dote
precipua, la sua casa e tutte le sue robe in sollievo del mal
capitato.
Selva, il quale si reggeva fra le braccia il non lieve peso del
padrone di casa, non vide altro partito migliore che quello di
accettare lo offerte di Rosina, ed aiutato da alcuno degli accorsi
trasportò Marone che urlava come un indemoniato sino sul letto di
Antonio, dove allogatolo, Giovanni discese tosto nella spezieria di
messer Agapito, perchè vi corresse a prestare al caduto i soccorsi
dell'arte.
La spezieria era piena di gente e ci aveva luogo un'animata
conversazione, in cui teneva il campo messer Agapito, che gestiva
colla sua presa di tabacco fra le dita.
Si parlava della meravigliosa scoperta fatta quella mattina medesima
dallo speziale intorno al famoso cavaliere Salicotto, e se ne facevano
i più caritatevoli commenti, e se ne deducevano le più innocenti
conseguenze che sappiano la malizia umana, l'invidiosa maldicenza e la
malignità pettegola.
Tra questi accusatori insieme e condannatori, il più gentilmente
maligno e severo si mostrava l'elegante dottor Lombrichi, il quale
ravviandosi con un pettinino di tartaruga i peli dei suoi baffetti e
del suo pizzo, guardandosi con ingenua compiacenza nello specchiettino
che stava sul manico custodia del piccol pettine, facendo vedere in un
grazioso sorriso i suoi denti bianchissimi, provava chiaro come il
sole, che il filantropo, nuotando nell'oro, lasciava morire di fame
suo padre, la qual cosa era l'azione più scellerata che uomo potesse
commettere.
Tutti approvavano con entusiasmo siffatte conclusioni, ed era cosa
certa che di quella mattina medesima, per opera di quella brava gente
raccolta nella farmacia, la notizia dell'essere e della condotta di
Salicotto si sarebbe sparsa per tutto il quartiere, il che non avrebbe
però impedito menomamente che quegli stessi valentuomini, trovando per
caso il signor cavaliere, non l'inchinassero con tutta riverenza.
Fece diversione al discorso Giovanni Selva entrando ad annunziare la
disgrazia di Marone.
--Come! Il mio buon amico Marone, esclamò con interesse il dottor
Lombrichi, mettendo in fretta il suo pettinino richiuso nel taschino
del panciotto; poi si alzò da sedere, s'abbottonò il pastrano e con
gesto che non sarebbe stato disacconcio ad un eroe che partisse pel
campo di battaglia, soggiunse:
--Andiamo un poco a vedere; messer Agapito, veniteci anche voi con
qualche vostro cordiale.
Ad Agapito non tornava gran che il rimettere la punta del naso
nell'alloggio della Rosina, e se ne sarebbe volentieri astenuto, dove
la sua benedetta curiosità non lo avesse spinto ad andare
sollecitamente a vedere coi proprii occhi ciò che era capitato. Diede
dunque di piglio ad alcuna delle sue boccette di spezieria, e seguì
Giovanni ed il dottore su per le scale.
Rosina si affaccendava con tutto zelo intorno al signor Marone, il
quale non cessava di lamentarsi come un uomo alla tortura, e la non
mostrò neppure d'aver visto lo speziale che era entrato chetamente in
coda agli altri.
Il giacente, appena scorse il medico, tese verso di lui le braccia ed
esclamò quasi piangendo:
--Ah, mio caro dottore, mi salvi lei... Sono un uomo rovinato... Oimè!
oimè! Sono tutto fracassato.
Lombrichi aveva incontrato nella visuale de' suoi occhi il piccolo
specchio che a Rosina serviva di teletta e vi si era dato un sorriso;
di poi fece scorrere questo sorriso e il suo sguardo verso il malato,
e rispose:
--Su via coraggio, mio bravo signor Marone... vogliamo sperare che non
sarà nulla.
--Sì, speriamo che non sia niente: disse a sua volta lo speziale.
--Niente! niente! gridò Marone. Se sapessero come mi duole... Ahi!
ahi! Lo provasse lei messer Agapito... Ohi! ohi!...
Lombrichi si curvò sul giacente.
--Oh! bisogna guarir presto, mio caro; c'è gran bisogno ch'ella sia in
gambe.
E soggiunse piano che nessun altro potesse udire:
--Ci abbiamo un mezzo sicuro da rovinare affatto Salicotto nello
spirito della marchesa di Campidoro.
Non ostante i dolori del suo piede, queste parole ebbero forza di
scuotere Marone.
--Davvero! esclamò egli facendo un movimento come per alzarsi. In che
modo?
--Le dirò tutto poi a miglior occasione. Per ora stia tranquillo, ed
esaminiamo un poco questa gamba. Dov'è che le duole?
Tastato ben bene di qua e di là, in mezzo agli omei del paziente, il
signor dottore si dirizzò sulla persona con piglio d'importanza,
guardò intorno a sè con aria trionfale, e sentenziò gravemente che
quella gamba doveva dolere, perchè la si era fatta male.
--È rotta? dimandò Marone tremante.
Lombrichi si lisciava la barba guardandosi di nuovo nello specchio.
--No, rispose, frattura non c'è, ma lussazione completa.
Soggiunse che da solo non avrebbe potuto rimettere l'osso a posto, ma
che ci sarebbe occorso un chirurgo; e siccome l'operazione non sarebbe
tanto facile, e poteva anche essere penosa, stimava fosse meglio che
Marone venisse trasportato nella sua abitazione, il che secondo lui,
si poteva fare senza inconvenienti, purchè coi dovuti riguardi. Selva
si offrì di andare a provvedere al bisognevole, e la sua offerta venne
accettata.
Agapito, che in quel luogo ci stava con non poco disagio, propose di
far discendere frattanto l'infermo sino al suo alloggio agli
ammezzati, che là avrebbe potuto esser meglio coricato per attendere
la barella, e tutte quelle scale già discese sarebbero un tanto di
fatto, quando poi questa fosse giunta. Il medico non dissentì, e tosto
si accinsero a trasportarlo i garzoni dello speziale, che erano venuti
su ancor essi ed alcuni uomini fra i vicini accorsi.
In quella sopraggiunsero Vanardi e l'ortolano Matteo.
--Ah! siete qui voi? disse a quest'ultimo Marone, il quale stava per
essere sollevato a braccia dal giaciglio. Vedete in quale stato io
sono ridotto... Ahi, ahi!... fate piano per carità!... Ditelo a chi vi
ha mandato... e che per un poco non posso occuparmi nè di lui nè del
quadro che gli preme...
Ma queste ultime parole gli erano appena sfuggite ch'egli, vedendo lì
accosto anche Vanardi, si morse le labbra. Per Antonio queste parole
non erano passate inavvertite.
Quando Marone fu portato fuori, e dietro di lui furono usciti lo
speziale, il medico ed i curiosi, il pittore arrestò Matteo che voleva
partirsi ancor esso.
--Una parola se vi aggrada, gli disse.
--Parli, parli pure: rispose il contadino con tutta premura.
--Scusate se v'interrogo, ma si tratta di cosa che mi preme assai. Voi
siete stato mandato al vostro padrone da qualcheduno per cagione d'un
quadro?
--Non so per che cosa sia. Il signore che appigiona la villa mi ha
dato una lettera pel padrone e mi ha detto venissi giù a portargliela
e ne aspettassi la risposta.
--Chi è questo signore?
--Il signor Nicolazzo.
Rosina, che era lì ad ascoltare, interruppe vivamente.
--Nicolazzo!... Tò, tò... non mi sbaglio, questo è il nome che il
padrone di casa dava a quel brutto signore che è venuto qui pochi
giorni sono, e che rimase incantato innanzi a questo ritratto.
L'attenzione e lo sguardo di Matteo dall'atto di Rosina furono
chiamati sopra il quadro che ben sappiamo; appena l'ebbe osservato,
l'ortolano fece un gesto di sorpresa.
--Oh bella! esclamò. Loro li conoscono dunque i signori Nicolazzo?
--No... Perchè mi chiedete ciò?
--Se qui ci hanno il ritratto della signora.
--Della signora Nicolazzo?
--Sicuro. La è tutto dessa, se non che qui in questa pittura la sta
bene, e laggiù poveretta, pare a due dita dalla fossa.
Vanardi si sentì tutto commuovere.
In quella si aprì l'uscio ed entrò Selva che tornava dall'aver
adempito l'assuntosi incarico.
Antonio si slanciò verso di lui, esclamando vivamente:
--Mio caro, finalmente la povera Gina è trovata!
Giovanni domandò spiegazione delle pronunziate parole a Vanardi, il
quale gli disse in breve ciò che testè era intravvenuto con Matteo:
Selva si volse a quest'ultimo.
--Da quanto tempo, gli chiese, codestoro sono in quella villa?
--Da due anni e più... sì, saran due anni all'autunno scorso.
--E' converrebbe, brav'uomo, che voi ci raccontaste per filo e per
segno tutto quello che riguarda codesta gente, dal dì che li
conoscete. Non e vana curiosità la nostra, ma ci sono in giuoco dei
tremendi interessi, e voi, parlando, ci aiutate forse a compire
un'opera buona.
Matteo non si fece pregare; e, recatosi alquanto sopra sè, fece di poi
il racconto seguente:
--Questi signori arrivarono a Valnota una sera di tardo autunno, che
le foglie erano già quasi tutte cadute. Il padrone era venuto pochi
giorni prima a far mettere in ordine il casino, e non ci aveva detto
altro se non che dall'oggi al domani sarebbero capitati dei pigionanti
ai quali egli stesso avrebbe rimesso le chiavi... Quando giunsero,
ventava forte e cominciava far piacere lo stare presso al fuoco.
C'eravamo appunto mia moglie ed io e Gaspare, un bardotto di
garzoncello che mi tengo per aiutarmi nei lavori più grossi. Sento la
trottata di due cavalli... che da noi la notte è tanto quieta da
sentire il soffio della grisa, che è la nostra cavalla, ad un
centinaio di passi lontano... Sento adunque il trotto di due cavalli e
il rotolare d'una carrozza che si ferma all'altezza della palazzina
civile. Pan, pan, pan: si picchia forte al portone... Convien sapere
che il casolare che noi abitiamo è in fondo al cortile; il palazzotto
è verso la strada, e il suo portone ci mette; il giardino è da una
parte e l'orto dall'altra della palazzina; noi, dal nostro casolare,
abbiamo anche un'uscita di dietro che dà sopra una viuzza per cui si
va ai campi.
«--Sono i forestieri che il padrone ci ha annunziati: dico subito alla
moglie.
«--Può darsi, risponde essa.
«--Accendi un lume; le dico: io e Gaspare andiamo ad aprire.
«La moglie accende una lucernetta che dà in mano al garzone, io do
mano ad un randello ch'è sempre dietro l'uscio, perchè in quel luogo
solitario, con tanta gente senza timor di Dio, non si sa mai, e ci
avviamo verso il portone. Traversavamo il cortile ed ecco il picchio
ripetersi più forte.
«--Buono! dico a Gaspare, pare che la pazienza non sia la virtù di
questa gente--Chi è? dimando giunto alla porta.
«--Siamo i pigionanti, mi risponde una voce cupa e rauca. M'affretto
ad aprire, prendo il lumicino dal bardotto, metto la palma della mano
dietro la fiammella per veder bene, e mi si presenta innanzi una
faccia così poco da cristiano ch'io fui ad un pelo da ribattergli lo
sportello sul muso e tornarmene senza altro al mio fuoco.
«Sulla strada era ferma la carrozza: l'usciòlo n'era aperto e dentro
ci si vedeva un inviluppo che pareva un fardello di stoffe buttato là.
Il signor Nicolazzo, che era quel brutto che mi si era presentato, mi
disse imperiosamente con quella sua voce cavernosa:
«--Aprite tutto il portone, che la carrozza possa entrare sotto
l'atrio.
«In un momento fu fatto. Allora la carrozza entrò e si fermò in faccia
la scala. Il signor Nicolazzo mi disse:--Al primo piano c'è una stanza
da letto che guarda nel giardino.
«--Signor sì, risposi.
«Ed egli:--Mandate tosto ad accendervi un buon fuoco e prepararvi il
letto.
«--Il letto è bello e pronto: dissi; e il fuoco in due minuti è
acceso.
«Ci mandai Gaspare: il signore riprese vivamente:
«--Ci avete bene la moglie?
«--Sì signore: dissi.
«--Mandatela lei colà, disse, e che aspetti in quella stanza, e quel
giovinetto, disse, venga ad avvertirci quando tutto sia pronto.
«Fu fatto a suo senno. Teresa, che è mia moglie, andò su, e mentre
s'aspettava il tornare di Gaspare, io aiutai il cocchiere a levare
dalla carrozza i bauli. Nella carrozza nulla non si mosse mai, come se
non vi fosse anima viva: quel mucchio di panni era sempre immobile.
Quando Gaspare venne a dirci che si era in ordine, il signore pose il
capo nell'interno della vettura e chiamò:--Gina!... Gina!...
--Ah! interruppe Vanardi con emozione, l'odi tu Giovanni? Non c'è più
dubbio. Poscia, volgendosi a Matteo;--Era la moglie a cui dava questo
nome?
--Sì signore: e la moglie era quel certo fascio di robe che ho detto.
Nello stesso tempo che il marito la chiamava per nome, io avanzava il
lucernino a fare un po' di lume. Al suono di quella voce, oppure a
quel subito chiarore, la signora diede in un improvviso scossone e
mandò un picciol grido, come spaventata. Vidi drizzarsi della persona
una donna macilenta, pallida, con sembianze di sofferente, che girava
intorno degli occhioni larghi, ardenti, come li vidi già a taluno che
aveva le febbri nella testa e spauriti come quelli di uno spiritato.
--Poveretta! esclamò Antonio.
--Guardò essa il marito, mandò un altro grido e si ricacciò indietro
rincantucciandosi, tremando, sclamando con voce rotta dallo
spavento:--«No, no, lasciatemi.»--Il signor Nicolazzo se la prese con
me--«Che fate voi qui? disse, niquitoso come un basilisco. Le avete
scaraventato sulla faccia il vostro lume, disse, che l'avete fatta
destarsi in soprassalto. Traetevi in là, disse, e non vi accostate più
ch'io non vi chiami.» Ubbidii. E' si mise con mezzo il corpo nella
carrozza e parlò tanto piano che non ne udii sillaba. Dopo un poco si
drizzò e si rivolse verso di me e del garzone che stavamo chiotti
chiotti, in un angolo:--«Venite qua, disse; bisogna levarla di là pian
pianino, com'ella è, e trasportarla sul letto. La è svenuta, disse. È
malata da lungo tempo, e la fatica del viaggio, disse, l'ha indebolita
troppo più che non credessi.» Diedi il lume a Gaspare e la presi
pianamente dov'ella era: la poverina non pesava guari più che un
cuscino di piume; la portai su delle scale e il marito dietromi, fino
alla stanza preparatale, dove Teresa stava aspettando.
«Ed ecco in che modo arrivarono. La carrozza se ne partì per donde
ella era venuta, ed essi non si mossero mai più, senza che noi ne
sapessimo altro.... Ah! soltanto pochi giorni sono, il signor
Nicolazzo s'allontanò dalla villa e stette fuori un giorno: è la prima
volta che ciò gli avvenne. Il padrone era venuto a riscuotere
l'affitto, come fa ad ogni semestre; chè sono le sole occasioni in cui
egli ci mette il piede; ed egli è la sola persona che ci venga.
Adunque egli era venuto, e quando fu per ripartirne, il signor
Nicolazzo venne da me e mi disse che si sarebbe allontanato per alcune
ore--e se n'andò via diffatti col padrone--badassi bene alla casa ed a
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